Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

sabato 18 giugno 2011

Combattiamo le ingiustizie, ma non esageriamo coi "soggetti messianici"

Spesso in passato, ma anche attualmente, si è fatta e si fa una certa confusione fra il ruolo sociale che un determinato soggetto ha (e le ingiustizie e discriminazioni che subisce a causa di quel ruolo) - o la sua identità di genere, etnica, ecc. - e le qualità personali del soggetto stesso.
Da questa confusione derivano conseguenze notevoli, nelle teorie, nei discorsi, nelle concezioni personali di ciascuno e soprattutto nel comportamento quotidiano; ma derivano anche fraintendimenti, illusioni e abbagli (ma talvolta anche mistificazioni) che possono purtroppo riflettersi negativamente sull'applicabilità e la "praticabilità" delle teorie stesse - anche delle più valide e condivisibili.



La questione si può chiarire soltanto con qualche esempio. Eccone uno: se accettiamo (sia dal punto di vista marxista che dal punto di vista socialdemocratico) l'idea che l'emancipazione dell'operaio è una battaglia importante, prioritaria e strettamente connessa al miglioramento della società e alla lotta contro privilegi e ingiustizie, non ne consegue, solo per questo fatto, che il singolo operaio (ogni singolo operaio) sarà necessariamente una creatura dotata di virtù messianiche particolari. Il singolo, come tale, operaio o non, rimane una persona concreta, in carne ed ossa, che non ha solo pregi, ma anche i suoi umani limiti e difetti.

Non parlo di ipotesi astratte, ma di equivoci reali, empiricamente constatati. Ricordo infatti anni fa un vecchio marxista che se si trovava in presenza di operai, li trattava quasi come esseri eterei, divini, disincarnati, scesi in terra a portare la redenzione. Ed era incapace perciò di ammettere che, in quanto esseri umani, avessero anche umane pecche e difetti (il che, tra l'altro, lo portava a sviste clamorose nel giudicarne l'affidabilità e i comportamenti). Idealizzava insomma in senso estremo la figura dell'Operaio.

Credo però che questo equivoco derivasse (in lui e in altri) da una lettura superficiale dei testi di Marx. Un conto è ciò che grazie alla sua presa di coscienza l'operaio (non come singolo, ma insieme ai suoi compagni) può fare per liberare la propria classe e la società, e un altro conto è la dimensione soggettiva dell'operaio in quanto "puro umano" dotato come tutti di istinti, astuzie, arguzie, strategie di sopravvivenza, abitudini acquisite, lessico familiare, ecc..

Una dimensione non annulla l'altra: ovvero, se un determinato operaio ha ad es. il vizio del gioco, o tradisce la moglie, o un amico, ciò non lo rende "indegno" rispetto al suo compito di emancipazione, né tantomeno può mettere in pericolo la "credibilità della classe operaia": solo una visione "moralistica" e fuorviante, o al limite deamicisiana, del marxismo o del socialismo (come quella del vecchio marxista ricordato sopra) può confondere questi due piani.

Altrimenti, confondendoli, dovremmo arrivare a dire: a) o che l'Operaio, in quanto tale, non ha difetti, ma solo pregi (e ci trasferiremmo sul piano dell'irreale: ma, come tutte le teorie che negano l'evidenza empirica, sarebbe una teoria fallace e inservibile); b) oppure che soltanto un ipotetico Operaio puro, senza macchia, privo di qualsiasi debolezza terrena e di qualsiasi difetto, è degno di liberarsi dalle catene che la società gli impone, e di condurre perciò la lotta per la propria emancipazione, per la giustizia sociale, ecc. (con la subdola conseguenza "reazionaria" che, siccome un tale operaio non esiste, egli, né come singolo né come categoria, ha diritto di "liberarsi").

Entrambe le conclusioni, benché differenti, a mio parere sono inaccettabili e anzi prive di senso - proprio perché la premessa da cui partono (comune a entrambe) è sbagliata. E oltretutto rischia di rappresentare una giustificazione paternalistica della dittatura: infatti, se in quel ragionamento al posto dell'operaio mettiamo l'intera popolazione di uno Stato, l'imperfezione morale dei cittadini finisce per diventare il fondamento giustificativo del potere assoluto di un qualsiasi oppressore/dittatore (il quale a sua volta, avvalendosi del proprio potere, negherà - occultandole quando opportuno, ad es. - o "santificherà" le proprie imperfette e discutibili caratteristiche, tendenze, ossessioni, idee fisse, ecc., facendone l'archetipo della norma, e sottraendole a qualsiasi critica).

Per capire come e in che misura questo modo di ragionare sia contagioso e rischi di auto-riprodursi, è importante prestare ascolto alla critica mossa dal femminismo degli anni '70 del Novecento, quando accusava l'operaio medio di essere "come gli altri", in quanto in fabbrica chiedeva la liberazione per sé dal padrone, ma poi, tornato a casa, si comportava a sua volta da despota e padrone con la sua compagna, rivalando così le proprie "contraddizioni". Il vero soggetto da liberare era dunque la donna, perché subiva l'oppressione da parte di tutti gli altri, non solo sul lavoro, ma anche fra le mura domestiche.

Il femminismo, quindi, da un lato metteva in crisi proprio la fuorviante immagine idealizzata e messianica dell'Operaio, sottolineandone il carattere di vuota astrazione, e chiedeva perciò di rimettere quell'immagine "coi piedi per terra", per così dire; dall'altro lato, però, così facendo, e cioè chiedendo di rendere "politico" il privato, rischiava di assegnare a un altro soggetto, la Donna, le stesse funzioni messianiche astratte che sottraeva all'Operaio, ribadendo lo stesso errore di fondo.

Per la donna (o per qualsiasi categoria di esseri umani che ha subìto o subisce ingiustizie, discriminazioni, ecc.) si può infatti ripetere lo stesso discorso fatto sopra riguardo all'operaio: la donna, in quanto soggetto che ha subìto e subisce oppressione, discriminazione e ingiustizie in un certo modello di società, esige a buon diritto di spezzare le proprie ingiuste "catene"; ma ciò non significa che la singola donna, in quanto essere concreto e individuato, sia esente da umani limiti, difetti, capacità di nuocere ingiustamente, responsabilità personali, ecc..

E insomma, ragionando in senso inverso, non perché la Donna è buona, giusta e perfetta, ha diritto di liberarsi dalle sue catene, ma perché è ingiusta l'oppressione che le donne subiscono, tutte e ciascuna - a prescindere dalle qualità personali delle singole donne (e quindi, se qualche singola donna commette atti atroci, e perfino barbari omicidi, non per questo delegittima la causa della pari dignità fra donne e uomini e le ragioni della liberazione delle donne).

Altrimenti rischiamo di alimentare l'insidioso corollario secondo il quale solo le donne buone (buone secondo chi e secondo quale parametro, deciso da chi?) avrebbero il diritto di "liberarsi" e di ottenere pari diritti e dignità, ecc..

Il circuito della strumentalizzazione-confusione continua comunque potenzialmente all'infinito: e infatti su certi siti Web del revanscismo maschilista si adotta (in maniera strategica e capziosa) la stessa confusione fra piani distinti per avvalorare, attraverso l'accumulo di testimonianze riguardanti singoli casi di comportamenti incivili, crudeli e/o criminali di donne, l'idea che la battaglia delle donne (nel loro insieme, come genere) per l'emancipazione, la "parità", e contro la violenza maschile sia ingiusta e ingiustificabile. Il concetto che si vorrebbe lì far passare sarebbe questo: se le donne sono "come gli altri" (cioè come gli uomini), non hanno diritto di pretendere un trattamento di favore da parte della legislazione; il peso sociale, secolare, che la violenza maschile ha esercitato sulle donne viene così minimizzato, proprio perché - secondo quella tesi revanscista - "tutto è uguale" e "tutti sono uguali", magari anche nella capacità di fare il male [vedere il mio post su questo tema].
E invece, una volta di più, conta il peso delle distinzioni, e bisogna saperle leggere e sottolineare adeguatamente. Ma questo si può fare solo a patto che si rinunci una buona volta a confondere la giustizia sociale, l'emancipazione e la liberazione con l'attribuzione di valenze "salvifico-messianiche" a determinate categorie di persone, sottoposte perciò a un problematico processo di "beatificazione laica".


Tutto ciò vuole anche dire che - una volta che le donne, gli operai, le etnie oppresse, ecc., finalmente non saranno più discriminate/i, oppresse/i, denigrate/i e svalutate/i attraverso logiche loro imposte dai gruppi dominanti (i "maschi", i "padroni", i "bianchi", ecc.) - la società sarà certamente più giusta, ma non sarà, per questo solo fatto, libera da ogni "contraddizione" e da ogni "male". Anche nel giorno della "liberazione totale e generale", insomma (se così possiamo chiamarlo), non diventeremo automaticamente e per sempre "tutti buoni" e incapaci, come singoli, di commettere azioni indegne e/o atroci: altrimenti il mondo che l'umanità vive e si costruisce sarebbe il Paese dei Balocchi - e fino a prova contraria, non mi pare che sia così.

(Se poi qualcuno può fornire qualche solida prova che dimostri finalmente il contrario, ben venga!)


Ma attenzione: questa constatazione non sottovaluta né svaluta la necessità di combattere le ingiustizie, anzi la rende più evidente, liberandola da alcune insidie concettuali.

Dobbiamo avere il coraggio di dire chiaramente: l'oppressione (e i suoi corollari, sopraffazione, discriminazione, sfruttamento, ecc.), con tutte le retoriche che l'accompagnano come "scorta giustificativa", è inammissibile e da rifiutare in quanto tale, a prescindere dalle qualità morali e personali dei singoli soggetti che quell'oppressione subiscono.

In sostanza: I difetti riscontrabili nel comportamento dei singoli oppressi (difetti la cui esistenza non si può negare a priori attraverso fuorvianti processi di "idealizzazione messianica") non possono essere comunque utilizzati come alibi per giustificare il gigantesco, macroscopico, intollerabile "difetto" costituito dall'esistenza stessa dell'oppressione, di una qualsiasi forma di oppressione.

13 commenti:

  1. Bellissimo articolo! Ben scritto e chiaro.

    Mi viene in mente quest'altro calzante esempio che, da antispecista quale sono, propongo: "è giusto che gli esseri umani mangino gli animali in quanto anche loro si mangiano tra di loro".

    Infatti nessuno ha mai detto che gli animali abbiano un'etica migliore della nostra, e quindi non si ha pretesa di idolatrarli facendone delle "creature superiori e prive di difetti" (tralasciando per un momento il vero nocciolo della questione: ossia che comunque loro uccidono solo ed unicamente per necessità, come la loro natura gli impone, mentre gli esseri umani sono perfettamente in grado di scegliere di fare altrimenti), ma, pretendere di sfruttarli e sterminarli solo perché "tanto si uccidono anche tra di loro" è quanto mai una squallida scusa per legittimare l'oppressione e lo sfruttamento di una specie che comunque continua ad essere ritenuta inferiore anziché, semplicemente, diversa. Anzi, spesso gli animali nemmeno vengono considerati come "specie vivente" ma solo come oggetti.
    Purtroppo l'atteggiamento da te evidenziato è molto diffuso, ossia giustificare le forme di oppressione, discriminazione ecc., prendendo ad esempio i comportamenti non sempre eccepibili dei singoli componenti un gruppo.

    I movimenti femministi comunque, almeno inizialmente, sono stati anche accostati alle forme di rivendicazione dei diritti sul lavoro di tutti, compresi quelli degli uomini, e quindi presi come esempio di lotta di classe tout court.
    O meglio, erano rivendicazioni mirate a cambiare tutto il tessuto sociale, per cui il processo di emancipazione femminile era congiunto a quello della lotta di classe.
    Oggi invece il termine "femminismo" ha acquisito un significato più specifico, più indirizzato ad evidenziare e combattere le forme di maschilismo e discriminazione che - anche se velate e tacitamente accettate - sopravvivono ancora.

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  2. Condivido. Anche la tua riflessione sullo sfruttamento degli animali, alla quale non avevo pensato, può rientrare in effetti nello schema che indicavo.
    Quanto al femminismo, lo ritengo una corrente importantissima del pensiero contemporaneo; e anzi, esso ha assunto ormai una dimensione e un'articolazione complesse, divenendo un vero e proprio pensiero "plurale" delle donne, cosicché il termine femminismo si riferisce ormai soprattutto a una fase storica ben determinata del pensiero delle donne - ma non tutti lo sanno, e spesso vedo usato quel termine in senso improprio, oltre che superficialmente spregiativo, da parte di chi non ne conosce la storia e il significato. E si tratta in molti casi anche di donne!

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  3. E' vero.
    Purtroppo oggi sono le stesse donne (alcune, non tutte, specialmente quelle che appunto ignorano l'origine storica e sociale di tali lotte) a considerare il termine "femminismo" in maniera spregiativa.
    Io a queste donne - se avessi una macchina del tempo - le farei tornare per qualche ora (credo che qualche ora sia già più che sufficiente) a vivere in determinati periodi storici. ;-)

    Ovviamente l'equivoco nasce quando si pensa, erroneamente, che tale termine suggerisca l'idea che le donne vogliano detenere il potere sugli uomini o sulla società, mentre si tratta soltanto di abbattere le discriminazioni, un certa cultura (molto triste) di chiara matrice maschilista, e anche tanti falsi miti che si sono creati, purtroppo, anche a causa di tanta letteratura scadente (ma anche buona) o della cultura di massa quale un certo cinema o la televisione (mi viene da pensare ai noir anni '40, per cui la donna buona, angelica ecc. era sempre bionda, mentre la femme fatale, volitiva, spesso opportunista ecc., era mora. E al modo di illuminare le donne: luce bianca e soffusa per le bionde, a suggerire un'idea di persona eterea, quasi sublimata nella propria fisicità, luce più scura per le more, a rendere lo sguardo torvo, inquieto, pieno di turbamenti, e sappiamo bene quanto le icone, le immagini, abbiano il potere di agire anche a livello inconscio).
    Penso poi alla dicotomia, tutta letteraria anch'essa, tra donne sante, dedite al focolare, e "donnacce di facili costumi".
    Penso allo stereotipo della donna (ancora bionda!) stupida ed oca, di contro all'intellettuale intelligente, ma meno avvenente.
    Insomma, tutti atteggiamenti che le lotte dei movimenti femminili (anche in letteratura) hanno cercato di evidenziare, contrastare e demolire.
    Perdona la didascalia di queste riflessioni (ci sarebbe da approfondire moltissimo), ma sono un po' stanca ;-).

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  4. Altro che stanca, mi sembra invece che sottolinei questioni importanti :-)
    Gli stereotipi si nascondono a volte in luoghi e angoli della realtà, dell'arte, ecc., nei quali noi non pensavamo di trovarli, finché qualcuno non li ha smascherati.
    E ancora oggi, se vediamo un film "old style", basato per es. sul cliché della donna fatale, se è diretto, fotografato e recitato con maestria, rischiamo di farci "catturare" da quella rappresentazione delle cose.

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  5. errata corrige:
    si vedeva eccome che sono stanca ;-)
    Infatti ho commesso un errore:
    "quasi sublimata nella propria fisicità", volendo ovviamente intendere esattamente il contrario, ossia: "quasi sublimata nella propria essenza spirituale".

    Io sono troppo impulsiva, scrivo in fretta e non ho pazienza di rileggermi. Mi sono accorta che anche nel mio post c'erano diverse imprecisioni. Detesto la sciatteria nello scrivere e - per quanto mi è possibile - faccio il possibile per evitarla ;-)

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  6. ...ciao Ivan, ti chiamo così perchè non conosco il tuo nome, grazie per essere passato dal mio blog, io ricambiando la visita ho trovato una bit/persona veramente interessante, ho perso un po' di tempo a leggere il tuo dettagliato profilo ed il post messianico ma ne è valsa la pena.
    Io sono stata schiava degli archetipi perchè purtroppo la società ne è intrisa e la storia che va avanti solo coi personaggi o movimenti "archetipizzati" non è un aiuto per niente...ora sono un po' più libera ma meno giovane, sarebbe bello che la sospirata libertà di pensiero arrivasse nella vita da giovani e togliesse lo stereotipo... ciao Ivan.

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  7. @teoderica: Ti ringrazio per le tue parole di stima (e non hai sbagliato nome, il mio nick è abbastanza "trasparente"...).
    E' vero, gli "archetipi" sono semplificazioni della realtà; e quando si "semplifica" troppo, le spiegazioni che si costruiscono intorno a quelle semplificazioni sono sempre discutibili o incomplete, e talvolta rischiano di creare illusioni eccessive, che poi è difficile ripulire dalle "scorie" di luoghi comuni e retoriche. Il fatto è che i punti di riferimento ideali aiutano a muoversi tra le cose, bisogna solo non farne degli idoli collocati in una realtà "fuori della realtà".
    Poi penso che l'esperienza inevitabilmente smussi gli angoli di certe ingenuità giovanili; certamente anch'io anni fa ero più attratto dai ragionamenti "bianco o nero"; poi ho imparato che le sfumature di colore sono tante, ed è un fatto che - comunque la si pensi - non si può negare.

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  8. salve ivan, sei passato dagli orti, benvenuto.
    ho dato un'occhiata al blog, i tuoi post sono molto tosti e meritano concentrazione. comunque per quanto riguarda la categoria dell'operaio (nell'accezione marxista di addetto nell'industria in senso stretto) nella nostra società si sta progressivamente riducendo: circa 4 milioni e mezzo nel 2010, dati istat. componente importantissima, che contribuisce al 20 % del valore aggiunto italiano, ma la società italiana è sempre più lontana da come avrebbe potuto immaginarla un marxista di un secolo fa. pensa che le regioni relativamente più operaie oggi sono le marche e il veneto, un secolo fa invece era il triangolo del nord ovest. il discorso è coplesso. stiamo assistendo ad una nuova divisione sociale, in cui gli outsider (giovani, precari, immigrati) sembra che vivano la loro condizione in una consapevolezza passiva (in italia gli indignati non hanno preso campo)e anche le ultime parvenze di partecipazione sono importanti ma sono state tali solo a causa di fukushima... vabbé, ho parlato già abbastanza.
    comunque in questi giorni sto leggendo cose che hanno molto a che fare con il tuo post:lo strano triagolo amoroso e militante costa-kuliscioff-turati; i moti anarchici di lunigiana del 1894;la storia italiana del grandissimo croce, che proprio in quegli anni criticò le tesi marxiste (con gli elogi di sorel e bernstein..)
    stay free

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  9. @eustaki: grazie, è un blog di contenuti anche il tuo.
    La progressiva "scomparsa dell'operaio" è un fenomeno sul quale forse si deve ancora riflettere, perché secondo me non se ne sono comprese ancora bene tutte le implicazioni.
    Non potendo addentrarmi qui in un'analisi che richiederebbe molto più spazio, mi esprimo solo per flash: la "scomparsa dell'operaio" è frutto forse della voglia di riscatto delle generazioni precedenti; lo sfruttamento al quale i lavoratori manuali erano sottoposti, ha fatto sì che loro spingessero figli e discendenti a "qualificarsi" per sfuggire alla condizione di "inchiodati alla catena (di montaggio)". Il senso del "lavoro operaio" è stato messo in discussione dai suoi stessi protagonisti, in un certo senso.
    Al tempo stesso, però, anche il sistema produttivo è cambiato - soprattutto come organizzazione - e ha puntato alla marginalizzazione del (residuo) ruolo dell'operaio - anche per le caratteristiche "politiche" e dirompenti che questo aveva.
    Oggi però, secondo me, c'è nella società, per tutte queste e per altre ragioni ancora, una carenza di "saper fare", intesa proprio come capacità di svolgere i cosiddetti "lavori manuali" o anche artigianali, e questa carenza si riflette anche sulle capacità di sviluppo della società stessa. Cosicché gli immigrati, pur demonizzati e bistrattati, verranno sempre più a riempire questi vuoti e a darsi opportunità. (Non penso che i "servizi" o terziario possano rimpiazzare in toto i settori produttivi "duri", e cioè il "saper fare" di cui sopra: temo sia un'illusione che può abbagliare economisti e tecnocrati nel breve periodo: ma poi la scontiamo).
    Quanto alla partecipazione, pian piano da qualche anno sta prendendo piede; il numero di persone interessate a discutere in prima persona e a impegnarsi non è certo grande, ma qualche anno fa rasentava lo zero: ed è comunque un passo avanti. Interessanti le tue letture...

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  10. Interessante! La tua disamina adombra un'antichissima questione, se cioè gli uomini (e le donne), una volta diventati membri di una società che ha necessariamente delle classi e delle stratificazioni, vadano giudicati come individui o come appartenenti a categorie. La dottrina liberale sostiene che le responsabilità e i diritti sono sempre individuali: vale in campo penale, politico, dovunque. Però è una dottrina piuttosto astratta, basata sul presupposto che ognuno di noi abbia in effetti la possibilità di comportarsi da individuo, non condizionato dalle sue caratteristiche di razza, sesso, religione e così via. La dottrina marxista, nella sua visione in bianco e nero, si pone all'estremo opposto: divisa la società in "buoni" (gli operai) e "cattivi" (tutti gli altri), essa giustifica non solo tutte le malefatte dei "buoni" ma anche quelle commesse in loro nome. La società di oggi, alquanto paranoica su tutti i temi dei diritti e delle differenze, sembra avviata a una parcellizzazione della legge che si adatta al soggetto in esame. Partendo da una concezione dei diritti come risarcimenti (le "quote rosa" in Italia, le speciali attenzioni alle minoranze etniche nelle università americane...), essa è giunta ad esiti paradossali dal punto di vista dello spirito giuridico e politico moderno: per esempio, i cittadini inglesi di religione musulmana tendono a essere giudicati dai tribunali di Sua Maestà secondo la legge islamica (una specie estrema di ius sanguinis?). Questa distorsione ideologica del diritto sembra procedere proprio dalle "idealizzazioni messianiche" di cui parli tu. Ma paradossalmente, riporta in un certo senso in auge un concetto puramente medievale, quello cioè che ognuno dev'essere giudicato dai "suoi pari". Un saluto

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  11. @Yanez: Penso che oggi ci si debba impegnare a ripensare le categorie con le quali siamo stati abituati a leggere e interpretare i fenomeni sociali e politici, fino a ieri.
    Ripetere stancamente le "certezze" che ci offrivano il liberalismo o il marxismo, o altre autorevoli chiavi di lettura, non può più soddisfarci; soprattutto perché siamo costretti a prendere atto di determinati, palesi limiti che certi modi di pensare (che pure possiamo condividere nel loro nucleo "duro") hanno dimostrato di avere alla prova dei fatti. E dobbiamo capire come porre rimedio allo "scarto" fra teorie che sulla carta si rivelano illuminanti, e pratiche, che pur ricavate da quelle stesse teorie, dovendo fare i conti col "fattore umano" e il suo ineliminabile lato "irrazionale" e "famelico" (non c'è spazio qui per affrontare adeguatamente questo tema, mi limito perciò a un abbozzo), producono o addirittura moltiplicano sperequazioni, ingiustizie, privilegi, ecc. - benché le teorie di partenza si proponessero di sradicarli.
    Non si può insomma, a mio parere, far finta che l'esperienza non ci abbia nel frattempo mostrato certi "difetti", magari anche solo d'ingenuità, nell'impostazione originaria di tesi e teorie "classiche". Debbono prenderne atto tanto i liberali quanto i marxisti, ma anche i conservatori "puri", ecc.; e così anch'io, che volentieri leggo Marx, non ritengo opportuno ripetere passivamente i "gerghi" marxisti di 50 o 40 anni fa, perché oggi così facendo si rischia di dar luogo a un'operazione puramente "estetica", se non ci si misura seriamente con tutto ciò che nel frattempo è avvenuto nel mondo. E poi non sono un "nostalgico", non riesco a tenere la testa costantemente voltata all'indietro; mi interessano le questioni del presente, i dubbi e i dilemmi "inediti" che sollevano, anche le loro "macerie", perché quelle abbiamo davanti.
    Sul rischio attuale del riproporsi di una certa idea corporativa di stampo medievale dei rapporti sociali e politici sono d'accordo, ne vedo i segni un po' ovunque (in Italia ad es. nel proliferare in ogni schieramento di vari "partiti del Capo", costruiti più sulla fedeltà al proprio "signore", appunto, che su una qualche idea di bene comune).

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  12. Vero, le dottrine del XX secolo appaiono oggi più remote di quelle dell'impero del XIII o del nascente assolutismo del XVI. Come conservatore "puro" (adotto volentieri la definizione che tu usi in senso limitativo) ne traggo soddisfazione: è dimostrato a sufficienza che buona parte di quel che si è preteso di scoprire dopo la rivoluzione francese era, come dire, letteratura. Gli arcaismi del mondo contemporaneo, che ritengo destinati a crescere, ci permettono forse di formulare ipotesi verosimili sul futuro conoscendo il passato, ma dovrebbero dissuadere i "teorici" dal formulare i loro grandiosi affreschi sull'inevitabile sorte dell'umanità, la fola nota col nome di "progresso". Ma, poiché non si può fare a meno di mescolare la scienza e il desiderio, le utopie rinascono in forme più irrazionali: "messianiche", dici giustamente tu. Certi si aspettano la redenzione da un singolo capo, altri da un "capo collettivo" (vedi l'enfasi posta sui "popoli giovani" o sulle "giovani generazioni"). Un mondo primitivo, ancorché sofisticato...

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  13. Il "progresso" è infatti un'idealizzazione; da secoli la conoscenza fa sforzi enormi per aggiungere sempre nuovi tasselli al proprio mosaico, ma è ancora poca cosa. Soprattutto, non si può parlare di un "progresso", ossia del cammino di un soggetto (quale? l'Umanità? lo Spirito?) sicuro di sé verso il "meglio" e il "più". E' un procedere a zig-zag, fra tentativi, fallimenti, ostinazioni... E poi, si potrà forse cominciare a parlare correttamente di "progresso", nel senso enfatico e ambizioso dei secoli XIX-XX, quando tutti i popoli potranno in egual misura registrare miglioramenti nelle loro condizioni di vita. Situazione che oggi può servire solo da trama per un romanzo di fanta-futuro.
    Sul conservatorismo "puro" in realtà ci siamo capiti, ma spiego per gli altri: voleva essere una definizione sintetica per marcare una distinzione rispetto al liberalismo, giacché nel parlare comune o giornalistico, o anche politico-pratico, oggi si confondono spesso liberalismo e conservatorismo. E se è vero che il liberalismo al suo interno si può distinguere in "conservatore", "progressista", "cattolico", ecc., il pensiero conservatore propriamente detto ha una matrice "controrivoluzionaria", e quindi liberale non è.
    A mio parere, il fatto è che la storia del pensiero politico è una disciplina importante, che andrebbe studiata nelle scuole, almeno nelle medie superiori; sarebbe importante far leggere i classici del pensiero politico, da Machiavelli a Sieyès, da J. de Maistre a Tocqueville (sono solo alcuni esempi), e farli discutere agli studenti. Anche per capire la ricchezza del dibattito, delle distinzioni, dei problemi in gioco, e per far comprendere che alcune questioni ce le portiamo dietro da secoli: altro che modernità!
    Ma forse c'è un problema ancor più grande: la politica "pratica" oggi ha smarrito qualsiasi memoria del pensiero politico (di un pensiero politico qualsiasi), e presume perfino di non averne più bisogno. Non c'è errore più devastante... e gli effetti che produce sono fin troppo evidenti.

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