Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

martedì 2 agosto 2011

"Militanza" oppure "milizia": a proposito di politica e idee

Oggi si afferma e si ripete che la militanza politica è in crisi. Se questo è vero, è forse opportuno cercare di individuare le cause di questa crisi, dal momento che senza "militanti" veri, provenienti dai vari settori e strati della società, la politica si riduce sempre più ad un affare "da laboratorio", o anche da salotto, e comunque si concentra sempre più nel vertice degli "addetti ai lavori", semplificando in apparenza il linguaggio della comunicazione, ma non perché la politica si sia semplificata e si sia "avvicinata al cittadino"; nossignori, questa è pura retorica: il linguaggio politico si banalizza in realtà per venire incontro "alle ridotte capacità" di comprensione (rubo la battuta a Luttazzi...) dell'uditorio ormai "depoliticizzato", per suggerirgli che "stiamo lavorando per voi" facendo al tempo stesso di tutto però perché l'uditorio si contenti di quelle "ridotte capacità" e si tenga ben lontano da "quella cosa sporca" che è la politica. Trucco entro certi limiti ben riuscito, indubbiamente; almeno finché qualche evento eclatante non fa scoprire di colpo che non stanno affatto "lavorando per noi", lassù nel laboratorio chiuso della politica.


La militanza è dunque un'energia indispensabile alla politica, perlomeno negli ordinamenti democratici. Tuttavia non è una "fanciulla innocente", e qualche cautela va presa nel considerarla e nel "maneggiarla". E ritengo che si debba stare sempre attenti affinché la militanza non si trasformi impercettibilmente in milizia. Cosa intendo dire?

Forse è più utile esprimere questi concetti con una specie di racconto, e quindi potremmo procedere così: facciamo conto di avere a disposizione tre personaggi, che chiamiamo Ivan, Igor e Boris

Ivan (si fa per dire) è la guida indiscussa della rivoluzione, un leader carismatico che dopo una lunga ascesa ormai è in grado di manovrare le leve del potere politico; Igor è un suo compagno di partito, un militante di vecchia data, un idealista lontano dal potere vero e proprio; Boris è invece decisamente un avversario politico, uno che contrasta il partito al potere.
Ivan utilizza inizialmente tutti gli strali di cui la sua eloquenza dispone per attaccare Boris, residuo del passato e "nemico del popolo" oltre che della rivoluzione; riesce a dimostrare che in Boris e nei suoi seguaci si concentrano tutte le caratteristiche del Male che deve essere combattuto senza tregua per far trionfare i princìpi della giustizia, della rivoluzione e del progresso. L'eloquenza di Ivan, unita al suo atteggiamento deciso e implacabile e alla forza dell'evidenza, spazza via ogni perplessità dalla testa dei dubbiosi, cosicché Boris e il suo partito vengono bollati come il Negativo.


Ivan però, dopo questa vittoria politica, che è solo l'ultima di una serie di analoghe vittorie (grazie alle quali ora è il Leader), continua ad agire secondo l'abitudine che ha ormai acquisito, ovvero parla sempre con punti esclamativi, con tono assertivo, non tollera obiezioni - lui che ha smascherato tutti i complotti e ha messo in un angolo il pericoloso Boris! - e identifica la propria volontà con la Verità. 

C'è qualcuno che da qualche tempo lo contraddice pacatamente, con ragionamenti non superficiali, ed è Igor, proprio il valoroso militante che si è speso senza risparmio per aiutarlo a sconfiggere Boris. Bene, poiché Igor contrasta la Volontà di Ivanesattamente come faceva Boris - questo è il ragionamento del Leader - in lui ci dev'essere qualcosa di quel Negativo che c'era in Boris. Anzi non c'è dubbio che sia così - Ivan ne è sempre più convinto man mano che ci riflette. 
"Se io che ho sconfitto Boris sono la Verità e la Giustizia, chi mi contrasta non può che essere in malafede" è il ragionamento di Ivan. A nulla vale il fatto che Igor gli sia stato di valido aiuto nello sconfiggere il partito di Boris; le medaglie e le benemerenze che Igor ha conquistato sul campo nella sua lunga attività di militante non contano più nulla davanti a questo semplice dato: contestando Ivan, sia pure con ragionamenti pacati e sensati, si "è messo dalla parte dell'avversario, del Nemico, del Negativo".

Agli occhi di Ivan e dell'establishment del partito, l'unica chance che Igor ha per dimostrare la propria buona fede e fedeltà alla causa è quella di sottomettersi, rinunciando a qualsiasi critica. Ma proprio nel momento in cui comprende questo, Igor comprende anche che - proprio per onestà e fedeltà alla causa della giustizia che lui aveva abbracciato militando nel partito - non può retrocedere, non può rinunciare alle critiche. Da quando il programma del partito è diventato un catechismo? da quando le affermazioni di Ivan si sono trasformate in altrettanti dogmi indiscutibili? E se qualcuno individua incresciose discrepanze fra i princìpi enunciati nel programma e i comportamenti di Ivan e dell'establishment, deve far finta di nulla e tacere? Perché?

Igor scopre che c'è un limite al dovere di fedeltà del militante. Anche se le sue critiche rischiano di rovinare in parte l'immagine del partito, "facendo il gioco di Boris e dei suoi" (questo gli rinfacciano), Igor sente che c'è un fondamento in quello che dice; i suoi dubbi non sono campati in aria. Se tace e accetta l'imperiosa richiesta di Ivan, allora la "giustizia" e la "trasparenza" di cui tanto parla il programma del partito non è molto più di uno slogan; se invece continua a esporre pubblicamente obiezioni e dubbi, viene meno al dovere di non danneggiare la propria parte politica.

Realismo politico e fedeltà al partito, oppure fedeltà ai princìpi e adesione "pura" a valori eventualmente più importanti del semplice legame col partito? Una cosa è certa: Igor si troverà solo con se stesso (o, se si vuole, con la sua coscienza) di fronte alla scelta da compiere. Che decida in un modo oppure in un altro, non mancheranno le critiche: potranno, per un motivo o per l'altro, accusarlo di slealtà oppure di viltà, di tradimento oppure di conformismo, di rigidità o di incoerenza...
E in ogni caso, che Igor ceda o no, Ivan continuerà a cercare tenacemente i segni del Negativo in chiunque si mostri anche soltanto titubante o incerto davanti alle sue affermazioni.


Teniamo conto poi che le enunciazioni contenute in "decaloghi" politici sono generalmente tenute insieme da un nesso contingente; ovvero, non sempre i singoli punti di un programma politico sono legati fra loro dalla coerenza logica. Ciò che li tiene insieme è piuttosto la contingenza politica derivante dalla situazione del particolare momento storico, dell'economia, della società, dalle istanze che da questa provengono, dalle opportunità di consenso, ecc.

La militanza può diventare milizia nel momento in cui il "decalogo" di partito, o i "detti memorabili" del leader, si sottraggono a qualsiasi possibilità di critica, dimenticando che nessun programma politico è interamente a prova di coerenza logica e che dunque i singoli punti in cui si articola possono essere sottoposti a critica, senza che per questo si debba gridare "al tradimento". Certo, se poi il militante matura la convinzione che è sbagliata in toto l'ideologia alla quale si ispira il suo partito, non ha ovviamente più senso che continui a farne parte: ma è un caso diverso ed estremo (non rarissimo, però...).


Tuttavia, i partiti "reali" - almeno quelli oggi esistenti - di fatto sopportano a stento anche le critiche sensate ai singoli punti del loro programma; e questo a mio parere rende al limite impossibile la militanza - una militanza che non sia solo cieca obbedienza al leader e all'establishment di partito - nelle condizioni attuali.

Non a caso il racconto su abbozzato si riferisce a una situazione rivoluzionaria e post-rivoluzionaria: è opportuno non dimenticare il forte legame che c'è fra militanza (come adesione forte a un movimento politico, ma anche religioso, motivata dalla condivisione di princìpi e persino di pratiche di vita) e volontà di incidere sulla società e sul "sistema", per modificarli. Quindi le "contraddizioni della militanza" non riguardano soltanto i partiti conservatori, ma anche i partiti e i movimenti che più si spendono per criticare il "sistema", le sue iniquità e le sue contraddizioni.

In ogni epoca probabilmente (con le dovute differenze), ma nell'epoca odierna in particolare, ci sono gruppi sociali che costituiscono una vera "linfa", un'energia rinnovatrice senza la quale la società, l'economia e la riflessione pubblica ristagnerebbero mortalmente. E poi ogni "sistema" tende a conservare se stesso, senza prendere nella dovuta considerazione le istanze degli esclusi, degli emarginati e di coloro che per svariati motivi avrebbero diritto - in base a princìpi non restrittivi di giustizia sociale e di equità - ad avere, a seconda dei casi, riconoscimento, considerazione, spazio pubblico, possibilità di ascesa sociale o anche più equa remunerazione (e magari anche tutte le cose assieme).

Quei gruppi di cui si parlava prima - con la loro "energia rinnovatrice" e la loro azione per sostenere le richieste e le ragioni degli svantaggiati - svolgono un ruolo di tutto rispetto, poiché sono determinanti nell'impedire che il "sistema" si arrocchi e trascuri di tenere nel dovuto conto le esigenze della giustizia sociale e del pluralismo.

Non scendiamo nel dettaglio su tutto ciò - per farlo occorrerebbe altro spazio. Qui è mia intenzione soffermarmi su alcune dinamiche che si determinano tra i gruppi che si pongono il compito di criticare e cambiare radicalmente "il sistema" (e non dò una definizione di questo concetto di "sistema", che racchiude tutti gli obiettivi polemici dei gruppi di critica radicale, potendosi articolare di volta in volta come "sistema economico", "sistema politico", ecc.).

I gruppi e i movimenti "antisistema" per antonomasia sono i movimenti e i gruppi rivoluzionari, specialmente quelli del passato, che hanno fondato un precedente e costruito pratiche di "antagonismo". Bisogna tuttavia includere, fra i grandi movimenti antisistema, i movimenti ereticali e la Riforma protestante, che hanno costruito un linguaggio antagonista a partire dall'accettazione rigorosa di determinati princìpi di fede (della comune fede religiosa del loro popolo) ormai attenuati dal "compromesso istituzionale" della Chiesa "ufficiale" fattasi "sistema".

Le asprezze della lotta che i movimenti antisistema devono compiere per sostenere le loro ragioni e per riuscire ad eliminare gli errori e le ingiustizie commessi dal "sistema" conducono i movimenti stessi a diffidare della buona fede dell'avversario - di ogni e qualsiasi avversario - finché questa diffidenza, nella pratica e nelle preoccupazioni dei gruppi che costituiscono il movimento, troppo spesso si diffonde a tal punto che i militanti e soprattutto i gruppi dirigenti del movimento finiscono per intravedere dietro qualsiasi obiezione che venga mossa alla dottrina del movimento (anche quando l'obiezione non pone in discussione la dottrina in sé, ma un solo specifico punto di essa) un complotto, un'insidia da smascherare. 
E colui o colei che muove l'obiezione diventa ipso facto un avversario, o un'avversaria, del movimento; se l'obiezione proviene da un militante del movimento stesso, si arriva a vedere in lui (o in lei) un "nemico interno", la pericolosa "quinta colonna" da smantellare. 

L'obiezione quindi non si discute - anche quando appare ragionevole - perché nella situazione di lotta perenne in cui il movimento antisistema si sente e si colloca, non si può vedere nell'obiezione, anche pacata e motivata, un contributo al miglioramento della dottrina rivoluzionaria, ma un cedimento "al nemico" o il frutto della volontà subdola di indebolire l'edificio rivoluzionario.

C'è anche un altro aspetto parallelo di questo meccanismo, che potremmo definire: autoriproduzione di paranoia robespierriana.
Il "sistema" viene considerato l'avversario irriducibile, che va riedificato dalle fondamenta, perché non si può in alcun modo "redimere"; è la radice stessa dei mali che il movimento combatte, dunque da quella "radice" non possono nascere piante e fiori sani. Per comodità di analisi lo possiamo definire insomma, se non il Male, il Negativo. L'esperienza delle rivoluzioni passate, dalla Riforma protestante alla rivoluzione russa, passando per le rivoluzioni inglese e francese, ci dice che la lotta senza quartiere al Negativo non si esaurisce con l'abbattimento del Sistema (che di volta in volta è la Chiesa ufficiale, l'Ancien Régime delle monarchie assolute o la società borghese). Anche quando il movimento "antagonista" ha preso il potere, riportando simbolicamente e concretamente un'importante vittoria contro il Sistema, ha continuato ad avvertire il pericolo del risorgere del Negativo.
Il movimento rivoluzionario al potere ha cominciato a diffidare anche dei propri militanti; in qualsiasi loro deviazione dalla dottrina ufficiale ha creduto di scorgere tracce del risorgente Negativo da combattere. E così, le rivoluzioni spesso hanno agito come Saturno, divorando cannibalescamente i loro stessi figli.

Si sono delineate, anche all'interno del movimento "antisistema" - ereticale o rivoluzionario - un'ortodossia, ovvero la dottrina ufficiale da difendere ad ogni costo, e numerose "eresie", ovvero le vere o presunte "deviazioni" che sono state perseguitate e violentemente represse.


Perfino quando il Sistema abbattuto non sembrava più dare segni di vita, il Defensor Fidei o l'Inquisitore di turno hanno continuato a cercare segni del Negativo tra militanti rivoluzionari caduti in disgrazia o anche fra semplici cittadini. Ovunque c'erano nemici "del popolo" o "della vera fede" da individuare e da smascherare, anche in base a tenui indizi (anzi, più tenui e discutibili erano gli indizi, e più il sospetto paranoico si acuiva), affinché fossero poi "esemplarmente" processati.

La ricerca, volendo, è sempre fruttuosa, perché - anche ammesso che una dottrina abbia di per sé la facoltà e la capacità di sradicare tutte le ingiustizie dalla faccia delle terra - gli esseri umani sono contraddittori e in loro (presi anche singolarmente, e anche considerando solo i più capaci, i più onesti, i più altruisti, ecc.) non ci sono soltanto e sempre puri princìpi e volontà virtuosa. Né sarà mai possibile che tutti siano concordi e unanimi, e all'unisono volontariamente seguaci di una sola e unica dottrina.

Insomma, ogni cambiamento si edifica con il materiale umano a disposizione, che è appunto umano, e non si può fare in modo, né per via politica né altrimenti, che cambi natura e che diventi altro (ad es.,sovra-umano). Chi promette e si ripromette non di compiere tutto ciò che è possibile per combattere le ingiustizie e le condizioni sociali ed economiche che recano sofferenza, impoverimento, sperequazione (ecc.), ma addirittura di abolire radicalmente e definitivamente il male dalla storia e dal mondo, di qualunque genere questo "male" sia, e in qualunque modo lo si definisca, commette un errore, in buona o in malafede, alla luce dell'esperienza fin qui fatta, senza eccezioni, nella storia umana. Un errore che però può costare molto caro; talvolta anzi questo errore è stato pagato in termini di (numerose) vite umane, è bene ricordarlo.


E con questo, non si può comunque negare l'inevitabilità di certe rivoluzioni del passato - che hanno aperto nuovi orizzonti, e liberato dall'oppressione parti notevoli di popolazione, interi ceti sociali. Quelle stesse rivoluzioni hanno però anche dimostrato il limite di "traducibilità politica" di certi desideri incontenibili e irragionevoli di "radicalità". E la gara, che spesso si scatena ancora, a chi è più "radicale" e più "puro", dunque più lontano anche dal solo sospetto infamante del Compromesso col Sistema, non fa che accentuare, inclinando (a seconda dei casi) verso la tensione esasperata o il paradosso, i rischi derivanti da quel limite.

Persino le rivoluzioni, per chiudere le ferite aperte dalla guerra civile o sociale che scatenano, devono aprire il capitolo del compromesso. Se non altro, per la ragione banale che è impossibile costringere con la forza tutti i "dissidenti" a "convertirsi" alla visione del mondo affermata dai "rivoluzionari", e che prima o poi la vita "normale", cioè la convivenza pacifica, deve riprendere il suo corso. Ma non tutti i compromessi sono uguali: forse questo è il passaggio che troppe volte sfugge; c'è differenza fra una capitolazione incondizionata, o negoziata sottobanco a vantaggio di pochi privilegiati, e un reale compromesso elaborato collettivamente per salvaguardare le ragioni e gli interessi per i quali si è lottato, e per decidere ciò che veramente è prioritario e irrinunciabile. E qui la militanza ha da dire la sua; eccome!

E se poi è in questione la sopravvivenza stessa di una popolazione, o di interi settori di questa, o del diritto a beni e risorse per essa irrinunciabili, vuol dire che il compromesso è ancora prematuro... Ma questa è un'altra storia.

Nota finale. Mi rendo ben conto che a volte, nell'asprezza della polemica politica, e nella necessità di rintuzzare le astuzie e sfidare i potenti mezzi di un avversario fin troppo forte e influente, il discorso politico di chi dal "basso" contesta la politica dei "privilegiati" e dei "signori" di turno non può perdersi in troppi distinguo e deve, contrapponendo nettamente idea a idea e concetto a concetto, rendersi efficace e comprensibile immediatamente a chiunque.

Però, a lungo andare, si rende necessaria la lucidità, oltre che l'onestà intellettuale, e nessuno si può sottrarre, presto o tardi, al dovere di rendere conto e di fare chiarezza rispetto ai meccanismi che sopra ho descritto.
E se questa lucidità si farà sempre più spazio nelle nostre azioni, rendendo sempre più marginale il ruolo degli slogan "semplicistici" e della "milizia" che ad essi si accompagna, non sarà certamente un male. Anzi...

4 commenti:

  1. " Ma non tutti i compromessi sono uguali "...
    Forse è l'unica possibilità di sfuggire alla dinamica che continuamente si ripropone e che così bene hai illustrato.

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  2. Grazie. Infatti secondo me si tratta di un punto importante: certi "apriorismi" come il principio "Mai accettare compromessi", nella loro purezza possono affascinare chi è appunto in cerca di "purezza" nel mondo; ma, applicati alla politica reale (che è anche, non dimentichiamolo, farsi carico dei "destini" di intere collettività), nella loro astrattezza e generalità si rivelano inapplicabili, ovvero comportano costi altissimi, e non in termini di denaro...
    Infatti, in non pochi casi, rifiutare il compromesso può significare accendere o continuare un conflitto, a volte anche duro e/o sanguinoso. E qui scatta la necessità di abbandonare il principio astratto, che non ci è di alcun ausilio, e valutare il "caso concreto": accettare il compromesso X, nella situazione Y in cui ci troviamo, quali vantaggi ci porta? E questi vantaggi sono preponderanti rispetto agli svantaggi? Perdiamo tutto oppure otteniamo qualcosa, accettando il compromesso X? E ciò che otteniamo è un buon risultato, data la situazione Y in cui siamo?
    I compromessi, di fatto, non sono tutti uguali, e le variabili in gioco sono tante: anzitutto (premessa sempre valida) l'impossibilità di "convertire" (se non pazientemente e col tempo) tutto il mondo, o quasi, alle nostre idee e ai nostri princìpi, e poi: la situazione in cui ci troviamo, l'importanza che diamo ai nostri obiettivi e alla nostra azione, i rapporti di forza, la nostra capacità di contrattare, ecc. ecc.
    Quindi ci sono Compromessi e compromessi; ossia: compromessi che comportano risultati accettabili o vantaggiosi, e compromessi che viceversa risultano degradanti, umilianti, tanto svantaggiosi per noi da risultare penalizzanti e inaccettabili.
    Si può decidere solo caso per caso, non in via generale. Non possiamo esentarci dalla necessità di discernere, di distinguere. Questa consapevolezza appunto può salvarci dai rischi che descrivevo nel post, come tu dici.
    L'illusione di poter risolvere *tutto* a priori con l'uso "in automatico" di alcuni princìpi "assoluti e inderogabili" ci porta solo in vicoli senza uscita.

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  3. Ti dirò forse qualcosa di banale, ma mi sembra che la semplice constatazione delle contraddizioni in cui individualmente ci dibattiamo e che riguardano i moventi delle nostre stesse azioni dovrebbe metterci in guardia dalla pretesa di interpretare in una sola chiave qualsiasi cosa e scoraggiare cieche visioni totalizzanti ( concedimi l'ossimoro ).

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  4. Non hai torto. E l'ossimoro delle “cieche visioni” è suggestivo :-)
    In questo post mi premeva, tra le altre cose, cercare di far capire che, se da un lato è giusto e indispensabile (a mio parere) avere delle idee e sostenerle pubblicamente, sino alla convinta “militanza” (anche chi “non ha idee” mi sconcerta), dall'altro è necessario – prendo a prestito la tua immagine – non rendere “cieche” quelle idee, proprio per mantenerne intatta la vitalità e non trasformarle in spettri deformi e deleteri (il “sonno della ragione” di goyesca memoria!); ed è di fondamentale importanza essere quindi disposti/e a confrontarsi con le critiche, coi dubbi e con la necessità di mitigare le pretese “assolute”. Non esiste per me una “Ragione” (con la maiuscola), in sé autosufficiente: la “ragione” si forma nel quotidiano, e non schiva i dubbi, ma li interroga seriamente.

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