Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

giovedì 26 febbraio 2015

Riflettere per capire o commentare per esistere? (I fatti del mondo, gli "umori del Web" e alcuni odierni dilemmi)

I commenti del Web: una finestra sul cortile

Ci sono periodi – della vita dei singoli o della storia “grande” dei Paesi – che richiedono riflessione. Ciò che è accaduto negli ultimi anni, non solo in Italia, da un lato sembra aver confermato una direzione di marcia già in atto o comunque prevedibile (in una certa misura), ma dall'altro ha introdotto elementi inediti sui quali conviene e converrà meditare.

Da tempo non aggiornavo questo blog non perché non avessi la tentazione periodica di farlo, ma perché ritengo ci siano momenti nei quali, più che spendere parole sull'onda delle impressioni del “fatto del giorno”, è utile guardarsi attorno, ascoltare le “voci del mondo”, gli umori vari e assortiti della moltitudine, e solo dopo aver fatto da spettatore/registratore, raccogliere i pensieri e metterli in bell'ordine, affinché acquistino voce a loro volta, si esprimano e si intersechino con le voci ascoltate.

E principalmente di queste vorrei parlare, tanto per cominciare.
Il Web apparentemente offre molteplici occasioni e spazi (virtuali) per esprimersi, per “dire la propria”, lasciando al fruitore la possibilità di essere se stesso senza filtri (e scaricare nel Web, trasformato talora in vero e proprio “sfogatoio”, malumori, rancori, invettive) oppure di indossare una maschera e di interpretare una parte (ad es. quella del ben informato, del competente, di “quello che la sa lunga”, di “quello che è vissuto tanti anni all'estero” anche se invece all'estero è andato solo sporadicamente in vacanza; o ancora la parte dell'onesto-integerrimo cittadino indignato per i vizi [altrui] quando invece nella “real life” egli [o ella] integerrimo non è affatto, viola il codice della strada, truffa i propri clienti, ecc.).



E' vero, il Web, come mai forse è accaduto in passato (perlomeno in questa proporzione), ci offre la possibilità di dare del tu ai potenti; chi attraverso un social network come Twitter può “dirne quattro” al presidente del Consiglio o a un ministro, sa o intuisce di avere tra le mani un'opportunità che le generazioni passate non avevano; l'“alone sacrale” del quale i “potenti” un tempo si circondavano è scomparso o almeno si è ridimensionato – così sembra. Loro sono persone come noi e non possono più nascondersi nei “palazzi” o dietro le insegne della loro carica per sottrarsi al contraddittorio con il “popolo”.

Sorgono però due domande, o meglio due dubbi, a questo punto: sappiamo davvero (mediamente) usarla bene questa potenzialità del Web? E poi: davvero i “potenti” sono “ridimensionati” in modo decisivo grazie al contraddittorio “alla pari” al quale il Web ora li costringe?

Il Web richiede sintesi; se questa è ben congegnata, può fare scaturire riflessioni e approfondimenti; ma non sempre, purtroppo, è così. Si ha molto spesso invece l'impressione che la sintesi sia un crivello che funziona al contrario, un filtro che fa passare soprattutto l'approssimazione, lo slogan “da stadio” (dietro il quale non c'è nessuna riflessione accurata; anzi...), l'invettiva fine a se stessa, il delirio di onnipotenza di qualcuno/a, pillole di saccenteria, luoghi comuni spiccioli o veri e propri insulti legati alle personali idiosincrasie e ai pregiudizi incalliti di chi li lancia, ecc.

Quando la critica si sfrangia e si manifesta in queste forme, diventa un puro rumore di fondo, che rafforza anziché intaccare l'“aura di indispensabilità” del “potente” al quale pretende di rivolgersi.
Se questo è il livello e il tono delle critiche, allora io sono un gigante” ha buon gioco nell'affermare il “criticato”.

Purtroppo la caratteristica esigenza di sintesi del Web – o meglio, di certi luoghi del Web (i social network, i commenti agli articoli dei giornali online, ecc.) – rischia di ridurre il senso e il tenore degli interventi del “pubblico” al modello classico (quindi tutt'altro che specifico dell'era “Web 2.0”!) del commento “da bar” o “da sala di attesa”. Niente di nuovo sotto il sole, dunque; e ciò vuol dire che le potenzialità del Web in questo modo rischiano di andare sprecate. Cambia l'ampiezza della platea, certo: il commento espresso da un utente sul forum di un quotidiano online può essere letto da centinaia o migliaia di persone; ma rischia di essere ugualmente pulviscolo, componente infinitesimale di un rumore di fondo che non può trasformarsi, per le sue stesse caratteristiche, in seria critica.

I tipici commenti presenti sui forum e sui social network, anche se pretendono di esprimere critiche all'operato del governo, oppure di questo o quel partito, di questo o quel ministro, ecc., di fatto raccontano soprattutto qualcosa degli utenti che li postano. Sono finestre sui limiti della conoscenza umana, più che strumenti per conoscere e/o discutere le “mancanze” o “magagne” della politica, del “potere”, ecc..

Ad esempio, una certa “famiglia” piuttosto nutrita di commenti Web propone ricette semplici e lineari per la risoluzione di problemi giganteschi “che i politici o i potenti – quegli incapaci! – non sanno risolvere” (la crisi economica, la fame nel mondo, persino alcune epidemie preoccupanti... e così via). Potremmo chiamare questa categoria di commenti: “Vi dico io come si fa!” oppure “Se solo ci fossi io al governo...!”

Sembra una regressione all'adolescenza, età in cui di solito si è convinti che basterebbe l'intervento di un “giustiziere puro e immacolato” o di un “supereroe” a risolvere i grandi problemi del mondo. Commenti di questo tipo ci parlano appunto di colui/colei che li esprime: persone che ritengono la convivenza umana una faccenda semplice, in cui ogni problema si può risolvere con la “buona volontà” e la decisione (a prescindere dal tipo di eroe da loro preferito, sia esso lo sceriffo tutto d'un pezzo o la Fata Turchina), e che immaginano che “con poche mosse” si possa “vincere” qualsiasi partita, senza curarsi degli “effetti collaterali” di ciascuna mossa, effetti dei quali la politica deve invece tener sempre conto (se non vuole poi scontrarsi con nuovi problemi generati dalla pseudorisoluzione dei precedenti, e quindi con altre proteste sacrosante...).

Un altro genere tipico di commenti è etichettabile come “So io chi è il colpevole!”
In questo caso, si accusa sistematicamente di ogni nefandezza un personaggio politico, un partito oppure una categoria di persone (un'etnia, una nazione, una categoria sociale, ecc.). E' una sorta di “pensiero fisso”, che ci dice molto non sulle vere cause dei problemi, ma sulla mentalità di chi lo esprime. Secondo questa, tutto ciò che è “male” non può che derivare dall'azione o anche dalla semplice presenza di colui/coloro che di volta in volta si è convinti di poter identificare come “il/i cattivo/i”. Intendiamoci: può darsi che “il cattivo” di turno abbia effettivamente compiuto alcune o anche molte azioni scorrette, esecrabili o illecite; ma il “commentatore” in questione lo accusa anche di nefandezze delle quali egli non può esser ritenuto, a rigor di logica, responsabile. E' il cattivo, e tanto basta: dunque, qualsiasi male nel mondo è causato da lui... E – questo forse è l'aspetto più caratteristico di questa categoria – il commentatore inventa spiegazioni/descrizioni contorte, fantasiose e improbabili pur di riuscire a dimostrare (beninteso, senza prove concrete...) che il “colpevole” del misfatto è comunque e in ogni circostanza il “cattivo” da lui/lei additato e prescelto, sempre e invariabilmente lo stesso, responsabile unico e perciò emblema del “male del mondo”.

Il “ricostruttore della storia” è invece colui/colei che adatta un evento o un periodo storico alle proprie esigenze, ritagliandolo sapientemente (con omissioni, citazioni non corrette o manipolate, ecc.) in modo da darsi ragione. A volte il “ricostruttore della storia” può intrecciarsi con la tipologia precedente, giacché la sua ossessione principale può essere quella di attribuire colpe al suo “cattivo preferito”.

Il “ricostruttore della storia” s'intreccia a volte anche con un altro tipo molto diffuso di commentatore Web, il “difensore dell'eroe”, che come suggerisce l'etichetta a lui attribuita seleziona accuratamente gli elementi della realtà (la storia, i problemi sociali, l'andamento dell'economia, le scelte dei governi, ecc.) in modo che il suo “eroe” preferito (leader politico, generalmente) abbia sempre ragione... soprattutto quando in realtà ha torto. Dalla ricostruzione storica esclude sapientemente ciò che può mettere in dubbio l'infallibilità del suo “eroe” e non esita a manipolare date e dati pur di raggiungere lo scopo. Anche le colpe macroscopiche o eclatanti dell'“eroe” che non può nascondere riesce funambolicamente a giustificarle con la fatalità o con la “macchinazione” di coloro che “remano contro” (i fallimenti e gli errori del capo, talora anche i suoi misfatti, sono giustificati tipicamente attribuendone la responsabilità a “traditori” infidi, infiltrati, quinte colonne, che carpendo la candida fiducia dell'eroe, si sono insinuati nell'immacolato corpo dei suoi seguaci).

La colpa è di quelli come te/voi!”
Questa categoria è per molti aspetti una variante di “So io chi è il colpevole!”, ma in questo caso il presunto “colpevole” si identifica con l'interlocutore, che viene inchiodato all'appartenenza a una determinata categoria particolarmente esecrata dal commentatore (si tratti dei giornalai o dei giornalisti, dei docenti o degli studenti, dei dipendenti o dei commercianti...), in modo da poterlo “lapidare” simbolicamente.

E tu allora che soluzione proponi?”
E' la reazione di difesa rispetto a chi cerca di non banalizzare le questioni. In realtà chi pone questa domanda non comprende che prima di proporre soluzioni (sensate) è necessario portare alla luce la vera natura di un problema e che allo scopo non bastano il “sentito dire” o le proprie cognizioni sommarie.

Queste sono chiacchiere; il vero problema è...”
E' una tipologia di commenti che è stata già analizzata a sufficienza da altri; va detto comunque che la politica “reale” non può permettersi il lusso di risolvere i problemi uno alla volta (cominciando magari dal “più importante in assoluto” [e qual è?] per procedere via via a risolvere gli altri in ordine decrescente di importanza [ammesso che un tale ordine si possa stabilire non arbitrariamente]) ma deve affrontare tutti quelli che man mano incontra sul cammino; lo farà quindi come potrà (al netto delle sue storture e patologie, come la corruzione, ecc.), dovendo suddividere energie e risorse in più rivoli.

La politica deve affrontare i problemi nel loro complesso e deve anche fare in modo che le soluzioni adottate non generino a loro volta problemi più grandi o più gravi; inoltre spesso le soluzioni non sono immediate; per avere effetti hanno bisogno di tempo. Non c'è il “pulsante magico” che risolve all'istante problemi che a volte si sono stratificati per decenni. E non c'è neppure la “formula segreta” che dona per sua sola virtù la felicità e la serenità alle genti.

Leggendo in sequenza i numerosi commenti che appaiono sul Web nei luoghi già menzionati (forum di quotidiani, ecc.) si può essere portati a ritenere che essi rappresentino “le opinioni prevalenti della gente”, ma in realtà si può soltanto dire che si tratta delle opinioni di coloro che decidono di intervenire sul Web, e non è una differenza da poco; esprimono opinioni a caldo e con sicumera coloro che ritengono di avere la risposta pronta (le categorie sopra menzionate ce l'hanno sempre, per un motivo o per l'altro: devono trovare il modo di dare sempre la colpa al loro “cattivo preferito”, oppure mostrare – a parole – per l'ennesima volta di poter sostituire in prima persona e con ottimi risultati “gli incapaci che ci governano”, ecc.) e non certo coloro che sanno di dover riflettere un po' più a fondo sulle cose (e magari cercare di conoscere i fatti e i dati, in modo non epidermico) prima di esprimersi.

Con ciò non si vuole dire che gli sfoghi non siano legittimi: non condivido la proposta, avanzata da alcuni (a volte in maniera strumentale), di censurare il Web sol perché esistono commenti irriverenti su questo o quel forum, su questo o quel social network (sempre che non si tratti di stalking vero e proprio, che è cosa più seria). Il fatto è che bisogna essere coscienti che la politica, e la critica della politica, non possono ridursi a un concerto di sfoghi e invettive; magari dopo essersi sfogati bisogna fare un lungo respiro e passare a un'attività molto più impegnativa – e anche per questo più incisiva – che consiste nell'immergersi nella conoscenza delle cose, dei problemi, dei meccanismi sociali ed economici, mettendo tra parentesi schemi acquisiti, formulette facili, alibi ideologici rassicuranti.

Ad esempio, chi tuona a ripetizione contro il “buonismo” (qualunque cosa intenda con questo termine), quale responsabile unico dei “mali del mondo”, dovrebbe cominciare a riflettere sul fatto che neppure il suo “cattivismo”, che contrappone al “buonismo” altrui, va molto lontano come soluzione politica dei problemi reali. Non c'è lo sceriffo che possa rimettere tutto a posto con la sola forza della sua stella e dei suoi “muscoli”, se non nei film (dove peraltro i “cattivi”, in virtù di una sceneggiatura prestabilita, sono ben delimitati nel loro numero, nelle loro capacità e nel loro raggio d'azione e non ci sono variabili aggiuntive a complicare l'“azione dell'eroe”); così come d'altra parte non basta predicare la bontà (o anche offrirla) perché questa si diffonda nel mondo.

Non è allontanando la “gente comune” dalla cosa pubblica che si contribuisce a diffondere più coscienza politica, conoscenza della reale natura dei problemi in campo, ecc.; i forum, i social network e simili luoghi virtuali possono essere un punto di partenza, insomma, ma occorre fare un passo in più.
Servono più strumenti, più meccanismi di partecipazione (nella cosiddetta “real life”, possibilmente), che aiutino a passare dallo sfogo solitario (solipsistico, per meglio dire) al dialogo, e quindi a comprendere che il “mondo personale” di ciascuno deve incontrarsi con quello degli altri; la politica è sì in buona misura arte della sintesi, ma se quest'ultima si intende non come banalizzazione dei fatti e dei problemi (ridotti a slogan affinché funzionino da esche per mobilitazioni epidermiche), bensì come risultato di un lavoro di analisi (collettiva, se si è in democrazia, e dunque non riservata ai soli “addetti ai lavori”) dei problemi e delle opzioni in campo (le scelte da compiere, le soluzioni da adottare: non bisogna credere generalmente a chi sostiene che per un problema in politica esista una e una sola soluzione – la sua, ovviamente...).

Un errore che generalmente si fa, quando si ragiona in solitudine, magari sull'onda dei fatti del giorno, è quello di limitarsi a considerare il proprio punto di osservazione, trascurando la visione d'insieme – che invece la politica “praticata” deve avere presente. Se poi questo errore è causato – come a volte succede – da proprie personali esperienze che si è portati ad enfatizzare assumendole come paradigma universale del comportamento delle persone e delle collettività, è in fondo umanamente comprensibile; l'importante è non credere – quando si passa a ragionare in termini politici – che la propria personale esperienza (buona o cattiva che sia), con le sue illusioni o i suoi rancori (pur talora motivati), sia l'unica realtà possibile. [Il che – beninteso – non vuol dire che la propria personale esperienza non conti nulla, giacché è anche da questa che nascono le legittime rivendicazioni di ciascuno.]

Per fare un esempio: chi trovandosi a mangiare in un ristorante di un Paese straniero, o di una città che non conosce, dopo un pasto deludente si vede presentare un conto stratosferico, può essere arbitrariamente portato a pensare che la categoria intera dei ristoratori di quella nazione o di quella città, se non addirittura l'intera cittadinanza, sia costituita da imbroglioni e di conseguenza può addirittura costruire una vera e propria teoria personale della società e della politica su questo assunto di partenza. Analogamente può accadere a chi subisce un trattamento sanitario non corretto (e individua nei medici in blocco, come categoria, il suo “nemico sociale”), a chi da studente riceve una valutazione ingiusta da parte di un docente, a chi viene truffato da un operatore finanziario, a chi scopre che un giornalista ha alterato i fatti che aveva il compito di riportare in un suo articolo di stampa, ecc. ecc.


Qualche fatto del giorno e qualche illusione sempreverde

Passando al caso concreto di un “fatto del giorno” che attrae commenti di utenti del Web contenenti soluzioni perentorie, presentate in molti casi come “infallibili e sicure”, non ha molto senso immaginare che di fronte al problema del disordine politico ora esistente in Paesi come la Libia (e all'avanzare di movimenti terroristici che da quello deriva), il dilemma per l'Europa sia tutto nell'alternativa: bombardare sì o bombardare no – o detto altrimenti, come sostiene qualcuno, nell'alternativa fra “buonismo” e “non-buonismo” (ovvero “cattivismo”, come l'ho chiamato poc'anzi).
A mio modesto avviso, prima di prendere qualsiasi decisione, bisognerebbe piuttosto prendere atto dello scollamento progressivo che in quell'area del mondo si sta verificando tra le società e gli Stati; in altre parole, vi sono alcuni Stati che stanno implodendo, si stanno liquefacendo, e nel vuoto che per questo si viene a determinare, che vede il dissolversi di qualsiasi attitudine al rispetto di autorità politiche che società forse per troppo tempo compresse e mortificate da regimi crudeli non riconoscono più, si inseriscono opportunisticamente forze senza scrupoli che mirano a stabilire su quei territori la loro disumana, insensata e discutibilissima “legge”.

Vi è chi dice che alcuni Paesi europei e occidentali, fra cui l'Italia stessa, intervenendo nel conflitto determinatosi in Libia nel 2011 a séguito delle “primavere arabe”, abbiano spezzato l'equilibrio politico che un regime come quello di Gheddafi aveva per decenni garantito. Che l'intervento dei Paesi europei e occidentali sia stato inopportuno (a dir poco) è fuori di dubbio; ma non perché – in sua assenza – quell'equilibrio sarebbe potuto durare ancora all'infinito. Chi coltiva questa illusione (postuma) temo si sbagli. Lo scollamento fra le popolazioni e gli Stati in certe aree del mondo va ben al di là di ciò che noi possiamo fare, dire, auspicare, favorire o impedire [non intervenendo, insomma, avremmo forse rinviato anche di anni l'appuntamento col “disordine” attuale, ma non l'avremmo evitato in maniera definitiva].

Gli interventi esterni, in ogni caso (dovremmo averlo imparato ormai, spero), non portano “ordine”; uno dei più grandi errori della politica estera occidentale in questi ultimi decenni è stato quello di fondarsi sul presupposto che cacciare un dittatore equivale a instaurare una democrazia. La politica (quella realmente “praticata”, per così dire) non conosce questi automatismi, purtroppo; ad una dittatura feroce può seguirne un'altra, talora persino più feroce. Ciò a cui stiamo assistendo in questi ultimi tempi, poi, è il costituirsi di dittature senza Stato, senza un territorio ben definito; Stati implosi vengono attraversati da conflitti che dividono la popolazione, un tempo apparentemente unita sotto una sola bandiera nazionale, in molteplici fronti (etnici, tribali, religiosi, ecc.).

In uno scenario di questo tipo, il dilemma “bombardare sì / bombardare no” temo si riduca ad un gioco di società dai macabri risvolti; si può invertire il tempo, in modo che i frantumi di un bicchiere appena caduto in terra si sollevino e tornino, come dotati di una segreta intelligenza, a ricostituire il bicchiere? Non nella realtà, certo, ma solo in un film, e grazie all'artificio della moviola o del “rewind”. E così, non c'è bomba che possa ricostituire l'unità di una nazione andata in pezzi, non c'è bomba che possa sostituirsi alla volontà di una popolazione.

Qualcuno può dunque chiedersi: ma allora che fare? Bene, se qualcuno avesse realmente la ricetta infallibile e perfetta, non staremmo qui a discutere...
E' una risposta che delude le ansie di certezza? Ma la politica non offre certezze granitiche, bensì possibilità che vanno faticosamente coltivate, giorno per giorno, affrontando tutti gli imprevisti e le variabili anomale del caso.
La soluzione migliore, per ogni problema, è sempre quella che lascia un margine di manovra per tornare sui propri passi se ci si accorge di aver imboccato la via sbagliata.
Questo è l'avvio di una risposta, ed è quanto di meglio si possa offrire oggi...

C'è chi fa affidamento sui “muscoli” delle “potenze” e delle “superpotenze” per sentirsi rassicurato; ebbene, le vicende di questi ultimi decenni dovrebbero averci insegnato che le “superpotenze” non sono, né potranno mai essere, “onnipotenze”. L'onnipotenza non appartiene ai singoli, come si sa, ma neppure agli Stati.
Il forte può molte cose, ma, al pari di chiunque, fortunatamente non può tutto.
In questo momento (sul breve e medio periodo, insomma), rispetto al problema politico poc'anzi menzionato, possiamo forse ridurre l'entità dei rischi, persino metterci al riparo, ma non risolvere alcunché.

E' duro ammettere che l'imperativo “dobbiamo fare qualcosa”, che ci fa sentire utili e attivi, nonché virtuosi o perfino “patriottici”, quando viene messo alla prova dell'azione, specialmente se si basa sul presupposto un po' disperato che “anche se non sappiamo bene cosa, qualcosa va comunque fatto”, può anche tradursi – in certe circostanze e su certi terreni accidentati – più che in una clamorosa sconfitta (che almeno fa parte delle regole del gioco “teatrale” di ogni azione), in una imbarazzante strada senza sbocco. Imbarazzante perché ci rivela che, con tutto il nostro agire, non siamo andati da nessuna parte, o siamo finiti in un posto sconosciuto, incomprensibile alle nostre consuete “mappe”, impiegando energie e tempo senza capire davvero ciò che stavamo facendo. Un pantano silenzioso, dove non arrivano né applausi né fischi (troppo perplessi e disorientati i distanti spettatori e testimoni), che non è esaltante ma neppure realmente disonorevole; è solo la beffarda-dolorosa risposta “delle cose” alla nostra ansia del “fare per fare”.

E se torniamo per un momento al ruolo che attribuiamo alle presunte “onnipotenze terrene” (nei nostri commenti quotidiani, sul Web e fuori), ci accorgiamo anche di un altro aspetto imbarazzante. In questo caso il discorso si può estendere all'idea stessa di “Occidente”. Quando diciamo “l'Occidente dovrebbe fare X”, oppure “gli Usa dovrebbero fare Y”, il più delle volte – e non necessariamente rendendocene conto – etichettiamo i popoli del cosiddetto “terzo mondo” come eterni minorenni. In particolare, quando sosteniamo e ripetiamo che ogni problema politico che si determina in quelle aree del mondo è causato (sistematicamente...) da un'azione, da una omissione, dalla “regìa” o dallo “zampino” dell'Occidente, da un lato ricaschiamo nel culto dell'onnipotenza terrena (delle nostre stesse istituzioni politiche occidentali, o in alternativa americane: in sostanza, diciamo o pensiamo che tutto ciò che accade nel mondo è senza eccezione alcuna deciso, voluto, influenzato, pianificato e diretto dai governi “nordatlantici”, novelli dèi dell'Olimpo...) e dall'altro consideriamo i governi e i popoli del resto del mondo, nella migliore delle ipotesi, come “buoni selvaggi”, incapaci di intraprendere autonomamente strategie politiche complesse perché “quasi bambini”, che quando agiscono male lo fanno perché eterodiretti e succubi ingenui dei “subdoli (ma intelligenti e maturi!) occidentali”.

Dunque talora quando diciamo “l'Occidente dovrebbe fare X”, oppure “gli Usa dovrebbero fare Y”, lo facciamo non perché riteniamo che il più ricco debba andare in soccorso del più povero (in questo caso la motivazione sarebbe più lineare e comprensibile), ma perché sotto sotto pensiamo che “in ultima analisi” se i “buoni selvaggi” ci creano problemi è perché non li abbiamo “diretti” bene. In pratica – così pensiamo quando scriviamo certi commenti (non solo sul Web, ma talora anche su pubblicazioni più o meno autorevoli...) – loro hanno deciso quello che noi abbiamo “fatto in modo” che decidessero, e dunque sta a noi, da coscienziosi burattinai, correggere la loro rotta.

Persino quando da occidentali critichiamo le azioni dell'Occidente, insomma, il più delle volte non possiamo fare a meno di lodare fra le righe la potenza, la magnificenza e l'intelligenza “che pari non hanno” delle nostre “superpotenze”, immaginarie divinità terrene. Tutto il mondo, in sostanza, non farebbe che girare intorno a noi (oh illusione...!).


In conclusione

Come dicevo, molti commenti ai “fatti del giorno” non svelano granché dei fatti stessi, ma in compenso rivelano qualcosa circa chi li scrive o esprime.
Se si dà uno sguardo ad esempio a ciò che ultimamente si è detto o scritto sul Web a proposito delle vicissitudini della Grecia, si possono raccogliere parecchi spunti per riflettere sulle mentalità diffuse; ma in particolare due tendenze mi paiono qui degne di nota: la tendenza ad attribuire “colpe” a interi popoli (vecchia, ma a quanto pare sempre rinnovata), i quali poi – come un “sol uomo” (che di fatto non sono) – le dovrebbero “espiare” senza neppure fiatare, e quella di schierarsi numerosi coi più forti, adducendo motivazioni “tecniche” che spiegherebbero che – per carità – non perché forti i forti devono prevalere, ma perché... hanno ragione integralmente, hanno ragione su tutta la linea, e sempre e in ogni circostanza l'avranno, qualsiasi cosa essi faranno (anch'essa vecchissima).

Auspici per il prossimo futuro? Che il Web, mezzo nuovissimo, sia capace di rinnovare le attitudini e le abitudini mentali, anziché moltiplicare senza gran costrutto l'eco di quelle vecchie e stagionate. Almeno per cambiar musica...

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