Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

domenica 26 giugno 2011

Straniero comunque. Una lettura amichevole di Piero Ciampi / 1

[Prima parte]


Premessa “in soggettiva”

Comincio col confessare un rammarico: non ho conosciuto personalmente Piero Ciampi - e in ogni caso non avrei purtroppo mai potuto conoscerlo, quantomeno per motivi anagrafici: nel senso che ero un ragazzino quando lui ci lasciò, vivevo in tutt'altra città e soprattutto all'epoca non sapevo neppure della sua esistenza.

L'ho scoperto qualche anno dopo, Piero Ciampi, e compresi allora, leggendo qualche suo testo e ascoltando qualche sua canzone, che mi sarebbe piaciuto davvero conoscerlo di persona. 



E' una sensazione che non mi càpita quasi mai, non ho il “culto della personalità” o dei “vip”, e quindi solo molto di rado, quando avverto una profonda affinità con le parole e le opere di un artista, penso tra me e me: “Che desiderio avrei di poterlo incontrare in carne ed ossa!”

Sì, perché devo confessare che Piero Ciampi è uno dei due “cantautori” nel cui mondo poetico-musicale mi riconosco pienamente – l'altro, per la cronaca, è Léo Ferré; a loro, e solo a loro, posso delegare idealmente, e ad occhi chiusi, la rappresentazione in forma di canzone di certi miei pensieri e stati d'animo – con altri, che pure mi piacciono, il discorso si fa invece più complesso, perché devo fare una cernita della loro produzione, specificando attentamente “questo sì” e “questo no”, o togliendo dalle loro canzoni qualche riga di testo che non mi rappresenta, o rettificandola, o modificando qualche accordo o qualche arrangiamento musicale che non mi soddisfa.

Con Piero Ciampi (e con Léo Ferré) invece no: non butto via nulla, e persino nelle cose che mi convincono di meno riesco a riconoscere qualche ingenuità o difetto che è anche un po' mio, e quindi non riesco a essere troppo rigoroso, con loro.


(Forse non è inutile precisare - onde evitare fraintendimenti in questa premessa scritta in “soggettiva” - che il riconoscersi in pensieri e stati d'animo di determinati autori, scrittori, cantautori, ecc., non significa assumere quegli autori o artisti come “modelli biografici” in tutto e per tutto, nelle scelte di vita, o negli atteggiamenti esteriori e quotidiani: solo nell'adolescenza, quando si sente il bisogno di “modelli totali”, si può commettere l'ingenuità di mitizzare un artista o una celebrità sino al punto di volerne essere un “clone perfetto” sotto ogni punto di vista. Secondo me un artista, quanto più è valido e profondo, tanto più è capace di suscitare un'“ammirazione adulta” nei suoi confronti, che è in grado di stabilire nessi e contatti con persone anche differenti per biografia, spirito e pensiero. E così, tanto per fare un esempio, non avrei mai condiviso con P. Ciampi le grandi bevute, anche perché al vino mi accosto con parsimonia, e non mi attrae la “sbronza”, che trovo una sensazione soggettivamente sgradevole - sensibilità strettamente personale, comunque, e non ne faccio un canone di giudizio universalmente valido -; o ancora, ammetto che non suscita in me passioni particolari l'esaltazione dell'utopia “anarchiste”, tanto cara invece a L. Ferré, anche se sottoscrivo gran parte dei suoi sarcasmi verso un certo modello di società).

Bisogna anche dire che la definizione di “cantautore” per Piero Ciampi, come per Léo Ferré, è riduttiva. Loro sono proprio “poeti che cantano”, c'è poco da fare... O se si preferisce, sono poeti che hanno saputo far incontrare le esigenze del loro mondo poetico con le esigenze della canzone, senza sacrificare – in nome della conquista del “successo popolare” o pop – le une alle altre. E forse questo è un motivo in più che mi spinge ad avere per la loro opera una particolare predilezione.


Ma qui, come il titolo del resto promette, mi soffermo in particolare su Piero Ciampi (giacché Léo Ferré richiederebbe a sua volta un discorso a parte).

Quando finalmente ho avuto modo di vedere, attraverso i mezzi che il Web mette a disposizione, qualche filmato delle esibizioni dal vivo di Piero Ciampi (cosa che è avvenuta vari anni dopo i primi acquisti, da parte mia, dei vinili e poi dei CD di questo artista), la sua immagine e il suo modo di proporsi non mi hanno deluso; erano perfettamente coerenti con le sue parole, e questo non è un dettaglio secondario.

Infatti, era anche in quelle esibizioni lo stesso “straniero alla vita” che emergeva dalle sue canzoni e dalle sue interviste. Non era e non fu mai un “personaggio” costruito dai cervelloni delle case discografiche, rifiutò sempre ostinatamente di essere l'incarnazione di uno schema – persino dello schema del ribelle “sociale” o “politico”, che specialmente negli anni Settanta sarebbe stato tutto sommato comprensibile e compreso, da un certo tipo di pubblico, o di target, come si direbbe oggi.

Offriva solo se stesso e sembrava ripararsi dagli sguardi della gente che dalla platea lo osservava per capire che tipo di soggetto fosse, o in quale “categoria” avrebbe dovuto essere catalogato.

E forse sistematicamente quella gente non riusciva nel suo gioco di catalogazione, e per questo lasciava che Piero Ciampi scivolasse via inavvertito, come un fenomeno strano e incomprensibile, un alieno, del quale era meglio non interessarsi troppo.
Lo sguardo di P. Ciampi, poi, non era quello di chi ritiene di avere un discorso alternativo da offrire per edificare un nuovo modello di società; no, era lo sguardo di chi osserva la vita con lo stupore ferito dello straniero che prova a comunicare nel proprio linguaggio, o che trasforma il tuo con i suoi neologismi che vengono da altre terre. Tu hai due possibilità: puoi starlo ad ascoltare incantato, riconoscendo la novità e la “necessità” di ciò che lui esprime, oppure puoi chiuderti nel tuo solito mondo e da quella fortezza respingere quelle parole nuove, inedite, delle quali non riesci a capire l'origine - ma non ci riesci solo perché hai le tue belle e fragili certezze dalle quali non vuoi separarti nemmeno per prenderti una piccola “vacanza mentale”, o una “sospensione dei punti fermi” che ti consentirebbe di scoprire una parte di realtà che le tue (presunte) certezze non sanno sistemare in bell'ordine.


Un bel libro

Qualche mese fa non mi sono lasciato sfuggire l'occasione di acquistare una pubblicazione che è “preziosa” per tutti/e coloro che amano il mondo poetico-musicale di Piero Ciampi.

Si tratta di un cofanetto composto da un libro e da un CD, il cui autore-artefice è Gianni Marchetti, ovvero il compositore che ha dato forma musicale a tutti i testi di Ciampi fin dal 1970.

Su Marchetti bisognerebbe aprire una ricca parentesi, per dire tra l'altro che è un musicista di valore, che forse non è stato apprezzato quanto avrebbe meritato, secondo me anche a causa della sua ritrosia rispetto ai riti della “notorietà” e della mondanità (ritrosia che non è una colpa: anzi!).

Mi espongo qui, su queste mie pagine, sino ad affermare che lo ritengo anche uno dei migliori orchestratori italiani di “musica leggera” di quegli anni, e non solo di quelli (avete presente, ad es., la sua magistrale, sapiente sobrietà nell'uso dell'orchestra d'archi, nei dischi di P. Ciampi, e forse soprattutto in Ho scoperto che esisto anch'io, il disco di Nada, su testi dello stesso Ciampi, curato da G. Marchetti per la parte musicale?).

Ma non posso dilungarmi troppo e torno a parlare della duplice pubblicazione di cui sopra, G. Marchetti, Il mio Piero Ciampi, Coniglio Editore/Heristal Entertainment, 2010 (composta da un libro: “Pagine di un incontro” + un Cd: “Musiche di un incontro”).

A parte gli inediti che il Cd contiene, e che una volta di più ci fanno dolere sinceramente del fatto che l'esistenza abbia strappato troppo presto P. Ciampi all'arte di cui era capace, interrompendo l'incantato sodalizio con G. Marchetti, tengo a evidenziare che nel libro sono riportati diversi episodi della vita dell'artista, ricordati con affetto dal “testimone” Marchetti, che di P. Ciampi era anche, o forse soprattutto, amico personale e non solo collaboratore-compositore di fiducia - episodi che non sono “aneddoti sparsi” ma tasselli rivelatori di una personalità complessa, intensamente umana ma (forse anche per questo) “imprendibile”, da qualsiasi prospettiva si provi a guardarla.

Ci sono dunque nel testo pagine che, nella loro semplicità priva di retorica, illustrano situazioni e fatti significativi, e talora commoventi, della vita di P. Ciampi, come la prima visita del “cantautore” a casa di colui che da allora diventerà il “suo” musicista, durante la quale riuscì a impressionare i presenti con la sua sensibilità e la sua creatività [Marchetti 2010, p. 16], o come l'incontro con una ex-suora, che fu l'occasione che dette origine al testo di P. Ciampi per lo splendido brano Canto una suora [Marchetti 2010, pp. 42-43], o ancora l'incontro sorprendente con la “peripatetica” [Marchetti 2010, pp. 49-50], o l'impatto non morbido coi funzionari della Rai-tv [Marchetti 2010, pp. 89-90].

E poi ci sono anche riflessioni di Marchetti su alcuni aspetti della persona e dell'artista Piero Ciampi, come le ragioni del suo rapporto difficile e conflittuale con il pubblico, specie nelle serate “dal vivo” [Marchetti 2010, pp. 85-88], o come il suo modo - profondamente e veramente, creativamente e soffertamente “suo” - d'intendere la famiglia e gli affetti personali [Marchetti 2010, pp. 44-46 e 69-70], o il suo rapporto distaccato col danaro e con il possesso materiale delle cose, persino di quelle importanti come la casa [Marchetti 2010, pp. 91-93].


«In questa vita io sono uno straniero»

Proprio la testimonianza di Marchetti contiene qualche spunto che mi permette di avvalorare alcune mie ipotesi intorno alla poetica dirompente e al tempo stesso disarmante di Piero Ciampi, capace di svelare con lampi intensi alcuni aspetti dei rapporti umani.

Scrive tra l'altro il musicista: «[...] la sua solitudine, quella che canta in modo così unico e appassionante, nasce dalla mancanza dell'amore come elemento essenziale della vita, da un'atipicità culturale e da una dimensione intellettiva non direttamente accessibile a tutti» [Marchetti 2010, p. 69].

E alcune pagine dopo, completando il ritratto: «[...] Era un uomo che andava per la sua strada senza svendersi. Era sempre il più bello, il più alto, il più intelligente, come diceva lui stesso in una forma di narcisismo infantile giustificato, per altro, dalla scelta rigorosa di una libertà estrema. Ognuno di noi sa che nella sua realtà lo attendono rinunce e compromessi... la famiglia, il denaro, le piccole comodità. Piero no, rispettava la sua identità a tutti i costi. Aveva per questo perso tutto, ma non “Piero”» [Marchetti 2010, pp. 92-93].

Sono frasi toccanti, almeno secondo la mia sensibilità, e costituiscono un merito tanto per chi le ha scritte (come omaggio a un amico) quanto per colui del quale parlano, che ha vissuto determinate difficoltà anche a causa di particolari scelte esistenziali e stilistiche - e soprattutto a causa del desiderio (così duro da realizzare!) di rendere fra loro coerenti vita vissuta e mondo poetico.

Se di Piero Ciampi analizziamo l'unità inscindibile di vita e opera con la tipica prosopopea del benpensante (e benpensanti nella vita, una volta o l'altra, lo siamo un po' tutti), rischiamo di vedere in lui delineata e rappresentata la vocazione per il fallimento esistenziale.

Ma sarebbe, questo, un giudizio frettoloso, pomposo, che non riuscirebbe a fare i conti con la verità dello sguardo poetico, con la quale Ciampi ogni volta spiazza i nostri calcoli di esseri irretiti dal razionalismo della “grande macchina-gabbia” dello scambio utilitaristico e della produzione che “deve rendere qualcosa”, al di fuori della quale ci sembra che non rimanga più nulla. Non ci poniamo mai domande sulla nostra incapacità di vedere certi territori della vita, così come - è accertato almeno questo - non sappiamo vedere infrarossi e ultravioletti.

E poi, come definire in maniera certa e incontrovertibile un fallimento, al di là di quello sancito dalle carte giudiziarie? Chi è fallito sul piano dell'esistenza? chi rispetto alla macchina-gabbia, in cui viviamo muniti dei nostri bei cartellini appesi al collo che riportano scritti in bei caratteri i nostri “ruoli”, si sente umilmente, dolorosamente straniero, oppure chi si sente superiore sol perché rispetta le regole della gabbia (e così non vede più le sbarre che lo circondano)?

D'accordo, già vedo qualcuno che si adombra perché sto facendo l'apologia della “fuga dal reale”, dalla società, dal progresso, e da chissà che cos'altro... No, non è questo; le cose non sono così semplici.
Lo so che la macchina-gabbia (o comunque vogliamo chiamarla) ci serve per non impazzire e smarrire alcuni punti fissi; lo so che ci serve a creare un grande ingranaggio che unendo le forze intellettuali e fisiche di tutti noi e adoperandole razionalmente, può aiutarci a venir fuori dalla miseria, dalla desolazione, eccetera... Ma, anche ammettendo tutto ciò, e persino di più, resta il fatto che noi non possiamo identificarci interamente con quell'ingranaggio. Non possiamo dimenticare che siamo anche altro, perché la nostra identità umana coinvolge proprio quel grande territorio altro che lasciamo da parte sino al punto di aver disimparato a vederlo.
Ecco perché è importante quel che ci illumina lo sguardo poetico di un Piero Ciampi.

E allora torniamo a lui. Penso si debba partire, per comprenderlo, dal constatare un suo atteggiamento peculiare: era capace di una sincerità estrema nelle sue canzoni, e attraverso queste si confessava in pubblico rinunciando a qualsiasi barriera protettiva, accettava di disarmarsi completamente per esprimere il suo sentire (e per rendere appunto, come ho detto, illuminante il suo sguardo poetico sulle cose).

Forse nel mondo della canzone - che troppo spesso accetta di ridursi a puro show business, e quindi a riproduzione di modelli standardizzati, ben confezionati nella loro inavvicinabile “professionalità”, perfetti anche per target raffinati - nessuno quanto lui, nessuno meglio di lui ha saputo presentare i propri sentimenti con la meraviglia di un bambino (e il poeta non è forse il “fanciullino” invocato da Pascoli?), che rimane disorientato e amareggiato davanti all'incomprensione che il suo candore ottiene in risposta.
(E quella meraviglia non può coincidere con la richiesta di distaccata “professionalità”, ovvero con l'assunzione di un puro e semplice “ruolo”, che mette d'accordo, per tacita complicità, pubblico e produttori.)

Stupendi ed esemplari, in questo senso, i versi de L'amore è tutto qui, canzone che, tanto per cambiare, il pubblico “non comprese”, tanto da farla precipitare all'ultimo posto nella classifica finale del celebre concorso canoro "Un disco per l'estate" (per la cronaca, era l'anno 1971) [si veda su questo De Angelis 1992, p. 25].

Proprio la canzone citata ci può aiutare a capire qualche ragione della famigerata ostilità del pubblico nei confronti del tenero corteggiamento che Ciampi cercava di mettere in atto nei suoi confronti (vale la pena ripetere qui che il rapporto fra un artista e il suo pubblico ha la forma di un rapporto d'amore? no, è stato già detto varie volte...).

Ma il corteggiamento - di una donna o di una moltitudine - può andar d'accordo con la spietata sincerità? Domanda impegnativa, alla quale ognuno risponde a modo suo; intanto Piero Ciampi tenta proprio di coniugare le due cose, mettendo alla prova la loro apparente o presunta inconciliabilità.

Ne L'amore è tutto qui, infatti, l'autore, che parla in prima persona, ammette al cospetto dell'amata di non essere certo un uomo di successo e pieno di soldi (o di belle macchine, o di vari altri costosi gadget a piacere); dice testualmente: “Non ho una lira e tu lo sai”, e più avanti rincara la dose: “Il dolce non lo mangi mai”, pur ricordandole che però “qualche volta ti rifai”. E ancora, lui arriva a implorare: “Se ti procuro tanti guai / perdonami” [per i testi delle canzoni, si faccia riferimento a: P. Ciampi 1992, pp. 29-186].

Ma fa di più: per testimoniarle la sincerità della sua passione, si spinge sino a dire alla sua amata: “Sono uno strano uomo che / può frequentare solo te”. E' una bella frase, di una tenerezza indicibile in realtà, ma facilmente può suscitare un moto di imbarazzo, se non addirittura di fastidio, nella donna che se la sente rivolgere.

La sincerità spiazza, devasta, quando è così scoperta: è verosimile figurarsi infatti che la donna – quella che il pubblico medio probabilmente si figurava e che dobbiamo qui immaginare provvista di “medio buon senso” – abbia risposto (ipotizzando ovviamente che un dialogo del genere si sia effettivamente svolto da qualche parte): “Sì, certo, è perché nessun'altra ti sopporterebbe”, oppure: “Eh sì! L'hai proprio trovata, quella giusta...”, e via così.

Ad ogni modo, certamente il pubblico, seguendo il senso comune, non ha compreso o accettato frasi come quelle della canzone, dette insolitamente per scoprirsi e non per mascherarsi. Ma con quelle parole Piero Ciampi intendeva dire: “Sento che tu mi puoi comprendere, sento che con te trovo la mia serenità. Accettami come sono, ti prego, perché non ti risparmierò la sincerità dell'amore profondo, di cui ti sto dando prova anche adesso”.

Peccato che - è solo un'ipotesi, come sopra, ma quanto probabile! - la donna deve aver rifiutato questa offerta, questa intesa: l'ha forse considerata indizio di immaturità; e allo stesso modo si è regolato il pubblico dell'epoca che, sia pure a livello inconscio, deve aver considerato questa “bizzarra” dichiarazione d'amore non consona ad un uomo oltre la trentina (quale Ciampi era), che dovrebbe, inutile dirlo!, aver già lasciato da parte i bei sogni per accontentarsi di offrire “solidità”, “concretezza”, e insomma tutto ciò che più piace alla macchina-gabbia-buon senso.

Tanto più dal momento che la canzone si conclude con questi versi: “Tutte le cose che non hai / accanto a me le troverai / nel mondo dell'illusione. / Tu vai sicura, vai così, / perché io sono sempre qui, / qui!”.

Ma come fa una donna - si chiede un ascoltatore “di buon senso” che parteggia per le donne in possesso dello stesso “buon senso” - come fa una donna a sentirsi “sicura” se le offri solo il “mondo dell'illusione”? Quando per di più l'uomo, vero incosciente, ha ammesso di non avere una lira!

Certo, questi ultimi versi de L'amore è tutto qui sono un affondo clamoroso contro il torpido, diffuso e auto-compiaciuto “buon senso”; sono una straordinaria provocazione, che però - attenzione - non viene gridata con rabbia, ma, per così dire, sussurrata con leggiadria, quasi beffardamente, addirittura con un sorriso trasognato sulle labbra.

L'autore qui sembra dire: “Ebbene sì, io vi offro la poesia. So bene che questa offerta non v'interessa, non vi garba, magari vi dà perfino fastidio, e non sapete neppure voi dire perché. Ma chi se ne importa? E' la mia vita, è il più alto valore che (le) riconosco, e quindi per me è un'offerta preziosa, che lo capiate oppure no”.

Piero Ciampi si muove con fierezza fra parole e suggestioni che lo fanno apparire perdente, e la fierezza gli viene dal rifiuto di cedere al ricatto dei “vincenti”: non è tentato dalla prospettiva di cercare preziose occasioni o scorciatoie per sembrare a tutti i costi uno di loro; non sa che farsene di certe tentazioni, anche se questo nobile sprezzo, come sa, “gli costa caro” - per citare l'espressione che usa in un'altra sua canzone, Ha tutte le carte in regola, che, detto per inciso, è per me una delle più belle canzoni italiane tout court.

E del resto anche di questa bisogna parlare, se si vuole capire P. Ciampi. Qui lui veste i panni del don Chisciotte (titolo a sua volta di un'altra sua canzone), che pur perdendo ogni volta nella lotta con la realtà materiale, non cede, non rinuncia al proprio diritto alla parola. E' un brano che ha una stretta parentela con L'idole di Léo Ferré, altro magistrale ritratto “d'artista”, sospeso tra sarcasmo e amarezza “fiera”.

Nella canzone in questione, Piero Ciampi parla di sé in terza persona, con l'orgoglio di rappresentare un simbolo e col pudore di chi vuole tratteggiare una condizione che non appartiene solo a lui, svincolandosi dal narcisismo. Dice: “Ha tutte le carte in regola / per essere un artista” e lo ripete all'inizio di ogni strofa; è il suo biglietto da visita al cospetto dell'esistenza, ed è l'identità per la quale sacrifica ogni altro bene.

Siamo in presenza di un vero e proprio autoritratto in versi e musica, uno dei più sinceri tra quelli mai usciti dalla penna di uno chansonnier o cantautore. Tra i vari segni coi quali l'artista si svela, spicca secondo me quello contenuto in queste parole: “non fa alcuna differenza / tra un anno ed una notte, / tra un bacio ed un addio”. Un uomo, dunque, che non dà soverchia importanza al tempo (e forse ne ha perso la cognizione: colpa grave, secondo la macchina-gabbia del buon senso!) e che vive intensamente qualsiasi emozione, avendo però deciso di non farne più il preludio di un qualche sogno a occhi aperti. Un bacio può non condurre da nessuna parte, ma è importante per ciò che è in sé; e un addio va accettato senza esigere rimedi o spiegazioni.

E subito dopo i versi citati, c'è un inciso che è forse il vero cuore della canzone: una confessione nel corpo stesso della confessione, la cui importanza è sottolineata anche dal pathos inatteso, sorto come dal nulla, della melodia e dell'armonizzazione, e dal crescendo dell'accompagnamento orchestrale (tutti pezzi di bravura di Gianni Marchetti): “Questo è un miserere / senza lacrime. / Questo è il miserere / di chi non ha più illusioni”.

A che vale alimentare ulteriormente la collezione di illusioni personali, in un mondo siffatto? - si chiede Piero Ciampi.
E se lo chiede appunto “senza lacrime”: l'amarezza non deve diventare disperazione - perché si deve continuare ad essere quello che si vuole essere: un artista, appunto - e il disincanto non deve portare a rinunciare alla propria identità più profonda: questo mai.
Il disincanto “senza lacrime” si stempera quindi in un sorriso beffardo, che riflette come in uno specchio l'irrisione altrui e la rispedisce seraficamente al mittente.

Sembra una contraddizione: come ci si può inginocchiare senza pentimento o lamentare rimanendo apparentemente distaccati? Eppure è proprio ciò che P. Ciampi riesce a fare, ed è qui uno dei segreti della forza di certi suoi versi. Per rendersene conto, basta scorrere l'ultima strofa di Ha tutte le carte in regola, dove sembra celebrare un'ennesima contraddizione: “Vive male la sua vita, / ma lo fa con grande amore”. Parole che comportano, allo stesso tempo, un'ammissione di “colpa” e un'autoassoluzione. L'amore dissolve qualsiasi errore, secondo Ciampi, e nobilita la stessa incapacità di vivere una vita “nella norma” e “imbottigliata” nei modelli largamente accettati.

Lui la pensa così, certo; ma chi gli vive accanto? Le due donne citate nel finale sono evidentemente fuggite, disapprovando le scelte dell'artista; e nei versi che le evocano, loro sembrano sfilare rapidamente, lasciando solo la traccia sfocata della loro avvenenza, dei loro capelli biondi... Nel presente per il poeta c'è solo l'assenza (“ma per lui non esistono più”), l'amore è necessariamente un fatto terminato, che si rifugia nel passato. L'ideale sipario di Ha tutte le carte in regola cala su un palcoscenico vuoto: l'autore si è nel frattempo dileguato dietro le quinte, come per inseguire la regola ferrea della vita, che “prende, porta e spedisce” senza tregua, senza eccezioni.


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