1.
Premessa: un problema di classificazione...
Può
sembrare facile parlare di un tema come la dittatura.
Ciascuno di noi forse intuitivamente “sa” di cosa parliamo quando
parliamo di dittatura
(come concetto) o di dittature
(come fenomeno storico e politico). Ma, come spesso càpita, quando
si tenta di passare dalla conoscenza “intuitiva” alle
definizioni, sorge qualche problema. Le definizioni infatti non
riescono mai a “catturare” in maniera perfetta i fenomeni della
realtà, giacché dovendoli classificare secondo categorie,
e dovendosi quindi in questo processo confrontare con i problemi
connessi all'uso del linguaggio,
i dilemmi che esse producono e sollevano sono forse molti di più di
quelli che riescono a sciogliere in maniera convincente.
Da
un lato è vero che con le definizioni ci si deve confrontare, perché
servono a farci riflettere sul senso che diamo ai concetti, e talora
riescono anche a correggere determinati errori e luoghi comuni
relativi al nostro rapporto con la realtà e alla nostra maniera di
leggerla; ma, dall'altro, a volte dare troppa rilevanza alle
definizioni e alle categorie, che necessariamente sono costruzioni
intellettuali, può farci perdere il contatto con i fenomeni che
quelle categorie e definizioni originariamente avevano intenzione di
spiegare. Mettere in questione le “categorie” consolidate nel
discorso pubblico e anche nelle discipline scientifiche e accademiche
può essere un atto “virtuoso”, perché consente un nuovo
“sguardo sulle cose”, che prelude a un nuovo modo di leggerle e
interpretarle, magari più convincente di quello comunemente
“accreditato”, o almeno alternativo (e non per questo
necessariamente arbitrario). Quindi, proprio per amore della
conoscenza, può risultare necessario e/o vitale porre in dubbio (in
maniera parziale o radicale) le “categorie consolidate”.
Qui
– per tornare al tema – non è mia intenzione soffermarmi sulle
“definizioni” relative alla dittatura, ma non posso neppure
eluderle del tutto, anche perché il discorso che voglio fare
affronta in parte la percezione che si ha del “fenomeno”
dittatura; e in quella percezione la “battaglia sulle definizioni”
ha un ruolo particolare, forse non determinante ma tuttavia
importante.
Innanzitutto,
dittatura non è un
termine sufficientemente preciso, quando ci si riferisce a
ordinamenti politici moderni e contemporanei: è però un termine di
uso comune, e quindi lo si adopera anche in riflessioni “serie”
per far comprendere a tutti/e con chiarezza di cosa si sta parlando.
Se
con “dittatura” intendiamo indicare genericamente tutti i regimi
politici che non sono democratici, il termine più corretto da usare
è autocrazia. Ma
anche precisando questo, non abbiamo ancora detto granché: difatti,
come gli studiosi ci insegnano, esistono diversi tipi (o anche
“gradazioni”) di autocrazia. E qui comincia a presentarsi qualche
problema, in termini di categorie e definizioni,
poiché non tutti gli studi e gli studiosi (di scienza politica, ma
anche di filosofia politica, di storia del pensiero politico, ecc.)
concordano sulla classificazione delle autocrazie.
Non è il caso di addentrarsi in questo “labirinto delle
classificazioni” (non è in sé l'oggetto principale di queste
riflessioni), ma citiamo solo quelle che per consenso pressoché
generale sono considerate le due principali tipologie di autocrazia,
ovvero i regimi autoritari e
i regimi totalitari
[altra categoria di un certo interesse, che rientra nella “famiglia” delle autocrazie non essendo tuttavia tecnicamente una “dittatura” in senso proprio, e che si può trovare
denominata in modi differenti a seconda delle trattazioni e degli
autori che se ne sono occupati, è quella dei regimi
dinastici o tradizionali,
che perlopiù fa riferimento alla specie più “antica” (e
tuttavia ancora esistente in alcune parti del mondo) di autocrazia,
quella delle cosiddette monarchie assolute. Questa categoria, però,
in quanto “residuo” di epoche passate e talora anche remote, si
colloca su un piano differente rispetto alle altre due prima citate,
tipiche invece della “modernità”].
Forse
proprio da questa “bipartizione” derivano i maggiori problemi,
non soltanto nella classificazione delle dittature, ma soprattutto
nell'interpretazione e
nella definizione
della dittatura come “tipologia di regime” (insomma, nella
risposta da dare alla domanda: “Ma cos'è la dittatura
e in cosa consiste la sua specifica natura?”).
In
realtà, la “specie” di dittatura o autocrazia più difficile da
definire – benché sia quella sulla quale si sono concentrati gli
studi più voluminosi e accurati – è il totalitarismo.
C'è chi addirittura nega che esista o sia mai esistito un regime
politico reale riconducibile a questa categoria: per comodità di
discorso, possiamo definire questi critici come contestatori
della “categoria totalitarismo”.
2.
Una categoria specifica: totalitarismo
Da
dove deriva la difficoltà della definizione, e di conseguenza la
“contestazione radicale” della categoria-totalitarismo?
Innanzitutto – come sottolineano i “critici” suddetti – il
concetto di totalitarismo
è stato elaborato “a tavolino” da alcuni studiosi per cercare di
evidenziare la specificità e la novità “deleteria” costituita
da alcuni regimi autocratici del Novecento, in particolare il regime
nazista e la fase stalinista del regime comunista sovietico, che
rappresenterebbero dunque non solo i due grandi “modelli storici”
di totalitarismo, ma anche, al tempo stesso, i paradigmi del
totalitarismo medesimo: ovvero, normalmente gli studiosi traggono
dalle pratiche poste
in atto dal nazismo e dallo stalinismo gli elementi utili a definire
in senso teorico che cosa
il totalitarismo sia.
Certamente
un punto di riferimento imprescindibile per lo studio del
totalitarismo è il voluminoso testo di Hannah
Arendt, Le
origini del totalitarismo,
pubblicato nel 1951; e il cuore della analisi di H. Arendt era lo
studio di determinati caratteri del regime nazista (e in misura
minore, a causa della scarsità di informazioni disponibili
all'epoca, del regime stalinista), a partire dai quali l'autrice
s'interroga sulle cause
che possono determinare culturalmente (prima ancora che
politicamente) il sorgere del “flagello totalitario”.
Altri
autori sono stati parimenti determinanti nella definizione del
totalitarismo, in
particolare Carl J.
Friedrich e Franz
Neumann. I loro studi, e
anche quelli più recenti sul tema, non sono stati sempre in accordo
con l'analisi di H. Arendt, ma hanno comunque confermato
(rafforzandone se possibile la “forza teorica”) l'esistenza di
una specifica categoria di autocrazie definibile come totalitarismo.
La
rilevanza specifica di questa categoria – e le polemiche che essa
ha suscitato e suscita – si comprende se si pensa che il concetto
di totalitarismo cerca di isolare alcuni specifici tipi di autocrazia
che rappresentano un potenziale pericolo
non solo per i diritti fondamentali dei cittadini dei paesi retti da
quei regimi (diritti che a ben guardare sono minacciati in qualunque
autocrazia) ma anche per la pace nel mondo. Infatti, una delle
caratteristiche unanimemente attribuite ai totalitarismi è la loro
volontà di creare una “umanità nuova” attraverso l'imposizione
di una specifica ideologia
(non importa se “di destra” o “di sinistra”) che faccia
tabula rasa di tutta
la cultura precedente, di tutto il pensiero accumulato e prodotto
sino al momento dell'avvento del regime (ove il “pensiero”
include anche i princìpi del diritto, le categorie politiche
correnti, di solito anche le tradizioni religiose, ecc.); e la
creazione di questa “umanità nuova” non può conoscere
frontiere, ma deve potenzialmente avere come obiettivo anche le altre
nazioni e gli altri popoli, sia per garantire sicurezza al regime che
per ragioni “ideali” (la necessità di “convertire” il mondo
con ogni mezzo ai
princìpi nuovi e irresistibili imposti dall'ideologia di regime).
Con
tutte le cautele possibili (perché, come si diceva all'inizio, le
definizioni hanno in sé sempre una dose di approssimazione),
possiamo quindi ritenere i regimi totalitari come una sorta di forma
moderna, e completamente “mondana”, di teocrazia,
che comporta anche una non trascurabile dimensione “messianica”
(il “rinnovamento” e la “conversione universale”
dell'umanità). Oserei aggiungere che tali forme di governo si
spingono anche oltre le teocrazie, giacché non collocano alcun ente
al di sopra del “supremo leader” del regime, il quale rappresenta quindi una sorta di “divinità in
terra”, dotata di infallibilità, onniveggenza, forza sovrumana,
ecc. [Interessante, in proposito, anche per distinguere i caratteri
della “teocrazia” propriamente detta da quelli dei regimi
totalitari, lo studio che Emilio
Gentile fa delle
ideologie totalitarie come “religioni politiche” (v.
bibliografia, in fondo al post), che, come lo studioso precisa, non
debbono comunque essere confuse con la nozione di “religione
civile”].
Torniamo
però alle critiche dei contestatori della “categoria-totalitarismo”.
Un aspetto perlomeno problematico della teoria del totalitarismo, che
alcuni di loro mettono in luce, è l'individuazione degli specifici
regimi politici che si possono o si devono ricondurre a tale
categoria. Anche ammesso che ci sia accordo sui paradigmi di partenza
(nazismo e stalinismo), in quanto “sicuramente” totalitari, non è
detto che sia poi semplice stabilire se altri specifici regimi
autocratici del presente o del recente passato siano totalitari
oppure “semplicemente” autoritari. E difatti gli studiosi sulla
classificazione di altri regimi autocratici (che non siano i due
“paradigmi storici” del totalitarismo) non sono sempre concordi.
Un'altra
critica che viene sollevata da alcuni contestatori della
“categoria-totalitarismo” (i quali non fanno mistero di voler “riabilitare”, in tutto o in parte, lo stalinismo) è che quest'ultima tenderebbe ad
“appiattire” in un'unica indistinta “specie” due regimi che
sarebbero in realtà profondamente diversi tra loro, come il nazismo
e lo stalinismo. Tali critici quindi denunciano il carattere a sua
volta “ideologico” del concetto stesso di totalitarismo, che a
loro giudizio ha una funzione soprattutto anticomunista,
poiché mira a criminalizzare l'azione di Stalin, stravolgendola sino a
individuare in essa forzate analogie con l'ideologia e la pratica politica naziste, contro le quali il regime
stalinista pure ha combattuto, contribuendo alla loro sconfitta
storica. Secondo questi critici, insomma, il totalitarismo è uno
strumento concettuale con l'ausilio del quale (in concomitanza con
altri strumenti) gli Stati Uniti mirano a costruire un'agiografia
della propria missione politica nel mondo, agiografia nella quale
rientra la strategia di criminalizzazione sistematica di tutto ciò
che risulta “antiamericano”, dipinto come “male assoluto”,
espressione della quale “totalitarismo” è solo uno dei sinonimi
più sofisticati e insidiosi.
Potrò
forse a questo punto scandalizzare qualcuno, ma a me non interessa
disquisire di totalitarismo, e neppure m'interessa stabilire se e
fino a che punto uno specifico regime sia autoritario oppure
totalitario. Molti ad es. si accapigliano sulla qualificazione da
attribuire a regimi come il fascismo o il franchismo: sono totalitari
oppure autoritari? Io non sono particolarmente interessato a queste
diatribe; non è la “categorizzazione” che m'interessa in quanto
tale; trovo che le autocrazie o dittature – nonostante le loro
specificità e differenze (nessuna dittatura è perfettamente uguale
a un'altra, nemmeno all'interno di “grandi famiglie
ideologiche/tipologiche” di riferimento, come ad es. le “dittature
comuniste” o le “dittature militari”) – abbiano determinati
caratteri “somatici” che le contraddistinguono. Non possiamo
forse sempre elencarli con precisione, ma possiamo comunque
percepirli. Soprattutto (ciò che più conta) possono percepirli
coloro che sulla loro pelle e nella loro carne li hanno vissuti e
subiti.
Posso
perciò anche dare parzialmente ragione ai contestatori
“filostaliniani” della “categoria-totalitarismo” (cioè,
affinché non si fraintenda, posso convenire sul fatto che fra una
dittatura e l'altra ci siano differenze anche importanti, che dal
punto di vista dell'analisi storica è doveroso rilevare), ma ciò
non toglie che io mi ponga in termini critici contro la dittatura
come sistema di
governo, a prescindere dal contenuto ideologico della sua dottrina
(che può essere solo abbozzata,
o “minimale”, come nei regimi definiti autoritari,
oppure corposa e articolata, come nei regimi totalitari
propriamente detti). Nessun fine, per quanto in astratto possa essere o apparire buono, giustifica simili mezzi. La sproporzione è eccessiva.
Critico
cioè il sistema
istituzionale, il modo di intendere il rapporto fra governanti e
governati (la struttura ferocemente verticistica e “settaria”
delle dittature moderne, basate comunque sul principio di autorità),
prima ancora che la dottrina ideologica che regge questo o quel
regime. E' l'offesa all'intelligenza e all'autonomia del cittadino
(trattato sempre dalle oligarchie di regime come “corrigendo”,
come “potenziale reprobo” ed “eterno minorenne”) che io
innanzitutto contesto, prima ancora di considerare nel merito
l'ideologia che il regime propugna.
E
nel far questo – si badi – io non addito un particolare modello
istituzionale (ad es., la democrazia americana) come il “traguardo
perfetto” da raggiungere, e come il “bene assoluto”, il
“paradiso in terra”; criticando le patologie gravi di un sistema
istituzionale (quello relativo alle dittature) e della sua “logica
specifica”, non annullo né dimentico i problemi che si possono
riscontrare in altri sistemi; tuttavia non posso nemmeno concordare
col (difettosissimo) ragionamento di certi contestatori della
“categoria-totalitarismo” o di certi “nostalgici” delle
dittature novecentesche, che recita più o meno così: “Siccome non
si può negare che la democrazia sia piena di difetti e di storture,
non possiamo criticare più di tanto i difetti presunti delle
dittature”. A un tendenzioso ragionamento del genere posso solo
rispondere: A ciascuno il suo.
[Ovvero,
per chi proprio non capisca: anche alla democrazia, quando occorre,
vanno mosse delle critiche; ma nonostante ogni possibile critica, non
può esserci dubbio sull'opzione di fondo, giacché in democrazia una
discussione intorno ai fondamenti del sistema politico si può
perlomeno abbozzare, nella dittatura invece la critica è in sé
un'eresia, e si può soltanto piegare il capo davanti alle “direttive
supreme” e far finta che “tutto vada bene, madama la marchesa”,
se il Capo, illuminato per definizione in maniera sovrannaturale,
vuole così...].
3.
Dittature: segni particolari
Non
mi pongo qui il problema di classificare le dittature, ma voglio far
emergere, sia pure in termini schematici, le ragioni della loro
inaccettabilità.
Essendo
le dittature (per chi le subisce, almeno) un problema serio, non mi
rifugerò dietro giri di parole. A mio parere, esiste
qualcosa che possiamo definire crimine
politico e
le dittature rappresentano proprio un crimine di tale specie.
Non
è necessario fare molti passi indietro, nella storia, per riflettere
sul tema. Infatti, c'è chi ancora oggi ci viene a dire (da posizioni “terzomondiste”, ad es.) che le dittature (quelle tuttora esistenti ed operanti, in Africa, Medio Oriente, ecc.; ma lo stesso discorso vien fatto da altri per quelle “trapassate”) sono legittime,
in quanto avrebbero il “consenso” dei cittadini.
Ma
un consenso che non si può misurare precisamente e concretamente,
che consenso è? Come si fa a parlare di consenso
laddove è impedita la manifestazione esplicita e libera del
dissenso?
Immaginiamo,
per fare un paragone, gli spettatori di una rappresentazione teatrale
– ad es. nell'auditorium di una severa scuola “all'antica” o di
un collegio – ai quali sia consentito
soltanto di applaudire ma non
di fischiare lo spettacolo cui assistono: gli scolari-spettatori
possono anche rimanere in silenzio, senza applaudire, certo, ma in
quel caso il loro atteggiamento viene considerato a priori sospetto,
in quanto possibile “dissenso mascherato” o, appunto, dissenso
silenzioso – e solerti guardiani possono prenderne nota in appositi
registri, che influiranno sulla valutazione finale degli scolari.
E
allora, molti/e che non vorrebbero applaudire, pur di non passare
guai, applaudono, ma questo non vuol dire che siano convinti
della bontà dello spettacolo; se poi qualcuno registra quegli
applausi, li può utilizzare surrettiziamente come “prova” di un
presunto “consenso generale” o di un “grandioso successo”
della scuola, dei suoi spettacoli e dei suoi programmi: si tratta
però di una mossa evidentemente in malafede.
Soltanto laddove c'è piena facoltà
tanto di applaudire quanto di fischiare lo “spettacolo”, si
possono misurare – sempre con una certa approssimazione – il
“consenso” e il “gradimento” nei confronti dello “spettacolo”
medesimo e di coloro che l'hanno allestito.
L'applauso obbligato non si può
considerare un vero applauso: è una falsificazione bell'e buona, una
mistificazione alla quale – non a caso – sono affezionati proprio
i regimi autoritari, che si reggono e reggono la società
nell'equilibrio fra terrore e (continua, incessante) simulazione.
Considero
l'unanimità e l'unanimismo sempre sospetti: anche solo per ragioni
statistiche (se non per motivi più profondi), non è possibile che
in una collettività di migliaia o milioni (ma anche solo di
centinaia...) di persone, tutti/e la pensino allo
stesso modo,
in maniera compatta, disciplinata, granitica e perfin monotona.
L'umanità
non è una truppa di reclute, e il mondo non è né può essere una
caserma.
In
fondo è anche qui la stortura dell'autoritarismo e dei regimi
autocratici: immaginano di poter (e anzi, di dover)
irreggimentare
intere nazioni, facendo dei cittadini una folla di coscritti,
soggetti a un colossale “servizio di leva” che non ha mai fine.
E, come il consenso si può misurare solo
in presenza di una libera manifestazione del dissenso, così un
servizio di leva può avere un senso ed essere compreso e tollerato
solo se limitato nel tempo e solo se prevede poi un congedo
illimitato che riconsegni il “militare temporaneo” alla sua “vita
civile”, altrimenti cessa di essere un mero “servizio” e
diventa oppressione.
C'è
poi un altro problema, in quei regimi: la mancanza di ricambio
dei governanti.
Ci
sono dittatori e/o regimi che restano al potere per quaranta,
cinquanta anni: è ben strano che in un tempo così lungo, nessun
cittadino senta il desiderio di un ricambio, di un rinnovamento. I
fautori della dittatura come “regime consensuale” ignorano questo
dato, sostenendo bellamente che il tale o tal altro autocrate o
dittatore governino o abbiano governato ininterrottamente per
decenni, con l'ininterrotto
consenso
dei cittadini.
Ma se c'è desiderio legittimo di
ricambio della classe dirigente fra i cittadini dei Paesi
democratici, perché non deve o non può esserci un analogo desiderio
nei Paesi soggetti a regimi autocratici? Sono, questi ultimi, davvero
così “paradisiaci” che nessun cittadino desidera cambiare
neppure una virgola di quei “paradisiaci” governi? E' mai
possibile credere in queste favole?
Inoltre, in molti (o nella quasi
totalità...) dei regimi autocratici (anche in molti regimi
comunisti, in teoria razionalisti e dunque lontani dal culto del
“carisma”) vige il “culto del capo”, che è una vera e
propria forma di “idolatria laica”.
Ora, se è problematico postulare
l'esistenza di Entità Divine onnipotenti e onniscienti, e
soprattutto infallibili (si discute da millenni circa la loro
esistenza/inesistenza, e migliaia di pagine sono state scritte in
proposito – sostenendo una tesi o l'altra – da autorevoli
pensatori...), ancor più problematico – sino ai limiti del
grottesco – è sostenere la tesi dell'infallibilità di comuni
mortali, quali sono, fino a prova contraria, gli autocrati e i
dittatori vari & assortiti.
[Un discorso analogo si può fare in
merito ai re dell'ancien régime, ovvero delle “monarchie
assolute” (ne esistono ancora, del resto, qua e là nel mondo),
poiché anch'essi si pretendevano (o si pretendono tuttora)
“indiscutibili”, “infallibili”, perfetti, ecc.]
Dunque, per quanto i sostenitori di
questa o quella dittatura possano venirci a sciorinare le
“benemerenze” del loro “regime del cuore”, non possono
tuttavia cancellare il macroscopico falso sul quale si reggono
tutti indistintamente tali regimi: il postulato dell'infallibilità
e/o onnipotenza e/o indispensabilità pressoché “divina” del
“capo”/dittatore di turno.
Per quanto “bravi”, “sapienti”,
“illuminati”, “competenti”, ecc., possano essere – a
giudizio dei loro seguaci e fanatici “adoratori”, beninteso –
questi “gloriosi” personaggi nell'esercizio delle loro funzioni,
non sono certamente infallibili e onniscienti, né insostituibili;
dunque non si comprende a quale titolo pretendano un culto
incondizionato nei confronti della loro persona, e soprattutto a
quale titolo pretendano obbedienza “cieca”, quasi fossero davvero
divinità in terra.
In sostanza, per quanti
(discutibilissimi) “meriti” un regime autocratico possa vantarsi
di avere (i treni che arrivano in orario? la costruzione di una
presunta “società felice” e senza conflitti?...), si regge su
una serie inaccettabile di falsificazioni e di mistificazioni;
e un regime politico che si regge costitutivamente (non
occasionalmente o accidentalmente) sul falso, dal momento che
costringe un'intera società a simulare e dissimulare, di fatto le
usa violenza in ogni istante e perciò la soffoca e l'opprime, la
costringe a essere ciò che non è, a stare in un vestito non
suo, anche se il regime di turno dice di “farlo a fin di bene”
(di qualunque genere e tipo sia questo presunto “bene”...).
Il crimine politico cui accennavo prima è
a mio parere la “piena licenza” che il potere concede a se stesso
nelle dittature (licenza di torturare, uccidere, degradare moralmente
e fisicamente i cittadini, ecc.), e si traduce nel fatto che
qualsiasi crimine può essere commesso dai pubblici funzionari,
all'ombra di una struttura dittatoriale di potere, giacché non c'è
modo per l'opinione pubblica non solo di contestare il crimine
medesimo, ma anche di venirne a conoscenza, dal momento che
l'informazione è gestita in maniera monopolistica dai detentori del
potere politico e che gli organi dello Stato non sono tenuti a
seguire procedure “legali” nell'esercizio delle loro funzioni (si
pensi, per capirci, al problema dei desaparecidos in certi
regimi...).
Qualcuno (nostalgici & c.) può
obiettare: “ma anche nelle democrazie succede che...” (che
l'informazione non è completa; che non sempre i rappresentanti delle
istituzioni fanno il loro dovere; ecc.). Certo. Però ciò che nelle
dittature è per definizione pubblicamente indicibile, nelle
democrazie può invece diventare tema di dibattito, di discussione,
di critica, di contestazione, ecc.; qualche nostalgico
particolarmente “determinato” ribatte ancora: “E questo cosa
importa, cosa cambia?”. Porre questa domanda significa non rendersi
conto che, laddove la sfera della critica politica ha assunto
rilevanza e autorevolezza, la discussione pubblica non è quasi mai
fine a se stessa; specialmente quando una questione è profondamente
sentita nell'opinione pubblica (o da una parte importante di essa),
la “controparte” istituzionale non può ignorare a lungo le
critiche che le vengono rivolte dai cittadini, e qualsiasi risposta
che le istituzioni dànno in questi casi (anche in senso contrario
alle aspettative dell'opinione pubblica) assume una rilevanza, e le
cose non sono comunque più “come prima”. Il fatto che le
istituzioni in democrazia siano obbligate a dialogare con i
“rappresentati” (e quindi a riconoscere l'interlocutore, anzi gli
interlocutori, come legittimamente titolati a porre questioni)
non è senza importanza né senza conseguenze. Il “re” scende dal
piedistallo e si desacralizza, acquisendo fattezze pienamente umane.
Parlando di dittatura e di dittature, bisogna poi forse riflettere sul fatto
che in ogni società, anche in quelle che, dopo una passata
esperienza dittatoriale, sembrano essersi assuefatte da decenni alla
democrazia, emerge qua e là la tentazione di sperimentare di nuovo
un qualche sistema di governo autocratico. A parte le tradizionali
“appartenenze ideologiche”, che in certi Paesi si tramandano di
padre in figlio (compresi certi rancori ancestrali, simili a faide
temporaneamente ibernate ma pronte a riesplodere all'occasione), ci
sono altri elementi da considerare, forse, per capire il fenomeno: in
vari casi, il desiderio o la “nostalgia” di dittatura nasce da un
personale desiderio di rivalsa e/o vendetta nei confronti della
società o del “sistema”, ma il “desiderante” solitamente
pensa di far pagare agli altri gli inconvenienti della dittatura
(repressione, carcere, torture, ecc.) e di ritagliare per sé solo i
vantaggi (promozione sociale, brillante carriera per “fedeltà al
regime”, ecc.). Si tratta di una posizione evidentemente cinica e
opportunistica, il più delle volte velleitaria, ma certo la storia
delle dittature è piena di personaggi che sono arrivati ai vertici
di comando in base a simili “sentimenti” e li hanno poi
atrocemente manifestati nell'esercizio del potere. Un altro “elemento
scatenante” per certi desideri (di... ritorno al “mondo vecchio”)
è il richiamo del “branco”: linciaggi, pogrom e “spedizioni
punitive” contro minoranze etniche e “nemici politici” o “del
popolo” sono i naturali compagni di viaggio delle
autocrazie, che se ne servono infatti sapientemente per attuare le
proprie politiche o per consentire ai “governati” di dare sfogo
alle loro rabbie represse (affinché queste non si rivolgano contro
le strutture stesse del regime, che deve rimanere sempre “al di
sopra di ogni sospetto”).
Inoltre, in certe posizioni di sostegno
alle autocrazie e agli autoritarismi colgo un atteggiamento
infantile-adolescenziale per ciò che riguarda le aspettative nei
confronti del potere politico: proprio come talora un ragazzino
(poniamo) di dieci anni, posto di fronte a un problema sociale, del
quale magari si parla in televisione, sogna l'intervento di un
“supereroe” che con la sua sola forza spazzi via il “male”
(ingiustizie, difficoltà, prepotenze, ecc.), allo stesso modo
qualcuno, pur adulto, “sogna” che un “supereroe”, nelle sembianze di
un qualche “capo mirabolante”, con la sola forza delle sue
irresistibili capacità, faccia fronte ai problemi del mondo o della
nazione, risolvendoli d'incanto.
Ma è il “vissuto” delle dittature che concretamente esistono o sono esistite nel mondo a smentire le fantasticherie intorno alle dittature sognate o solo immaginate, o anche “imbellettate” grazie al maquillage di una memoria non veritiera e/o volutamente parziale e “mercenaria”. Ed è questo “vissuto” orrido e raccapricciante che mi interessa e che non voglio né vorrei mai, per nessuna contingente “convenienza”, dimenticare.
Dopo aver ascoltato varie testimonianze
di perseguitati politici di varia provenienza, e quindi il “monotono”
ripetersi di determinati metodi che evidentemente accomunano le
dittature, le autocrazie e le democrazie solo apparenti (o “solo
elettorali”) di vario colore e di varie latitudini [e en passant
chiedo ironicamente ai fans delle dittature, che sono anche
tendenzialmente negazionisti: sono tutti mentitori, quei
perseguitati? Si sono segretamente messi d'accordo in tutto il mondo,
dalla Siberia a Guernica, dalle Ande al Fiume Giallo, da Phnom Penh ad
Auschwitz, per calunniare le “meravigliose, innocenti” dittature
del vostro cuore?], mi è capitato più volte di chiedermi: come mi
esprimerei io, al loro posto? In che termini riassumerei il mio
desiderio legittimo, sacrosanto di riappropriarmi della mia pubblica facoltà di
giudicare (e dunque anche di criticare e dissezionare con un ideale “bisturi” discorsivo implacabilmente, senza alcun timore reverenziale) l'operato dei
“miei” governanti-aguzzini, mettendoli davanti alle loro responsabilità, giacché non sono e non saranno mai dèi intoccabili e neppure semidei?
Ho pensato che mi esprimerei più o meno
così... Un regime politico che incute terrore o paura ai propri
cittadini, e che anzi si mantiene in vita proprio grazie alla paura
che suscita, non può ottenere nessuna legittimazione, perché questa
– a meno che uno Stato non voglia degradarsi sino a somigliare a
una banda di malfattori e di gangster (sia pure legalizzati) – non si può estorcere con la forza. Un
governo che terrorizza i cittadini e viene a cercarli nelle loro
case, nel cuore della notte, comportandosi come un assassino
qualunque, senza un'accusa precisa nei loro confronti, senza nessuna
garanzia di legge, permettendosi di abusare a proprio piacimento dei
loro corpi e delle loro vite, non può chiamarsi “governo”, anche
se si è appropriato del “volto” e del sigillo dello Stato per
fare ciò che fa; ma Stato, ripeto, non è, perché non posso
riconoscere come Stato un gruppo di soggetti che non mi riconosce
come persona e che sbandierando una propria presunta infallibilità,
non accetta alcuna critica da parte mia o di altri. E non essendo
civilmente riconoscibile, poiché non offre nessuna garanzia, non può
invocare nessuna “ragione di Stato” per dare una parvenza di
necessità politica ai propri atti.
Un'ultima considerazione. La dittatura, o
autocrazia, non è che la forma politica e dunque
l'oggettivazione in termini istituzionali di un principio che
struttura anche la mentalità e i comportamenti di varie persone o
gruppi sociali: l'autoritarismo inteso qui non come regime
politico ma come tendenza o atteggiamento mentale e/o culturale.
Il problema più rilevante risiede proprio qui, in questo “sottofondo
collettivo”, sociale e psicologico, che si cela (o si svela, a
seconda delle occasioni) tra le pieghe della convivenza e dei
comportamenti più o meno diffusi. Troppe volte la dittatura può
reggersi e vantare (un minimo di) consenso proprio in quanto fa
l'occhiolino a questo atteggiamento mentale/psicologico/culturale, e
conta sulla sua “complicità” fattiva, esplicita o implicita che
sia.
Va da sé, quindi, che essere contrari
alla dittatura, come forma politica, significa essere radicalmente
critici e motivatamente, consapevolmente ostili nei confronti
dell'autoritarismo come “paradigma culturale” e come “forma
mentis” o atteggiamento di singoli o di gruppi.
POSTILLA
N. 1
Come ho accennato più sopra, la condanna
delle dittature non implica che le democrazie siano, o si debbano
considerare, esenti da difetti e da critiche; non esclude nemmeno che
le democrazie possano degenerare. La “manutenzione” delle
democrazie è affidata ai cittadini, che devono imparare a
prendersene cura. D'altra parte, bisognerebbe anche imparare a
distinguere le varie esperienze democratiche, o che si presentano
come tali, giacché al di sotto delle apparenti somiglianze, i vari
ordinamenti democratici possono essere anche molto differenti fra
loro; alcuni possono essere semplici “democrazie in via di
costruzione” o “quasi-democrazie”. Inoltre, non tutti i regimi
che si presentano a un'analisi superficiale come democratici lo sono
poi veramente. Oggigiorno le forme più sofisticate di dittatura
possono perfino nascondersi sotto la comoda apparenza di “democrazie
(solo) elettorali”, regimi nei quali, al di là del “rito”
elettorale, svolto peraltro con disinvoltura (rito che serve a tenere
pulita la “facciata” esterna e “presentabile” del regime),
non c'è quasi nient'altro di realmente “democratico” (a
cominciare dalla libertà di stampa e di pensiero).
POSTILLA
N. 2
Forse è opportuno non dimenticare che in
molti casi la democrazia è frutto di lotte di liberazione e, anche
solo per questo motivo, e nonostante tutte le critiche che possono
esserle rivolte, merita rispetto (che è cosa diversa dalla
venerazione acritica).
POSTILLA
N. 3
Non escludo che, in virtù dei suoi
difetti e limiti, si possa superare l'attuale forma di democrazia,
per approdare a un ordinamento politico che rispecchi e rispetti
ancor meglio le aspettative e gli “spazi” dei cittadini; un
“superamento” di questo tipo non dovrebbe suscitare scandalo né
preoccupazione, neppure se il “nuovo” regime, per qualche buona
ragione, perdesse del tutto il nome di democrazia. Non è tanto al
“nome” che dobbiamo tenere, quanto ai contenuti. Quello che
invece non si può accettare, a mio parere, è che i difetti e i
limiti dell'attuale forma di democrazia vengano usati come pretesto
per riproporre, e per “rifilarci” un giorno, una qualche forma di
dittatura. Riassumendo, quindi: i mutamenti in sé non devono
spaventare, se si tratta di andare dal “meno” verso il “più”;
non sono invece ammissibili se, sotto la veste generica del
“cambiamento” o del “rinnovamento”, si nasconde in realtà un
“ritorno al vecchio”, i cui difetti inemendabili abbiamo già
abbondantemente sperimentato...
POSTILLA
N. 4
Non bisogna credere che la democrazia
(nella sua forma attuale) sia la panacea per ogni “male”
politico. Ad es., la convinzione secondo la quale le democrazie
sarebbero portate “per natura” alla pace si è rivelata infondata
[e comunque, ancora una volta, la dittatura non è la soluzione:
se le democrazie sono a volte aggressive, le dittature lo sono
mediamente per loro intrinseca natura, e lo sono quotidianamente
anche nei confronti dei loro stessi cittadini]. A mio personalissimo
parere, la democrazia, come oggi la conosciamo, è solo la tappa di
un percorso: la mia convinzione in merito l'ho in fondo espressa già
nella “postilla” precedente. Forse, per arrivare a un sistema
internazionale più equo e accettabile, bisognerà superare gli
“Stati-nazione” attuali, ancora basati su “microcosmi” etnici
e nazionali chiusi su se stessi, quasi del tutto incapaci di
cooperare coi propri “vicini” nella gestione dei territori e
delle risorse; quando la dimensione statuale-egoistico-nazionale
attuale sarà stata eventualmente superata, si imporranno nuove
“forme” politiche e probabilmente la “democrazia” dovrà
acquistare un nuovo significato o, per designare un assetto di
governo nuovo e inedito, dovrà assumere un nome differente. E' un
discorso che non si può sviluppare qui, in una semplice “postilla”;
in ogni caso, ritengo che per lavorare fin d'ora a questa auspicabile
trasformazione, si possano ad esempio istituire serie forme di
democrazia partecipativa.
Riferimenti
bibliografici essenziali:
[La bibliografia che segue vuol essere
“minimale” e non ha nessuna pretesa di completezza; d'altra
parte, su temi come “dittatura” o “totalitarismo” esiste una
letteratura vastissima, e questo anche a prescindere dalla
letteratura su regimi specifici, come il nazismo o il fascismo, che è
immensa e che non viene considerata qui nel dettaglio]
I.
Scritti sulla dittatura (o autocrazia) in genere e sull'autoritarismo
- C. Schmitt, La dittatura. Dalle
origini dell'idea moderna di sovranità alla lotta di classe
proletaria, Laterza, Bari 1975 // ed. orig.: Die Diktatur. Von
den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum
proletarischen Klassenkampf, Duncker & Humblot, München
1921.
- B. Moore, Le origini sociali della
dittatura e della democrazia, Einaudi, Torino 1969 // ed. orig.:
The Social Origins of Dictatorship and Democracy, Beacon
Press, Boston 1966.
- S.P. Huntington e C.H. Moore (a cura
di), Authoritarian Politics in Modern Societies: The Dynamics of
Established One-Party Systems, Basic Books, New York-London 1970.
- J. J. Linz, Autoritarismo, in
Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto della
Enciclopedia Italiana, Roma 1991, vol. I, pp. 444-459.
- J.J. Linz, Democrazia e
autoritarismo. Problemi e sfide tra XX e XXI secolo, Il Mulino,
Bologna 2006.
- G. Sartori, Dittatura, in Id.,
Elementi di teoria politica, Il Mulino, Bologna 1995, pp.
57-93.
II.
Scritti sul totalitarismo (a
sostegno o a sfavore della categoria concettuale “totalitarismo”)
- H. Arendt, Le origini del
totalitarismo, Ed. di Comunità, Milano 1967; 1996; Einaudi,
Torino 2004 // ed. orig.: The Origins of Totalitarianism,
Harcourt, Brace & Co., New York 1951.
- F. Neumann, Lo Stato democratico e
lo Stato autoritario, Il Mulino, Bologna 1973 // ed. orig.: The
Democratic and the Authoritarian State, Free Press, Glencoe
(Ill.) 1957.
- C.J. Friedrich (a cura di),
Totalitarianism, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)
1954.
- C.J. Friedrich, Totalitarian
Dictatorship and Autocracy, Harvard University Press, Cambridge
(Mass.) 1965 (ed. riveduta di un volume scritto dall'autore nel 1956
in collab. con Z. Brzezinski).
- H.J. Spiro, Totalitarianism, in
International Encyclopedia of the Social Sciences, Macmillan &
Free Press, London-New York 1968, vol. XVI, pp. 106-113.
- C.J. Friedrich / M. Curtis / B.R.
Barber, Totalitarianism in Perspective: Three Views, Praeger,
New York 1969.
- R. Aron, Démocratie et
totalitarisme, Gallimard, Paris 1965; 1987.
- G. Sartori, Totalitarianism. Model
Mania and Learning from Error, in «Journal of Theoretical
Politics», 1993, vol. 5, n. 1, pp. 5-22.
- E. Gentile, Le religioni della
politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari
2001.
- D. Fisichella, Totalitarismo. Un
regime del nostro tempo, Carocci, Roma 2002.
- D. Losurdo, Per una critica alla
categoria di totalitarismo, in «Hermeneutica», 2002, pp.
131-166.
- M. Tarchi, Il totalitarismo nel
dibattito politologico, in «Filosofia Politica», 1997, n. 1,
pp. 63-79.
- S. Forti (a cura di), La filosofia
di fronte all'estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica,
Einaudi, Torino 2004.
- J.J. Linz, Sistemi totalitari e
regimi autoritari. Un'analisi storico-comparativa, Rubbettino,
Soveria Mannelli 2006 // ed. orig.: Totalitarian and Authoritarian
Regimes, Lynne Rienne, Boulder-London 2000.
III. Scritti su casi particolari di
regimi autocratici (bibliograf. relativa a testi di qualche
interesse per la teoria politica; per la letteratura strettamente
storiografica si rimanda a bibliografie di settore)
- F. Neumann, Behemoth. Struttura e
pratica del nazionalsocialismo, Feltrinelli, Milano 1977; B.
Mondadori, Milano 1999 // ed. orig.: Behemoth: The Structure and
Practice of National Socialism, Oxford University Press, 1942.
- E. Fraenkel, Il doppio Stato.
Contributo alla teoria della dittatura, Einaudi, Torino 1983 //
ed. orig.: The Dual State: A Contribution to the Theory of
Dictatorship, Oxford University Press, 1941.
- G. Germani, Autoritarismo, fascismo
e classi sociali, Il Mulino, Bologna 1975.
- E. Gentile, Le origini
dell'ideologia fascista (1918-1925), Laterza, Bari 1975; Il
Mulino, Bologna 1996.
- E. Gentile, La via italiana al
totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista,
Carocci, Roma 2001.
- A. Aquarone, La costruzione dello
Stato totalitario, Einaudi, Torino 1965.
- P. Pombeni, Demagogia e tirannide.
Studio sulla forma partito nel fascismo, Il Mulino, Bologna 1984.
- G. Pasquino, Militari e potere in
America latina, Il Mulino, Bologna 1974.
- D. Collier (a cura di), The New
Authoritarianism in Latin America, Princeton University Press,
Princeton 1979.
- E. Nordlinger, I nuovi pretoriani.
L'intervento dei militari in politica, Etas Libri, Milano 1978 //
ed. orig.: Soldiers in Politics: Military Coups and Governments,
Prentice Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1977.
Le generazioni attuali pensano che ci siano cose che non possono tornare sotto forma di ciò che è stato. Ecco perché molti giovani rimpiangono il fascismo, l'uomo forte, quello che non faceva pensare e agiva anche per il popolo. Coi risultati che sappiamo. Di mussolini non si ricorda l'atto estremo, quello vigliacco ma se ne ricordano le gesta "epiche" anche grazie ad un revisionismo che in questi ultimi anni ha raggiunto livelli insopportabili. E questo è un paese senza memoria. Ai giovani oggi nessuno insegna che la libertà è parlare, amare, pensare, scrivere, suonare, cantare, lavorare, esistere, studiare, ognuno a modo suo e nel rispetto dell’altro. Non gli atti di forza coi quali impedire che si possa amare, studiare, esistere eccetera.
RispondiEliminaNon si può educare una nuova generazione con chi nega, rivisita, cancella dalle celebrazioni ufficiali e dai programmi scolastici una Storia che tutti conoscono, anche quelli che la rinnegano. Ancora oggi si cerca di confondere le idee, di far credere che il fascismo sia ad esempio una legittima espressione di un pensiero invece che il crimine, la follia che è stato e che purtroppo in molti paesi ancora è.
Uno dei problemi del "discorso pubblico" in Italia è questo sotterraneo "flirtare" con le nostalgie. Alcuni lo fanno per intima convinzione, altri solo per calcolo politico (ragionando così: Siccome so che certi elettori sono sensibili alla "nostalgia d'altri tempi", faccio loro credere che "ci sto" anch'io; poi, una volta al potere, è chiaro che devo rispettare l'aria dei tempi, ma intanto strizzando l'occhiolino a certe tendenze, mi sono conquistato un po' di voti, e mica posso sputarci sopra...).
EliminaQualcuno, per perorare la causa del "ventennio", cerca di dimostrare - visto che altri argomenti sono ormai improponibili - che si è trattato "in fondo" di una "dittatura buona" o "alla buona". Ma "dittatura buona" (o anche "alla buona") secondo me è un ossimoro: non si dànno, in nessun modo e in nessun luogo, "dittature buone". D'altra parte, come i documenti dell'epoca attestano, il fascismo voleva fare del popolo italiano un popolo di "guerrieri", meno accomodanti e "umanitari" di quanto la loro indole (e una secolare abitudine) non li inducesse a essere. Un generale fascista dell'epoca si lamentava ad es. del comportamento degli "italiani in armi" sul fronte sloveno, dicendo che "non si ammazzava abbastanza" [lo ricorda fin dal titolo un agile testo di G. Oliva, "Si ammazza troppo poco". I crimini di guerra italiani, 1940-1943, Mondadori, Milano 2006]... Dittatura "buona"??
[Continuo]
Il fascismo, come altre dittature (totalitarie o "quasi-totalitarie": come ho detto nel post, non è l'etichetta che, in queste cose, fa la "sostanza"), tendeva in effetti a "irreggimentare" i cittadini, come se fossero una massa di "reclute". E come ho detto nel post, trattare una nazione come se fosse una caserma è, a dir poco, delirante... Addirittura il regime (come altri regimi dittatoriali basati su ideologie, ribadisco) imponeva una "divisa" politica anche ai bambini in età scolare, dunque arruolava i cittadini fin da piccoli, facendone dei piccoli soldati al servizio della "causa" (e la "causa" era la glorificazione del regime medesimo). E non è già violenza questa, indegna di un ordinamento civile? Non è già violenza pretendere di "convertire" a un credo politico una persona che è ancora nell'età dello sviluppo e che deve dunque essere lasciata libera di formarsi, prima che possa decidere a quale ideologia eventualmente aderire? Nessun ordinamento politico ha il diritto di considerare i bambini "cosa propria", ovvero una tabula rasa da "programmare" mediante sistematico lavaggio del cervello "di regime".
EliminaD'altra parte, il regime identificava il "buon italiano" con il "fascista": chi non era fascista, secondo l'ideologia allora al potere, era ipso facto un nemico della patria, non era un "vero" italiano. Ecco, il regime fascista si arrogava anche il diritto monopolistico di stabilire chi doveva essere considerato un "vero" italiano per distinguerlo (con puro atto arbitrario) da chi invece non poteva essere considerato "autentico" nella sua "italianità". Come se qualcuno (e chi?) avesse investito il fascismo, i suoi organismi e il suo "capo" della facoltà esclusiva di dare la patente di "italiano" agli italiani (e di negarla a proprio piacimento ad alcuni fra quegli stessi italiani)! E se questa non è violenza...!
[Continuo]
Quando qualche nostalgico magnifica ancora questa o quella realizzazione o benemerenza del regime, dimentica sistematicamente di tener conto della voce delle vittime della violenza del regime medesimo. Eppure, quando critica ad es. quello che è avvenuto in regimi considerati da lui cattivi (ad es. i "titini", autori delle foibe, ecc.), la prima cosa che fa è mettere in primo piano la testimonianza o la dolorosa sorte delle vittime di quei "regimi cattivi". Tipica retorica del "doppio standard" (detto anche "due pesi e due misure"). Invece io ritengo che in ogni caso e sempre, come regola generale e senza eccezioni, nel giudicare un ordinamento politico "discutibile" (anche per esser coerenti e credibili, suvvia!), si debba innanzitutto ascoltare la voce delle vittime di quell'ordinamento o regime (si deve valutare la sorte dei perseguitati politici e dei "dissidenti", il comportamento del "potere" nei loro confronti, ecc.), e poi, solo in subordine e in un secondo momento, si possono valutare i pareri e le testimonianze di coloro che da quel regime hanno ottenuto benefici, vantaggi o addirittura benemerenze. Anche per capire a quale prezzo realmente quei vantaggi o benefici sono stati ottenuti o realizzati.
Elimina[Continuo]
Bisogna poi considerare che movimenti politici come il fascismo o il nazismo - che hanno fra i loro "miti" il manganello, il pugnale, l'annientamento fisico del "nemico politico" - nascono da un humus "culturale" (basato anche su un certo Nietzsche mal letto e mal digerito) fatto di odio e disprezzo per l'"uomo comune", che - secondo tale impostazione - deve sottomettersi all'eroe, presunto "individuo superiore". E in un humus del genere sono nate pagine veramente raccapriccianti, come l'elogio della guerra scritto da Giovanni Papini nel 1913, di cui cito alcuni passi: «Il sangue è il vino dei popoli forti, il sangue è l'olio di cui hanno bisogno le ruote di questa macchina enorme che vola dal passato al futuro - perché il futuro diventi più presto passato. [...] Abbiamo bisogno di cadaveri per lastricare le strade di tutti i trionfi. [...] In verità siamo troppi nel mondo. A dispetto del malthusianismo la marmaglia trabocca e gli imbecilli si moltiplicano. [...] Per diminuire il numero di codeste bocche dannose qualunque cosa è buona: eruzioni, convulsioni di terra, pestilenze. E siccome tali fortune son rare e non bastano ben venga l'assassinio generale collettivo» [G. Papini, La vita non è sacra, in «Lacerba», 1913, n. 20, pp. 223 e sgg.; cit. anche in A. Predieri, La guerra, il nemico, l'amico, il partigiano, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 200, studioso il quale non senza ragione qualifica lapidariamente simili affermazioni di Papini come «i vaneggiamenti di un degenerato»].
Elimina[Continuo]
Ebbene, secondo me un testo come quello di Papini (a partire dall'affermazione contenuta nel titolo) è una specie di "cartina di tornasole": se ti disgusta o se quelle parole ti sembrano lontane anni luce dal tuo pensiero e/o dal tuo modo di essere e di sentire, non puoi condividere i fondamenti ideologici (e le conseguenti pratiche di dominio nonché la cinica "aristocratica" [?] noncuranza verso il valore della persona) di regimi come il nazismo o il fascismo.
EliminaIl discorso, in fondo, non è così difficile... Non lo capisce, il più delle volte, chi ha interesse a non capirlo. Concludevo il mio post sottolineando l'importanza di combattere l'atteggiamento autoritario che ancora si annida in noi, nel nostro quotidiano, nelle nostre pratiche, perché il vero problema si trova lì. E' da certe mentalità (sociali, culturali, ecc.) che poi possono nascere certi "mostri" storici e istituzionali.
Una analisi davvero interessante.
RispondiEliminaPiù rifletto su questo tema e più mi convinco che la realizzabilità della democrazia, e per converso l'esistenza di autocrazie, dipenda fondamentalmente da questioni connesse con la comunicazione, e più nello specifico con il linguaggio.
Forse mi sono addentrata troppo in questa visione, e non riesco più a uscirne (ne parlo anche oggi da me), tuttavia è proprio attraverso la comunicazione che si possono "fare passare" per democratiche delle soluzioni che non lo sono affatto.
Preziosa anche la bibliografia a corredo del tuo scritto.
Grazie.
EliminaIn effetti la questione del linguaggio e della comunicazione è importantissima, e per molti aspetti.
Tanto per cominciare, è difficile mettersi d'accordo sui "valori iniziali" da condividere, ovvero sui "pilastri costituzionali", e in questo la comunicazione ha un peso notevole (l'incapacità di arrivare a capire in certi casi, mediante il dialogo, possibili "territori d'intesa", ad es.).
Probabilmente i pochi "momenti felici" nei quali si è riusciti a creare un'intesa "costituente" sono dovuti a traumi collettivi condivisi che hanno creato di necessità una convergenza e una disponibilità all'intesa (è il caso italiano del 1947-48, ma non solo).
Tuttavia, anche in questi casi "felici", col tempo emergono divergenze nell'interpretazione dei contenuti di quell'intesa (la Costituzione), e ancora una volta il linguaggio e l'uso che se ne fa sono (gran) parte del problema.
Rousseau già individuava problemi legati alla comunicazione, e infatti, nell'ottica che gli era tipica, diffidava dell'uso della retorica pubblica, in quanto "artificio" che sviava dalla conoscenza "naturale" delle questioni sulle quali il popolo doveva essere chiamato a pronunciarsi.
Rousseau non aveva gli strumenti più "raffinati" che abbiamo oggi - in primo luogo gli studi della filosofia del linguaggio, Wittgenstein, ecc. - però ha ingaggiato una lotta "corpo a corpo" proprio contro questo "nemico" (le distorsioni e i "rumori di fondo" dovuti alla comunicazione) che lui aveva individuato nascosto "nell'ombra", per così dire, e che lo costringeva a costruire rimedi in qualche modo "paradossali" onde giungere alla "deliberazione perfetta" del popolo (perfetta in quanto scevra da condizionamenti "impropri").
Ci combattiamo da secoli, quindi, contro questo problema, e la soluzione, mi sa, non dev'essere tanto semplice :-)