Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

lunedì 2 aprile 2012

Il moralismo, scorciatoia per smarrirsi. Commentando un libro di Valeria Ottonelli sul "femminismo moralista" / 1


Prima parte

Alcuni libri, particolarmente acuti – per il tema che propongono e per la maniera in cui lo svolgono – si prestano a generare un “arcipelago” di riflessioni che vanno ben al di là dello specifico argomento che essi affrontano. Diventano dunque fertili occasioni di analisi del clima sociale e culturale e della mentalità propri di un determinato tempo (che è poi il nostro...).

E' il caso di un volume scritto da Valeria Ottonelli, studiosa e docente di Filosofia Politica ed Etica Pubblica presso l'Università di Genova: s'intitola La libertà delle donne. Contro il femminismo moralista, ed è stato pubblicato nel 2011 dall'editrice Il Melangolo. E' un libro piccolo, quanto a numero di pagine, ma schietto nei toni e sorretto da una prosa chiara e da una rigorosa e limpida capacità argomentativa – e, pur possedendo tale qualità, è un libro che sa schivare egregiamente il rischio della pedanteria o anche solo della “pignoleria” accademica, rivolgendosi quindi idealmente a un pubblico vasto.


Qualche dibattito sembra già essersi acceso intorno a questo volumetto, però non sempre nella direzione giusta: alcuni conservatori – di quelli che, dediti a raccattar nell'aria luoghi comuni come altri raccattano farfalle, non si sforzano troppo ad argomentare, e solo ripetono in automatico, come certi anziani brontoloni nelle sale d'attesa, che “a noi ci ha rovinato il '68” – attratti dal sottotitolo, che sembra promettere una polemica “contro le femministe” (le quali essendo associate o assimilabili “al '68” di cui sopra, sarebbero da esecrare in blocco, senza nemmeno preoccuparsi di capire bene cosa dicono e cosa vogliono in realtà), hanno sogghignato, pensando di poter utilizzare questa pubblicazione come grimaldello per scardinare le presunte “contraddizioni” del femminismo in quanto tale e nel suo insieme.

Ovviamente il libro di V. Ottonelli dice tutt'altro: non è sul sostantivo presente nel sottotitolo che bisogna concentrarsi infatti, ma sull'aggettivo che lo affianca: è la variante moralista del femminismo che la studiosa critica (e severamente), non il femminismo preso nel suo insieme. Anche perché “il femminismo” è una sorta di cantiere perenne, che aggrega e sviluppa analisi e visioni del mondo e della società che non sono univoche e anzi spesso dialogano fra loro in maniera anche critica.

Parlavo all'inizio di “arcipelago” di riflessioni, e non senza ragione: infatti le considerazioni e le osservazioni che si susseguono nel testo non riguardano soltanto le femministe, e neppure soltanto le donne. E principalmente per due motivi: anzitutto, la struttura “moralista” della retorica pubblica italiana è una faccenda che riguarda e tocca tutti/e noi, e quindi qualsiasi analisi che ne metta in luce la vacuità e le contraddizioni è benemerita; inoltre – questo credo che molti/e facciano fatica a comprenderlo fino in fondo – la critica costante, rigorosa e puntuale dei residui dell'ancien régime culturale che ci portiamo dietro e dentro (giacché quei “residui” emergono continuamente nelle nostre abitudini quotidiane, nei nostri luoghi comuni, nella nostra mentalità), critica alla quale buona parte del pensiero femminista dà un valido contributo, è un percorso che porta tutti i soggetti, e cioè tutti noi, indipendentemente dal “genere” di appartenenza, a liberarsi (liberarci) dai condizionamenti che questi non ancora sopiti “fantasmi” (modelli di vita oppressivi, discriminatori e autoritari tramandati da generazioni precedenti) continuano ad esercitare, talvolta inopinatamente, sulle nostre vite.

Questo libro di Valeria Ottonelli, in sostanza, è una critica serrata, addirittura quasi una lotta corpo a corpo contro una retorica pubblica, che, dominante in Italia (e dell'Italia l'autrice parla in effetti), si serve a piene mani di un “immaginario moralista” per ostacolare in maniera sotterranea e talora subdola i tentativi di mettere in discussione modelli e rapporti di forza consolidati, riconducendo abilmente ogni cambiamento nell'alveo dei vecchi schemi (di pensiero e di convivenza).

Così, grazie a questa retorica, è difficile che un movimento che richiede cambiamenti anche radicali possa realmente spiazzare l'assetto sociale esistente; è più facile che sia il cambiamento a essere spiazzato, e a rimanere disorientato e imbrigliato dentro la retorica moralista. Infatti, questa riesce talvolta a insinuarsi nei movimenti di cambiamento, e a colonizzarli, lavorandoli dall'interno sino a plasmarli secondo le proprie necessità.

Forse siamo talmente assuefatti a questo processo da non accorgercene più.

Naturalmente non è “la retorica moralista”, in quanto soggetto astratto e anzi immaginario, a “lavorare”, ma è la nostra tendenza ad un tradizionalismo “pigro” (in quanto pervicacemente votato all'immobilismo sociale e culturale, anche a costo di perdere ogni appuntamento con le “sfide” provenienti dall'esterno, da altre culture e realtà influenti), compiaciuto di sé oltre ogni ragione (e sino al cinismo), a lavorare per assimilare e addomesticare – anche tramite il “grimaldello” del moralismo – quasi ogni movimento di trasformazione.

E, dovendo definire il suo tema, scrive la studiosa:

«Che cos'è il “femminismo moralista”? E' una posizione culturale e politica che, nel nome della libertà delle donne e della loro “dignità”, assume un atteggiamento sostanzialmente censorio, nei confronti degli uomini ma anche e soprattutto delle donne stesse. Secondo questo tipo di femminismo la liberazione delle donne deve avvenire attraverso una trasformazione intima di tutti i membri della società, che possa condurre ciascuno a capire quali sono i veri valori, il vero bene, il vero uso del proprio corpo, della propria sessualità e dei propri talenti. Nel fare questo si appella a un orizzonte simbolico e valoriale sostanzialmente conservatore e impone modelli di vita e di società che altro non sono se non rivisitazioni in chiave laica di vecchi miti familisti, religiosi e tradizionalisti» [Ottonelli 2011, p. 10].

Difficile essere più chiari ed incisivi di così.

Aderendo a questo orizzonte di pensiero, che V. Ottonelli definisce “femminismo moralista”, in realtà – nonostante ogni diversa intenzione – si porta acqua al mulino del tradizionalismo pigro e cinico (al quale prima si accennava), che pesa come un insopportabile fardello sulla nostra società.

Questa variante moralista del femminismo, infatti, esattamente come gli alfieri dichiarati o “in pectore” dell'eterno e trasversale tradizionalismo italiano, pretende addirittura di svelarci quali sono i “veri valori” per i quali val la pena vivere (bollando tutti gli altri, tutte le alternative, come “falsi”, “indegni”, inaccettabili, ecc.), e non solo di svelarceli, ma anche di imporceli, per il nostro stesso bene! Per definizione, secondo questa corrente di pensiero, chi non aderisce a tali “veri valori” e non conforma ad essi la propria condotta di vita, non è “se stessa/o”, è manipolata/o in qualche modo, ha perso la propria “autenticità” e dunque non va presa/o sul serio (non vanno prese sul serio le sue scelte, in quanto per assioma non libere), anzi va ricondotta/o (pazientemente?) “sulla retta via”.

Ciò che cambia, rispetto alla retorica “tradizionalista” classica, è solo la forma apparente del discorso, che si avvale di giustificazioni differenti, le quali fanno appello alla “libertà delle donne” anziché – come i tradizionalisti “doc” preferirebbero – ai loro presunti “doveri” individuali e sociali, dettati dalla “natura” (?). Ma – come Valeria Ottonelli dimostra – non sono assenti, nel discorso del “femminismo moralista”, neppure accenni, sia pure fugaci o contraddittori, a questo secondo tipo di argomentazione. A fare da “trait d'union” fra i due tipi di discorso – facendo cadere la barriera sottile che li separa – è il concetto di “autenticità”, come si vedrà.

Questa variante del femminismo, poi, ignora o non tiene conto della natura eminentemente politica della questione femminile, giacché, come rileva V. Ottonelli, sembra ritenere che la liberazione delle donne possa realizzarsi soltanto “convertendo” le persone, una per una, ossia modificando i loro valori etici e “intimi” di riferimento – e non invece la struttura generale dei rapporti intersoggettivi (e quindi anche il paradigma sociale, il “modello”, nel quale questi si collocano), come una liberazione “politica” richiederebbe di fare, in realtà.

Certo, la definizione del moralismo è di per sé una questione “scivolosa”; esistono diverse opinioni su cosa si debba intendere per “moralismo”, e su quali caratteristiche distinguano quest'ultimo dalla “morale”.
Pur senza avere qui la pretesa di esaurire l'argomento in poche battute, alcuni punti fermi si possono comunque stabilire – e anzi è necessario farlo.

Possiamo quindi dire che per “moralismo” intendiamo un atteggiamento e una retorica, più che una vera e propria corrente di pensiero o una branca dell'attività umana. Il moralismo infatti non ragiona sui contenuti della morale, non dimostra la fondatezza dei valori che propone o che presenta come irrinunciabili; il moralismo in sostanza dichiara e non dimostra, afferma e non argomenta.

Il moralista dà per scontato che i valori “morali” che egli sostiene siano gli unici veri e gli unici possibili, salta alle conclusioni senza passare per le premesse e senza occuparsi di fornire serie “pezze d'appoggio” per ciò che sostiene con tanto vigore. Si aggrappa alla retorica senza occuparsi umilmente di puntellare le proprie argomentazioni e le proprie tesi, come se esse fossero autoevidenti e già dimostrate. E' anche per questo che il moralismo è tendenzialmente conservatore: strizza sempre l'occhio a un'ideale platea che condivide “certi valori” dati ormai per assodati o acquisiti, senza bisogno di troppe spiegazioni.

In più – e si tratta di un elemento non secondario nell'atteggiamento tipico del moralismo – il moralista è sempre pronto ad alzare il dito accusatore contro gli altri (intesi come singoli o come entità collettive o generali, la “società”, la “modernità”, ecc.); istituisce un tribunale ideale “della vera morale” nel quale egli è, al tempo stesso, pubblico ministero e giudice. Che per giunta emette sentenze inappellabili...
L'individuazione del “reprobo” (o del “nemico” dei “veri valori”) è anzi una delle preoccupazioni principali del moralista; la definizione del “peccato” non è importante in sé, ma solo in quanto serve al moralista per snidare il “peccatore”, meglio se “esemplare” perché particolarmente in vista (o perché particolarmente inviso alla platea di riferimento del moralista), ed esporlo alla pubblica riprovazione.

Il moralista, scarsamente disposto a mettere in discussione se stesso, è invece sempre attivo nel condannare il prossimo. Non vede le proprie contraddizioni e incoerenze (rispetto agli stessi princìpi che proclama), o trova sempre alibi per giustificarle e autoassolversi; è invece implacabile nel cogliere e nel fustigare le (presunte) pecche altrui, e non concede ai “condannati” alcuna attenuante o scusante. Perché sui valori è intransigente; li considera come assoluti e intoccabili, oltre che imprescindibili e inderogabili (salvo quando giudica se stesso, come si è detto...).

Ne consegue che nelle società in cui prevale, nel discorso pubblico, l'atteggiamento moralista, vi è anche generalmente una tendenza diffusa all'ipocrisia e al “double standard” (il cosiddetto “doppiopesismo” che è l'esatto contrario di un'etica e di una morale rigorose, e tuttavia è figlio legittimo proprio del moralismo).

Inoltre, il moralismo tende a valutare ogni atto umano e ogni vicenda utilizzando il metro della morale; ma – per quel che si è detto – non intesa, quest'ultima, come argomentazione (sottoponibile, come tale, a controargomentazione e a contraddittorio, o, come avrebbe detto Popper, a “falsificazione”), bensì come asserzione dogmatica, che dà per acquisito proprio ciò che dovrebbe dimostrare. E tra l'altro rischia di essere asserzione dogmatica anche la riduzione di ogni questione a “questione morale”, riduzione che è il cuore della mentalità tipica del moralista.

Ora, non è detto che il “femminismo moralista” del quale parla V. Ottonelli possieda tutte le caratteristiche appena elencate – e del resto, per verificarlo, bisognerebbe fare un'analisi attenta, che richiederebbe un discorso a parte.
Tuttavia alcune di esse emergono in virtù della critica che la studiosa enuncia nel testo: innanzitutto l'insistenza sui “veri valori” (considerati a priori come gli unici possibili e accettabili o gli unici “autentici”) e poi la tendenza ad additare alla pubblica riprovazione i “nemici emblematici” di quei “veri valori” (i “peccatori esemplari” da snidare) e a ridurre ogni questione a questione morale.

E, se si confonde l'esigenza di modificare i rapporti sociali per giungere a una forma di convivenza più equa con una “questione morale”, si rischia – come nota Valeria Ottonelli – di inchiodare le donne ad una condizione di eterna dipendenza e sudditanza rispetto al giudizio e allo sguardo dell'altro:

«E' vero che le donne sono marginalizzate e oppresse nella nostra società, e che queste forme di ingiustizia passano anche per le micro-regole delle interazioni quotidiane. Ma chiedere che il passaggio a una società più giusta e più eguale avvenga in primis attraverso la modificazione morale dell'universo intimo degli uomini, o del modo in cui gli uomini – o la società tutta – vedono le donne significa rinsaldare l'idea che la nostra libertà o il nostro potere dipendano dagli occhi e dalla benevolenza degli altri; significa, in altre parole, rinsaldare un'immagine di dipendenza asimmetrica che non può far altro che mortificare ulteriormente il nostro spirito e perpetuare la nostra subordinazione. Le donne hanno bisogno di più libertà e di più potere, non di più stima, apprezzamento e simpatia da parte degli uomini» [Ottonelli 2011, p. 17].

La dipendenza “paralizzante” dallo sguardo dell'altro equivale ad una condizione di subordinazione che si autoriproduce.
Se ciò che le donne sono e pensano di sé viene fatto derivare, come una conseguenza “inevitabile”, dal mondo etico e “valoriale” degli altri – degli uomini innanzitutto – e quindi anche dai modi in cui si esprime il loro immaginario soggettivo (o quanto di questo si proietta in àmbito sociale o collettivo), esse finiscono per contribuire, anche se non in maniera consapevole, a rinsaldare gli stereotipi culturali nei quali è inscritto il “destino” (pseudo-destino, in realtà) della loro “dipendenza eterna”.

Insomma, il processo di liberazione della donna deve prescindere dai mutamenti in atto nelle coscienze degli uomini o nei “valori” generalmente condivisi. Non è in posizione subordinata rispetto a quelli; può sollecitarli, osservarli, accompagnarli, ma non farne la radice stessa del cambiamento.

Insiste giustamente Valeria Ottonelli su questo punto:

«Dietro agli atteggiamenti e ai propositi del moralismo, in realtà, c'è un peccato più grave e generale, che consiste nell'immaginare che la giustizia sociale possa essere raggiunta solo a patto che tutti i nostri simili – o la maggior parte di essi – siano o diventino esseri umani decenti o virtuosi, o quello che definiremmo tale secondo i nostri parametri. Come ha dimostrato più volte la storia, questo sogno di palingenesi morale può generare veri e propri orrori se è coltivato da chi ha potere politico e sociale. Ma è pericoloso anche se coltivato dai politicamente deboli e dagli oppressi, perché si traduce in speranze mal riposte e in richieste fuori luogo» [Ottonelli 2011, pp. 17-18].

Come mi è già capitato di scrivere altrove, trattando altri temi, è illusorio (oltre che fuorviante) pensare che un processo politico volto al mutamento dei rapporti sociali e dei paradigmi teorici che li giustificano e sorreggono debba passare necessariamente attraverso (o condurre in ultima analisi a) una “conversione” generale e generalizzata delle coscienze dei singoli, tale che grazie ad essa scompaiano dalla faccia della terra definitivamente cose come la “malvagità”, la “crudeltà”, la “disonestà”, l'“ottusità”, la “falsità”, l'“inganno”, l'“egoismo”, ecc.

Una trasformazione del genere non l'avremo probabilmente mai, se non in sogno o nelle favole; e tuttavia, questa impossibilità non costituisce un ostacolo al mutamento dei rapporti sociali e al perseguimento di valori politici come l'equità sociale, l'allargamento delle condizioni di libertà, l'estensione dei diritti, ecc.

Si tratta di due piani ben distinti, che però i moralisti tendono a confondere e a sovrapporre indebitamente.

E anche qui, se si fa dipendere la liberazione della donna da un ambizioso programma di “palingenesi morale”, o si rende l'una parte integrante dell'altro, l'unico risultato che si ottiene in realtà è quello di congelare le sorti del processo di liberazione, rinviando quest'ultimo sine die, in attesa che si presentino o maturino le condizioni concrete per un'“umanità migliore” (buona, giusta, onesta, trasparente, ecc.).

E, parallelamente, con queste premesse si finisce per richiedere alle donne stesse di attenersi a un alto “standard” morale, per avere diritto di far parte di quella “umanità migliore”; le “buone qualità” morali (misurate secondo il metro discutibile stabilito dal moralista, beninteso) diventano insomma un prerequisito indispensabile per accedere all'“Olimpo dell'emancipazione”, che diventa quindi una faccenda riservata a poche, alle sole “virtuose” che – rispondendo ai criteri morali stabiliti dal moralista – possono fregiarsi del marchio “doc” di “vere donne”. (Le altre, in quanto donne “non virtuose” e pertanto “non vere”, non sono considerate dal moralista capaci di autonomia morale, e anche quando credono di decidere in realtà non decidono, e quindi sono soltanto “soggetti a rimorchio” – degli altri, degli uomini, dei pregiudizi, dei “falsi valori”, ecc.: ma di questo aspetto si torna fra poco a parlare.)

Sottolinea in maniera incisiva questi concetti Valeria Ottonelli, quando afferma senza mezzi termini:

«Io sarò libera e sicura quando vivrò in una società a prova di imbecille. Sarò tale non quando non ci saranno più maschilisti, o razzisti, o cafoni, o stupidi, ma quando questi non potranno più danneggiarmi» [Ottonelli 2011, p. 18].

Non si può pretendere che dal mondo spariscano, magari istantaneamente, i razzisti, i maschilisti, ecc., però si può senz'altro fare in modo che, attraverso un processo politico, sociale, legislativo, ecc., vengano poste le basi per arrivare a un paradigma di convivenza, e dunque a un modello sociale in virtù del quale chi è completamente altro rispetto alle categorie di cui sopra (razzisti, ecc.) sia posto totalmente in condizione di condurre la propria esistenza senza dover minimamente subire i condizionamenti (culturali, morali, politici, ecc.) e le conseguenti imposizioni provenienti da quelle (e per imposizioni si intendono qui anche le tacite o palesi restrizioni alla libertà personale, i soprusi, le discriminazioni, le violenze anche solo verbali, le prepotenze reiterate, tacitamente tollerate e impunite, ecc.).

Se ci sono imposizioni/arbitri/violenze dinanzi ai/alle quali alcune categorie di persone – nel caso di cui si parla, le donne – sono tuttora costrette a piegare il capo senza poter (anche solo per “quieto vivere”) far valere efficacemente le proprie ragioni e i propri spazi significa che c'è ancora un'area “grigia” di consenso intorno a chi commette quegli arbitri. Esistono ancora, grazie al paradigma che regola la nostra convivenza sociale, rapporti di forza “opachi”, che avvantaggiano determinati soggetti tendenti a queste forme di “guappismo” (o “bullismo da adulti”).

Nessuno può garantirci che queste tendenze scompariranno, e d'altra parte porsi un simile obiettivo rende al limite impossibile qualsiasi tentativo di cambiamento dello stato di cose esistente (si arriva per questa via infatti al classico dilemma insolubile: “come può cambiare la natura umana?”); come suggeriscono le parole di V. Ottonelli, bisogna piuttosto porsi l'obiettivo di mettere in discussione i rapporti di forza esistenti e la loro “opacità” (il consenso tacito e trasversale sul quale si reggono), fino a destituirli radicalmente di legittimità, mettendo sistematicamente a nudo l'apparato retorico del quale si servono per riprodursi.

Se il “verbo” del primo razzista o sessista che passa per strada (o in televisione o sul Web) fa testo, e addirittura pretende di ergersi a senso comune “della società” strizzando l'occhio a una sotterranea complicità diffusa nella “platea”, a scapito non solo delle visioni del mondo e delle opinioni di altri soggetti ma soprattutto della stessa dignità di questi ultimi (definiti dal discorso del razzista o sessista come “inferiori” meritevoli di sopruso), pur non essendo quel “verbo” dotato di alcuna caratteristica particolare che lo renda indiscutibile e “vero a priori”, è segno che esiste un rapporto di forza “opaco”, appunto, non facilmente identificabile come tale (almeno non alle nostre latitudini liberali) che innerva tutta la società e mantiene in vita una struttura sociale basata sulle idee di dominazione, di prevaricazione, di gerarchia (concetto quest'ultimo che sventolato fideisticamente – e collocandosi di fatto in un paradigma socio-economico che non pone affatto alla testa della piramide sociale i più meritevoli ma i privilegiati [a qualunque titolo] – non fa che trasformare per via retorica l'arbitrio di pochi in sedicente “ordine”) e dunque di oppressione.

E' scardinando questo “ordine” discorsivo e retorico, e dunque questo paradigma che regge l'attuale modello sociale, questo robusto “castello di carte”, prodottosi nel corso della storia (non quindi generato “dalla natura”) e retto a beneficio di pochi e non certo di chiunque, che i soggetti oppressi possono liberarsi dalla condizione in cui si trovano; è cosa ben diversa rispetto all'ambizioso e utopico intento di “cambiare la natura umana” (la quale peraltro è di per sé una nozione fumosa, confusa e imprecisabile).

Quando dunque il “verbo” del razzista e del sessista diventeranno soltanto flatus vocis, pura espressione personale di risentimento, senza più risalto e influenza particolari all'interno della società, la “missione” del processo di liberazione delle donne potrà dirsi compiuta.

C'è poi un'altra importante questione, che la critica di Valeria Ottonelli mette in evidenza:

«Dietro all'atteggiamento del moralista che ambisce a una trasformazione intima dei propri concittadini come condizione ineludibile di giustizia e di bene non c'è solo l'istinto totalitario di chi aspira alla virtù come fondamento dell'ordine sociale; c'è anche un altro atteggiamento, più superficiale ma non meno odioso, che è tipico di molti intellettuali: lo schifo e il disprezzo per le vite che non coltivano gli stessi valori estetici e spirituali che sono propri degli accademici ben pensanti» [Ottonelli 2011, p. 18].

Il femminismo moralista di cui V. Ottonelli parla si radica infatti specialmente presso determinati ceti intellettuali e assume di conseguenza i loro stessi tic, le loro stesse idiosincrasie.

I moralisti – e le “femministe moraliste” – puntando il dito accusatore contro certi comportamenti e certi valori del “volgo” che ritengono spregevoli e/o inaccettabili, in realtà compiono un gesto rivelatore – che è tale però non tanto rispetto ai “reprobi” che vorrebbero condannare quanto rispetto ai valori e al mondo mentale degli stessi “accusatori”.

Spiega infatti la studiosa:

«Il vero nemico di questa mentalità sono le masse di ignoranti che non sanno parlare, non sanno vestirsi e non sanno pensare, e per questo costituiscono il vero humus su cui cresce rigogliosa l'ingiustizia. […] Immaginare di essere in balia di una massa scriteriata di ignoranti è in verità il segno distintivo, la matrice originaria dell'odio per la democrazia stessa» [Ottonelli 2011, p. 19].

C'è un'ampia letteratura su questo, che risale fino a Platone, come ricorda la stessa Ottonelli, e come si può leggere in un interessante volume di Valentina Pazé (ricercatrice di Filosofia Politica presso l'Università di Torino), In nome del popolo. Il problema democratico (Editori Laterza, 2011), che analizza ampiamente la questione.

Scrive V. Pazé:

«La democrazia non godeva di buona fama nell'antichità, neppure nella città che le aveva dato i natali. Se un aspetto accomuna la quasi totalità degli intellettuali ateniesi del V e IV secolo [a.C.], è la diffidenza, il sospetto, in alcuni casi l'aperta condanna e il disprezzo da essi manifestato nei confronti dell'esperimento di governo “del popolo” di cui erano privilegiati testimoni. Una simile avversione nei confronti della forma di governo democratica si spiega se pensiamo al giudizio prevalentemente negativo formulato dagli scrittori antichi nei confronti del demos, il soggetto collettivo che in democrazia detiene il kratos, il potere di governare. Ignorante, inaffidabile, ondivago, sensibile alle lusinghe dei demagoghi, il popolo non gode di buona letteratura in questa fase storica, anche perché i pochi in grado di scrivere e di trasmettere ai posteri il proprio pensiero non provengono dalle sue file» [Pazé 2011, p. 5].

E, come ricorda la studiosa, l'avversione per il popolo, considerato sostanzialmente “volgo” selvaggio, rozzo e incostante, incapace di autoregolarsi e a maggior ragione di autogovernarsi, continua nei secoli; la ritroviamo in Guicciardini, cioè nel Rinascimento, e si protrae fino al Settecento e oltre. Nella modernità, specialmente, il concetto di “popolo” acquista una duplice valenza, significando al tempo stesso il “tutto” e una “parte” della comunità, la più “arretrata” e “pericolosa”, secondo alcuni (ed è da questo senso duplice, sdoppiato, che sorgono alcuni fraintendimenti anche “autorevoli” e talora anche “strategici”, circa la natura della democrazia e la natura del “popolo”):

«Nella Francia del Settecento il peuple coincide, a seconda dei casi, con l'intera nazione, o con le classi lavoratrici, percepite e temute come “classi pericolose”. Se, nel capitolo del Contratto sociale dedicato alla forma di governo democratica, Rousseau fa coincidere il popolo con la totalità dei cittadini, gran parte degli intellettuali illuministi suoi contemporanei continua a identificarlo con la populace [plebaglia], e con la canaille [canaglia]: la massa dei diseredati e degli esclusi che preme minacciosamente sui ceti facoltosi per cercare di insidiarne i privilegi» [Pazé 2011, pp. 27-28].

Erano quindi spesso intellettuali “illuminati”, e per altri aspetti “progressisti”, a nutrire pregiudizi classisti nei confronti del popolo. Per lungo tempo (come possiamo constatare leggendo autori come Kant, A. Ferguson, Constant, Hegel [cfr. Pazé 2011, pp. 29-41]) il “popolo” è stato considerato incapace di autogovernarsi sia perché nella sua stragrande maggioranza indigente ma anche perché non dotato degli strumenti culturali adatti a comprendere gli interessi generali della società. Era un classico “serpente che si morde la coda”, giacché se costretto nella miseria e nella mera sussistenza, il “popolo” non poteva avere certo modo di istruirsi e di elevare la propria condizione. Tuttavia pochi – anche tra i pensatori e gli intellettuali più “illuminati” – erano coloro che si ponevano il problema di combattere nel concreto le ingiustizie sociali, anche le più evidenti, e di consentire quindi alla maggioranza del popolo di esercitare a pieno titolo i propri diritti di cittadinanza. Cosicché la “inferiorità culturale” del popolo finiva per essere condiderata una specie di dato “naturale” e “immodificabile”.

Oggi questa concezione della “naturale inferiorità” del popolo non è più giustificabile – se mai lo è stata. Eppure l'atteggiamento di preconcetta diffidenza rimane quasi intatto, a distanza di secoli.

Gli odierni intellettuali moralisti (donne e uomini) giudicando con disprezzo e perfino con ribrezzo quelli che considerano i “vizi del volgo” (anche se oggigiorno non li definiscono più con questa espressione, ormai inelegante e screditata), e attribuendo ad essi, e alla loro diffusione, tutta la colpa dell'ingiustizia presente nella società, mettono in luce inavvertitamente il sottofondo classista della loro concezione del mondo; sono portati (loro malgrado?) a ritenere che “il popolo”, preso dalle sue passioni “basse” e “indegne” (se rapportate – a loro dire – ai valori “perbene” dei moralisti stessi), non sappia decidere e debba quindi essere posto sotto la benevola tutela di “coloro che sanno”, dei saggi e dei sapienti, che sono i soli in possesso dei “veri valori” e possono mostrarli agli altri, illuminando le loro menti. E' precisamente questa, come giustamente sottolinea Valeria Ottonelli, la radice dell'avversione “classista” ed elitaria per la democrazia e della denigrazione sistematica che ancora oggi, in certi circoli, se ne fa.

Nel suo testo, Valeria Ottonelli si concentra principalmente su quattro esempi recenti, quattro casi nei quali emerge in pieno l'azione del “femminismo moralista” da lei criticato.

Uno di essi è rappresentato a suo parere dal documentario di Lorella Zanardo, M. Malfi Chindemi e C. Cantù, Il corpo delle donne [qui il blog che da esso è scaturito, ricco ad ogni modo di importanti riflessioni e dibattiti] e, quasi contemporaneamente (a testimonianza dell'esistenza di una vera e propria tendenza cultural-politica), dall'appello di Concita De Gregorio che si pone a monte dell'iniziativa “Se non ora quando” (che com'è noto ha visto la mobilitazione di molte donne provenienti da esperienze politiche, civili e personali fra loro differenti).

Ciò che accomuna il documentario di L. Zanardo e l'appello di C. De Gregorio, come anche le richieste del movimento “Se non ora quando”, è la critica al modello e all'immagine di donna considerati tipici prodotti del “berlusconismo”, della sua propaganda, della sua visione del mondo e della televisione da esso colonizzata.

Tanto Il corpo delle donne quanto l'appello di Concita De Gregorio tendono, secondo V. Ottonelli, a dividere nettamente l'universo femminile in due precise categorie, sino a tracciare insomma un'ideale linea di demarcazione che separa le donne proposte come modelli dal “berlusconismo” (e dalle “sue” televisioni) da tutte le altre, rappresentate – attraverso tale impostazione – come le “vere donne”.

C'è qualcosa, in questa semplice e semplicistica suddivisione delle donne in due “classi”, che risulta inaccettabile, e la studiosa ne spiega il motivo in questi termini, anche stavolta molto schietti:

«[...] le donne che si sacrificano, studiano, lavorano, fanno figli, ecc. non sono più “reali” semplicemente perché vivono e abitano nella realtà di tutti i giorni, a differenza delle soubrette imbellettate degli spettacoli televisivi: sono più reali perché più “vere”, nel senso che si tratta di “vere donne” allo stesso modo in cui si dice che uno che spezza il fil di ferro coi denti è un “vero uomo”. Dietro a questo giudizio, in altre parole, c'è una vera e propria gerarchia dell'essere, coniata su una retorica e un'estetica di marca essenzialmente tradizionalista, se non fascista, sulla quale c'è poco da discutere: si tratta ancora una volta di dividere il genere umano in classi, attività diffusa in molte epoche e in molti ambienti, ma che dovrebbe essere evitata il più possibile, tanto più quando i gradi di “realtà” delle persone, o i gradi in cui le donne sono “vere” donne e gli uomini “veri” uomini, sono ricalcati su modelli retrogradi ed etiche del sacrificio» [Ottonelli 2011, p. 35].

Ovvero, il femminismo moralista, affermando che le “vere donne” sono soltanto quelle da esso indicate (cioè quelle che “studiano”, “lavorano”, “fanno figli” e soprattutto “sacrifici”), stabilisce in sostanza che tutte le altre non meritano di essere considerate altrettanto “vere”, non meritano quindi di essere considerate donne a pieno titolo, in quanto non hanno scelto di impostare la loro vita secondo “valori veri”, o meglio “autenticamente femminili”, ed essendo condizionate dall'immaginario del “berlusconismo” o anche semplicemente della televisione, sono di quest'ultimo succubi – motivo in più per non considerarle davvero e sul serio come soggetti morali autonomi e perciò degni di stima. E anzi, le “vere donne” dovrebbero schierarsi contro queste donne “non vere” perché queste ultime farebbero il gioco di chi umilia e offende le prime, quelle “vere”. Insomma, le donne “non vere” gravitanti nell'orbita del “berlusconismo” (fuor di metafora: le soubrette che impazzano sul teleschermo, le invitate “esclusive” alle cenette del Presidente, le “olgettine” ed escort assortite...) sarebbero una sorta di “quinta colonna” del “nemico” in seno alla categoria “pura” delle “vere donne”.

Come Valeria Ottonelli fa notare, questo modo di ragionare è pericolosamente affine a quello del tradizionalismo sessista. Chi stabilisce quali sono i “veri valori” e i criteri che, soli, sono in grado di definire se una donna è una “vera donna” oppure no? E come e perché vengono scelti certi valori e certi criteri e non altri? Non sono, forse, ancora una volta i rapporti di potere presenti nella società a guidare la scelta e a orientarla in una determinata direzione?

E attenzione, perché dall'altra parte, nella “tana del lupo” (laddove imperano altre gerarchie di potere, che vedono in testa alla piramide il cosiddetto “maschio-alpha”) si fa in sostanza la stessa cosa, anche se (ed è solo qui la differenza, nel tipo di soggetto prescelto) si dà la patente di “vera donna” solo alla donna giovane, piacente, ben truccata e “disponibile”.

Quando si sente parlare di “vera donna” o di “vero uomo”, si è in presenza di un discorso autoritario: ovvero laddove vengono pronunciate queste espressioni, c'è qualcuno, da qualche parte, che si arroga il diritto di attribuire patenti esclusive, di stabilire chi è in e chi è out, e quindi di decidere chi può a pieno titolo far parte della “tribù”, in quanto “vero uomo” o “vera donna”, e chi invece ne è escluso come indegno. E' un modo di procedere “tribale”, dunque, nel peggiore dei sensi, ed è volto soltanto a confermare il potere dei “capi”, dei “decisori”, che premiano – concedendo la patente di “vero uomo” o “vera donna” – la fedeltà ai valori che essi ritengono gli unici validi; è un procedimento che è eminentemente tipico della mentalità tradizionalista, ed è infatti volto a perpetuare i luoghi comuni, gli stereotipi di genere e i pregiudizi di una collettività.
(Tanto è vero che poi, e non certo per pura combinazione, come fa notare Valeria Ottonelli, l'identikit della “vera donna” tracciato dal femminismo moralista coincide con quello della donna che – secondo un'ancestrale tradizione – si “sacrifica” per la famiglia).

La “giovane disponibile”, che mette a frutto le proprie grazie per ricavarne un compenso, è probabilmente un'opportunista e una persona moralmente “disinvolta”; ma è per questo anche una donna “non vera”? Fino a che punto, poi, è moralmente autonoma e fino a che punto è “succube” del sistema, condizionata (dalle televisioni, forse?) o plagiata e dunque incapace di fare scelte consapevoli? (E chi può dirlo? chi è autorizzato a rispondere al suo posto?)

La società “mercatizzata”, dov'è in atto una sorta di “compravendita universale”, che riduce pressoché ogni rapporto sociale a puro scambio economico (o preme fortemente, al limite irresistibilmente, in questa direzione), è il vero problema, e su questo piano andrebbe spostato il discorso, anziché farlo volare basso intorno alla diatriba fittizia e sterile “vera donna”/ “donna non vera”.

E' la “mercatizzazione generalizzata” (vero paradigma onnivoro del nostro presente) che attraverso il flusso di denaro che genera, mantiene e perpetua le gerarchie sociali “squilibrate” attualmente esistenti (fondate in realtà sul nulla, dal momento che la ricchezza che un soggetto possiede non è di necessità direttamente proporzionale ai suoi meriti umani, sociali, civili, intellettuali, ecc.), perché chi è in posizione di vantaggio, può comprare il tempo e la vita di un insieme innumerevole di persone, tenendole a propria disposizione per i bisogni più disparati – che nel tempo si allargano a dismisura, fino a combaciare potenzialmente con ogni necessità e desiderio del “pagante”.

E chi è socialmente svantaggiato finisce per calcolare come “opportunità” (di riscatto sociale, ad es., oltre che di arricchimento) il tempo e persino il corpo che mette a disposizione del proprio “compratore”.
In questo quadro, la barriera ideale posta dalla “morale corrente” (con termini più antichi, dal “buoncostume” e dal “decoro”), lungi dal mettere in crisi la vocazione espansiva del paradigma “mercatista” costringendolo a recedere e ad abbandonare certi territori dell'esistenza, diventa invece soltanto un fattore che fa salire il costo del “servizio” richiesto e ne accresce dunque il “valore di mercato”.

E per tornare alla “retorica dell'autenticità”, osserva Valeria Ottonelli:

«Quello che spesso succede [...] quando ci viene chiesto di essere “noi stessi”, di mostrare la nostra “vera faccia”, è che ci si invita ad aderire a un qualche modello di come dovremmo essere e che è diverso da come appariamo agli altri e da come gli altri ci interpretano. Quando ci viene detto che non siamo autentici, c'è sempre un po' di sottile violenza in chi ci attacca [...]» [Ottonelli 2011, p. 42].

Quando qualcuno rimprovera qualcun altro di non essere “autentico” o critica determinati comportamenti o valori in quanto “non autentici”, si colloca di fatto su un piedistallo o meglio su un pulpito poiché si sente investito del diritto, o persino del “sacro dovere”, di mostrarci attraverso le sue parole la “luce” di ciò che è autentico, riportandoci sulla “retta via”.
Dove si sente parlare di autenticità, possiamo star certi che ci sono nelle vicinanze “solerti guardiani dell'autenticità” che vigilano attenti.

E' un bel dire: “Sii te stesso/a!” Cosa significa, al di là dell'allettante formula, della quale forse nei nostri tempi si abusa?
Ma soprattutto – come sottolinea V. Ottonelli, prendendo spunto in particolare dalla critica che L. Zanardo rivolge alla chirurgia estetica, “burqa di carne” – è problematico asserire l'esistenza di un “dovere di essere autentici” o di un “dovere di essere sé stessi”. Su cosa si fonda un simile dovere? chi lo ha stabilito, e per quale scopo? (e torniamo in fondo alla distinzione fra “morale” e “moralismo”: la morale deve elaborare argomentazioni convincenti per sostenere le proprie asserzioni; il moralismo si accontenta di sentenziare e condannare, postulando anche l'esistenza di doveri che poi non sa giustificare.)

Il problema è che l'autenticità assoluta non esiste, è una chimera. Così come non esiste l'assoluta autonomia. Non siamo monadi, viviamo in una trama di rapporti sociali, fin da quando nasciamo, e i nostri comportamenti e le nostre scelte non si spiegano interamente al di fuori di ciò che siamo in relazione ai contesti sociali nei quali ci siamo formati o coi quali interagiamo.

Come fa correttamente notare Valeria Ottonelli:

«[...] pensare che le persone che ci circondano, e noi stessi, nella misura in cui nella nostra vita quotidiana facciamo scelte che obbediscono a pressioni sociali e culturali non siamo autonomi è inutilmente offensivo nei nostri confronti. Siamo autonomi quanto basta, anche se non siamo completamente autodeterminati e non stiamo a scandagliare le nostre motivazioni recondite quando facciamo le stesse scelte che più o meno fanno tutte le persone nella nostra posizione sociale» [Ottonelli 2011, pp. 43-44].

Nessuno può creare da se stesso i punti di riferimento (culturali, sociali) ai quali rivolgersi per orientarsi nelle scelte e nei comportamenti: pensare il contrario è surreale; dunque, sotto questo profilo, nessuno/a può essere “autentico/a” (se si considera autentico chi è completamente libero da ogni condizionamento sociale, familiare, culturale, ecc.), e tutti finiremmo per essere bocciati/e in un ipotetico “esame di autenticità” dai “solerti guardiani” della medesima.

2 commenti:

  1. Interessante analisi di un testo che immagino altrettanto interessante.

    Ti confesso una cosa: a me le donne che si schierano contro altre, accusando queste ultime di non rendere un buon servizio all'immagine della donna, hanno sempre dato i brividi. Non esiste un'immagine univoca della donna e della femminilità.
    Le soubrettine, le veline, le olgettine ecc. fanno parte di un fenomeno sociale ben più complesso che non può essere ridotto solo allo stereotipo di una certa femminilità da condannare e giudicare.
    Già indicare un modello di femminilità giusto, piuttosto che un altro, è una chiusura, una forma di discriminazione non meno peggio di quella maschilista.

    Concordo anche sul fatto che se le donne vogliono ottenere maggiori riconoscimenti sociali e culturali non dovrebbero stare ad aspettare che muti lo sguardo prospettico dell'uomo su di esse, ma farsi artefici attive del dirottamento di questo sguardo. Certo, i cambiamenti culturali richiedono tanto tempo e questo un po' sconforta.

    Comunque le donne, da sempre, sono le peggiori nemiche di se stesse. Gli uomini sanno essere più solidali tra di loro. Forse perché per secoli a noi è stato negato il pieno dispiegamento delle nostre potenzialità e questo ci ha rese più fragili, più bisognose, a volte, di parteggiare per la parte maschile, a volerne ricevere appoggio e benevolenza. L'accondiscendenza verso l'uomo credo sia il male peggiore.

    Infine, riguardo l'autenticità, anche qui mi trovo d'accordo con le riflessioni dell'autrice e con le tue.
    Molti confondono "autentico" con "naturale", ma sappiamo bene che tutto è sovrastruttura culturale, anche il solo fatto che intellettualizziamo certi discorsi, quindi di "naturale" non c'è nulla ed autentico è tutto ciò che, in una qualche misura, si fa più vicino al sentire di una persona; faccio un esempio: se una persona ha la sfortuna di nascere uomo ma di sentirsi, percepirsi donna, e desidera, per meglio far aderire la sua immagine mentale di sé stesso a quella reale e concreta del corpo, di operarsi, dovrebbe, soltanto per questo, essere definito meno autentico? Io non sono d'accordo.
    Perché le vere donne dovrebbero essere solo quelle che hanno figli e lavorano? Se una ha la fortuna di non aver bisogno di lavorare o non vuole mettere su famiglia, per questo è meno donna?

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    1. Sì, l'imperativo dell'"essere autentici" è di matrice autoritaria; implica infatti l'esistenza di una qualche pseudo-autorità che stabilisca (su che base?) chi è autentico/a e chi no. E non è di solito una scelta innocente o disinteressata, ma presuppone sempre un giudizio di valore volto a decidere quali "prescelti" saranno premiati, indicati come modello, ecc., e quali "esclusi" saranno invece - in quanto "inautentici" - consegnati a una qualche gogna o a un qualche ostracismo.
      E invece, non esistono "veri uomini" o "vere donne", come non esistono "veri europei", "veri italiani", "veri napoletani", ecc.; ma solo (una pluralità di) "uomini", "donne", europei, italiani, napoletani, ecc., che *proprio nella loro sconfinata varietà*, i cui caratteri sono indecidibili a priori, costituiscono la "generalità" (altrettanto indefinibile) della loro "specie" o del loro "genere".

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