Vediamo i
luoghi che ci sono familiari e crediamo di conoscerli, forse soltanto
perché sappiamo nominare le strade e le cose intorno a noi. Eppure
nemmeno questo è vero, il nostro sguardo non è abituato a
distinguere davvero ciò che vede e quindi sbagliamo già nel
nominare le cose.
In quel
poco verde che compare qua e là nella città non sappiamo vedere che
alberi, piante
e fiori.
Pochi
di noi – di noi “cittadini” – sanno realmente andare oltre la
generalizzazione.
Per
noi – per tanti di noi – è albero
tanto un leccio quanto un platano, sono ugualmente e soltanto alberi
un'acacia e un ailanto; non sappiamo nulla della loro vita, del loro
crescere e morire, del loro bisogno d'acqua e dei frutti che dovranno
creare altre generazioni di quelle specie.
E
anche se conosciamo qualche particolare tipo d'albero, non sempre ci
rendiamo conto delle differenze; per noi di solito conta molto più
la funzione che
l'essenza: “quello
lì è un albero, in quanto svolge la sua funzione,
che è quella di fare ombra, di contribuire al verde nel giardino,
alla fotosintesi, ecc.”.
Vedo
quei rari alberi dei nostri giardini urbani – quasi tutti
recintati, riservati a pochi fortunati possidenti (nei nostri tempi
si pensa ancora che le vite possano essere oggetti da possedere al
pari delle “cose” inanimate, perché nel mercato non si fanno
differenze sotto questo aspetto, conta solo la brama di chi ha e di
chi può) – e quasi mai conosco il loro nome, le loro
caratteristiche distintive, ovvero la loro cifra segreta.
Alberi
dalle foglie sottili, alberi dalle foglie finemente disegnate, alberi
dalle foglie rosse, alberi dai tronchi bianchi ed esili, alberi dai
tronchi poderosi e scuri... Non conoscendoli davvero, do loro un
unico generico nome eppure vedo che sono esseri differenti l'uno
dall'altro.
Per
noi umani il nome è un segno decisivo: non dare un nome specifico a
una cosa e a maggior ragione a un essere vivente significa non
ritenerlo/a abbastanza importante. Magari passiamo tutti i giorni per
una strada fiancheggiata da alberi, a volte ci riposiamo alla loro
ombra, eppure non ci prendiamo la briga di conoscerli
davvero: non ci poniamo neppure la curiosità di sapere qualcosa di
più di loro, li releghiamo al ruolo di alberi generici,
messi (chissà da chi? dal comune?) lungo la strada per darci ristoro
e ossigeno; altro non dobbiamo sapere e non ci riguarda – così
riteniamo... Forse perché anche noi, nonostante tutta la nostra
baldanza di “individui-a-cui-tutto-è-dovuto”, siamo ridotti a
una funzione e da quella non sappiamo schiodarci. Andare al lavoro
(se c'è), passare dal bar, al supermercato, poi a casa, poi a
divertirsi, secondo orari precisi.
Tutto il resto è contorno, è
come il fondale di un palcoscenico durante una recita: è là per
fare scena, ma non va preso sul serio. E se è così, immagino che
molti preferirebbero giardini di alberi finti – e se qualche Comune
facesse sul serio una proposta simile, si sentirebbe qualche voce
entusiasta commentare: “Almeno quelli non sporcano...”.
§
Di
solito poi per noi il cielo non è molto diverso dalla terra: se
alziamo gli occhi, a malapena notiamo quei puntini luminosi chiamati
“stelle”, giacché le luci della città riescono ormai a farli
scomparire – e possiamo pensare perciò che le “nostre” luci
siano infinitamente più potenti: mai illusione è stata più
ridicola...
E
cosa sono per noi le stelle, se non ornamenti perfettamente uguali
l'uno all'altro, che appaiono a capriccio su quella cupola
nero-bluastra per renderla meno monotona?
E
chi ha il tempo di
guardarle, anzi di cercarle, le stelle, con tante cose essenziali
che abbiamo da fare, quaggiù? Alzare gli occhi – in questo nostro
tempo da indaffarati
(veri o immaginari) che ci cattura – può servire al massimo per
osservare le nuvole e domandarci se pioverà.
Le
stelle però... C'erano prima di tutti noi, e probabilmente ci
saranno anche dopo, molto dopo, quando forse non saremo nemmeno un
ricordo (chi dovrebbe ricordarci, dopo?
a chi faremmo mai nostalgia, a quali specie inimmaginabili?) ma non
ci badiamo quasi per nulla – come se questo richiamo dell'immensità
nella quale siamo spersi non ci riguardasse minimamente. Già, siamo
indaffarati...
O
forse abbiamo timore di fermarci a considerare... che astri, corpi di
quella grandezza non devono nulla a noi, sprigionano energia e
continueranno a farlo anche in nostra assenza – come del resto
hanno fatto molte ere fa, persino prima che esistesse la nostra
terra.
E
fin là d'altra parte non può arrivare la nostra brama di dominio:
alberi, fiori e animali
li governiamo a nostro capriccio e piacimento, persino nelle nostre
leggi li rendiamo pari a cose,
a oggetti di cui
disporre – pari a un divano, a un tavolo, a un televisore...
Le
stelle però no, quelle ci sfuggono... simbolicamente ci deridono,
lassù. Quale denaro potrà mai accaparrarsi una stella? Chi potrà
mai dire, tronfio del suo potere: “Vedi lassù Vega? E' mia, l'ho
comprata io, mi appartiene, e guai a chi me la tocca! Anzi, ci metto
il filo spinato attorno e se qualche straccione si azzarda a entrarci
senza il mio permesso, peggio per lui!”.
Uno
che dicesse così lo compatireste per la sua follia e forse lo
affidereste alle cure di un buon medico... Eppure non farebbe che
recitare la stessa commedia che ogni giorno si mette in scena
quaggiù, negli infiniti angoli del mondo.
E
perché allora rideremmo di lui? Forse perché mostrerebbe di
ignorare che il denaro non sarebbe nulla lassù, dove il fuoco lo
dissolverebbe insieme al suo possessore.
Non
valgono le nostre leggi, non valgono le nostre strategie, dalle parti
delle stelle... anzi se guardiamo lassù abbiamo la sensazione che le
nostre regole e certezze sociali ci ritornino addosso trasformate in
un boomerang di assurdità.
E
così, alziamo gli occhi il meno possibile. Siamo troppo occupati...
a rinsaldare l'assoluto
delle nostre convinzioni di terrestri, provinciali sperduti nelle
galassie.
E' uno di quei problemi che attraversa l'intera storia della filosofia: la corrispondenza fra nome o idea e realtà. Il linguaggio, una convenzione umana tra l'utile e il disgragante. E' un circolo dal quale non ne usciremo mai, in quanto esseri finiti e imperfetti che necessitano di piccoli espedienti per apparir diversi.
RispondiElimina...esseri finiti e imperfetti che necessitano di piccoli espedienti per apparir diversi... Mi piace questa definizione.
EliminaIl linguaggio è al tempo stesso una risorsa e una condanna, è proprio così; non possiamo farne a meno - se vogliamo rimanere "esseri sociali" - ma, se gli diamo troppo credito, rischiamo di sovrapporre le categorie che (inevitabilmente) produce alla "incommensurabile molteplicità" delle cose, che così finisce per essere messa in ombra. Ma l'equilibrio è difficile, forse al limite dell'impossibile...