Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

venerdì 15 luglio 2011

Sui mali del ragionamento “double standard” e sui dilemmi della politica internazionale

Si sarà compreso che tendo a non dare spazio alla cronaca, piccola o grande che sia, il che non vuol dire che non la tenga in alcun conto; anzi...
Il fatto è che non m'interessa soffermarmi sul caso particolare, ma preferisco concentrarmi sull'analisi degli atteggiamenti mentali, sull'uso dei concetti e dei paradigmi teorici o delle categorie diffuse nel nostro mondo e nel nostro tempo; in qualche modo, infatti, concentrandosi sul caso particolare, si rischia troppo spesso di confondere il dettaglio contingente con l'essenziale e, insomma, la luna col dito che la indica (secondo la classica metafora).




Non ha tutti i torti la “saggezza cattolica” quando afferma di voler additare alla pubblica attenzione (e quindi combattere) il peccato anziché il peccatore.
Sì, perché accanirsi contro il peccatore singolo in un certo senso fa perdere la visione d'insieme, e dunque la lucidità del discorso: può infatti generare l'illusione che tutto il problema stia nel condannare o bersagliare di reprimende, critiche e contumelie quel peccatore, o nel metterlo in condizione di non nuocere. Il peccato resta così ai margini del discorso, e diventa un elemento secondario, sul quale non viene suscitata con la dovuta efficacia la riflessione dell'uditorio – e rimane, al limite, un “ospite muto”, richiamato dal discorso ma lasciato a sua volta silente e sullo sfondo, come se concentrare su esso la luce dei riflettori ci suscitasse imbarazzo.

(E quell'imbarazzo che sta tra le righe del non detto – diventando forse per questo persino più evidente – può creare il dubbio che non ci si soffermi sul peccato perché ci si vuol lasciare aperta la possibilità di cercare alleati fra altri “peccatori di analogo peccato”, che sarebbero offesi dal nostro insistere sui contenuti stessi del “peccato” in questione... Double standard, come dicono gli inglesi, e come spiego fra poco.)

Invece ritengo che sia più opportuno individuare le debolezze, le carenze e i difetti di certe teorie o tesi, o di certi “luoghi comuni” del ragionamento (su temi sociali e politici, prevalentemente), e dei comportamenti che generano o giustificano, a prescindere dalla persona che sostiene i primi (teorie, tesi e luoghi comuni) o mette in opera i secondi (i comportamenti).
E questo perché le persone vanno e vengono, invece le tesi, le teorie e soprattutto i luoghi comuni tendono a rimanere e a perpetuarsi.

[N.B.: Non prendete troppo sul serio il mio ricorso ai termini “peccato” e “peccatore”: mi riferivo qui ai termini che usa la Chiesa cattolica, visto che il ragionamento deriva da essa; si possono però sostituire con “azione (scorretta, sbagliata, immorale, ecc.)” e “colui/colei che commette l'azione”. E soprattutto non scambiatemi per un cattolico: posso essere talvolta d'accordo, e molte più volte in disaccordo, con determinate tesi espresse dal cattolicesimo, o dal cristianesimo, o da qualsiasi altra religione; sta di fatto, comunque, che non mi riconosco in nessuna dottrina religiosa. Datemi pure dell'agnostico e del razionalista: mi va benissimo...]

In questo caso, la mia riflessione si concentra su un tipico double standard (in italiano possiamo tradurlo con “doppiopesismo”) che incontriamo a volte nei discorsi concernenti la politica internazionale.
Faccio un esempio astratto, che però si rifà in modo trasparente a casi concreti.
In una nazione che chiameremo genericamente Quidlandia, a lungo governata da un autocrate (o dittatore) oppure da un'oligarchia ferrea e ristrettissima, per un insieme di cause una parte del popolo decide a un certo punto che è ora di ribellarsi e di rivendicare diritti politici diffusi e democrazia.
Questa parte del popolo di Quidlandia scende in piazza, manifesta, contesta, chiede all'autocrate o all'oligarchia di farsi da parte e di dare inizio senza indugi a un percorso di democratizzazione.

L'autocrate, o la ristrettissima oligarchia, non vogliono rinunciare al prestigio e/o ai privilegi dei quali sino a quel momento hanno goduto, in virtù della loro posizione di potere “senza rivali”, e perciò, dopo avere sperato per un po' di tempo (una settimana, dieci giorni...) che la parte del popolo “in rivolta” si stancasse, davanti all'ostinazione della protesta decidono di passare alle maniere forti e dànno ordine alla polizia e/o alle forze armate di sparare sulla folla di “rivoltosi”.

Fin qui la premessa dell'ipotesi. La parte importante però comincia ora.
Davanti alla situazione che si è determinata in Quidlandia, nei Paesi democratici ci si chiede: che fare? E' nostro dovere di democratici aiutare gli insorti? o questo dovere non sussiste? Oppure: il dovere ci sarebbe, ma ce n'è uno più importante, che deve prevalere: il rispetto della sovranità altrui, che non ci consente in nessun caso di intervenire?

Però, anche non volendo considerare l'argomento della democrazia, c'è anche il diritto all'autodeterminazione dei popoli; se un popolo si rivolta contro un autocrate o un'oligarchia opprimente sta esercitando il proprio diritto all'autodeterminazione? Oppure per esercitare validamente questo diritto non basta che sia una parte di popolo a ribellarsi, ma deve scendere in piazza la stragrande maggioranza del popolo o addirittura (ipotesi più esigente) tutto il popolo?

E ancora: pur ammettendo la validità dei motivi etico-politici che giustificano un intervento dei Paesi democratici a sostegno degli insorti di Quidlandia, si può tollerare l'uso delle armi? si può parlare a buon diritto di “intervento umanitario” quando in effetti si sganciano bombe su un territorio straniero (dunque si compiono azioni di guerra, di aggressione armata su quel territorio)?

Rispondere a queste e ad altre simili domande è meno semplice di quanto sembri: non c'è dubbio (già il loro accavallarsi fa capire il groviglio di questioni che esse suscitano).
Così, se dicessi di essere in grado di fornire su due piedi una risposta che sia universalmente valida, una volta per tutte, in questo tipo di situazioni, mi esporrei al ridicolo, quantomeno.

Quello che voglio sottolineare qui non è la difficoltà di trovare una soluzione ottimale e “a prova di errore” in casi come questo; ma è, come accennavo, l'uso disinvolto del double standard. A cosa mi riferisco?

Andiamo avanti con l'ipotesi, e diciamo che alcuni Paesi democratici – che chiameremo nel loro insieme Vollandia (in quanto si ritengono dotati di “buona volontà”) – hanno deciso, dopo varie discussioni e nonostante alcune perplessità, di intervenire militarmente per sostenere il popolo di Quidlandia che si è ribellato all'autocrate o agli oligarchi.

Una parte dell'opposizione, però, in alcuni di quei Paesi democratici “interventisti” di Vollandia, contesta le ragioni dell'intervento e sostiene tra l'altro che le cosiddette “bombe intelligenti” che i Paesi democratici promettono di usare in Quidlandia contro le truppe fedeli all'autocrate o agli oligarchi, non sono affatto intelligenti, in realtà, e causano molte vittime fra i civili.

E qui dobbiamo fermare il film e concentrarci su questo singolo “fotogramma”.
Cosa faceva infatti l'autocrate (o la giunta degli oligarchi), nella “sequenza” precedente? Dava l'ordine di sparare sui civili. E risulta che in varie zone di Quidlandia, le truppe fedeli al “regime” hanno eseguito fedelmente l'ordine.
Domanda che sorge immediatamente: è sempre un fatto intollerabile, degno di condanna, colpire i civili, sparare sulla folla inerme o bombardarla? Oppure lo condanniamo soltanto se eseguito dagli eserciti di determinati Paesi, ad es. di Vollandia o della Solita Superpotenza?

O forse qualcuno pensa che in Paesi come Quidlandia, siccome sono diversi da noi di Vollandia, in quanto non democratici, non occidentali, ecc., ai loro governanti sia lecito sparare sui cittadini che protestano inermi e disarmati? Li consideriamo ancora, tutto sommato, “buoni selvaggi”, che possono quindi anche ammazzarsi qualche volta tra loro, purché non coinvolgano anche la nostra pacifica civiltà nei loro dissidi “selvatici”?

Qualche volta mi viene il forte dubbio che una simile concezione dal sapore neo-razzista (razzismo di seconda generazione lo definirei, o “razzismo 2.o”, che riesce a superare il vaglio del politically correct, antivirus troppo datato rispetto alle sembianze opportunamente rifatte dell'avversario) serpeggi ancora tra noi, nei nostri discorsi, nei nostri salotti buoni...

Già: è fin troppo chiaro che quando ci troviamo davanti a un ragionamento che utilizza il double standard (“due pesi e due misure”, insomma), siamo in presenza di argomentazioni volte a giustificare qualche forma di discriminazione, per giunta subdola. Quanto più è raffinato e quanto meglio è dissimulato l'uso del double standard, tanto più subdola e viscida è la discriminazione.

In ogni caso, resta inevasa una domanda importante: la solidarietà internazionale ha un contenuto effettivo o è soltanto un mucchio di parole al vento? Se gli insorti di Quidlandia, di fronte alle uccisioni di civili compiute dalle truppe fedeli all'autocrate (o all'oligarchia), invocano l'aiuto straniero in nome di quel principio di solidarietà, la comunità internazionale cosa deve fare? Respingere la richiesta al mittente, motivando questa scelta sulla base di qualcuno dei dubbi espressi sopra (o magari di tutti)? [Fra i motivi menzionati: il rispetto della sovranità nazionale; la legittimazione a esercitare attivamente il diritto all'autodeterminazione (parte attiva del popolo vs. stragrande maggioranza o totalità di esso); l'uso di armi “non intelligenti” da parte di Stati stranieri, tali da porre a rischio i civili...]

C'è, fra coloro che in Vollandia avversano l'interventismo dei Paesi democratici, chi davanti all'insostenibilità oggettiva del double standard, adotta una strategia tipica: rovesciare radicalmente i dati, metterli in dubbio.
Ovvero: comprendendo che non si può lasciare all'autocrate (o all'oligarchia) la facoltà di sparare sui civili nel momento stesso in cui ci si lamenta delle vittime civili che le “bombe non-intelligenti” di Vollandia rischiano di provocare, questi anti-interventisti vollandiani risolvono il dilemma sostenendo che non è provato che l'autocrate/oligarchia di Quidlandia abbia fatto sparare sui civili: se qualche militare o poliziotto fedele al regime l'ha fatto, sarà stato tutt'al più un caso isolato, che di per sé non prova nulla (massima concessione che gli anti-interventisti sono disposti a fare).

Che dire? L'esperienza del passato ci ha insegnato che molto spesso l'autocrate/oligarchia furbo/a si cautela dando ordini verbali che possono poi, all'occorrenza (davanti a un Tribunale per i crimini di guerra, ad es.), essere rinnegati in quanto formalmente non documentabili.

Dunque, se le truppe fedeli a un autocrate o a un'oligarchia abituati a governare col pugno di ferro (e quindi a controllare ogni ganglio della vita dello Stato) si mettono a sparare sulla folla, è logico e sensato pensare che si tratti di “mattacchioni isolati” o di ufficiali “troppo zelanti” che hanno agito di loro iniziativa, senza che l'autocrate o i capi politici di Quidlandia ne sapessero niente? Mah...

Oppure, extrema ratio, gli anti-interventisti vollandiani si appellano al numero degli insorti, ragionando così: se solo una parte della popolazione è scesa in piazza a protestare contro l'autocrate (o contro gli oligarchi), allora vuol dire che tutti gli altri cittadini sono dalla parte dell'autocrate/oligarchia, e di conseguenza l'autocrate, o gli oligarchi, gode/godono ancora del consenso popolare. E, se gode/godono del consenso popolare, noi non possiamo intrometterci...

Secondo me, uno dei problemi dei nostri tempi è la mancanza di chiarezza nelle tesi e nelle posizioni che vengono pubblicamente assunte.
Ritengo anch'io che l'idea, in base alla quale la democrazia sarebbe esportabile attraverso gli eserciti, sia infondata oltre che possibile causa di drammi e disastri.
Coloro che sostengono questo genere di “esportabilità” della democrazia si comportano un po' come Napoleone e i suoi seguaci, che influenzati dallo strascico (ormai logoro) del giacobinismo, si presentavano come i “portatori armati” della libertà, anche se di fatto erano invasori che imponevano brutalmente le loro politiche, le loro oligarchie e i loro interessi ai Paesi occupati e, a loro dire, “liberati”. (Non voglio e non posso esaurire in poche battute l'analisi della politica napoleonica, che richiederebbe ben altro approfondimento e che non è l'oggetto del post: mi limito a dire comunque che ovviamente non si possono considerare solo le “ombre”; anche per capire meglio queste ultime, un'analisi seria deve occuparsi anche delle “luci”.)

Ora, assodato che l'attuale “crociata” dell'esportazione “armata” della democrazia è stata fortemente voluta dai settori più conservatori della politica statunitense – e di conseguenza dai loro omologhi in territorio europeo – è quantomeno singolare che questi “conservatori” si comportino come i giacobini (o almeno come i tardo-giacobini napoleonici), da loro tanto detestati (e in realtà poco studiati), e assumano il loro stesso atteggiamento, ritenendo il mondo una tabula rasa a loro disposizione per qualsiasi esperimento politico.

Premesso ciò, comunque, a mio parere non contribuisce minimamente alla critica dell'idea “neo-con” dell'esportabilità “armata” della democrazia il ragionamento “double-standard” o semplicemente negatore dell'evidenza, che taluni oppositori del neo-interventismo occidentale fanno.

Non si vede in che modo le scelte sbagliate del mondo occidentale possano – e per quale motivo debbano per forza – costituire in sé la prova dell'“innocenza” degli autocrati o delle oligarchie avide e corrotte di una qualche Quidlandia. Ovvero, per essere più chiari: mi sembra nient'altro che una tesi preconcetta l'idea che il “Nord del mondo” sia sempre e comunque il colpevole, anzi il colpevole unico a priori di ogni male – e che, di conseguenza, le colpe o le corresponsabilità degli altri non esistano mai.

Ci rendiamo conto che, sposando una simile tesi, di fatto consideriamo le nazioni del mondo non-occidentale eterne minorenni ingenue, dunque povere incapaci di intendere e volere, che non sanno quel che fanno? Cos'è questo, ancora, se non razzismo?
E soprattutto, non esistono anche in quei Paesi élite corrotte, avide e opportuniste? I leader di quei Paesi sono per definizione tutti buoni, immacolati e disinteressati? e in base a quale teorema?

Dunque, tornando alla questione della chiarezza, qual è il vero motivo per il quale non bisognerebbe intervenire in soccorso degli insorti di Quidlandia?
L'impossibilità di “esportare” con le armi la democrazia, e i danni che i bombardamenti sia pure “umanitari” fanno?
Oppure il fatto che i loro governanti sono buoni e innocenti sempre, per definizione – e che dunque ogni ribellione a tanta “bontà” è da considerarsi illogica e illecita?
O ancora, siccome non sono tutti d'accordo nel sostenere la ribellione, dobbiamo presumere che l'autocrate o l'oligarchia godano di legittimo consenso e siano “amati dalla popolazione”, e presumendo questo, dobbiamo astenerci dall'intervenire?
Oppure: se la Solita Superpotenza ha deciso di intervenire militarmente, chissà quali interessi ha, e non dobbiamo essere suoi complici...?

Secondo me, dobbiamo rispondere senza ambiguità. Le opzioni non sono fra loro equivalenti. La seconda e la terza mi comunicano una sensazione di insincerità: sarà una mia impressione, ma...
La quarta – benché non del tutto sprovvista di argomenti – scarica altrove il problema (la cattiveria della Solita Superpotenza).
E' come se volessero aggirare con malcelata astuzia lo scoglio che il “dilemma di Quidlandia” ci pone davanti: siamo tenuti oggi alla solidarietà internazionale, quando ci troviamo in presenza di una esplicita richiesta di aiuto da parte di un gruppo di persone che si ribella a un regime autocratico e oppressivo, oppure no?
La prima opzione, di quelle citate, mi sembra invece la più trasparente, perché presuppone una contrarietà di principio agli interventi armati, che sono sempre azioni belliche, qualunque sia il loro nome “diplomatico-ufficiale”.

Però c'è da porsi comunque un interrogativo: e se un giorno fosse minacciata la nostra democrazia, che faremmo? in che modo vorremmo difenderla? Che effetto susciterebbe in noi l'eventuale rifiuto di aiutarci, da parte di altri Paesi?

Possiamo anche non rispondere a quesiti del genere, considerarli astratti, e voltare la testa dall'altra parte. O forse possiamo renderci conto che i dilemmi etici e politici non si possono cancellare ignorandoli o, peggio, imponendo loro una maschera che li renda meno imbarazzanti; d'accordo, non si prestano a una soluzione che soddisfi ogni esigenza, e ogni opzione comporta pregi e difetti, guadagni e perdite; ma per questo sono dilemmi, e finché non diamo loro una risposta sono sempre là, nel nostro giardino, in attesa di una nostra scelta limpida.

Forse arriveremo un giorno a dire apertamente che nelle vicende degli altri Paesi non vogliamo intrometterci perché ogni intromissione prevede una qualche forma di imposizione legata all'uso della forza. E sarà una posizione chiara, anche se chiuderà per sempre la porta, per quanto ci riguarda, a ogni prospettiva concreta di solidarietà internazionale, sostituita da una qualche forma di “isolazionismo” – anche perché i rapporti internazionali sono basati sulla reciprocità: ciò che noi non siamo disposti a fare per gli altri, gli altri non saranno a loro volta disposti a fare per noi.

Finché però non decideremo di essere coerenti coi nostri voleri reconditi assumendo apertamente una posizione del genere, continueremo ad avere la tentazione di nasconderci dietro paraventi argomentativi contraddittori che sembrano solo maldestre e imbarazzanti “foglie di fico”.

Una postilla. Citavo nel discorso il razzismo sottile che si nasconde nel meccanismo del double standard. Mi è venuto in mente un esempio, legato a un ricordo dell'adolescenza.

Erano gli anni Ottanta. Al termine della lezione, al liceo, capitò a me e a qualche altro amico di discutere col nostro professore riguardo alla Germania. Tutti noi (compreso chi come me era di sinistra) eravamo convinti che fosse ingiusta la divisione che quel Paese continuava a subire, e che si dovesse arrivare quanto prima alla riunificazione. Bene, il nostro insegnante, che professava – badate bene – idee di destra, essendo anticomunista e molto conservatore, ci disse che ci sbagliavamo: a suo giudizio era un bene che la Germania rimanesse divisa, perché unita sarebbe tornata ad essere una superpotenza e avrebbe costituito di nuovo una minaccia per la stabilità dell'Europa.

Lo ricordo come fosse ieri. Io e i compagni di classe ci guardammo in faccia, stupiti e un po' confusi; qualcuno insisté: “Ma professore, sta parlando sul serio?”

Un amico anticomunista aggiunse persino: “Ma cosa hanno fatto di male i tedeschi dell'Est per continuare a subire l'oppressione dei sovietici?”

Il professore non si scompose e ribadì la sua idea, spiegando che la democrazia “si deve meritare” e che i tedeschi, evidentemente, dopo quello che avevano combinato nella Seconda guerra mondiale, stavano semplicemente subendo una sorta di “ritorsione” sacrosanta da parte della provvidenza.

Qualcuno chiese ancora: “E se fosse capitato a noi?”

Ma il professore aveva risposte per tutto, e in conclusione ci fece capire che alle disgrazie altrui, in politica, possiamo sempre trovare un'adeguata giustificazione, purché questa ci consenta di mettere dignitosamente al riparo il nostro orticello.

Inoltre, come le passate generazioni di democratici europei, al primo apparire della bufera, non erano sembrate disposte a “morire per Danzica”, così lui ci spiegò chiaramente che non avrebbe avuto alcun senso voler “morire per Berlino” (o per Budapest, o per Praga...). Ma su queste considerazioni in particolare ci sarebbe molto da dire, e non vorrei divagare...

Insomma: gli italiani, i francesi, ecc., potevano godere della democrazia, e difenderla; i poveri tedeschi dell'Est no, dovevano rimanere come stavano, per non turbare i nostri equilibri e il nostro benessere.


Ecco, se qualcuno non aveva ancora compreso come funziona (e soprattutto a quali vantaggi tende, e perché va contrastato) il ragionamento double standard, forse ora gli sarà più chiaro.
 







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