Questa
vicenda dello “spread” che, col suo imprevedibile oscillare, fa
impallidire gli esperti e vacillare i governi, mi ha suggerito un
raccontino di “fantapolitica”, nel quale finalmente
esiste una “bocca della verità” che mette istantaneamente a nudo
le incapacità di governanti ai quali gli elettori avevano dato
troppo
credito.
Lo
“spread” nella realtà (condizionato com'è da umori
incomprensibili e perfino cinici) non è adatto a ricoprire questo
ruolo “prestigioso” di deus
ex machina
che ci liberi dai disastri che disinvolte retoriche riescono per
troppo tempo a celare, però per un breve periodo ha – suo malgrado
– svolto almeno la funzione di “controfigura” di questo
comprimario desiderato e assente, suggerendocene così l'urgente
necessità...
§
Si sapeva che quel giorno la Prodigiosa
Macchina sarebbe stata pronta per offrire finalmente il suo
inconfutabile responso. Varie prove di laboratorio avevano attestato
ormai, senza lasciare spazio ad alcun residuo dubbio, che era capace
di verificare all'istante la fattibilità di qualsiasi progetto o
ipotesi o programma di lavoro, calcolando ogni possibile variabile, e
comparando con stupefacente rapidità, sul breve e sul lungo (persin
lunghissimo) periodo costi e benefici – includendo non solo quelli
puramente economici ma persino quelli sociali.
Tuttavia
in certi ambienti, dove si è allenati ad esercitare influenza, non
si dà troppo credito alle innovazioni, o meglio le si considera
sempre “addomesticabili”, adattabili alle proprie “sovrane”
necessità. Sicché all'appuntamento con l'Epocale Verifica,
reclamizzata da tutti i mezzi d'informazione, i due leader di grido,
soprannominati “Do” e “Re” (come le due note musicali, non si
sa bene perché), giunsero come di consueto impettiti e spavaldi.
Niente sembrava impensierirli, erano certi che ancora una volta
avrebbero dominato l'arena dell'opinione pubblica, incantando, come
tecnologici serpenti, le telecamere, e attraverso queste, i propri sostenitori e simpatizzanti.
Se
qualcosa preoccupava Do
e Re era quel continuo
calo di consensi che da qualche tempo i sondaggi mostravano; per la
prima volta, anzi, i consensi di Do
calavano esattamente
quanto quelli di Re.
Un tempo, invece, se cresceva il consenso per l'uno, calava quasi
automaticamente il consenso dell'altro. Adesso non più; adesso
qualcosa si era inceppato: non si capiva più dove migrassero gli
scontenti, dove portassero il loro sostegno. Era questo l'unico tarlo
che scavava nel pensiero dei due leader di grido.
Cos'era
successo ai loro sostenitori? Si erano stancati di promesse favolose
che ogni volta, ad elezioni terminate, venivano bruscamente
ridimensionate? Forse qualche volta ci si era spinti a promettere che
dalle fontane cittadine sarebbero sgorgati fiumi di vino e di birra,
o che finalmente tutti
avrebbero avuto il posto che meritavano in società in base alle loro
qualità e aspirazioni, e senza favoritismi...
Ma si sa, fa parte del gioco promettere tanto... la gente aveva
sempre capito che un margine di esagerazione c'è, suvvia... non si
era mai rabbuiata per “qualche” promessa audace che poi non era
stata mantenuta.
Forse il vento stava cambiando, e non
bastava più agitare una bandiera dai colori decisi per catturare i
favori delle masse?
No,
questo non poteva essere, ragionavano all'unisono Do e
Re. Certe cose non
cambiano così facilmente; le folle che scandivano commosse i loro
nomi non potevano aver mutato testa in così poco tempo. La gente li
amava, li adorava,
voleva addirittura toccarli: Do
e Re lo sapevano bene,
avendo dovuto varie volte, specialmente in occasione dei comizi,
sottrarsi all'entusiasmo eccessivo e frenetico dei loro caldi
sostenitori.
Senz'altro il calo dei consensi era una
faccenda temporanea – ne erano convinti – ma comunque bisognava
far qualcosa per mostrare ai milioni di cittadini che non si stava
con le mani in mano, e che si pensava sempre a loro, notte e giorno,
come i “bravi leader” sanno fare.
Pur non essendosi consultati, in quanto
rivali, entrambi erano convinti che questa Epocale Verifica,
organizzata forse soprattutto per fare spettacolo, sarebbe potuta
essere la Grande Occasione per riconquistare consensi, almeno per uno
di loro (e ciascuno dei due ovviamente si augurava di essere il
favorito).
Nei camerini dell'Importante Canale
Televisivo vennero accuratamente incipriati come signori d'altri
tempi e, quasi vedessero riflesso in quelle attente manovre l'alone
eterno e dorato del potere, le loro (lievi) incertezze
svanirono e i due leader di grido iniziarono a gonfiare i petti,
preparandosi alla frizzante tenzone. Già la loro voce si faceva
sicura e sprezzante, e trattavano i tecnici e i truccatori come umili
comparse della vita, che avrebbero dovuto ringraziare la sorte per
aver avuto il dono inaspettato di condividere per pochi attimi con simili Grandi l'aria
che questi ultimi avevano respirato.
Sulle comode poltrone dello studio
televisivo, i Grandi suddetti vollero essere illuminati con la luce migliore, affinché
il dorato alone risaltasse con l'evidenza che meritava.
«Alle ultime elezioni io ho avuto
quattordici milioni di voti. Io! Quattordici milioni! Tutti miei!»
sussurrò Do, come a voler ricordare a se stesso ed al rivale
la propria potenza, prima che il match cominciasse.
Per tutta risposta, Re scosse la
testa, per nulla intimorito:
«I sondaggi ti dànno in calo. E
comunque io alle ultime elezioni ho avuto ben dodici milioni di voti,
che non sono bruscolini, e lo sai bene... e quel che più conta, i
sondaggi mi dànno ora per favorito. Règolati un po' tu...»
«Io ti sopravanzo sempre e comunque»
ridacchiò Do. «Anzi, il miglior sostegno al mio consenso sei
tu, perché gli elettori indecisi non si fideranno mai di te, e
preferiranno sempre me, persino quelli che non mi amano troppo. E
fino a prova contraria, io rappresento ancora quattordici
milioni di elettori. Io da solo, capisci? Io sono quattordici
milioni di cittadini, io quindi sono la nazione intera!»
Nel tono di tali parole, come del resto
nel viso di chi le pronunciava, si leggeva un'esaltazione che aveva
perso da tempo ogni freno e ogni senso del limite.
Re
scosse nuovamente la testa, con
un leggero sorriso, ma Do
si accorgeva che sotto quella sbandierata noncuranza il rivale non
riusciva ancora a nascondere la ferita dello sconfitto. Rincarò
quindi la dose, a mo' di pretattica, pregustando già una vittoria
clamorosa in quella Epocale Verifica.
«Quando parlo io» mormorò Do,
implacabile, «è tutto il popolo che parla, capisci? Insomma, quando
parlo io, non sono veramente io a parlare, ma un'intera nazione, ed è
una sensazione che non ha eguali... Ho avuto il mandato per
governare alle ultime elezioni, e sai cosa significa? Che quando io e
il mio partito prendiamo una decisione, è la decisione del
popolo, mica la nostra.»
«Ah sì? E fammi capire una cosa: quando
qualcuno di voi intasca qualche mazzetta, è il popolo che la
intasca?» insinuò Re, sapendo di toccare un tasto delicato,
che avrebbe di certo fatto innervosire il rivale.
«Sappi» fece Do mutando voce
«che chi manca di rispetto a me e ai miei, manca di rispetto al
popolo. La mia persona in sé non conta nulla» aggiunse ostentando
umiltà, «io non mi difenderei neppure dalle insinuazioni, se
riguardassero solo me, ma quello che non posso tollerare è che
attaccando me e il mio partito in realtà si attacca e si offende
tutto il popolo. Infatti io rappresento il popolo...»
«L'hai già detto» ironizzò Re.
«E' inutile che fai il sarcastico! Tu
vorresti stare al mio posto, altrimenti non saresti qui stasera, a
sfidarmi...»
«Potrai resistere al massimo ancora un
mese, il Paese è in crisi e lo sai... e il tuo governo non se la
passa molto bene, con tutte quelle dimissioni di ministri»
puntualizzò Re.
«E' solo una fase passeggera, non
illuderti. Il popolo ha sempre avuto fiducia in me, e ne avrà
ancora, fìdati» dichiarò Do.
«Ma tu non sai come risolvere i problemi
del Paese, e il tuo bluff ormai è bell'e scoperto. Non vai molto
lontano, te lo dico io.»
«Invece ho ancora un asso nella
manica... anzi, tanti, tanti assi... così tanti da stenderti
tramortito. Tu e il tuo partito sarete messi al tappeto, e non vi
rialzerete più!»
Re
era sul punto di replicare, quando il Conduttore della Trasmissione
li interruppe:
«Signori, siete pronti? Fra pochi
secondi andiamo in onda...»
Lo sguardo dei due leader si accese di
tensione, e quando il Conduttore, terminati i convenevoli, diede loro
ufficialmente la parola, le schermaglie occuparono la scena.
Do
fece numerose promesse agli elettori, e Re,
individuati i punti deboli del suo discorso, li mise allo scoperto.
Do,
irritato, invitò l'avversario a parlare del suo programma. Re
con voce impostata fece a sua volta alcune promesse, e Do
lo interruppe a sorpresa, sostenendo che erano irrealizzabili.
Il battibecco si fece scoppiettante, e le
voci dei due leader di grido più volte si accavallarono. Si arrivò
persino ad accuse personali e furono sfiorati gli insulti.
«Signori, signori» li fermò ad un
tratto il Conduttore, «non vi accapigliate, per favore... forse
dimenticate che stasera finalmente abbiamo una novità decisiva: la
Prodigiosa Macchina, che vi saprà dire all'istante, con tanto di
cifre e statistiche, quante delle vostre promesse sono credibili e
realizzabili.»
Do,
ancora infervorato per la discussione, sogghignò, come volesse
intendere: “Ci vuol altro per intimorirmi! Io sono
il popolo, figuriamoci...!”
Il Conduttore sembrò cogliere
quell'espressione sul suo viso, tanto che commentò:
«Lei è scettico, per caso? Penso invece
che resterà meravigliato... Mi sento addirittura di aggiungere che
forse è finita un'epoca. Eh già» continuò, rivolgendosi con
professionale disinvoltura alle telecamere, «finora, come tutti voi
sapete, si è rivelato difficile, anzi – diciamolo pure – molte
volte impossibile individuare con chiarezza e in maniera
inoppugnabile gli errori, le cantonate e le bufale che si
nascondevano nei discorsi dei politici e nei programmi di governo, e
anche nelle decisioni di questa o quella maggioranza parlamentare, di
questo o quel leader. Adesso invece l'epoca della vaghezza e
dell'approssimazione è finita. Del resto solo i furbi d'accatto
possono rimpiangerla, credo che su questo sarete tutti d'accordo con
me...»
Re,
che forse si rendeva ben conto delle conseguenze di un tale
cambiamento, impallidì, e c'è chi lo sentì mormorare:
«Ma
è terribile, se è davvero
così!»
Do
al contrario rimaneva spavaldo, col suo inamovibile sorriso di sfida
impresso sulla faccia.
«Ma ha capito bene la posta in gioco?»
lo interpellò il Conduttore. «Ha capito che se putacaso racconta
una fandonia, o propone una misura economica o legislativa
catastrofica o inapplicabile, viene sbugiardato all'istante, senza
possibilità di equivoco, dalla Prodigiosa Macchina? Ha capito che
non c'è più ambiguità che tenga? E soprattutto» aggiunse il
Conduttore, rivolgendosi a entrambi i leader, perché prestassero la
dovuta attenzione, «signori, avete capito che si può risalire
adesso con certezza all'autore di ogni minima decisione disastrosa, e
chiedergliene conto e ragione, e che quindi non ci si può più fare
scudo delle solite scuse, come “è colpa dei governi precedenti, io
non c'entro”, oppure: “il mio programma avrebbe funzionato se
solo non ci fosse stata la crisi”?»
Re
sembrò impallidire ancor più; Do
se
ne accorse, e non gli parve vero di poter approfittare della
confusione dell'avversario per segnare un punto facile a proprio
favore. Chiese quindi la parola e con aria sicura sentenziò:
«Io sono il primo a rallegrarmi di
queste novità, che finalmente faranno chiarezza nel quadro
politico... il mio avversario non sembra del mio stesso parere» -
frase quest'ultima che pronunciò ridacchiando compiaciuto, e
proseguì: «Io sono certo che i miei elettori continueranno a
sostenermi, perché sanno che mantengo la parola.»
«Quindi non ha paura di questo
confronto?» gli chiese il Conduttore.
«Assolutamente no.»
Fino
a quel momento, l'ostentare tranquilla sicurezza era stata una carta
vincente di Do,
che quindi continuò a utilizzarla.
«E
lei?» fece il Conduttore, rivolto a Re.
«Il mio caro avversario si sbaglia sul
nostro conto» disse l'interpellato, con la fronte sudata. «Noi non
abbiamo paura delle novità, se sono per il bene del popolo...»
«Lascia
stare il popolo, tu non ne puoi parlare... il popolo sono
io,
visto che ho quattordici milioni di voti, dico: quattordici»
fece Do
sottovoce, per innervosire Re.
«Non
vantarti troppo, il potere è sempre una cosa temporanea: oggi ce
l'hai e domani no... e poi chi ti dice che quei milioni di voti sono
ancora tuoi?
Andiamo alle elezioni e vediamo» lo sfidò Re.
«Signori, prepariamoci» li interruppe
il Conduttore: «è il momento della verità.»
Le luci calarono nello studio televisivo,
e un silenzio che sembrava elettrico, attraversato com'era
dall'attenzione e dall'emozione generale, s'impadronì dell'ambiente,
e anche di molte case nelle quali gli occhi dei cittadini osservavano
quel che accadeva sullo schermo.
Il
Conduttore invitò quindi Do
a pronunciarsi, e il leader snocciolò con scioltezza il programma
del suo partito per «risolvere la crisi e rilanciare l'economia»
(quante volte nel mondo questa frase era stata già udita invano!).
Fu
poi la volta di Re,
il quale sembrò inizialmente più impacciato, ma poi, preso l'avvio,
guardò dritto nella telecamera e illustrò la ricetta del suo
partito per... indovinate? Ma sì: per «risolvere la crisi e
rilanciare l'economia», perbacco!
La Prodigiosa Macchina, che comprendeva
il linguaggio umano, aveva incamerato ogni parola, ogni sillaba
pronunciata solennemente dai due leader di grido e, sollecitata
dall'Esperto Professore che l'aveva ideata e realizzata, elaborò i
dati. Il pubblico nello studio televisivo, e in milioni di case,
attendeva...
Si
udì finalmente un suono elettronico – un suono gradevole, morbido,
carezzevole; e subito dopo la Prodigiosa Macchina – che sapeva
anche parlare, benché con una cadenza meccanica e monotona –
pronunciò parole chiarissime, inequivocabili, che con tono di
limpida sincerità, che forse solo una macchina come quella, priva di
ogni interesse nei confronti delle passioni umane, poteva permettersi
di avere, misero a nudo l'impreparazione, l'avventatezza e il
pressapochismo di entrambi
i leader di grido.
I loro programmi, dimostrò la Prodigiosa
Macchina con una precisione che lasciava senza fiato, e al tempo
stesso con una semplicità tale da farsi comprendere da chiunque, non
solo non erano all'altezza della situazione, ma se fossero stati
applicati alla lettera avrebbero danneggiato irreversibilmente
l'economia del Paese.
Re,
annichilito dalla figuraccia, balbettò qualcosa che si poteva
intendere come:
«I nostri esperti hanno sbagliato... mi
avevano assicurato che il nostro era il programma perfetto per
salvare l'economia... Hanno sbagliato loro, non io! Non io,
credetemi! Ma li cambierò, ve lo giuro! Li manderò via, li caccerò
a calci dal partito! Ne consulterò altri, più bravi di loro...»
Ma i fischi del pubblico in sala non gli
consentirono di farsi comprendere.
Do
invece non voleva darsi per vinto.
«E' un tranello, è una trappola
mediatica!» esclamò bilioso. «Sicuramente le mie parole sono state
travisate, quella macchina è al servizio dei poteri forti, non è
attendibile.»
Anche lui però conquistò la propria
dose, alquanto massiccia, di fischi e di «buuh!» del pubblico.
«Pubblico prevenuto! Pubblico venduto!»
sbraitò. «Scommetto che nessuno di voi è un mio elettore, quindi
non mi potete giudicare! Io sono il popolo. Capite? Il popolo!»
I fischi si fecero più forti, quasi
assordanti.
«Il
popolo sono io, non siete voi!» si accalorò Do,
arrivando a un passo dal delirio. «Impostori! Il popolo non siete
voi! Solo io, in quanto popolo, potrei al limite contestare me
stesso, voi non siete i miei
quattordici milioni, dunque non
siete nulla,
non esistete nemmeno!»
I fischi divennero rabbiosi e tenaci, e
coprirono ogni parola pronunciata in studio, tanto che i responsabili
dell'Importante Canale Televisivo dovettero sospendere la
trasmissione.
Fin
dal mattino seguente, nel partito di Re
cominciò ad accendersi un furioso dibattito sulle colpe
della figuraccia in diretta televisiva; ci fu chi condannò
sommariamente il leader, addossandogli ogni responsabilità, e chi lo
difese a spada tratta, con o senza validi argomenti. Ma quanto più
la discussione si accendeva e si scaldava, tanto più sembrava
avvitarsi su se stessa come una trottola incapace di fermarsi. Come
sempre, nel partito ci si immaginò di poter allontanare, con una
titanica corale analisi, il momento di accertare le responsabilità.
Quanto a Re,
si ammalò – o così ufficialmente si disse – e si ritirò dalla
scena, in attesa di trovare un successore.
«La
Macchina non ci ha capiti» esclamò sconsolato un noto intellettuale
vicino al partito.
«E'
perché – diciamocelo schiettamente – non ne ha le capacità»
gli fece eco un altro, notoriamente acido.
«Questo
non puoi dirlo» lo corresse un terzo, con l'aria da professorino.
«E
perché non posso? Non è politicamente corretto?» ridacchiò (senza
gioia) l'acido.
«No,
perché è una tesi alla quale non crederebbe nessuno. Non ci è di
nessun aiuto, anzi dire una cosa simile può soltanto farci perdere
altri voti... e non ce lo possiamo permettere.»
«Ma
io me ne frego dei voti, dei consensi... è per questa stupida
ossessione che siamo ridotti così!»
«Ma
davvero? E allora perché partecipiamo alle elezioni? per perdere,
magari? Ci diverte tanto?»
«Bisogna
fare come me, essere controcorrente, ad ogni costo! Così adesso io,
a differenza di te e degli altri, posso permettermi di dire che
quella Prodigiosa Macchina è l'ennesima stupida infatuazione
collettiva, che non capisce un tubo e spara sentenze a casaccio. Ve
le bevete voi, io di certo no!»
«Va
bene, con te è inutile parlare. Anche ammesso che sia come dici tu,
la Macchina ora c'è, e con quella bisogna fare i conti, che ci
piaccia o no...»
«Sì,
forse qui sta la questione: dobbiamo rapportarci col linguaggio della
Macchina» fece l'intellettuale che inizialmente era sconsolato, «i
tempi vanno in questa direzione, e noi dobbiamo intercettarli...»
«Ma
cosa dici? Intercettare cosa?» s'inalberò l'acido. «Ci stanno
incastrando per l'ennesima volta, e voi qui a parlare e a perdere
tempo...»
«Perché,
tu invece cosa fai, oltre che parlare?»
(Inutile
precisare che parlarono ancora a lungo.)
Nell'altro
“campo” del resto non andava meglio. Il consenso verso Do
dalla sera della Epocale Verifica cominciò a crollare miseramente;
il leader di grido arrivò a perdere ogni giorno sistematicamente il
5%; il suo partito si diede da fare per porre riparo all'emorragia,
cercando di far dichiarare «incostituzionale» la Prodigiosa Macchina, e contemporaneamente provando ad accreditare
la tesi del “complotto mondiale” contro il “saggio,
meraviglioso” leader.
Una brillante penna di partito provò a
sostenere l'esistenza di un «diritto
alla menzogna», vero indicatore di una società «sana e libera»,
che può «sognare e illudersi», non essendo schiacciata dalla
«brutalità insipida della realtà», e scrisse persino che erano i
cittadini stessi a chiedere in fondo che per il loro bene non si
umiliassero le loro speranze «indicandone il limite, con indicibile
e irriguardosa volgarità», come faceva quella «invereconda,
stucchevole Macchina, con la sua odiosa chiarezza e la sua disumana precisione, degna di miglior causa» (“miglior causa”, già: e quale, per esempio? - veniva spontaneo domandare).
Un
giornale finanziato dal partito di Do
pubblicò poi – a dispetto dei test di laboratorio considerati
validi dall'intera comunità scientifica, attestanti il perfetto ed
efficace funzionamento della Prodigiosa Macchina – un dossier
che tendeva a dimostrare, attraverso oscuri “documenti esclusivi e
riservati”, come l'Esperto Professore non fosse altro che «un
agente provocatore al soldo di poteri occulti» e come di conseguenza
la sua Macchina non fosse che uno «spaventoso imbroglio», un
«cavallo di Troia» mirante a sovvertire gli equilibri politici «in
nome di interessi inquinati e inquinanti».
Ma
questa volta gli elettori preferirono credere ai test di laboratorio
e alla comunità scientifica, piuttosto che all'esistenza degli
«occulti» poteri; e il consenso di Do
calò, calò, senza che nessuno più riuscisse a fermare quella
discesa tanto rapida e in picchiata da apparire irreale. Anzi, appena rimise il
naso fuori di casa, Do
trovò ad accoglierlo una folla dai volti seri e duri; cercando di
mantenere il suo tono sicuro di sempre, il leader si fece avanti,
sorridendo, come se volesse dialogare, ma uno dei cittadini lo fermò con un gesto impaziente della mano e disse:
«Onorevole, il popolo di cui lei tanto
parla non può concentrarsi in una sola testa, perché ci starebbe
un po' stretto, non le sembra?»
Così
dicendo, il cittadino additò la folla che era intorno a lui; il
leader di grido in quel momento notò che si trattava di una folla
sterminata, immensa, che occupava la strada – una delle vie più
importanti della capitale – per tutta la sua lunghezza, sino
all'orizzonte e forse oltre.
Do,
che stava per dire qualcosa, per la prima volta nella sua vita sentì
di non avere una risposta adatta; così si limitò ad annuire,
pensoso, a testa bassa.
§
[Trattandosi di un'opera di fantasia, ogni eventuale riferimento ad avvenimenti, vicende, persone e personaggi della realtà è da considerarsi puramente casuale.]
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