Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

mercoledì 20 maggio 2015

Traversie di un “Principe senza scettro”. Omaggio a Lelio Basso, costituente /1


Prima parte

(Premessa)
Da tempo avevo in mente di ricordare Lelio Basso occupandomi del suo “Principe senza scettro”. Per ragioni che non so neppure io, ho sempre rinviato questo appuntamento a cui tenevo: forse l'“invadenza del presente”, della quale parlo nell'introduzione di questo scritto, mi ha contagiato, e ho dato la preferenza alle sue urgenze. O forse – come spesso accade – temevo che la rilettura di un testo che a suo tempo avevo trovato illuminante mi avrebbe deluso, affrontandola con gli occhi di oggi (e comunque non sto parlando di “molto” tempo fa: nel '58 io ancora non c'ero...). Invece poi mi son deciso a ripercorrere le pagine del testo in questione, e mentre prendevo appunti cresceva pian piano l'impressione che quel libro parlasse anche a noi, a noi cittadini, a noi persone dell'Italia di oggi.
Ecco, in certi frangenti, per capire cos'è la politica attuale, dove sta andando, che senso hanno i suoi slogan, quanto respiro ha il suo impettito “nuovismo” che ritiene di non aver nulla da imparare dai maestri del recente passato, è particolarmente utile meditare proprio sulle parole e sulle riflessioni di questi ultimi; forse più utile di un “tweet” estemporaneo che si pone all'affannoso inseguimento dell'attualità quotidiana e si perde nel vero e proprio flusso dell'infinita chat propagandistica che oggi i protagonisti stessi della politica istituzionale alimentano.
Il “Principe senza scettro” non è altro che il popolo; è un titolo che dice già molto: ci ricorda che il primo compito della Costituzione e del legislatore è quello di rispettare il principio della sovranità popolare, di renderlo sempre più forte e concreto. Il popolo è sovrano, ma al contrario dei sovrani del passato non ha scettro, e d'altronde, per salvaguardare la propria libertà, non gli serve materializzarlo ed esibirlo come un re qualsiasi. Questo “anomalo principe” è fatto di molti corpi e di molte teste, anche se talora, per esigenze discorsive e per convenienza politica, viene rappresentato come “un solo corpo” bisognoso di “una sola testa”: ed è proprio a causa di questa rappresentazione “interessata” che rischia ogni volta di perdere se stesso.
Il “Principe senza scettro”, se comprende fino in fondo il proprio ruolo, non è obbligato a giocare il gioco del dominio e della prevaricazione, non deve umiliare nessuno, né ridurre chicchessia al silenzio. E' un sovrano del tutto particolare, l'unico che non fa il “tutore” di nessuno e non usurpa il ruolo d'altri.
Sì, questo libro parla della Costituzione italiana e del significato di certe scelte e di certe norme che i costituenti hanno elaborato. Lelio Basso era uno di loro.
(i.s.)


Sui maestri (una introduzione)

Il culto dei maestri è diventato una pratica all'apparenza sterile, nel nostro tempo.
Se nel Medioevo – e anche oltre – il passato rappresentava l'Autorità Indiscutibile, e perciò tutto quel che tentava di sottrarsi ai canoni e alle regole sancite dalla tradizione “dei padri” appariva come irrimediabile errore, l'era moderna, specialmente a partire dal Secolo dei Lumi, ha vieppiù reso marginale il passato, fin quasi a “ghettizzarlo”. Si potrebbe addirittura vedere in questo processo (nel quale vi è un elemento di reazione a lunghi secoli di “dittatura degli antenati”, che non concepiva se non con forte sospetto l'idea di innovazione) una caratteristica decisiva della mentalità moderna.

Oggi, che l'idea di progresso si è fatta più problematica benché non abbia assolutamente smesso di influenzare la mentalità corrente (giacché il progresso è nei consumi quotidiani, si tocca con mano e addirittura si può portare in tasca: cellulari, smartphone...), mentre continuiamo a ghettizzare il passato e a processarlo incessantemente (usiamo il senno di poi e il giudizio anacronistico in dosi industriali), non siamo più sicuri del futuro: ci rimane quindi il presente, l'unica certezza tangibile alla quale aggrapparci. Consumare qui e ora tutti i frutti possibili del progresso e dello “sviluppo”, secondo il carpe diem peculiare della nostra forma di vita: ecco il motto odierno.
(Finora la preoccupazione per le generazioni future, per l'ambiente, ecc., è poco più che una bella enunciazione di principio.)

In un quadro del genere, dunque, che spazio possono avere i maestri? Dirò di più: siamo ancora disposti a credere che esistano dei maestri?
Cosa può dirci una persona, sia pure illustre, che ha però il “difetto” di essere vissuta in epoche passate?
E' nozione comune che il tempo – il tempo della società, della storia, dell'economia – si sia fatto “sempre più veloce”: il mondo di dieci anni fa (la situazione politica, economica, il livello della tecnologia, ecc.) ci sembra già vecchissimo, con gli occhi di oggi. Calarsi con il pensiero nel mondo di trenta anni fa, poi, equivale a fare un tuffo nella preistoria.

Eppure, ci sono anche significative continuità, che tendiamo generalmente a trascurare quando affrontiamo il passato. Abbiamo un singolare “difetto della vista”, che ci fa percepire con discreta nitidezza i cambiamenti ma ci impedisce di mettere a fuoco altrettanto bene le persistenze, i fenomeni di lunga durata che legano l'oggi a un passato in realtà meno “lontano” di quanto siamo portati a sentirlo.

Per dirla con un'immagine, il tempo odierno sarà anche molto veloce in superficie, ma sotto la “crosta” degli eventi, negli strati più profondi della “terra del reale”, scorre di gran lunga più lentamente.

Non tutto è caduco; il passato non è soltanto, e in blocco, un rudere più o meno rispettabile.

Coloro che oggi già in età scolare sanno districarsi fra tablet e connessioni, possono maturare la convinzione di non aver nulla da imparare da “maestri” del passato, giacché le uniche cose importanti le possono apprendere da sé, qui e ora, manovrando i congegni della tecnologia e “stando connessi”. Non si preoccupano di sapere o di comprendere che dietro alle “fantastiche conquiste” tecnologiche o scientifiche di oggi ci sono secoli di cammino, montagne di conoscenza (che comprendono anche errori poi accantonati, utili però a procedere nel verso giusto); e senza quelle montagne, non sarebbe stato possibile raggiungere la “quota” attuale.

Ciò vale anche per le conquiste sociali e politiche: i diritti, la Costituzione, ecc., non sono stati un “dono del Cielo”; se quelle tappe e quei traguardi sono stati raggiunti, lo si deve alla tenacia, al coraggio, alla capacità e all'intelligenza di alcuni e al “cuore” e all'impegno di molti altri.

[Sia chiaro che non critico – e men che meno condanno – il bisogno che ogni generazione ha di evidenziare in maniera anche “smodata” la propria presenza, per appropriarsi del “territorio”, reinventandosi ogni volta la realtà e facendo quindi mostra di non aver intenzione di ereditare nulla del passato e dei “padri”. Comprendo meno, tuttavia, proprio gli entusiasmi di questi ultimi: “Questi qui non hanno bisogno di nulla, sono intelligentissimi, sanno già tutto!”
Non credo in sostanza che l'intelligenza aumenti automaticamente (e neppure che al contrario diminuisca) col passare delle generazioni e in virtù degli strumenti tecnologici: ma immaginate che intelligenza e che capacità di adattamento dovevano avere i superstiti delle popolazioni ancestrali che hanno dovuto ingegnarsi per affrontare e superare intemperie, nemici naturali e umani, carestie?
E che intelligenza dovevano avere Galilei, Newton, J.S. Bach, e tutti coloro che hanno fondato una scienza, un'arte, un sistema innovativo... e senza grande tecnologia, talora persino dovendo lottare contro l'indigenza o l'incomprensione della società?]

Se l'uomo diventa un essere immemore – programmaticamente immemore – abbraccia la condizione di Sisifo; dovrà sempre ricominciare tutto dall'inizio, pensando di scoprire per primo ciò che è già apparso alla conoscenza dell'umanità.

Forse è riduttivo legare la nozione di “maestro” a un ragionamento utilitaristico: “òccupati dei maestri, perché imparerai da loro e farai meno fatica nel tuo cammino”.

In effetti non è sufficiente né soddisfacente: non è tutto lì; però non per caso si è tentati di cominciare da quell'invito, da quell'esortazione.

Se parlavo nell'incipit di culto dei maestri, c'era una ragione. Bisognerebbe riconoscer loro i meriti che hanno avuto, celebrare le loro capacità, la loro lungimiranza; ma questo, in un tempo stregato dal fascino del presente, è più che inattuale e démodé: è realmente trasgressivo (e non parlo della “trasgressione consumistica” che non sposta una virgola dell'esistente o delle sue regole) o francamente eretico.

Abbiamo un debito di riconoscenza nei confronti di coloro che hanno – anche coi loro pensieri, con le loro riflessioni – fatto fare qualche passo decisivo in avanti alla conoscenza, al sapere, alla società del loro tempo. Se quindi le nostre convinzioni politiche, i princìpi cardine del “patto costituzionale”, il nostro sapere, la scienza sono quelli che sono, lo dobbiamo principalmente al contributo di persone che in diversi campi si sono impegnate in modo esemplare, recando beneficio a tutta la collettività. Riconoscere, dare a ciascuno ciò che spetta, è il primo atto di correttezza; non possiamo esimercene, se vogliamo avere occhi aperti e limpidi sulla realtà.

Non si tratta di “superuomini” o di “superdonne” da venerare – quasi fossero esseri “di un altro mondo”, diversi da noi e irraggiungibili – ma di figure esemplari alle quali ispirarsi. O pensiamo forse, essendo arrivati sulla luna e su Internet, di non aver più bisogno di modelli? (Se è questo che pensiamo, però, vuol dire che neppure noi saremo maestri o modelli, e che tutto ciò che oggi facciamo, in apparente autonomia e solitudine, andrà perso, destinato com'è ad essere rinnegato e cancellato da discendenti ancor più convinti di noi di non aver nulla da imparare dai “padri”).

Detto questo, tuttavia, non bisogna trasformare i maestri in oracoli o in semidivinità inaccessibili e intoccabili: il loro lascito non consiste in una presunta infallibilità; i loro meriti si accompagnano a inevitabili limiti e a possibili errori. Limiti ed errori dei maestri, come dei “classici”, non vanno camuffati o nascosti, li si deve ammettere affinché il confronto coi loro insegnamenti sia leale e proficuo – barare sulla verità o sui dati di fatto non è infatti un buon modo per rendere giustizia alla loro opera, anzi rischia di screditarla (ogni falsificazione e ogni forzatura, tendente a cancellare possibili “macchie”, incoerenze o cadute di stile, quando – ed è inevitabile – viene alla luce, tende a mettere in ombra tutto il resto). Non è neppure giusto, d'altra parte, usare limiti ed errori dei maestri e dei classici per darsi l'alibi “perfetto” per dimenticare o sminuire l'apporto che essi hanno dato alla cultura, alla società o al sapere.




Traversie di un “Principe senza scettro”

Lelio Basso può essere considerato effettivamente un maestro, sotto il profilo del pensiero, dell'azione e della coerenza politica.
Non molti/e oggi sanno chi fosse, quali fossero le sue idee o le sue battaglie politiche – ormai ci è difficile perfino ricordare i partiti e i politici degli anni Novanta dello scorso secolo; figuriamoci un uomo come Lelio Basso, scomparso nel “lontano” 1978.

Non intendo certo raccontare qui tutta la sua biografia: per fortuna – nel bene come nel male – nell'immenso archivio del Web le informazioni sui campi più disparati della realtà e del sapere non mancano; e, quel che qui ci interessa, sulla vita e l'opera di Lelio Basso si trovano notizie abbastanza particolareggiate, ad esempio qui o qui. (Qui si rinvia a una pagina curata dal sito della “Fondazione Basso”.)

Ricordo però a chi legge che L. Basso, avvocato, pensatore politico, deputato socialista (ma ostile al centrosinistra e alle alleanze di governo fra “DC conservatrice” e PSI, e per questo sospeso dal partito nel 1963), è stato uno dei più illustri “padri” della nostra Costituzione: il suo apporto è stato determinante in special modo nella stesura degli articoli 3 e 49 della nostra Carta fondamentale; L. Basso considerava il primo dei due l'articolo-chiave di tutto l'edificio costituzionale, la vera “cartina di tornasole” del carattere democratico dello Stato.

L'oggetto principale di questo post sarà tuttavia un libro che L. Basso pubblicò nel 1958, per spronare il legislatore a dare attuazione con maggiore rapidità e coerenza alle norme costituzionali e per denunciare i tentativi compiuti a suo parere dai partiti di governo dell'epoca (in primo luogo la DC) al fine (nemmeno troppo recondito) di non dare realmente séguito ai princìpi più avanzati sanciti dalla Costituzione – tentativi che costituivano, per L. Basso, una vera e propria opera di “ostruzionismo governativo” di segno conservatore, se non addirittura reazionario.

Nel 1958, a dieci dall'entrata in vigore della Costituzione, il deputato socialista, attraverso il libro in questione, Il Principe senza scettro, intendeva chiedersi “A che punto siamo?” e al tempo stesso ricordare – con un linguaggio polemico che risentiva certo dei toni della “guerra fredda” allora in atto ma era generato anche dalle “resistenze conservatrici” dei ceti dirigenti italiani – con quale spirito e quali finalità la Costituzione italiana era stata elaborata e varata. Come dichiara il suo stesso autore, «[...] questo libro è impregnato di esperienza personale, esperienza di resistente e di Costituente, esperienza di cittadino e di avvocato, esperienza di militante politico di sinistra e di deputato d'opposizione, esperienza di chi ha contribuito a preparare e a fare la Costituzione e di chi deve difenderla, si può dire ogni giorno, contro lo scempio che se ne sta facendo» [Basso 1998, p. 101].

Come si può leggere in un recente saggio, una fondamentale costante del pensiero politico del costituente socialista, che possiamo ritrovare anche nel testo di cui qui ci occupiamo, è rappresentata dalla sua «[...] interpretazione del processo storico come l'arena dove si svolge ogni giorno il conflitto tra due tendenze contraddittorie che lacerano la società: l'una tesa a mettere in moto spinte sempre più progressive “sociali, collettive, socialiste”, l'altra intesa a resistere, a bloccare in senso conservatore lo sviluppo delle spinte socializzanti» [Giorgi 2014, p. 55]. Da questa lettura del processo storico e della “dialettica sociale” deriva un altro elemento caratteristico del pensiero politico di Basso, ovvero la sua concezione del diritto e delle istituzioni, che «è positiva, e non appartiene alla vulgata più nota della sinistra», giacché essi non sono “condannati” ad essere meccanicamente strumenti al servizio dei ceti dominanti, ma si collocano nel quadro degli antagonismi che attraversano e caratterizzano la società, e ne sono a loro volta attraversati, cioè in definitiva «sono la risultante di uno scontro continuo tra le opposte forze sociali e politiche, nel quale non è solo la classe dominante a trovare spazio» [Giorgi 2014, p. 55], sicché quest'ultima non è necessariamente la “vincitrice assoluta” e garantita del confronto. Stando così le cose, il costituente democratico ha un compito preciso, ovvero quello di assecondare attivamente le istanze della parte “progressiva” della società, introducendo nell'ordinamento giuridico «[...] elementi antagonistici, volti a creare i presupposti di un nuovo ordine democratico ed egualitario» [Giorgi 2014, p. 55].

Il primo capitolo del volume ha come tema “Lo sviluppo storico della democrazia”, e in esso l'autore tratteggia brevemente la storia dell'attrito “dialettico” fra liberalismo e democrazia a partire dalla Rivoluzione francese, sottolinea l'importanza dell'avvento del popolo al potere e, passando per Rousseau, indica le insidie che si nascondono dietro l'idea di “popolo sovrano” e che allontanano la realtà dalla teoria; ma L. Basso è convinto che una democrazia che dia concreta sovranità al popolo “reale” sia possibile, si tratta soprattutto di vigilare costantemente affinché essa si realizzi. In una democrazia effettiva il cittadino è il vero punto di riferimento del sistema politico e a lui spetta questo compito essenziale di vigilanza, soprattutto in merito all'«uso che dei suoi poteri sovrani fanno i suoi mandatari, i quali gliene dovranno rendere conto alla successiva scadenza elettorale». Ma per esercitare tale vigilanza, il cittadino non ha a disposizione solo il voto, bensì anche «il diritto di servirsi di tutti i mezzi legali (stampa, riunioni, petizione, scioperi, ecc.) [e di] far conoscere la propria volontà ai suoi mandatari e mettere così in evidenza, occorrendo, le eventuali fratture fra paese e Parlamento, che sono sempre fratture pericolose e sulle quali l'ultima decisione spetta in ogni caso al paese.» [Basso 1998, p. 81]

Se si verifica dunque una divaricazione fra volontà del Parlamento e volontà dei cittadini, deve prevalere quest'ultima: Lelio Basso non sembra aver dubbi in proposito; e la volontà dei cittadini deve essere messa in grado – attraverso appositi strumenti informativi, politici, istituzionali, ecc. – di emergere costantemente, e non una tantum (in pochi casi eccezionali).

Più in là, Basso ricorda che non esistono al momento le condizioni per realizzare «il regime ideale corrispondente ad una perfetta democrazia, ad un assoluto autogoverno» [Basso 1998, p. 83] perché la volontà popolare deve essere mediata attraverso le istituzioni rappresentative, che la trasmettono e la attuano, ma vi è il rischio che in questo processo esse creino concentrazioni di potere. Secondo l'autore, questo può avvenire a causa degli antagonismi di classe presenti nell'attuale società. Egli auspica l'avvento di una società «fondamentalmente solidale almeno rispetto ai grandi compiti comuni dello Stato», nell'àmbito della quale sarebbe «più facile l'incontro dei consensi e meno probabile il tentativo di gruppi o partiti di sopraffare gli altri, di abusare del potere.» [Basso 1998, p. 84]

In una società nella quale la divisione fra le classi è accentuata e in cui quindi vi sono interessi contrastanti e inconciliabili, il potere diventa strumento di dominio e viene prevalentemente «usato per la difesa di interessi di gruppo» [Basso 1998, p. 84].
Finché persiste questo tipo di struttura sociale permanentemente conflittuale, secondo L. Basso la democrazia deve difendersi da alcuni pericoli che la minacciano costantemente.

Il primo di essi è rappresentato dalla dittatura della maggioranza: quest'ultima ha certo il diritto di governare (è una delle regole fondamentali della democrazia), ma l'opposizione ha il diritto, «quando si tratti di un'opposizione che rappresenta una sufficiente porzione del corpo elettorale, e quindi del popolo, di veder tenuto in considerazione anche il proprio punto di vista in modo che la decisione finale in ogni questione affrontata sia quanto più è possibile il frutto di una sintesi o un compromesso.» [Basso 1998, p. 84]

Il deputato socialista è ben lontano quindi da tentazioni “decisioniste” e non riconosce valore all'assillo – oggi impellente – della “governabilità”: il consenso vasto della base popolare alle decisioni assunte in Parlamento deve prevalere su ogni altra considerazione; la vera democrazia è sintesi e compromesso, non imposizione o prevaricazione. Le decisioni importanti per il Paese devono essere condivise, non possono essere calate dall'alto da novelli “prìncipi illuminati” in nome del “bene del popolo”, quest'ultimo considerato paternalisticamente incapace di capire da sé in cosa questo bene consista. Al contrario, è al popolo, quello reale e non quello “rappresentato”, che spetta l'ultima parola circa ciò che è bene per se stesso.

L'altro pericolo che L. Basso pone in evidenza è costituito dal potere crescente dei burocrati e dei tecnici. Un rischio che, come si comprende, è collegato a quello precedentemente illustrato.

Dopo aver esaminato i pericoli, l'autore espone i rimedi che a suo giudizio la democrazia ha escogitato. Tra questi, oltre ai meccanismi di garanzia ereditati dallo Stato liberale (costituzionalizzazione delle libertà fondamentali, indipendenza della magistratura, previsione di un controllo giurisdizionale di costituzionalità delle leggi, autonomie locali), L. Basso enumera «il cosiddetto pluralismo, cioè l'esistenza di associazioni e organismi vari a cui i cittadini possono liberamente appartenere, in modo particolare sindacati e partiti, che esercitano un potere di fatto nella comunità pubblica» [Basso 1998, p. 89]. L'importanza della garanzia del “pluralismo organizzato” risiede nel fatto che esso funge da contraltare rispetto ai poteri costituiti, accresce la libertà delle persone (consentendo loro di non essere condannate a rimanere monadi prive di legami coi loro simili e con la società) e fornisce «spesso un'efficace difesa alle minoranze» [Basso 1998, p. 89].

E ancora, fra i “rimedi”, L. Basso annovera l'estensione del metodo democratico alla sfera dell'economia, ossia la «penetrazione […] di forme di vita democratica anche nella vita delle aziende», che attenui «il potere autocratico del padrone o del rappresentante degli interessi padronali» [Basso 1998, p. 89]. E' evidente che l'autore scorge chiaramente – in sintonia del resto con altri pensatori di ispirazione democratica – l'attrito fra l'organizzazione verticistica della grande economia capitalista (incarnata dai suoi fondamentali “pilastri”, le grandi industrie) e lo spirito democratico che prevede il potere del demos (il popolo). Data l'importanza che il lavoro ha, secondo L. Basso, come sfera che garantisce la dignità e l'emancipazione delle persone, è imprescindibile la necessità di includerlo a pieno titolo nel generale processo di democratizzazione della società (giacché, come il deputato socialista ritiene, se non si rimettono seriamente in discussione i rapporti di potere improntati a un modello gerarchico e dunque non-democratico all'interno della società e dell'economia, la democrazia politica poggia su basi molto fragili).

Costituiscono un rimedio importante, rispetto ai pericoli che minacciano il “potere del demos”, anche gli istituti di democrazia diretta; L. Basso sottolinea tuttavia in un inciso che questi vanno utilizzati «nei limiti necessariamente ridotti» in cui funzionano [Basso 1998, p. 90]. Vi è qui ancora un residuo di sospetto nei confronti del pieno utilizzo di tali strumenti, che del resto era condiviso da altri costituenti e traspare dal testo della Costituzione. Come rileva Rodotà, in effetti Lelio Basso punta a una maturazione dei cittadini che porti a un graduale e inarrestabile estendersi della loro partecipazione politica, il cui esito non deve tuttavia essere «un perpetuo “potere costituente”, affidato a un generico spontaneismo collettivo. Il potere dei cittadini s'incardina in istituti ben definiti, il partito politico e il sistema elettorale proporzionale, che assicurano le mediazioni necessarie e l'egual peso al voto dei cittadini. Nulla è più lontano dal pensiero di Basso di una deriva verso una generica e incontrollata democrazia diretta.» [Rodotà 1998, p. 11]
Non vi può essere insomma una partecipazione democratica che non sia inscritta in una forma istituzionale che comporti precise garanzie e regolamentazioni. L'assemblearismo magmatico, dai poteri virtualmente sconfinati (a causa della sua funzione “perpetuamente costituente”) ma privo di regole e di responsabilità definite, è un pericolo piuttosto che una risorsa, dal punto di vista della democrazia.
Ciò assodato – e condiviso in linea di principio – non è tuttavia fuori luogo sostenere, considerando la questione con gli occhi (e la consapevolezza politica) di oggi, che gli istituti di democrazia diretta previsti dalla Costituzione andrebbero ripensati, non con lo scopo di ridurne la portata, ma anzi per accrescerne il numero e il peso.

Va però evidenziato che – per tornare al discorso di Lelio Basso – il rimedio fondamentale da lui indicato per contrastare i pericoli che minacciano la democrazia «è una coscienza democratica diffusa, pronta, vigile, sensibile. Questa coscienza democratica non si può improvvisare e può essere soltanto il frutto di una lunga e maturata esperienza storica» [Basso 1998, p. 90]. In altre parole, l'autore mette in guardia contro il rischio di considerare un ordinamento democratico solido e garantito per il solo fatto che possiede una Costituzione democratica e istituzioni rappresentative: senza una salda coscienza diffusa del valore e dell'importanza dei princìpi fondanti della democrazia, quest'ultima rimane fragile, nonostante tutti i presìdi e i baluardi politico-giuridici dei quali può dotarsi.
Non può esistere o durare una democrazia senza un demos cosciente di sé e della propria dignità (prima ancora che dei propri diritti).
Secondo Basso, se questa coscienza viene a mancare, possono rimanere salve le “apparenze” della democrazia, ma la sostanza perisce; gli istituti parlamentari in questo caso continuano ad esistere, ma si riducono ad un meccanismo esteriore, ad un rituale che ha il solo scopo di «dare l'illusione di un'effettiva sovranità popolare» [Basso 1998, p. 90].

In effetti, secondo il deputato socialista, i rimedi da lui indicati sulla base della storia e della sua personale esperienza, non sono del tutto adeguati a salvaguardare le prerogative della democrazia, la quale «non ha creato finora gli organi appropriati alle proprie esigenze, ma si è sforzata attraverso un compromesso continuo di adattare i vecchi istituti, in modo particolare quelli parlamentari, che rispondono però solo molto debolmente allo scopo.» [Basso 1998, p. 90]

Si nota in passi come questo l'insoddisfazione del teorico di formazione marxista rispetto alle istituzioni e agli strumenti politici offerti dal liberalismo, compreso il parlamento. La democrazia, anche se eredita le istituzioni rappresentative create dal liberalismo, e le fa proprie, non può accontentarsi di quest'opera di benefica “appropriazione”.
Si è già visto come L. Basso auspichi il superamento della società “divisa in classi”, e quindi delle ingiustizie socio-economiche generate dal capitalismo: egli, come del resto molti marxisti, sembra ritenere che il superamento del capitalismo e delle differenze di classe comporti ipso facto anche la cessazione dei conflitti sociali ed economici, per dar luogo a una società basata sulla cooperazione e sulla solidarietà. E' questo probabilmente uno dei punti deboli della sua impostazione: anche ammesso che sia possibile superare del tutto e definitivamente gli antagonismi di classe, in una qualche epoca più o meno prossima, non è detto né garantito che ciò comporti anche la fine di ogni possibile conflitto all'interno della società. Sarà mai possibile eliminare del tutto l'egoismo dalla convivenza umana? E sarebbe ciò davvero auspicabile? Non è forse più opportuno comprendere a quali condizioni e in che modo sia possibile reindirizzare gli egoismi verso scopi cooperativi e fini sociali? [*]

Nonostante queste riserve tuttavia il nòcciolo della concezione della democrazia espressa da Lelio Basso non perde affatto di interesse e di valore. Pur se poniamo in dubbio la possibilità di eliminare definitivamente i conflitti e i contrasti dall'arena sociale e politica in una qualche epoca futura, resta il fatto che la democrazia – in questi tempi lo comprendiamo – non coincide con le istituzioni liberali rappresentative, anche se ne ha bisogno per esistere. L'esigenza del “cittadino comune” di partecipare ai processi decisionali e di chiedere conto costantemente (non solo al momento del voto) ai rappresentanti politici del loro operato, di domandare incessantemente il perché delle varie scelte che essi operano, esigenza che L. Basso intuiva e incoraggiava, si fa oggi insopprimibile e chiede risposte sempre più adeguate all'enfasi della richiesta.

Lelio Basso denunciava d'altra parte un appannamento del ruolo classico del Parlamento, tanto da indurlo a ritenere che la vecchia concezione liberale della “divisione dei poteri” e dei checks and balances fosse messa in crisi dalla stessa evoluzione-involuzione delle istituzioni. Pur convinto che il ruolo “classico” del Parlamento non fosse sufficiente a garantire l'effettività del potere del demos (ovvero il principio della sovranità popolare “preso sul serio”) che la democrazia pretende, Basso guardava con preoccupazione alla diminuzione dei poteri reali dell'organo rappresentativo per eccellenza, che egli registrava: la fusione tra Parlamento e Governo emergeva dalla prassi politica travolgendo qualsiasi teoria, poiché la maggioranza politica finiva per dominare tanto l'esecutivo che il legislativo, diventando la vera arbitra delle istituzioni e il soggetto chiave dei meccanismi decisionali democratici, secondo un principio di cooperazione e non di separazione dei poteri. In tal modo il Parlamento non poteva più esercitare la funzione di controllo sull'operato del Governo, se non in maniera molto debole, e neppure continuare ad essere il titolare effettivo della potestà legislativa. Questo processo, riconosce L. Basso, è stato prodotto proprio dal percorso che ha condotto gli ordinamenti liberali a “democratizzarsi”, «attraverso la costituzione di grandi partiti che guidano l'opinione pubblica e rappresentano i veri operatori politici», sicché «fra Governo e maggioranza parlamentare si crea un rapporto di totale solidarietà, ma in ultima analisi la maggiore autorità spetta al Governo […] mentre il gruppo o i gruppi parlamentari, che la maggioranza costituiscono, sono tenuti a un vincolo di disciplina.» [Basso 1998, p. 75]

Tuttavia già Walter Bagehot, analizzando il sistema politico inglese alla fine del XIX secolo, sfatava il “mito” della separazione dei poteri. Il “modello Westminster” che ha influenzato molti ordinamenti democratici europei non è stato – proprio nell'epoca in cui ha cominciato ad essere un concreto punto di riferimento per altre esperienze liberali continentali – un modello perfettamente rispondente alle teorie di Montesquieu. Probabilmente – è ciò che sottilmente suggerisce la lettura di Bagehot – molti pensatori politici o giuristi “anglofili” hanno frainteso la vera natura della English Constitution, al punto che si può tranquillamente affermare che la fusione fra legislativo ed esecutivo che denunciava Lelio Basso (e che altri continuano a maggior ragione a denunciare oggi) è stata da sempre la regola, e non l'eccezione o la deviazione, della democrazia parlamentare di scuola britannica. Vi è inoltre da dire che Bagehot, nella sua puntuale analisi, non si limita a registrare i dati di fatto, ma sottolinea come proprio nella “fusione” fra Governo e Parlamento risieda il segreto efficiente dell'ordinamento britannico [Bagehot 1995, p. 52]. In altre parole, il “modello Westminster” funziona proprio perché non rispetta la separazione fra legislativo ed esecutivo teorizzata dal liberalismo “classico”. Non si tratta di uno “sviamento” o di una “deviazione inconsapevole” dalla presunta “via maestra”, ma di una scelta deliberata che costituisce il vero “segreto del successo” della forma di governo parlamentare elaborata dalla Gran Bretagna e diffusasi poi in altri Paesi democratici, europei e non.

Ciò però è ben lungi dall'indebolire la tesi di Lelio Basso circa la necessità che la democrazia si doti di meccanismi istituzionali ulteriori rispetto a quelli parlamentari classici, tesi che anzi grazie a queste considerazioni si rafforza.



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[*] Questo tema è affrontato in maniera acuta e stimolante da Piero Bernocchi, nei saggi che ha recentemente dedicato alla teoria del benicomunismo, da lui formulata. Criticando ad un tempo quelli che considera dogmatismi invero “poco scientifici” del marxismo, come l'idea del “proletariato unico e salvifico” (che non tiene conto della complessità delle stratificazioni sociali) contrapposto a un'altrettanto “introvabile” borghesia “compatta nella colpa”, e le ingenuità che s'insinuano tra le pieghe delle recenti teorie della democrazia partecipativa, egli sottolinea come, per giungere a un'autentica liberazione dal capitalismo che sia anche concreta liberazione politica per tutti, si debba passare attraverso una nuova teoria dei beni comuni e attraverso una riflessione matura – scevra da messianismi, paternalismi e nostalgie – sugli ostacoli che concretamente bisogna superare per realizzare una democrazia partecipativa stabile, duratura ed effettivamente operante. Per superarli occorre però innanzitutto – egli sostiene – non “barare” con la realtà: non bisogna immaginare una “umanità totalmente altruista” che non esiste né potrà mai esistere. Infatti un certo quantum di egoismo è necessario alla sopravvivenza non solo dei singoli, ma anche delle comunità e della specie («Donne ed uomini devono necessariamente formare e curare il proprio Ego, tutelare la propria integrità fisica e mentale, vivendo non solo la parte solidale con l'Altro prossimo a sé ma anche quella conflittuale: si tratta di facce coesistenti della stessa realtà, complessa ma non aggirabile. Un Ego che viva di solo conflitto sarebbe altrettanto squilibrato e destinato alla sofferenza e all'autolesionismo di uno assolutamente impreparato ai conflitti e capace di vivere solo in un'atmosfera di totale protezione, tutela e solidarietà benevola» [Bernocchi 2012, p. 255]); bisogna fare in modo che, attraverso pratiche sociali e politiche “virtuose” emerga piuttosto, e sia valorizzato (non attraverso dichiarazioni ideologiche e programmatiche, ma approntando condizioni che «devono essere liberamente verificate e scelte da ognuno/a senza imposizioni» e che «non sono comunque mai date una volta per tutte» [Bernocchi 2012, p. 256]), quello che Bernocchi definisce, con un apparente ossimoro, altruismo egoistico: «Ciò che una società solidale ed egualitaria può e deve ripromettersi è favorire l'equilibrio tra la difesa individuale e la partecipazione all'agire collettivo. Ma questo non richiede la cancellazione (peraltro impossibile) dell'egoismo, quanto piuttosto la promozione di tutte le forme possibili di altruismo egoistico […], attitudine che non esclude affatto la cura dell'Ego, come della propria integrità fisica e mentale. Un'adeguata organizzazione sociale e una reale democrazia devono invogliare l'individuo a incontrarsi con gli altri umani e a cooperare in modo da ricavarne anche vantaggi personali, rendendo insomma il cosiddetto altruismo, e cioè la disponibilità a cooperare con (e ad aiutare) l'Altro, vantaggioso e proficuo anche per l'Io.» [Bernocchi 2015, p. 217]



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