Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

venerdì 24 febbraio 2012

Complottismo, che triste destino!

Che questo sia un periodo di crisi, e non solo economica o politica, non c'è alcun dubbio. Uno dei segni più preoccupanti però di questa crisi ormai palese, dichiarata (e non più "strisciante" o dissimulata dai governi, come qualche tempo fa), è il diffondersi del credito ottenuto dalle tesi "complottiste" di ogni specie e segno.

Il complottismo è una vera e propria forma mentis, una maniera di leggere la realtà, che aggira le difficoltà che non vuol capire, magari perché le variabili in gioco in quella realtà da leggere sono troppe (e nella "folla di cause" ci si perde, con relativa angoscia...), o perché sono troppo poco "romanzesche" (e l'umanità ha tanto bisogno di racconti e di... cantastorie!), per rifugiarsi in spiegazioni - appunto - da feuilleton, da romanzo a puntate o a fumetti, a voi la scelta.


E in quel genere di narrazione di solito c'è un cattivo particolarmente diabolico, che ha in mente piani - addirittura - per la conquista del mondo (qualche volta dell'universo, bisogna pensare in grande...); sicché ci dev'essere dall'altra parte l'eroe che eroicamente (altrimenti che eroe sarebbe?) riesce a scovare le tracce di quel "piano diabolico", che nessun altro aveva scorto, potendo così smascherarlo e... salvare il mondo!

Ma se pensiamo che solo le "menti semplici" vadano in cerca di racconti così accattivanti emotivamente (e scontati) per spiegare le cose che trovano inaccettabili nella realtà, siamo in errore. I segni di questa grande "crisi epocale" che ci coinvolge si fanno evidenti soprattutto perché sono sempre più numerose le persone colte, istruite, consapevoli e - si direbbe - non ingenue, che si fanno catturare dalla tentazione di spiegare gli avvenimenti del mondo (dai fatti politici ed economici più rilevanti sino a fatti di cronaca) attraverso teorie "complottiste".

Lo vedo accadere sempre più di frequente intorno a me. Mi è capitato di parlare con qualche persona che conosco e stimo, e di scoprire dopo un po' con stupore che coltiva - anche lui (o lei) - convinzioni "complottiste" su questo o quell'argomento. Le teorie del “complotto” stanno acquisendo sempre più diritto di cittadinanza, e anche da chi ha una formazione universitaria (e persino scientifica) vengono a volte considerate “spiegazioni possibili” per eventi e situazioni critici o drammatici (come la caduta dei governi, la crisi economica, ecc.).
Sicuramente ha un ruolo la moda culturale in questo: da un momento all'altro può diventare in e chic propagare di conversazione in conversazione, e di salotto in salotto, ipotesi complottiste sulla diffusione dell'AIDS o sull'epidemia di mucca pazza, ma anche sull'assassinio di Kennedy o sulle imprese spaziali della Nasa.

Però c'è qualcosa che va oltre la moda, ed è - ormai gli studiosi ne parlano da tempo, sino a farne quasi un luogo comune - l'assenza sempre più evidente di modelli di riferimento ideali, spesso dovuta a perdita di prestigio degli stessi; in altre parole, le "grandi narrazioni" religiose o ideologiche, alle quali le persone e le collettività si affidavano per interpretare la realtà e per collocare se stesse al loro interno assegnandosi (o facendosi assegnare) un "ruolo" da svolgere (e forse, più ancora che un ruolo da svolgere, un cammino da percorrere lungo la vita), hanno perso gran parte della loro credibilità e del loro appeal, e un po' tutti ci sentiamo "orfani" di queste narrazioni.

I partiti – come si è detto già tante volte – hanno smarrito per strada la loro capacità di elaborare "grandi narrazioni" di questo tipo, e il vuoto che si è creato è parte integrante della "grande crisi" del nostro tempo; il problema è che non si possono lasciare intere società senza un qualche filo che le connetta, che le tenga assieme; quando questo accade, in mancanza di meglio interverrà il "fai da te" a creare il filo necessario, un surrogato che - se di qualità scadente - potrà però generare a sua volta problemi collaterali. E uno di questi surrogati scadenti è secondo me proprio la "narrazione" semplificata (la definirei adolescenziale) che viene offerta dalle tesi "complottiste" su un piatto d'argento a chi è affamato di "spiegazioni della realtà" e non le trova più - per vari motivi - nei polverosi libri delle "grandi narrazioni" smarrite.

Tanto per capire come può attivarsi questo meccanismo, penso che basti riflettere sugli effetti di quella "porzione" della crisi che più facilmente ci salta agli occhi: la crisi dell'economia finanziaria.
L'economia "ufficiale" (fatta di economisti, prestigiosi istituti finanziari, centri studi, ecc.) ha dato in questo caso l'impressione di essersi fatta cogliere impreparata dagli eventi; di conseguenza le sue teorie, per quanto autorevoli, stanno perdendo rapidamente credibilità, presso alcuni settori dell'opinione pubblica. 

Chi constata sulla propria pelle che sta "perdendo terreno" economicamente (o vede che la cosa accade a familiari e amici), e si ritrova impoverito materialmente dalla crisi, non potendo più credere alle tesi dell'economia "ufficiale" che sente screditata, si rivolge ad altre "narrazioni" (quelle complottiste, appunto), che gli ridanno un ruolo nella trama della realtà (ormai ridotta a trama in senso narrativo-romanzesco) facendolo sentire vittima predestinata di una macchinazione universale, operata da una "setta occulta" di banchieri nemici di dio e dell'umanità, che da secoli sono in combutta tra loro per rovinare la società e tenere sotto il loro dominio il mondo, detenendo il supremo potere di arricchire o impoverire a loro piacimento singoli individui e intere nazioni [c'è poco da ridere, esistono teorie "complottiste" di questo genere, e hanno seguaci in aumento... basta persino fare un giro su Facebook per rendersene conto].

Questo può accadere - ripeto - anche perché i partiti hanno a loro volta smarrito la loro capacità di indicare prospettive ambiziose per il cambiamento della società: per continuare l'esempio, coloro che, avendo perso il lavoro a causa della crisi, si sentono "vittime del sistema" - e che lo sono davvero, anche se non nel senso caro ai "complottisti" - non riceveranno dai partiti, neppure dai partiti di sinistra in teoria più vicini ai lavoratori, una prospettiva di riscatto, un pensiero "forte" (se così vogliamo chiamarlo) che sancisca in maniera articolata (e non generica, da spot pubblicitario, e perciò debole, inefficace) la priorità del lavoro su ogni altra "variabile" economica, e si sentiranno abbandonati a se stessi; saranno perciò più facilmente inclini ad ascoltare una "narrazione" alternativa che si presenta ambiziosa, che ha perlomeno il coraggio di chiamare i mali col loro nome (perché spesso le teorie "complottiste" sono acute nella critica della società, e lì sta il cuore del loro fascino pericoloso), anche se offre spiegazioni immaginarie (talora letteralmente deliranti) e indica soluzioni degne di un illusionista.

Il "complottismo" è anche bipartisan, come ognuno può verificare. Benché l'invenzione delle prime tesi "complottiste" risalga ai reazionari intenzionati a screditare cose per loro "diaboliche" come la Rivoluzione francese, ormai si cimentano nella sublime arte del "complottismo" anche i progressisti, e si può dire che in molti casi questi allievi "di sinistra" hanno superato i loro vecchi maestri reazionari (maestri occulti, beninteso: visto che tutto ciò che ha a che fare coi complotti, si sa, è rigorosamente occulto). 
 
E confesso che forse è questa diffusione "bipartisan" del complottismo il dato che maggiormente mi impensierisce. Addirittura ci sono casi di "contagio" e travaso: nel gran minestrone intellettuale che si è creato da quando i partiti hanno rinunciato ad avere una chiara identità ideologica, vecchie tesi del complottismo reazionario confluiscono ora tranquillamente nelle "narrazioni" del complottismo di matrice progressista.

Non si approfondiscono più i fondamenti delle idee politiche, e il pressapochismo ormai diffuso e imperante fa sì che vengano addirittura assunti acriticamente, da parte di persone peraltro anche impegnate "a sinistra", valori e concetti tipicamente elaborati negli ambienti dell'anti-modernismo militante (ambienti che disprezzano l'idea di pari dignità democratica dei cittadini: dettaglio non da poco). Il "complottismo" funge da agente di collegamento. Da ruffiano, insomma (per esprimersi in maniera meno accomodante).

Come rileva (a mio parere giustamente) uno studioso acuto del pensiero "complottista", Errico Buonanno, chi è disposto a farsi persuadere dalle teorie del complotto (più o meno universale) obbedisce a un meccanismo psicologico in virtù del quale prova «rabbia e relax, sdegno e una sorta di soddisfazione, serviti su un piatto d'argento. E' l'inquietudine che ci dà piacere. Forse perché avere un sospetto ci illude già di esercitare la nostra razionalità, ci illude un poco di capire le grandi dinamiche che sfuggono. Forse perché pensare ai segreti ci rende tutti più innocenti: non è colpa nostra, c'è un mistero» [E. Buonanno 2009, pag. 102].

Ci sono alcuni elementi sui quali è utile soffermarsi e riflettere.
In primo luogo, siamo portati a dar credito a “tesi complottiste” quando in noi avvertiamo sdegno e indignazione (magari per nostri motivi personali o politici) e conseguente frustrazione per la nostra incapacità (come singoli o gruppi) di cambiare le cose, sicché possiamo parlare del complottismo anche come di una macchina che trae vantaggio dalla diffusa indignazione che trova e intercetta intorno a sé, moltiplicandola a sua volta e alimentandola a buon mercato, sino a poterla sfruttare, a volte, per fini di propaganda politica; e questa "macchina" è in grado di produrre anche un forte sentimento di identificazione, con il classico steccato fra "noi" e "loro", cioè fra chi "avendo capito la verità" segue le teorie complottiste e le diffonde, e chi si ostina a credere alle "verità manipolate" del potere o dei mass-media [i complottisti arrivano a insultare chi mette in dubbio le loro tesi e hanno un vero disprezzo per gli "scettici"]. 
 
In secondo luogo, il modo di argomentare tipico del “complottismo” produce in noi l'illusione di esercitare la nostra razionalità, e sembriamo quindi soddisfatti per “aver finalmente capito”, per “esserci svegliati”, essere “finalmente padroni di noi”, ecc.; ma quella razionalità viene fatta in realtà girare a vuoto, forse perché spingerla oltre, per capire la reale portata di fenomeni "aggrovigliati", con numerose variabili fuori del nostro controllo, ci fa paura. 
 
In terzo luogo, il complottismo frequenta gli stessi "territori psicologici" della magia, che pur facendo paura (a chi in essa crede) ci dà l'illusione di poter dominare, attraverso pratiche "occulte", ogni fenomeno della natura e della società - illusione di onnipotenza umana, anzi antropocentrica, che convive con la paura di questa stessa (presunta) onnipotenza, perché del resto è l'esistenza di questa paura che, come in un circolo vizioso o corto circuito, fornisce la prova indiretta, emotiva (e illusoria) della veridicità di quell'onnipotenza.

Capire i meccanismi della mentalità "complottista" serve anche a comprendere come distinguere i complotti "autentici", che nella storia si sono effettivamente verificati, da quelli inventati e invocati ossessivamente da chi in essi crede, per spiegare i fenomeni più disparati.
Come ricorda E. Buonanno, i complotti realmente accertati nel corso della storia, come quello per assassinare Giulio Cesare, o quello hitleriano noto come "Notte dei lunghi coltelli", prima o poi vengono alla luce, perché «quando falliscono, chi li ha sventati ha ogni interesse a pubblicizzare lo scampato pericolo, quando riescono, i congiurati se ne vantano una volta raggiunto il potere» [E. Buonanno 2009, pag. 104].

Il fatto è che - come giustamente sottolinea lo studioso - non è di questo genere di complotti, storicamente individuati e precisamente delimitati nello spazio e nel tempo, che parlano le "teorie del complotto".
No: si tratta di teorie ben più "ambiziose", o meglio di un vero e proprio «processo di elaborazione mentale che porta qualcuno a vedere un intento malefico - preciso e segreto, si capisce - in cose come il destino e la Storia. Non un complotto limitato, una congiura contingente, ma un Grande complotto capace di influenzare il mondo. I cataclismi, gli incidenti, i cambi di rotta inaspettati: la vita è un po' quella che è. Eppure sostengono i teorici del genere che tutto alla fine sarebbe spiegabile. Non con il caso, gli umori, le idee, ma con un piano intenzionale di un gruppo ristretto di persone» [E. Buonanno 2009, pagg. 104-105].

E l'identikit di chi viene accusato di "reggere i fili" di questo o questi complotti universali è costante nel tempo: si tratta di solito di minoranze, come i cristiani al tempo di Nerone, o gli ebrei in tempi a noi più vicini; oppure di soggetti che nell'immaginario collettivo rappresentano una élite di potere particolarmente odiata per circostanze spesso contingenti, e non in virtù di elaborate analisi politiche (i banchieri, oggi, per esempio: come se la figura del "banchiere" fosse in qualche modo separabile dal sistema economico del quale è parte integrante, e fosse l'unica a dover pagare le colpe e le disfunzioni dell'intero sistema).

E' chiaro che il "potere" è in qualche modo responsabile di molti mali delle società, ieri come oggi, poiché prende decisioni che talora si rivelano inique, sbilanciate ingiustamente a favore di alcuni gruppi sociali, oppure nettamente sbagliate, deleterie o addirittura catastrofiche. Però «al complottista non basta credere che i vertici siano responsabili di guerre, speculazioni, leggi, percorsi economici. Esaspera, estende e totalizza. Chi ci governa è tanto infallibile da programmare a tavolino ogni casistica e minuzia, e se il complotto coincide col mondo, il congiurato, a quanto pare, ha preso il posto del buon Dio» [E. Buonanno 2009, pag. 105].

Per fare chiarezza sulle incongruenze del "complottismo", è opportuno richiamarsi anche ad alcune riflessioni fatte in proposito da Karl Popper, che considerava il fenomeno come «una forma di teismo (e aggiungeva "primitivo"), e chi si abbandona alla "teoria sociale della cospirazione" non farebbe altro che assumere l'ottica dell'Iliade. "Secondo la concezione omerica del potere divino, qualunque cosa accadesse sulla piana di Troia era solo un riflesso dei vari complotti in atto nell'Olimpo". Insomma, "una fede in divinità i cui capricci e desideri governano ogni cosa"» [E. Buonanno 2009, pag. 105, che cita K. Popper 1985].

Seguendo il ragionamento di Popper, «La vita, in sostanza, è inafferrabile, "nessuna azione ha mai esattamente il risultato previsto"», sicché opportunamente si chiede Buonanno: «E non sarà proprio l'imprevedibilità ciò che spaventa e atterrisce? Non sarà questo che la teoria del complotto risolve?» [E. Buonanno 2009, pag. 105].

La teoria del complotto (in una qualsiasi delle sue varianti) parte in effetti da un dogma indimostrato: "Niente accade per caso". E' un dogma piuttosto insidioso, perché ha l'aspetto della ragionevolezza, e corteggia, in qualche modo, proprio la razionalità dell'uditorio al quale si rivolge; si appella infatti alla ragione del pubblico, e non alla sua superstizione ed ai suoi pregiudizi, e si presenta quindi come un'affermazione che sa di modernità, di scienza, di lucidità, e non di fanatismo o di ingenuità. Si presenta insomma come un ospite col passaporto in regola alla dogana del mondo razionale e scientifico, "evoluto", però il problema è che il suo passaporto è truccato.

Non si tratta infatti di un'asserzione scientifica, perché pretende di essere applicabile a qualsiasi questione, a qualsiasi problema, in qualsiasi campo, incondizionatamente e in qualsiasi tempo e luogo: non dà quindi le sue coordinate di validità e di possibilità, ma si presenta come una regola universale, di applicazione indeterminata. E già questo dato deve indurre a diffidare...
Ma poi, come se ne può dimostrare la validità? eventualmente in quale laboratorio? e con quali strumenti, in base a quali procedure?

Insomma, se accettiamo acriticamente che "Niente accade per caso", se diamo per vera questa premessa, neghiamo che possano esistere appunto l'imprevedibilità e l'imponderabilità; affermiamo cioè che Tutto è sotto controllo, tutto è controllabile e determinabile a priori, ovvero che da un'azione e da una decisione seguono sempre, senza eccezioni e imprevisti di percorso (e quindi senza variabili aggiuntive), tutte le conseguenze che da quella azione o decisione ci si riprometteva di ottenere.
In pratica, dire che "Niente accade per caso" equivale nientemeno che a postulare l'onnipotenza degli esseri umani, o almeno di alcuni di loro (però questa versione "attenuata", che è quella alla quale i complottisti dànno credito, è autocontraddittoria [infatti, se Niente accade per caso, siamo tutti onnipotenti, e non solo i "potenti" di turno ... altro problema!]).

Quindi in effetti la teoria del complotto è sommamente rassicurante, perché dà a chi ci crede l'impressione, anzi la certezza, che non ci sia nulla di imprevedibile, nelle vicende umane. C'è chi ha sotto controllo i "destini" del mondo, e dunque non c'è irrazionalità nel succedersi degli eventi; e se il "disegno" che sta dietro le vicende umane è sempre razionale, lo si può ricostruire perfettamente a posteriori, nei minimi dettagli, pur non conoscendolo. 
 
I pezzi in disordine del puzzle della storia o della vita umana si possono sempre rimettere nell'ordine giusto, razionale. Così tutto si spiega, tutto torna, nulla resta fuori dal disegno, come un residuo "ribelle" e incontrollabile che potrebbe suscitarci inquietudine, ansia, angoscia...

Altra norma-guida, che fa da pendant al dogma precedente, per poter costruire la "narrazione" complottista, è la domanda: "Cui prodest?" (“A chi giova?”). Ogni avvenimento, insomma, va spiegato risalendo al soggetto o ai soggetti che ne hanno (ipoteticamente) tratto vantaggio. E se non è immediatamente comprensibile la "trama" che risale al soggetto avvantaggiato, si aggiungono congetture fantasiose, e il colpevole comunque si trova, c'è sempre. Perché anche questa regola, secondo i complottisti, è infallibile; non accetta smentite e neppure eccezioni, è sempre e comunque valida per spiegare qualsiasi cosa, indipendentemente da ogni altra circostanza - anche perché... di fatto non riconosce la necessità di essere provata nella sua validità universale, esattamente come il dogma di cui sopra.

Altra strategia argomentativa tipica del "complottismo" (che rientra in questo uso distorto, o comunque non corretto, della razionalità) è l'accumulo, nel corso della narrazione, di una sterminata collezione di "strane coincidenze" che vengono sottoposte all'attenzione del lettore o ascoltatore per fargli sorgere abilmente il dubbio che - data l'impossibilità statistica di un ripetersi così insistente di pure coincidenze - "qualcosa di vero deve esserci" nelle tesi del complottista.

Purtroppo, di solito trascuriamo di considerare che, lavorando bene sui dati che ha a disposizione, e insomma mischiando opportunamente, da bravo illusionista, il mazzo di carte, chiunque può dimostrare a piacimento qualsiasi cosa, tutto e il contrario di tutto. Con quegli stessi dati!
Il trucco c'è, insomma: si tratta di omettere sistematicamente, "scientificamente", tutte le (numerose) evidenze contrarie alla tesi che si vuole dimostrare, e scegliere di dire o mostrare solo ciò che fa più comodo in base a quella stessa tesi.

Naturalmente, date le premesse, alle origini di un "disegno" complesso come un "complotto planetario" o universale, deve esserci una mente potente: «Parliamo di Dio, o parliamo del Diavolo, il punto è comunque un'entità che sia invisibile e immortale, perché, chiaramente, le trame segrete affondano sempre le radici tre secoli in là, senza che mai siano scoperte e senza che mai l'esercito oscuro abbia realizzato la rivoluzione mondiale per cui sta tanto faticando. Quando il dio è scelto (le banche, i massoni...) quel che si fa è farlo onnisciente, onnipresente, onnipotente. C'è il suo zampino in ogni cosa e gli incidenti non esistono. Sfortune, destino, coincidenze sono invenzioni universali. Tutto è previsto, costruito, perché i congiurati non sono più uomini. O meglio, qualcosa va anche storto, perché qualcuno puntualmente riesce a sapere. Ma resta isolato, emarginato, scacciato dalla società già schiava» [E. Buonanno 2009, pag. 106].

E' un perfetto riassunto dei luoghi comuni presenti nelle narrazioni complottiste, sia che attribuiscano il "dominio del mondo" a entità di fantasia tradizionali (spiriti maligni), sia che lo attribuiscano a extraterrestri, o agli eredi occulti dei Templari, o ai gesuiti, o agli ebrei, o ai massoni, o ai comunisti... O anche a tutti o ad alcuni di questi soggetti "in combutta tra loro" (è un classico! Li immaginate i fantomatici neo-Templari in combutta coi comunisti o i massoni in combutta con gli extraterrestri? Eppure, non ridete... i complottisti vi direbbero che proprio la vostra ilare incredulità è la prova che "loro" hanno già conquistato segretamente le vostre menti e vi stanno usando, a vostra insaputa, come pedine del loro complotto!).

Come fa notare Buonanno, «Questi padroni universali avranno pure mezzi immensi, però in effetti hanno il difetto di spargere tracce e darle in pasto a qualche blogger solitario, a uno studioso fai-da-te o a un taldeitali che si affretta a gridare allo scandalo dopo aver colto l'evidente simbologia che il nemico ha tracciato sulle monete da un euro, nei film, sui giornali o in qualche scomparso documento top-secret. A questo punto il gioco è fatto, la voce si sparge, e nessuna smentita sarà purtroppo più possibile: la prova del nove è proprio l'assenza di prove (stiamo parlando di segreti o no?) e se tutto è falso, tutto è artefatto, qualsiasi dimostrazione contraria sarà fabbricata ad arte» [E. Buonanno 2009, pag. 106].

Il discorso complottista è un universo autosufficiente, in sostanza, una specie di cittadella fortificata che è impossibile attaccare dall'esterno; non solo non fornisce prove autentiche di ciò che sostiene - tranne scritti di dubbia provenienza spesso rivelatisi clamorosi falsi, o fantomatici documenti segreti che nessuno ha mai visto, o messaggi subliminali più immaginati che percepiti - ma stabilisce a priori, a propria difesa, che qualsiasi prova contraria alle sue asserzioni è falsa. Lo sa prima ancora di averla vista, prima ancora che sia stata trovata: lo stabilisce in anticipo. Per definizione, ciò che contraddice la teoria del complotto è falso, manipolato - così dice la teoria del complotto...

Il “complottista” diffida (e invita a diffidare) per principio di qualsiasi evidenza, di qualsiasi prova contraria alle proprie tesi: si appella insomma ad una sorta di "dubbio sistematico", secondo il quale ciò che è evidente è automaticamente anche, per il solo fatto di essere evidente, falso: per il complottista provetto, “tutto ciò che appare, tutto ciò che comunemente si dice, si afferma e si vede è falso” (ossia, per lui/lei, dogmaticamente, non qualcosa di ciò che vediamo e constatiamo o di ciò che dicono le fonti ufficiali è falso, ma è falso tutto, sistematicamente! Tutta la “realtà conosciuta” non è che finzione!). E quindi, seguendo questa "logica", il contrario di ciò che si vede e si sa è sistematicamente la verità.

Tuttavia, nel momento stesso in cui invita ed esorta a dubitare di tutto, di tutta la realtà, di tutte le prove, le evidenze e le teorie (attendibili) di cui disponiamo, il complottista esclude da questo “dubbio universale” e sistematico le proprie tesi e teorie, pur non fornendo prove e metodi scientificamente accettati per dimostrarne la validità. Il dubbio, benché universale, vale per tutti, secondo il complottista, ma non per sé stesso e per le proprie asserzioni!

Del resto il discorso complottista stabilisce una magnifica regola "di chiusura", che tronca ogni possibile controversia: la prova principale di un complotto è proprio l'assenza di prove, dato che è un complotto occulto! Ovvero, meno prove ci sono rispetto a un complotto, e più questo complotto è provato, perché nella sua perfezione è riuscito a non lasciare tracce di sé...

Che cosa mai si può obiettare a un ragionamento del genere?
[E' chiaro che le osservazioni che qui stiamo facendo non scalfiranno la fede di un "complottista" convinto; ma non ho la presunzione di rivolgermi a chi ha deciso di affidarsi a metri di ragionamento così lontani dalla (minima) razionalità comune, sprecherei forse il mio tempo.
Spero invece che i dubbiosi e i perplessi, o anche coloro che hanno semplicemente voglia di conoscere, possano avere argomenti sui quali riflettere].

Uno degli "snodi" cruciali nella storia del complottismo è costituito dal volume dell'abbé Augustin Barruel, Mémoires pour servir à l'histoire du jacobinisme, che fu per l'epoca un best seller, perché rispecchiava tutto il risentimento dei reazionari per il mondo scaturito dalla Rivoluzione francese; non riuscivano a capire come mai il loro "bel mondo antico" fatto di disparità sociali e privilegi nobiliari fosse finito all'improvviso sul banco degli accusati e tutti i princìpi che legittimavano un tempo solidamente il loro potere fossero stati - nel giro di pochi anni - ridicolizzati e destituiti di credibilità.

Era un trauma, per i privilegiati dell'ancien régime, i quali in gran parte non accettavano una spiegazione "plebea" e razionalista (cioè partorita dall'aborrito illuminismo!) di una questione per loro tanto drammatica (ad es. l'idea che i rapporti sociali fossero cambiati, col rapido mutare dell'economia, e che di conseguenza il "popolo" si fosse fatto politicamente più maturo ed esigente): doveva esserci - secondo alcuni di loro - una spiegazione "occulta" dietro un fatto tanto grave e senza precedenti. Solo un "potente", sia pure perverso, poteva aver abbattuto i "potenti della terra", quali essi si ritenevano per diritto divino.

E il libro del buon abbé Barruel veniva giusto a proposito per assecondare una convinzione del genere. Insomma, "il libro giusto al momento giusto", si potrebbe dire. La Rivoluzione francese veniva in sostanza rappresentata come il frutto di un complotto, gestito dai giacobini, ma che veniva da molto lontano. Merito del sagace Barruel fu quello di raccogliere precedenti "tradizioni complottiste", risalenti al 1600 o ancora più vecchie, e intrecciandole costruire una nuova, complessa "narrazione complottista" che - nelle sue intenzioni e accontentando i desideri dei suoi lettori - "spiegava tutto", fin nei dettagli. 

Dentro il complotto "svelato" da Barruel c'erano tutti: i Templari, gli Illuminati (soggetto obbligato di ogni complotto, specie per i "complottisti" di formazione cattolica, dal 1600 in poi), i massoni, i philosophes illuministi, i giacobini, eredi o complici gli uni degli altri. Mancavano solo gli ebrei, perché in quel particolare momento storico in Francia l'antisemitismo non era di moda (lo sarà più tardi, come testimonia l'affare Dreyfus).
[Per questi ed altri dettagli sulle tesi di Barruel, si veda E. Buonanno 2009, pagg. 137 e sgg.].

In breve, questa la trama del "complotto" (degna della fantasia di Dumas) che compare nel primo volume della monumentale opera di Barruel: «[...] gli intramontabili Templari, morto sul rogo il loro maestro Jacques de Molay, si erano presto organizzati in una nuova società segreta che aveva in mente di distruggere il cristianesimo, spazzare via le monarchie europee, portare l'anarchia nel mondo e annientare la legge morale. [...] Nel Settecento, impadronitisi della massoneria, i Templari avevano creato al suo interno un'accademia letteraria, futuro club dei giacobini, che si riuniva a casa del barone d'Holbach per progettare insieme le pubblicazioni che avrebbero minato alle basi lo spirito cristiano dei francesi, e i cui signori incontrastati erano ignobili cospiratori del calibro di Diderot, d'Alembert, Voltaire, Turgot, Condorcet, tutti coinvolti nel complotto» [E. Buonanno 2009, pagg. 137-138].

Nei volumi successivi, come in un romanzo a puntate, Barruel metteva in campo nuove sensazionali rivelazioni, in base alle quali i giacobini, e perfino la massoneria tutta, altro non erano che «pedine in mano ad Adam Weishaupt e alla sua "setta" degli Illuminati, intenti a inseguire una "tripla cospirazione" millenaria che partiva addirittura dall'antica Persia di Mani» [E. Buonanno 2009, pag. 138].

La storia umana intera coincideva con una "storia parallela" che durava da millenni nell'ombra, stando al racconto dell'abbé Barruel, che a sua volta si rifaceva ad una serie di pubblicazioni "complottiste" precedenti. Però Barruel era più abile e scrupoloso dei suoi predecessori, come fa notare Buonanno, ed è per questo che il suo testo è servito da modello a molte delle numerose "teorie complottiste" successive, alcune delle quali circolano con successo su Internet: «Puntuale elenco delle fonti, continue e accurate citazioni, testimonianze dirette, ricostruzione grossomodo esatta della struttura e della storia degli Illuminati... C'era lo scrupolo del ricercatore, la lettura di tutte le opere, di tutta la corrispondenza, di tutti i verbali della polizia, c'era il confronto delle dichiarazioni e, addirittura, la smentita dei vecchi errori che la trattatistica anti-massonica si rimpallava ormai da anni. [...] I Mémoires erano un'invenzione fantastica, il primo studio sistematico, approfondito, coscienzioso di una congiura inesistente. Una trovata surreale, sì, di grande fortuna» [E. Buonanno 2009, pagg. 138-139].

Il cuore di questa "trovata" sta proprio nell'insidioso metodo adottato da Augustin Barruel, e da numerosi altri "complottisti" dopo di lui (quelli più accorti): in questa "narrazione complottista raffinata" non vengono ignorati i dati della realtà - i documenti, le testimonianze - e le fonti anzi vengono messe in evidenza, e quasi sbandierate ad ogni pie' sospinto; il problema è che le fonti e i dati certi e incontrovertibili (pochi o molti che siano dentro la "narrazione") vengono collegati in maniera arbitraria, e quando è possibile stravolti nel loro senso originario, ma con tale abilità "illusionistica", che il lettore e il pubblico cui è destinata la "narrazione" non possono di solito rendersi conto del "trucco" e - confusi dall'abile mescolanza di dati certi e deduzioni fantasiose - sono tentati (se non dispongono di fonti alternative e più sicure) di accettare come vero e ampiamente provato ciò che la "narrazione complottista" afferma.

Si tratta insomma di un "uso illusionistico" dei dati di fatto, un vero e proprio uso mistificato degli strumenti comuni della ricerca (che serve appunto a far credere al pubblico "profano" che si tratti di ricerca storica fatta secondo canoni rigorosi e scientifici): come avviene quando siamo di fronte ad un abile gioco di prestigio, sappiamo a priori che il trucco c'è, e questo ci "salva"; ma se per ipotesi non siamo in possesso di questa vitale informazione, e se non siamo pratici del mestiere, rischiamo di dar retta solo a ciò che vediamo e di scambiare così l'illusione per la realtà: il fatto è che non sempre gli occhi ci dicono la verità - e non sempre chi ci parla di "prove inconfutabili" ce la sta contando giusta...
Come riassume Buonanno, sempre a proposito del "metodo Barruel": «C'era una tesi totalmente falsa, e questa tesi era impolpata in una massa di dati reali, che non la provavano ma che sembravano provarla» [E. Buonanno 2009, pag. 139].

Tutta lì la sottile (ma vitale) differenza: sembrare vs. essere: nelle "narrazioni complottiste" i dati sono presentati in modo tale da dare l'impressione, la sensazione - o meglio, appunto, l'illusione - che si tratti di prove solide e concrete a sostegno della tesi cara all'autore o agli autori della narrazione; ma al di là della sensazione o dell'illusione non c'è nulla. Sembra, ma non è. Bisogna scavare oltre l'apparenza, per rendersene conto, sottraendosi al fascino di romanzesche narrazioni che possono sviare il comune raziocinio.

Devo convenire in proposito, ancora una volta, con Buonanno: «La rivoluzione, la Storia, la vita: troppo cruente, spaventose per poter essere credute. [...] E' il grande istinto narrativo umano, l'istinto alla romanzificazione, che ci dimostra qualcosa di molto banale: quella del falso è il più delle volte una dimensione più gradita, naturale, confortante rispetto alla mera esistenza, ovvero l'immaginazione rimane sempre il mezzo principale col quale scrivere la Storia» [E. Buonanno 2009, pag. 143].

Il Falso ha un grande potere sulla nostra psiche - è un dato forse sconfortante, o inquietante, ma dobbiamo ammetterlo, per poter capire come difenderci da questa fascinazione, per i suoi aspetti negativi e deleteri, nella maniera più appropriata ed efficace. Finché non ammettiamo i termini di un problema, e ci rifiutiamo di indagarlo per quel che realmente è, non possiamo neppure pensare a come risolverlo.
[Il bisogno di illusione e di invenzione, che è presente non solo negli individui - per fortuna in misura e in modi differenti - ma anche nelle collettività, è un elemento col quale ogni teoria sociale o politica dovrebbe fare i conti: l'essere umano non è solo razionalità, per quanto "civilizzato" possa essere. E' un discorso che non può essere approfondito qui; meriterebbe un post a parte...]


Tirando ora le fila del ragionamento fatto sin qui, ritengo che non possiamo e non dobbiamo dar credito con faciloneria a testi che pretendono di sconfessare tutto ciò che è stato detto e scritto sino al momento in cui essi sono "comparsi", soprattutto se pretendono di sconfessare non testi di ciarlatani, ma studi seri e nozioni acquisite attraverso una lunga tradizione di ricerca (prodottasi non di colpo già matura, come Minerva nacque dalla testa di Giove, ma faticosamente lungo il tempo, per congetture contrastanti, esperimenti, tentativi riusciti e non); come se la verità potesse comparire ad un tratto, già "adulta e vestita", nella mente di una sola persona (o di un numero ristrettissimo di persone che si influenzano a vicenda), facendosi gioco dell'esperienza del resto dell'umanità... 
 
E' vero che a volte grandi intuizioni "controcorrente" si sono affacciate nel corso dell'umanità, ad opera di singoli individui, ma si trattava, ad es., di Galilei o di Einstein, che comunque - si badi - rivolgevano il loro discorso in primo luogo alla comunità scientifica, e non a circoli esoterici, a giornali in cerca di "sensazionalismi" o ad oscuri siti web, perché intendevano far fare progressi alla conoscenza umana e non alla credulità umana... E c'è una bella differenza!

Di norma non dobbiamo fidarci di ciò che è racchiuso in un solo libro, per quanto avvincente possa sembrarci: non potremo mai trovare "la Verità" contenuta in un unico testo (o in un "circolo chiuso" di testi che s'influenzano a vicenda, senza compiere verifiche empiriche attendibili). Per capire se ciò che ci sta dicendo è credibile, attendibile, autentico, degno di fede, dobbiamo confrontare innanzitutto il testo con la realtà e, ancor più, con il senso della realtà che la nostra esperienza ci ha fatto maturare, senza barare con noi stessi, in cerca di (auto)illusioni. 

E poi, dobbiamo confrontare quel testo, quel libro (o quel "circolo chiuso"), con altri libri, soprattutto con quelli che sostengono tesi differenti, o che mettono in evidenza le possibili contraddizioni racchiuse nel "testo preferito".
Infatti, ritengo che i testi più attendibili - e più utili per la nostra maturazione - siano quelli che si limitano umilmente e dichiaratamente ad aggiungere un tassello alla conoscenza in un settore specifico del sapere umano - fondamentale, importante, magari: ma un tassello - e non certo quelli che ci dicono: "Tutto quello che avete letto finora (tutto quanto, badate, e non soltanto qualcosa), è immondizia, falsità... Finalmente arrivo io, e io soltanto, a dirvi la Verità! E con la V maiuscola...".
Meditate, gente, meditate...

Detto questo, vorrei aggiungere ancora qualche elemento di riflessione, e spezzo qui una lancia a favore non del complottismo (o dei suoi teorici più accaniti) ma delle persone comuni che in buona fede, per qualche loro esigenza intima o di protesta, si accostano con interesse alle tesi complottiste. E' un fenomeno che va analizzato e spiegato, questo, e non semplicemente messo alla berlina. Qual è il disagio, qual è il bisogno che spinge a credere in certe tesi incredibili? 
 
In effetti, questa nuova ondata di adesioni al "complottismo" ci induce a riflettere sui bisogni che sottintende; ossia, il bisogno di credere alle teorie complottiste nasce anche dal fatto che l'informazione e la trasparenza, in settori cruciali per la vita pubblica, sono "merci rare" attualmente. La prima infatti è drammaticamente carente, e la seconda spesso assente, sostituita dal "lasciateci lavorare" pronunciato con un certo "disprezzo del volgo" da parte degli "addetti ai lavori". 

Ad esempio, sulle regole e sui meccanismi di funzionamento dell'economia, e sugli strumenti che adopera nel settore finanziario, c'è pochissima chiarezza e trasparenza, e i mezzi di informazione quasi nulla dicono in proposito; e se lo fanno, si limitano a parlare spesso il gergo degli specialisti, il che di fatto tiene lontane dalla conoscenza dei meccanismi dell'economia le persone comuni, "non addette ai lavori".

Tutto questo può portare le persone a reagire a questa "coltre di nebbia" dando credito alle teorie complottiste nei riguardi delle banche, dei circuiti finanziari, dei governi, eccetera. Assodato che non siamo in presenza di un complotto "universale", insomma, ma semmai di decisioni inique prese alla luce del sole anche se non da tutti comprensibili (decisioni derivanti dall'adesione acritica all'ideologia "iper-liberista" e alla "finanziarizzazione" dell'economia), bisogna tuttavia dire che i settori sotto accusa (politici, esperti, "addetti ai lavori") non fanno molto per acquisire la fiducia dell'opinione pubblica, come se nel nostro tempo si potesse ancora accettare la teoria secondo la quale certe cose riguardanti l'alta politica e l'alta finanza sarebbero riservate solo ai pochi eletti "che capiscono".

Chi si vede schiacciato dagli attuali meccanismi del "liberismo" (perché lavoratore precario, o perché lavoratore licenziato con un mutuo da pagare, ecc.), e non scorge alcuna proposta economico-politica alternativa attorno a sé (per la già citata inerzia progettuale dei partiti e lo stato comatoso delle ideologie alternative al "liberismo"), può essere tentato di pensare che le critiche al "pensiero unico" dominante, provenienti da alcuni complottisti, siano fondate, e che di conseguenza, come queste, siano fondate anche le spiegazioni che il "complottismo" dà circa le cause del malessere sociale ed economico che tutti ci sta investendo e coinvolgendo, a vario titolo (in base al ragionamento, semplicistico ma comprensibile: "se è valida la critica di questa realtà, perché sulla mia pelle sento che è valida, dev'essere valida anche la teoria che viene proposta da chi quella critica ha formulato").

Inoltre, laddove gli spazi della democrazia (e della partecipazione) sembrano ridursi a vantaggio del "sapere illuminato dei tecnici", aumenta fra le persone l'idea che siamo parti di un ingranaggio che viene manovrato "altrove", in stanze "occulte", inaccessibili agli occhi dei comuni mortali. Se poi constatiamo che molte "verità ufficiali" della politica (mai così screditata!), specialmente di quella internazionale, sono ben poco "vere" nella sostanza (dov'erano le armi di distruzione di massa di Saddam?), il fascino esercitato dalle teorie complottiste cresce - e se fossero quotate in borsa, rischierebbero di guadagnare, al giorno d'oggi, anche quando tutti gli altri titoli perdono terreno. 


Testi citati:

- [Buonanno 2009]: E. Buonanno, Sarà vero. Falsi, sospetti e bufale che hanno fatto la storia, Einaudi, Torino.

- [Popper 1985]: K. Popper, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, Il Mulino, Bologna.




6 commenti:

  1. Risposte
    1. Ciao Elena! Riemergo da un periodo travagliato di preoccupazioni e riflessioni, ma anche di impegni che non mi hanno consentito di affacciarmi in maniera assidua sui blog.
      Ho seguito i blog altrui, anche il tuo come sempre (che trovo sempre più brillante :) ), ma non riuscivo a intervenire, in questo periodo. La crisi che c'è in giro non è solo politica o sociale, è la crisi di un modello, di un modo di pensare e di esprimersi, e ci induce a fermarci per qualche attimo a riprendere fiato (almeno per me è stato così). Se a questo si aggiungono le "crisi" personali, il quadro è completo :)
      Questo post l'avevo in archivio da tempo, ma ci ho messo un po' a rileggerlo e limarlo.

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  2. Ciao Ivaneuscar,
    è bello tornare a rileggerti in effetti. :-)
    Mi spiace per il tuo periodo travagliato e, credimi (non che sia "mal comune, mezzo gaudio"), ti posso comprendere bene.

    Io per natura sono sempre stata piuttosto scettica riguardo le svariate tesi complottiste e lo sono un po' per tutti i motivi che indichi tu. Credo che la realtà sia troppo complessa ed inintelligibile per poter essere "racchiusa" e compresa entro determinati schemi, inoltre ho sempre bene in mente la questione delle incognite, delle variabili, nel senso che qualsiasi complotto, specialmente poi se protratto nel tempo, non può reggere al caos degli eventi (intendo dire che ogni piccolo evento - imprevisto o previsto che sia - produce sempre effetti non immediatamente prevedibili; penso un po' alla teoria dell'effetto farfalla: la realtà, fatta di tanti soggetti, azioni ed imprevisti è immensa, complessa, ogni nostra azione ne produce altre, anche le più piccole, tutto è "collegato" e scollegato allo stesso tempo, comunque sia, impossibile da controllare).

    Le coincidenze, come scrivi tu, diventano tali perché le si nota (evidenziandole dal resto), ma magari non si nota tutto il resto che "non torna".
    Facciamo un esempio: ogni tanto ci capita di pensare ad una persona (o una parola) e quella ci telefona qualche attimo dopo (o, nel caso, della parola, apriamo un libro e la troviamo, usciamo di casa e la sentiamo nominare) e allora subito nella testa ci scatta un campanellino che ci fa dire: "oh, però, che coincidenza" e ci piace pensare che essa, la coincidenza, possa essere il presagio o il segno di qualcos'altro (come fosse una specie di epifania). In realtà è solo il nostro bisogno inconscio di evadere per un attimo dal quotidiano e di accedere ad una dimensione, per così dire, fantastica - ove le leggi del mondo naturale che conosciamo appaiono per un attimo diverse - che ci rende il tutto allettante di una spiegazione alternativa. E poi invece, quante altre volte abbiamo pensato a quella stessa persona senza che mai ci telefonasse l'attimo dopo?
    E' la mente che evidenzia le coincidenze, ma sono solo frutto di un caso, inteso come caos.

    Credo poi che - com'è successo nel caso dell'11 settembre - a volte le spiegazioni ufficiali siano state, come dire, fallaci e allora a quel punto è naturale che ci si voglia ingegnare a coprirle con altro.
    Ad esempio io ho sempre trovato poco veritiera la storia dell'attacco al pentagono perché le immagini viste davvero non dimostravano che lì dentro fosse entrato un aereo e perché non c'erano resti di alcun genere che potessero far pensare che lì ci si fosse realmente schiantato un aereo (la cosa strana è che non si è salvato nemmeno un pezzo di un sedile e però avrebbero trovato, intatto, il passaporto dei dirottatori); insomma, la versione ufficiale degli Stati Uniti (nel caso particolare del Pentagono dico) fa acqua da tutte le parti. Però da lì a credere poi ad un'a teoria complottista spiegata al dettaglio, ce ne passa.
    Personalmente mi arrendo e dico: "un altro caso irrisolto" - per motivi politici, di propaganda bellica o altro - come è stato per Ustica o altri. Insomma, ci sono effettivamente casi singoli nella Storia la cui versione ufficiale non regge, in tal caso si prestano particolarmente a venire elaborati e spiegati con le più svariate teorie.
    Forse ogni tanto, nel caso del singolo evento, qualcuno ci azzecca pure. :-)

    La cosa curiosa di chi crede ciecamente ai complotti è che poi, come dici anche tu, ogni cosa si presta ad essere letta ed interpretata in tal senso, anche forzandola (come quando si tenta ad ogni costo di far combaciare due pezzi di un puzzle pur di ottenere un disegno); mi ricorda un po' quel tuo racconto dal titolo "Un incontro incancellabile", dove il protagonista si fissa con la storia che la moglie... (vabbè, non sveliamo la storia). :-D

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    1. Ciao Biancaneve, grazie per essere passata di qui... mi fa piacere che ci troviamo ancora una volta d'accordo :)
      Sulla questione delle "coincidenze" - che spesso sono solo una nostra costruzione mentale, perché nascono dal nostro desiderio di trovarle a tutti i costi, dentro il "groviglio" della realtà (groviglio che a volte ci spaventa come tale) - dici benissimo. Scrivi tra l'altro: "(...) E poi invece, quante altre volte abbiamo pensato a quella stessa persona senza che mai ci telefonasse l'attimo dopo?
      E' la mente che evidenzia le coincidenze, ma sono solo frutto di un caso, inteso come caos."
      Ed è esattamente quello che intendevo dire. Se *vogliamo* credere o far credere che il mondo e la realtà siano solo un "tessuto di coincidenze", siamo costretti a ignorare le innumerevoli volte in cui quelle coincidenze si sono rivelati inesistenti, nella nostra esperienza. A volte bariamo semplicemente con noi stessi, per volerci autoilludere; altre volte puntiamo invece (se siamo inclini al sensazionalismo, complottista o non) a barare con chi ci ascolta o ci legge (che il nostro uditorio sia costituito da un circolo di amici che vogliamo "stupire" a cena, oppure - più in grande - dai visitatori di un sito Web o dai lettori di un libro, poco cambia).
      Concordo sostanzialmente anche sulla questione dei "casi irrisolti". Anche senza dovere scomodare i misteri degli USA, pure nel nostro "piccolo" in Italia abbiamo molte questioni irrisolte, dall'uccisione di Salvatore Giuliano alle varie stragi degli anni Settanta-Ottanta del secolo appena passato (e giustamente tu citi Ustica).
      Prescindendo comunque dai singoli casi (sui quali sarebbe necessario, per non scrivere "strafalcioni", entrare nel merito), e parlando quindi in termini generali, non si può negare un fatto: non sempre le indagini giudiziarie riescono a stabilire *la verità*, per motivi vari e assortiti, e talvolta anche nonostante la buona volontà di investigatori, inquirenti e magistrati. E soprattutto, non sempre le "verità ufficiali" raccontate da chi di competenza (organismi politico-istituzionali, organi di stampa "accreditati", ecc.) corrispondono alla *verità* effettiva. A volte sono motivazioni diplomatiche, o militari, o ragioni di "convenienza politica" o anche - nei casi più torbidi - connivenze inconfessabili, a determinare questa divergenza "incresciosa" fra verità "effettiva" e verità "ufficiale".
      Però, come anche tu fai notare, tra il rilevare il dettaglio che non quadra nella "verità ufficiale" e il pretendere di imbastire una spiegazione alternativa completa ed esauriente sulla base di pochi elementi incerti, sparsi e confusi, c'è una bella differenza. E molto spesso, anche un bello sfoggio di fantasia "romanzesca" (specie laddove i singoli elementi che non quadrano vengono fatti forzatamente confluire nella solita narrazione del complotto universale plurisecolare...).

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    2. [Continua] Anch'io, dove ho un dubbio, preferisco fermarmi a questo e mi dico: "qualcosa non quadra", o come dici tu: "un altro caso irrisolto". Anche perché, se a volte la verità "ufficiale" non è quella "effettiva", nessuno ci garantisce comunque che la nostra ricostruzione "alternativa" non sia inattendibile quanto quella "ufficiale". L'alternativa a una bugia o a una verità parziale non è necessariamente *la verità*, ma può essere invece un'altra verità parziale o incompleta o addirittura una bugia "alternativa".
      Detta altrimenti: quando la scienza - che deve basarsi sempre essenzialmente sull'esercizio del dubbio e della cautela "metodologica" - sbaglia, e formula ipotesi o spiegazioni incomplete, inefficaci o insoddisfacenti su qualche questione "aperta", non per questo ha ragione chi avversa la scienza e nelle proprie asserzioni si basa sulle certezze dogmatiche - che so? - dell'alchimia o della magia.
      In realtà, in questo caso sbagliano entrambi: tanto lo scienziato che ha formulato un'ipotesi errata quanto l'alchimista (nel desumere arbitrariamente da un singolo errore della scienza la propria indimostrata "ragione assoluta"); la differenza però è che lo scienziato ha gli strumenti - il dubbio metodologico - per riconoscere il proprio errore e porvi rimedio, mentre l'alchimista o il mago rimarranno legati graniticamente alle proprie certezze dogmatiche e quindi ai propri errori di dottrina e di metodo.
      Ovviamente, se parliamo dell'applicazione "aggressiva" di certe scienze alla nostra vita quotidiana, apriamo un altro capitolo controverso, ma si tratta di un altro discorso, che riguarda più l'avidità umana e il desiderio di dominio del mondo (che era però proprio anche degli alchimisti e dei "maghi") che non la conoscenza pura - e la ricerca della verità nell'analisi dei fenomeni della realtà, che era ciò di cui qui parlavo.

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    3. Ulteriore precisazione, a scanso di fraintendimenti: nel paragone fra "scienziato" e "alchimista", il primo non rappresenta gli organismi istituzionali che camuffano o abbelliscono la verità nel fornire le loro "spiegazioni ufficiali"; lo "scienziato", nel parallelo da me abbozzato, rappresenta semmai la persona comune che si pone alcuni dubbi sulle "versioni ufficiali" (pur rifiutando di rimediare ai dubbi con ricostruzioni "romanzesche" - rimedio peggiore del male) oppure rappresenta l'investigatore che con buona intenzione e in buona fede cerca di capire la verità dei fatti e per questioni indipendenti dalla propria volontà non ci riesce.

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