Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

giovedì 12 dicembre 2013

La "sedia vuota" della politica... e la "prova d'orchestra" degli scontenti

In questo post partirò dalla descrizione di impressioni, con tutti i limiti che una descrizione del genere può avere (la necessità di approfondire i dati, ecc.); a mio avviso si tratta però di impressioni significative.

Dirò quindi che l'impressione più forte che si ricava in questo periodo dalle notizie della cronaca politica è quella di una sedia vuota.
Sì, direte voi, “loro” stanno lì, occupano “le poltrone”, prendono stipendi, ecc.; eppure – ribadisco – la sedia della politica, il suo posto simbolico nella nostra società, è vuota. Non fermatevi alle apparenze.


Qual è lo spettacolo al quale si assiste in certe interviste televisive in presa diretta agli “esponenti politici medi”?

Incalzati dai giornalisti, quando ricevono domande scomode, fuggono dando la schiena alle telecamere. La fuga sembra anzi essere diventata l'unico loro rifugio, l'unico rimedio, l'unica risposta possibile; non si tratta nemmeno più di arroganza del potere, ma di puro arrembaggio sorretto dall'improvvisazione. Ma l'improvvisazione – chi si interessa di musica lo sa – è una cosa seria; nonostante ciò che il nome evoca, l'improvvisazione è terreno per professionisti: soltanto chi davvero conosce il linguaggio sonoro e le potenzialità degli strumenti musicali può permettersi di improvvisare senza strafare e senza incappare ad ogni pie' sospinto in penosi strafalcioni.

La politica in Italia oggi questo sembra non saperlo o averlo colpevolmente dimenticato. Anche qui parlo di un'impressione, però persistente, e dunque non certo generata dalla fantasia: sembra un paesaggio popolato da “improvvisatori della domenica”, e si sente, si nota; non sembrano più in grado di barare, il loro gioco è scoperto, ma neppure se ne preoccupano: come ultima risorsa scappano davanti alle domande e – cosa particolarmente interessante nella sua stravaganza, dal punto di vista socio-psicologico – scappano con alterigia.

Mai come adesso il “Re” è nudo.

Quest'anno, dal punto di vista politico e istituzionale, in Italia sono accadute cose senza precedenti, dopo oltre sessant'anni di vita della Costituzione repubblicana sono stati stravolti alcuni punti fermi e si sono introdotti precedenti che fino a pochissimo tempo fa sarebbero stati ritenuti “fantascientifici”, improbabili: per la prima volta un Presidente è stato confermato in carica per un secondo settennato, per la prima volta una legge elettorale è stata dichiarata incostituzionale...

Si aggiunga, per completare il quadro, il caos inaudito e sconcertante al quale si assiste ormai da più di un anno in tema di tasse e fisco: fino all'ultimo istante, ovvero a pochi giorni dalla scadenza, non si sa quali tasse si dovranno pagare, come andranno calcolate, e persino quale nome avranno.

Sono segnali di un cambiamento traumatico, che passa tutto attraverso questa “politica della (sprovveduta) improvvisazione”. Musicisti che suonano senza uno “spartito” predeterminato, ma che sono disperatamente in cerca di un foglio pentagrammato al quale aggrapparsi e non lo trovano... O, se si preferisce (il paragone è equivalente), attori che recitano a soggetto senza avere la verve e la prontezza di spirito necessarie per farlo; e quindi arrancano, balbettano, s'inceppano, sbagliano i tempi e la misura degli interventi... E quando i fischi arrivano, non li accettano; quando il vociare in sala si fa intenso e spazientito, si ritirano e volgono le spalle al pubblico indignati.

Si possono certamente escludere da questa analisi gli ultimi arrivati sulla scena, ovvero essenzialmente il “M5S”; avranno altri difetti, ma non quello di aver occupato “recitando a soggetto” la scena del potere in questi vent'anni.

Il sistema politico italiano in questo momento è debole, debolissimo: ma questo non è un bene.
Tuttavia il problema, anche se da noi è particolarmente amplificato a causa delle nostre storiche debolezze “strutturali”, non è solo italiano, è anzi abbastanza diffuso, perlomeno nella parte del mondo che chiamiamo “Occidente”.
L'autorevolezza e la chiarezza di idee in questo momento sono una vera chimera; a tratti sembra che – delusi e stanchi – i decisori politici ne vogliano persino fare a meno.

Per quanto riguarda l'Italia, comunque, il momento della svolta (drammatica), ovvero l'inizio del vortice nel quale siamo immersi, si può far risalire all'agosto del 2011: in quel momento, con la BCE che bussava alle porte con la sua famosa “lettera segreta”, chiedendoci di “pagare i conti”, i gerenti pro tempore del governo italiano sono entrati in fibrillazione e poi in crisi: non si poteva più dilazionare, “mettere una toppa”, fare qualche “mandrakata” [cit.]; no, il tempo delle scappatoie era finito, e il bluff è venuto a galla in tutta la sua estensione. Il governo allora – questo va ricordato, a imperitura memoria – in poche settimane fece e disfece freneticamente la bozza di manovra finanziaria, dando letteralmente l'impressione di non sapere “che pesci prendere” [se ne parla tra l'altro qui e qui; altre fonti: 1, 2]. Il Re, in quel preciso momento, era totalmente messo a nudo.

[I nodi venivano però da lontano, e se le responsabilità del duo Berlusconi-Tremonti erano in quel momento evidenti, non si può dimenticare che una quota di responsabilità c'è anche altrove, per ciò che non si è fatto – o si è fatto in maniera discutibile o inefficace – perlomeno in tutto questo ultimo ventennio. E infatti il “Re” che è “nudo” non è solo questo o quel governo: non rappresenta infatti – nonostante la personalizzazione delle battaglie politiche, che è servita in questi anni, come un sapiente accorgimento di regìa, a “movimentare la scena” del potere – una persona singola, ma un ruolo esercitato collettivamente.]

I “musicisti” hanno cominciato a cedere, fino ad allora se l'erano cavata col repertorio da balera imparato un po' a orecchio; note fuori posto ne avevano messe già parecchie, spesso non riuscivano ad andare a tempo, ma il pubblico era indulgente, sembrava non farci caso. Quando però hanno esaurito i pezzi che conoscevano, e avrebbero dovuto riempire il vuoto dello “spettacolo” con una jam session (leggasi: non c'erano più fondi da distribuire per “comprare” la pace sociale e dovevano finalmente vedersela con un problema serio), hanno dimostrato disastrosamente i loro limiti tecnici: letteralmente non sapevano che fare.
Altri gerenti si sono avvicendati, di colori diversi, anche misto fantasia, ma i balbettii del potere non sono cessati (anzi...). Ogni nuovo musicista che si presentava sul palco, anche quando aveva l'aspetto di uno navigato, una volta finito il suo repertorio abituale, eseguito peraltro senza infamia né lode, e spintosi quindi in territori nuovi, immancabilmente dimostrava spaventosi limiti nella preparazione, nella fantasia, nella creatività.

E' tutto il sistema che sta cedendo, non questo o quel partito soltanto: qui è il vero problema. E “salvatori della patria” non ce ne sono (non ce ne sono mai stati, questo è solo il momento della verità): solo pochi “fideisti politici” sono disposti ancora a dar credito a questa leggenda. Anzi, i presunti “grandi uomini” del recentissimo passato hanno contribuito in larga misura a quella politica della “recita a soggetto” (e delle dilazioni, dei pressapochismi, delle “mandrakate”) i cui risultati stiamo vivendo ora in presa diretta.

L'assenza di spazio politico si avverte ora tanto “in alto” che “in basso”: anche la protesta della “società civile” rischia di rappresentare una socializzazione caotica di idiosincrasie private – quanto di meno politico, nel senso profondo del termine, possa esserci.

Basta ascoltare le voci che si sovrappongono. Uno addossa la colpa di tutto ai “politici che mangiano troppo, con i rimborsi e le auto blu”, l'altro accusa gli immigrati della “rovina in cui siamo”; un terzo sbraita contro “interessi stranieri” dei quali siamo succubi, ma si trova in disaccordo con un quarto che specifica il bersaglio, indicando il “nemico” negli “americani”. Un quinto fa segno di no e spiega che la colpa è solo ed esclusivamente “dell'Europa” (con la variante “dell'euro” o “della Germania”). “Macché” spiega un sesto, “dovete prendervela con i Cinesi! Da loro deriva tutto”. “Non avete capito niente” interviene un settimo, “sono le banche che ci derubano e ci rovinano”. “E i sindacati, allora? Tutta colpa loro!” puntualizza un ottavo, sicuro di sé. “E' colpa della stampa asservita se siamo in questa situazione. I giornalisti non fanno il loro dovere” si fa sentire un altro.
E poi, e poi:
Non potremo mai risolvere nulla se non apriamo gli occhi ribellandoci ai poteri occulti che tramano nell'ombra”. “In questi anni siamo vissuti al di sopra delle nostre possibilità. Volevamo troppo, e questo ora è il risultato”. “La verità è che nessuno ha più voglia di lavorare”. “Che dici? Sono le tasse che ci strozzano. Togli quelle e tutto si risolve”. “Certo, si risolve tutto, ma solo se torniamo alla lira”. “Nossignore: solo se licenziamo gli statali”...

Si vuole trovare un'unica causa dei problemi, ovvero un colpevole certo e identificabile – esattamente grazie allo stesso meccanismo mentale che porta a cercare un unico “salvatore della patria” – ma dato l'errore dell'analisi (che così impostata, essendo ancorata a suggestioni soggettive, non può che farsi influenzare appunto da personali idiosincrasie), risulta impossibile pervenire a conclusioni condivise.

Sembra quasi che davanti ai disegni confusi dei detentori del potere, rinserrati in slogan che si ripetono all'infinito, si risponda con altrettanta confusione; per riprendere il parallelo musicale, la “piazza” sembra comportarsi come i protagonisti di Prova d'orchestra di Federico Fellini. Ognuno, scendendo in strada (o scatenandosi coi commenti sui social network), porta il proprio strumento e lo suona in “fortissimo” senza badare però a ciò che stanno suonando gli altri. Non ci sono né ritmo né tonalità percepibili, in questo impasto sonoro, che sembra perciò una sommatoria scoordinata di note, un pastone sempre uguale a se stesso. Tutti vogliono farsi ascoltare ma trascurano di ascoltare gli altri. E quanto più aumenta l'impossibilità di ascoltarsi reciprocamente, tanto più rischia di aumentare la rabbia della massa di inascoltati. E' un meccanismo che si autoalimenta e che non si può correggere se non fermandosi finalmente a riflettere.

E si torna al punto di partenza: il vuoto della politica non si può riempire con l'improvvisazione, per giunta bizzosa e piena di sé. Non si può nemmeno ragionare, se non c'è tra gli interlocutori un “minimo comune denominatore”, che un tempo il lavoro politico (inteso qui come lo specifico compito della politica, esercitato a vari livelli, nelle sezioni di partito, nelle istituzioni, nei giornali, ecc.) individuava.

Ora se la politica ufficiale è una schiena che fugge, vuol dire che nessun “direttore” ci indicherà qual è il tempo a cui dobbiamo attenerci per non trasformare il ritmo comune in un trambusto informe, né ci dirà in quale tonalità suonare per creare un abbozzo di armonia in collaborazione con gli altri “musicisti”, a quale sezione di “strumenti” dare momentaneamente risalto, e così via. Anche in questo caso (come per il “Re” di cui sopra), si parla di ruolo e non di persone specifiche: il direttore, fuor di metafora, non è un “Capo” (lo si è detto poc'anzi: il “Capo”, passato il tempo degli stregoni, non ha nessuna formula segreta per salvare la propria tribù-popolazione), ma un criterio comune, è il riconoscimento della necessità di condividere scelte e valori, di ascoltarsi mentre “si suona insieme”, altrimenti non c'è alcun “insieme”.

Abbiamo pensato alla libertà come assenza di necessità (della necessità dei vincoli sociali, anzitutto) e qui ci siamo fatalmente arenati. L'individuo opportunista, che tira sempre la coperta dalla propria parte, ovvero pensa di potere sfruttare a proprio vantaggio le risorse e le rendite di posizione senza mai “pagar dazio” (“le regole esistono solo per gli altri, e le uso contro di loro: io invece valgo sempre come eccezione”), è una figura sterile, destinata a passare presto dall'illusione di onnipotenza alla scoperta dell'impotenza (come singola monade apparentemente autosufficiente).

In fondo, sia i programmi sempre più sfumati e timidi dei partiti che i “colpevoli” individuati di volta in volta dal caos molecolare della società civile (la “prova d'orchestra” descritta sopra) sono i sintomi di un'illusione: ossia si pensa che si potrà riaggiustare il “vaso rotto” di questo modello socio-economico (che alcuni definiscono globalizzazione, altri liberismo, ecc.) con un po' di colla o di mastice e che tutto poi tornerà come prima (la crescita, l'industrializzazione, l'occupazione, ecc.).


Non c'è nessuna politica competente e autorevole a suggerirci visioni nuove (utopie operative, possiamo definirle in estrema sintesi), con la consapevolezza che l'attuale “modello” ha mostrato crepe insanabili, ovvero limiti drammatici: per il momento siamo fermi a contemplare una sedia (sostanzialmente) vuota.

4 commenti:

  1. Risposte
    1. Eh, anche l'anarchia non è sempre ciò che pensiamo che sia...
      In Italia è piuttosto diffusa, ad esempio, una forma particolare di anarchia pratica (o praticona?) - conosco anche persone, che votano per questo o quel partito (di centrosinistra ma anche di centrodestra), pur dichiarandosi "anarchici nello spirito". E sono insofferenti alle regole, solo quando non le possono piegare a proprio favore; altrimenti ricordano di essere "istituzionali" e invocano proprio quelle stesse regole che in varie occasioni gioiosamente non rispettano...
      C'è anche chi - alle nostre latitudini - intende l'anarchia come possibilità di non essere responsabili: oggi prendo un impegno e domani lo rinnego, senza nemmeno immaginare uno straccio di giustificazione: embé, sono libertario, cosa vuoi da me? (mi è capitato purtroppo di imbattermici: certo saranno eccezioni, ma per dovere di cronaca vanno registrate...).
      Se poi dalle "pratiche" passiamo alle teorie, anche là c'è modo e modo di intendere l'anarchia: non ci sono solo gli "anarco-socialisti" come Bakunin o Kropotkin, ma - passando per Stirner - ci sono anche gli "anarco-capitalisti" come M. Rothbard...
      Quale versione è preferibile? Ce n'è una che ha "più ragione" delle altre? [E qui si potrebbe aprire una discussione infinita, ma indubbiamente anche interessante.]
      Comunque resto convinto che il governo della cosa pubblica - chiamiamolo così - non tollera vuoti: se la sedia del governo resta vuota a lungo, questa non sarà buttata via, ma qualcuno andrà a occuparla prima o poi (magari cambierà la sedia "che conta", ma una sedia purchessia ci sarà...). Per quanto la critica anarchica dica cose interessanti, sulle quali riflettere, l'assenza di istituzioni "di riferimento" non mi sembra concepibile, a tutt'oggi.
      Questo non vuol dire però che dobbiamo essere sudditi: verso chi occupa quella sedia dobbiamo essere critici, anche irriverenti all'occorrenza; credo insomma che dobbiamo fare in modo di ridimensionare le "aspettative messianiche" nei confronti di quella che è solo una funzione, per quanto importante - quella di governo - e non una "investitura per volere divino". Solo così forse potremo disfarci un giorno di quella "sedia".
      Non avendo il potere di prevedere il futuro, sono possibilista, quanto a questo, anche se non "visionariamente ottimista".

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  2. si è perso il senso di "cosa" e "casa comune", si è persa la volontà di fare parte di una società civile in cui è vitale partecipare e rispettare le regole per essere rispettati

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    1. E' drammaticamente vero.
      Sembra che ci sia stata un'ubriacatura collettiva (simile a quella che viene descritta nel film di Fellini che citavo) e che poi, man mano che usciamo dalla "sbornia", scopriamo attoniti di non avere a disposizione uscite di sicurezza: siamo lì, in una stanza fatta a pezzi, e non possiamo far altro che scervellarci per capire come rimettere insieme i cocci, se vogliamo riprenderci. Il guaio è che da un bel po' siamo fermi a questo punto: qualcuno pensa di cavarsela ancora con lazzi e scomposti schiamazzi, senza nulla comprendere e nulla concludere, ma molti altri si rigirano i cocci fra le mani, perplessi e angosciati.

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