Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

lunedì 6 giugno 2011

Il ritornello del "tutti uguali"

A volte viene usata nelle discussioni, politiche e non, l'argomentazione polemica: "sono tutti uguali". (Lo si dice in riferimento a partiti politici, ma ad es. anche riguardo agli uomini o alle donne, come luogo comune: "sono tutti uguali", appunto.)
In realtà, non può mai darsi il caso che due soggetti, oggetti o entità differenti siano nettamente uguali; vi sono tra essi pur sempre delle differenze che li distinguono e contraddistinguono. E perciò affermare che "sono uguali" è sempre e soltanto una verità parziale, non coglie l'"essenza" dei soggetti in questione, ma solo alcuni aspetti.

Bisognerebbe perciò, per non dire inesattezze, esplicitare le somiglianze: dire cioè che "X e Y, pur apparentemente del tutto diversi, sono uguali per ciò che riguarda gli aspetti a, b e c".
Infatti, confrontando due o più soggetti (o oggetti, entità) distinti, noi possiamo cogliere tanto somiglianze quanto differenze. Possiamo perciò trovare che "X e Y ci appaiono uguali" o "ci appaiono diversi" a seconda della prospettiva che scegliamo per guardarli o analizzarli. 
Se ad es. entrando in una stanza, vediamo due sedie che hanno la stessa forma (design) e dimensione, ma rivestimenti di colore diverso (una è rossa e l'altra blu), potremo dire a buon ragione tanto che sono "uguali" quanto che sono "diverse". Se diamo più importanza alla differenza di colore, diremo infatti che sono diverse; se viceversa diamo più importanza alla loro forma o dimensione, diremo che sono uguali. 
Siamo dunque noi - noi che facciamo l'affermazione, intendo - che scegliamo arbitrariamente (in base a una nostra preferenza o strategia) di mettere in evidenza l'uguaglianza o la differenza fra due oggetti/soggetti, perché magari vogliamo farla risaltare nel discorso, per trovare consenso in chi ci ascolta, rispetto al nostro modo di vedere le cose.
Indicare il mondo come un deserto di cose uguali e piatte è poi l'estremo limite di questo modo superficiale di argomentare; cogliere le sfumature e le differenze fra le cose e le situazioni è invece proprio dell'analisi scrupolosa. Ritengo perciò che qualsiasi argomentazione che si basi sull'idea che "tutto è uguale" (ad es., i partiti o i regimi politici), o che tenda ad arrivare a questo "traguardo dimostrativo", sia intrinsecamente debole, perché facilmente attaccabile sia sul piano dell'evidenza empirica che su quello della solidità del ragionamento.
E dunque, nel suo costitutivo nichilismo, non fornisce elementi validi per una critica potenzialmente convincente (nella sua capacità dialettica e argomentativa) dello "stato delle cose"; giacché ogni critica deve saper porsi in dialogo con le ragioni degli altri (o almeno con alcune di queste ragioni), per poter eventualmente cambiare il discorso dominante in un certo ambito sociale, politico, nell'opinione pubblica, ecc. Se "tutto l'esistente è sbagliato", vuol dire che non ci sono interlocutori della critica, la quale diventa un puro monologo assertivo, con pretese di autosufficienza, e denso di autocompiacimento, la cui sterilità presto o tardi si rivela e condanna la critica all'inessenzialità per consegnare all'oblio (destinando cioè all'uscita di scena, tra i fischi del pubblico) il soggetto che la pone.


Siamo collocati in reti (sociali, interpersonali), che creano tra loro punti di intersezione e scambio, e dunque siamo in costitutiva e ineliminabile relazione col mondo e le persone che ci circondano: questo consente in realtà a ciascuno di noi la conoscenza (in ogni senso, da quella elementare delle cose e situazioni, a quella "elevata") e di conseguenza l'azione, individuale e collettiva. Nessuno è al di sopra e al di fuori, nessuno può osservare con perfetta neutralità questo "spettacolo". Sterile e vana è quindi ogni illusione di autosufficienza: insomma, nessuno può oggi illudersi che isolandosi nel proprio "laboratorio spirituale" possa trovare la formula capace di "salvare il mondo" (una sorta di "Eureka!"): nell'ambito politico e sociale, non bastano le idee di un singolo "genio solitario" (anche perché, se le confronta con le idee già espresse finora nella storia dell'umanità, scoprirà che non sono neppure del tutto inedite).

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