Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

domenica 20 maggio 2012

Dal tempo "liberato" al "tempo libero", ovvero: Contestazioni di ieri e di oggi a confronto (qualche suggestione)


1. La libertà è il tempo libero?

Prendo spunto da una nota di vita quotidiana per avventurarmi in riflessioni più ampie.
La mattina del 25 aprile – una mattina soleggiata, con un cielo limpido che in questa stagione si era finora visto poco – nella strada dove vivo, ad un certo punto si sono cominciate a sentire canzoni pop e rock suonate a tutto volume: provenivano dall'autoradio di una macchina parcheggiata con gli sportelli aperti. Intorno all'automobile, un gruppo di ragazzi e ragazze – età media sui vent'anni, non di più – che davano sfogo allegramente alla loro voglia di far festa, e soprattutto di comunicare rumorosamente al quartiere la loro esistenza e la loro giovanile effervescenza. Si erano “appropriati” dell'attenzione di una strada intera, per almeno tre quarti d'ora; era una sorta di rudimentale happening festaiolo per dire: “Noi ci siamo, siamo qui, ascoltateci!”.

Cosa c'è di strano?” potranno chiedersi i... miei lettori.
Beh, forse il fatto singolare è che si trattava – come ho detto – del 25 aprile. I brani musicali che ascoltavano quei giovani non avevano nulla di “politico”, vi garantisco: nessun canto partigiano, nessuna “Bella ciao”... solo “normali” brani da classifica pop del momento. Per loro il 25 aprile era insomma semplicemente una festa come un'altra, un'occasione per stare insieme e divertirsi.



Là per là mi sono detto: “Ma come? E' il 25 aprile, e questi qua non pensano che al solito divertimento ad alto volume?”.
Subito dopo però ho cominciato a riflettere: quei ragazzi e quelle ragazze fanno parte della generazione sulla quale incombe il “destino” del precariato eterno; il loro divertimento è una forma di evasione dalla loro condizione di vita. Un passo dopo l'altro, in effetti, il divertimento è diventato ciò che dà senso alle vite; il tempo libero è il recinto nel quale si esprime la voglia di evadere dalle costrizioni di un lavoro avaro di soddisfazioni (e, troppe volte, di “senso”). Molti/e quindi finiscono per vivere in funzione di quello spazio che considerano “liberato”, perché è l'unico nel quale ritengono di poter esprimere ciò che sono, al di là dei ruoli “funzionali” e poco gratificanti del lavoro.

Così, dentro quello spazio, nient'altro ha più importanza: è come una bolla incantata nella quale non valgono le regole e le preoccupazioni di tutti i giorni, in quel “micro-mondo” – per il breve lasso di tempo in cui l'incantesimo dura – non vale nulla del “macro-mondo” che resta fuori, non vale neppure una ricorrenza come il “25 aprile” [o meglio, non ha valore il suo significato, ma il “micro-mondo” del divertimento fa propria solo la sua funzione di “opportunità” di tempo liberato dal lavoro], perché anche quella fa parte del “macro-mondo” dei doveri, delle preoccupazioni...

E qui però qualche domanda s'impone: che peso finisce per avere questa distinzione fra “tempo della produzione” e “tempo libero” (che si sovrappone al “tempo del consumo” e con questo si confonde)? Non è di fatto una “frantumazione schizofrenica” della nostra esistenza? Non dovremmo forse pretendere di ritrovare il senso non solo nel “tempo libero”, ma anche nel tempo “di produzione”, e ricongiungere così il puzzle disarticolato delle nostre vite?

2. Un rapido sguardo al Sessantotto (senza troppo revival...)

Per quanto possa suonare strano ad alcuni/e, la lotta per disporre di un tempo libero e liberato dotato di un proprio autonomo senso comincia negli anni della Contestazione, insomma – se proprio vogliamo indicare una data approssimativa – nel mitico e vituperato (a seconda dei punti di vista) 1968.

Il tempo “liberato” diventa allora occasione per appropriarsi di uno spazio per sé, in cui vigono regole nuove (o la sospensione delle regole tout court).

Se si prova a fare qualche passo indietro, si comprende infatti che nel “groviglio” ideologico, politico, generazionale e “sentimentale” del Sessantotto era insita, in qualche misura, anche l'esaltazione della libertà individuale come valore in sé, che viene finalmente autorizzato a ignorare gli altri “valori” sino a quel momento imperanti e condizionanti (il peso della tradizione, la struttura patriarcale e gerarchica della società, l'etica del sacrificio).

Il legame fra liberazione (intesa in senso sociale, collettivo) e libertà è in effetti molto stretto (e difficilmente potrebbe essere altrimenti): solo un filo molto sottile li separa; e, separandoli, li tiene comunque in collegamento.
Dall'esaltazione dell'individuo come monade assolutamente libera da vincoli (tradizionali e sociali) al trionfo del disimpegno e dell'edonismo (più o meno “reaganiano”) il passo è breve. All'inizio i “semi” di questa trasformazione non sono percepiti come tali, e quindi il processo – almeno nella fase della “contestazione” – non si genera in maniera del tutto chiara e consapevole (specialmente riguardo alle sue conseguenze ultime), certo; ma ogni movimento “epocale”, a mio avviso, deve assumersi la responsabilità storica di tutte le proprie conseguenze, di quelle positive (e il Sessantotto ne ha avute) come di quelle dubbie o decisamente negative (o anche semplicemente “depressive”).

Ritengo necessario chiarire che il mio intento qui (nelle poche righe di questo post!) non è quello di fare l'agiografia del '68, e neppure quello di porlo frettolosamente sul banco degli imputati: sono entrambi atteggiamenti che non condivido, perché non colgono il groviglio di esigenze sacrosante, di speranze di cambiamento giuste (seppur impazienti), ma anche di errori ed esagerazioni, che il '68 - come ogni altro vasto movimento sociale - contiene e ha rappresentato in sé. C'è chi lo legge oggi come una rivoluzione autentica, chi come una rivoluzione tradita (tradita in primo luogo dai suoi stessi protagonisti, venuti a compromessi con l'establishment) e chi addirittura come una sciagura che ha “rovinato” la bella, pacifica e sonnolenta società italiana allora felice del suo “boom”.
Non è difficile riconoscere in queste tre letture altrettante posizioni politiche, tra loro in contrasto più o meno netto.

A mio parere non si può negare che il movimento culminato nelle manifestazioni studentesche del '68 (dopo un'incubazione, non meno decisiva, che aveva attraversato buona parte degli anni Sessanta) abbia dato voce e forza, in Paesi allora piuttosto “attardati” (se non arretrati) sotto il profilo della cultura politica, come il nostro, a istanze di ceti sociali emergenti, che non potevano più sentirsi adeguatamente rappresentati da politiche tagliate su misura per un modello di società che ormai era quasi del tutto tramontato (la società rurale, coi suoi cicli lunghi, le sue tradizioni immutabili e il suo tendenziale conservatorismo e antimodernismo, anche sotto il profilo delle strutture relazionali e familiari).

Il movimento prodotto dal '68 ha reso possibile riforme importanti ed epocali per l'Italia (che appunto solo qualche anno prima - e senza quel “ciclone” - sarebbero state impensabili): basti citare lo Statuto dei lavoratori o la riforma del diritto di famiglia - e sono solo gli esempi più eclatanti.

In quell'occasione mancò comunque una saldatura, o perlomeno mancò un dialogo franco e privo di ostilità preconcette fra i partiti e i movimenti, e fu questo uno dei veri problemi di quella stagione, se non il problema principale; i partiti, e soprattutto i partiti di sinistra (per formazione più vicini alle istanze dei gruppi scaturiti dal '68), obbedendo quasi istintivamente al loro bisogno di egemonia, si impegnarono strenuamente a spegnere il movimento, in un modo o nell'altro (cooptandone alcuni “pezzi”, ad es., ma non solo), anziché rispondere alla sfida della democratizzazione “dal basso” della società, che quello esprimeva.

E il movimento non si lasciò spegnere facilmente, ma disarticolandosi, reagì comunque secondo strategie differenti, che spaziarono dall'estremismo anti-partitico e dal filone iper-libertario che si sviluppò a partire dallo slogan cripto-nichilista del “vogliamo tutto” (tendenze queste che col tempo, a volte malgrado le loro stesse intenzioni iniziali, crearono terreno fertile per l'azione di penetrazione del liberismo rapace, e con esso dell'individualismo esasperato e asociale, atomistico, nonché “disperato” politicamente), sino alla vera e propria pratica dell'azione armata, anch'essa impolitica (perché irriconducibile a qualsiasi progetto di emancipazione, rivoluzionario o meno) nel suo vaneggiamento solipsistico, sanguinoso e sanguinario.

Il “volere tutto” e insieme il “tutto distruggere” è il corto circuito che mette in crisi la lucidità di intenti e di programmi, rendendo i “rivoluzionari” incapaci di interpretare la realtà, ricca di pieghe e di dettagli che è necessario definire e distinguere nel modo più chiaro possibile, se l'azione politica, anche “rivoluzionaria”, non vuole finire nel vaniloquio e nella farneticazione, più o meno “dotta”.

Ma il Sessantotto non si può certo ridurre tutto a questi esiti tardi ed estremi, se non per un calcolato desiderio di farne una parodia politicamente conveniente (per determinati scopi, s'intende...).

Uno dei problemi principali da affrontare, comunque, quando si cerca di ricostruire genesi, senso e contenuti di un movimento come quello del Sessantotto, è l'individuazione del suo “albero genealogico”: di chi è “figlio”, insomma? di quali culture, di quali esigenze? Deriva forse da altri movimenti, già presenti sulla scena, che hanno contribuito, con la loro azione e le loro idee, a farlo nascere?

C'è chi, limitando il proprio sguardo all'Italia – nella propria personale interpretazione “genealogica” del Sessantotto – lo fa nascere dai “fermenti” di una certa sinistra di ispirazione marxista (si pensi ad es. al gruppo che dà vita alla rivista “Quaderni Piacentini”) maturata nell'inquietudine del nostrano “boom” economico e insofferente nei confronti dei partiti “istituzionali” (che allora, nella “famiglia” della sinistra, erano essenzialmente il Pci e il Psi); c'è chi ne fa semplicemente il riflesso delle rivendicazioni e delle contestazioni studentesche d'Oltreoceano, manifestatesi con veemenza tale, nel '68, da avere risonanza mondiale; e c'è chi fa notare che già prima del 1968, qua e là nel mondo, erano nati movimenti, di matrice artistica e culturale più che politica (si pensi alla cosiddetta beat generation, al situazionismo, ma anche al movimento artistico Fluxus), i quali mettevano in questione determinate “certezze” della società borghese e la sua etica fatta di benessere materiale, di “rispettabilità” esteriore e di assortiti status symbols.

Nel Sessantotto italiano, in particolare, si sono incontrati questi vari elementi (e probabilmente altri ancora), e nonostante la loro eterogeneità sono riusciti per un certo periodo ad amalgamarsi, seppure in maniera imperfetta e parziale, per poi – superata la “spinta” dell'entusiasmo iniziale – separare le loro rispettive strade, non sempre in maniera indolore.

L'impronta iniziale del “Sessantotto” italiano è in realtà frutto dei movimenti hippy, provos e beat (in Italia gli ultimi due dettero vita a pubblicazioni periodiche di breve durata, come “Mondo beat” e “Onda verde”, che costituiscono oggi documenti storici importanti di quel periodo, specie per capire le rivendicazioni del Movimento), generalmente accomunati dall'etichetta freak, che a loro volta potevano dirsi derivati dall'amalgama “creativo” fra esperienza beat e hippy statunitense ed esperienza “esistenzialista” europea.

L'egemonia politica del movimento è stata successivamente assunta da settori più “politicizzati” e organizzati del medesimo, prevalentemente di ispirazione marxista; ma, come si diceva poc'anzi, le due “anime” del movimento (in realtà tre, se si aggiunge la sua componente studentesca, decisiva nel costituire la “massa d'urto” che crea – diremmo oggi – l'evento “spettacolare” della contestazione con l'occupazione degli Atenei, ecc., se non addirittura quattro: non si deve infatti dimenticare l'importanza delle lotte sindacali, e quindi della componente sociale della contestazione) hanno cercato di trovare punti d'incontro, influenzandosi reciprocamente: ad es., l'esperienza di movimenti come “Lotta Continua” (citato qui a mo' di esempio, ma non rappresenta l'unico caso...) si spiega anche in questi termini.
(Altri movimenti di natura politica, come ad es. i gruppi stalinisti o maoisti, invece, pur rivolgendosi alla “platea” ideale rappresentata dal Movimento degli studenti e degli operai che, a partire dal biennio '68-'69, dànno vita ad una lunga stagione di protesta e rivendicazioni – platea che da quei movimenti politici viene considerata strategica perché sensibile a ciò che in quegli anni ha il sentore di “rivoluzionario” e genericamente “antiborghese” – disprezzano o criticano fortemente l'anima “libertaria” e “individualistica” del Sessantotto, che emergerà chiaramente soprattutto nel corso del decennio successivo, pur affiancandosi per un bel po' ai cortei di protesta e ai “collettivi”.)

E' da allora infatti che nel concetto e nei programmi della sinistra gli originari contenuti socialisti e/o marxisti cominciano a mescolarsi con istanze libertarie e talora decisamente freak.

Le istanze di alcuni importanti movimenti di liberazione (che come il femminismo, ad es., si basano spesso su un'elaborazione teorica raffinata e sono dotati di una capacità di analisi e di critica avanzata e nient'affatto “ingenua”) trovano a loro volta cittadinanza nell'alveo di questa alleanza, che anzi diventa l'humus ideale per sviluppare una nuova coscienza – specie nelle nuove generazioni sensibili alla contestazione dell'esistente – e per diffondere quella che è a tutti gli effetti, se considerata globalmente, una “controcultura”, che contesta radicalmente i princìpi, gli assunti e i fondamenti della vecchia “cultura” dominante nella società, fondamentalmente repressiva e basata su un variegato insieme di ingiustificabili discriminazioni (di ceto, di genere, ecc.) e di pregiudizi indifendibili.

Pur dovendo riconoscere quindi ai movimenti più propriamente politici nati durante o in séguito al Sessantotto il ruolo da questi avuto nel trasformare alcune richieste del Movimento in proposte politicamente “strategiche”, talora anche legislative, volte a modificare nel profondo i valori della società e soprattutto i fondamenti dei rapporti sociali e interpersonali, si deve aggiungere che forse non tutte le fonti di informazioni e studi su quella stagione dànno conto nel modo dovuto del ruolo fondamentale che, come si accennava, hanno avuto movimenti come quello dei provos, o come quello beat (verso i quali la stampa dell'epoca e i benpensanti manifestavano aperto disprezzo classificando come “capelloni” i giovani che ne facevano parte), nel dare l'avvio in Italia, almeno fin dal 1966, alle prime forme di “contestazione” e alle prime rivendicazioni “libertarie” che saranno poi riprese e amplificate dal Sessantotto (e dal Movimento che anche negli anni successivi ha continuato a battersi per gli stessi obiettivi).

3. Il “tempo liberato” e il tempo “libero”

Il percorso sociale e ideale mediante il quale si afferma la concezione (che si fa poi convinzione diffusa) del “tempo liberato” come oasi spaziale e temporale sottratta ai ritmi e alle esigenze tiranniche della “produzione”, e quindi all'obbligo di conformarsi a una performance e a un ruolo ben precisi e standardizzati, si può ricostruire a posteriori in diversi modi; uno di questi è, ad esempio, lo studio dei “raduni pop” e dei miti collettivi – e delle aspettative generazionali e “transnazionali” – ad essi associati, specie negli anni fra il 1966 e il 1977 (approssimativamente).

Una pubblicazione che mi è capitata sottomano di recente, nel rievocare in maniera succinta e tuttavia efficace quelle vicende, ricostruisce così le premesse e gli inizi di quel processo:
«La generazione ribelle e disobbediente degli anni '60 si sente “altro” rispetto alla società che la circonda. Il mondo non corrisponde alle sue attese e ciò che vede non la rassicura. [...] L'impressione generale è che la società degli adulti sia malvagia e malata, ad un passo dal collasso. Qualcuno sta anche pensando che forse è il caso di affrettare il processo con qualche spallata ben assestata. [...] Sono tempi di energia strabordante, incontenibile, tutto tende a riversarsi verso l'esterno [...] le strade si riempiono d'arte, di happening, fuori dalle gallerie e dai musei. Gli attori sono usciti dai teatri per ricalcare le orme della Commedia dell'Arte, nelle piazze. I cineasti inseguono la vita e portano le cineprese fuori dagli studi. Gli studenti non si accontentano di tenere dibattiti nelle aule e manifestano per le vie» [Guarnaccia 2011, pp. 9-10].

Ben presto la musica rock, specialmente nel suo filone “alternativo” e creativamente più ambizioso, poi passato alla storia come progressive rock (e all'epoca chiamato però semplicemente pop, definizione che oggi designa invece la musica leggera scritta appositamente per vendere in tutto il mondo e finire nelle “classifiche”), diventerà non soltanto la colonna sonora di questo movimento giovanile transnazionale, ma il suo collante, il segno distintivo dell'appartenenza al movimento e della condivisione dei suoi “valori”.

Come efficacemente ricorda il testo già citato:
«L'embrione di spettacolo all'aria aperta, che prenderà il nome di pop festival, esordisce a San Francisco, nella seconda metà degli anni '60, in perfetta sintonia con il terremoto generazionale in atto. E' una formula espressiva ibrida, multimediale, molto promettente. Si propone come un accogliente campo di addestramento estivo per la rivoluzione culturale, una prova generale per l'edificazione di una nuova società. [...] Durante il suo periodo pionieristico, è vissuto come una festa di famiglia, un territorio liberato, l'enclave di un'ipotetica Repubblica Popolare Giovanile, una zona temporaneamente autonoma dal controllo dell'establishment» [Guarnaccia 2011, pp. 12-13].

Nel tempo, la purezza di questo “mito” iniziale si corrode, qualcosa si perde per strada; ma – specialmente in Europa, e persino in Italia, dove il fenomeno (come quasi sempre càpita, da noi) arriva in ritardo di qualche anno – l'illusione del “territorio liberato”, che si pone al di fuori delle “brutture” circostanti della produzione e dello sfruttamento intensivo del lavoro, resiste ostinata per quasi un decennio, con alti e bassi.

Già a partire da Woodstock (1969), in parte, e soprattutto dalla terza edizione del Festival dell'Isola di Wight (1970), che rappresentano i tentativi più ambiziosi di “pop festival”, il fenomeno, giunto all'apice quanto a potenzialità e a risonanza nei mass media, rivela tutte le proprie pecche. L'illusione comincia a sfaldarsi (soprattutto nei Paesi in cui è nata).

Infatti, il Terzo Festival di Wight dimostra che il mondo della “produzione” e della “mercificazione”, e insomma del business, ha ormai colto le potenzialità che, dal proprio punto di vista, il pubblico dei “raduni pop” rappresenta, in quanto mercato:
«Supportata da un marketing martellante, questa edizione [del Festival di Wight] procede senza tentennamenti sulla via del massimo profitto con il minimo investimento [...]. Nessuno pensa di far tesoro delle esperienze passate, di considerare le esigenze del pubblico. L'unico interesse è stipare più gente possibile in un'area recintata, spremendola a dovere» [Guarnaccia 2011, p. 43].
In più, «Per la prima volta nella storia del pop festival, la parte più vicina al palco viene riservata ad un pubblico VIP, pronto a pagare il triplo di un biglietto normale. Cade il tabù dell'egualitarismo pop» [Guarnaccia 2011, p. 43].

Non è un buon biglietto da visita, per le aspettative di gran parte del pubblico, affamato di ideali. Così il festival, cominciato con tante ambizioni (soprattutto sotto il profilo degli incassi...), si conclude fra le dure contestazioni del pubblico (accompagnate da incidenti e atti di vandalismo), e l'amarezza degli organizzatori.

La stessa parabola si verifica nel “microcosmo” italiano, coi raduni pop organizzati dalla rivista “Re Nudo”, dal 1971 al 1976, un appuntamento annuale che era diventato importante per i giovani dell'epoca: prima infatti c'è un'entusiasmante fase “ascendente” (quanto ad affluenza di pubblico, a spirito “comunitario” e “libertario” e a partecipazione degli artisti), specialmente tra il '71 e il '74, e poi la caduta rovinosa, con l'ultima edizione del '76 [degli aspetti drammatici di questa edizione del Festival, che dimostrano la “fine dell'idillio” (e cioè dell'illusione di creare, con la “festa” e l'aggregazione del cosiddetto “proletariato giovanile”, un mondo a parte, “liberato” per propria intrinseca virtù), si trova traccia, tra l'altro, in un film di Alberto Grifi, Parco Lambro 1976, e nella canzone di Gianfranco Manfredi, Un tranquillo festival pop di paura].

Da noi, in particolare, come ricorda uno studioso del settore, agli inizi degli anni Settanta la musica (quella del progressive rock, non certo quella “commerciale”) coi suoi festival e raduni, diventa occasione per un nuovo tipo di aggregazione giovanile:
«I giovani parteciparono in massa a queste sempre più numerose manifestazioni non solo per ascoltare la nuova musica ma anche per poter incontrare altri giovani con cui confrontare le proprie idee. Così la nuova generazione cominciò ad andare in giro on the road, zaino e sacco a pelo, dando vita a inconsuete e variopinte migrazioni. Il desiderio di aggregazione rappresentava la voglia dei giovani di urlare al mondo la loro esistenza, il loro modo di pensare, la loro diversità rispetto ai loro padri. Fu un fenomeno importantissimo perché, se in altre nazioni l'identificazione giovanile aveva avuto il suo sviluppo [...] in Italia questo non era mai avvenuto. Così, grazie a questo esplosivo cocktail di musica e politica, l'esercito dei giovani si confrontava e prendeva sempre più coscienza delle proprie possibilità» [Mirenzi 1997, p. 52].

Nei festival e “raduni pop” che si susseguirono numerosi in Italia in quegli anni (specialmente fra il 1971 e il 1975), la musica rappresentava il segno distintivo di appartenenza ad un mondo (votato alla “contestazione” dell'esistente e alla contestuale “liberazione”), e quindi fungeva da richiamo per spingere i giovani a mettersi in marcia verso la provvisoria “terra promessa”, ma non costituiva la ragione profonda dell'aggregazione:
«La musica era solo un pretesto. I festival erano il palcoscenico, più che dei gruppi, del proletariato giovanile e un importantissimo veicolo di diffusione della “controcultura”. Dove, a fianco degli spettacoli musicali, si tenevano i dibattiti più svariati, le proiezioni dei film più alternativi, gli inviti alla lettura e infinite altre iniziative» [Mirenzi 1997, p. 67].

Arriva però, come si è detto, il momento in cui questa esperienza rivela i propri limiti, o meglio dimostra di non poter reggere le esigenti aspettative dell'utopia. Lo spirito dell'Aggregazione “disorganizzatamente liberatoria” e della Festa (significativamente le ultime edizioni del Festival di “Re Nudo” si richiamano a questo appellativo) si rivela incapace di spegnere, di per sé, le contraddizioni e i furori del mondo circostante, e questo limite, che sembra apparire di colpo come un trauma, smentisce le illusioni che sino a quel momento erano state coltivate.

Le ambizioni maggiori di quell'utopia sono apparentemente scomparse, ma in realtà, con gli anni e coi decenni, generazione dopo generazione, sono rifluite in sogni di portata più ridotta, in piccoli circoli, in “comitive” di giovani che cercano nell'uscita del sabato sera il loro tempo “liberato”, lontani dal mondo degli altri e tuttavia omologati, nei gesti e nelle aspirazioni, a quasi tutti gli altri, in un “divertimentificio” che è diventato industria rivolta a un pubblico di massa.

Siccome si è accennato alla musica, prima, non è fuori luogo citare in proposito alcune canzoni di Giorgio Gaber, che rappresentano con particolare acume questo spirito della festa come illusione dello spazio liberato.

La prima, Le nostre serate, risale in realtà agli anni Sessanta, ma sembra parlare di oggi, ironizzando sul sabato sera da “inventare” per uscire dalla noia e dalla routine, che investe quindi inesorabilmente il “tempo libero” esattamente come il tempo “obbligato” del lavoro e della produzione – e li accomuna, eliminando ogni fittizia distinzione.

Nella canzone Guardatemi bene, che fa parte dello spettacolo “Polli di allevamento” (1978), Gaber dipinge lo smarrimento della generazione che stava esaurendo le speranze del “lungo Sessantotto” italiano e si tuffava in una ribellione sorda, individualistica ormai, interpretando la “festa” come una sorta di “ora d'aria” rispetto a costrizioni sociali ed economiche che nessuno pensava più di poter eliminare, generazione che – come cantava Gaber – sembrava dire: “...Me ne frego dei partiti, me ne frego dei gruppi, / tentativi disperati ne ho fatti già troppi”. (Lo dicono forse anche oggi queste generazioni?).

E nella canzone La festa, sempre dello spettacolo “Polli di allevamento”, Gaber parla ancora delle trasformazioni cruciali alle quali assiste negli anni in cui le illusioni dell'aggregazione giovanile come “mondo a parte”, liberato e liberatorio, che può arrivare a contagiare e a cambiare anche il mondo “di fuori”, cominciano a svanire. In quel periodo, le discoteche sono entrate nel novero dei miti giovanili: chi è in, chi si adegua alla moda del momento, non può mancare il sabato sera in quei luoghi, la “liberazione” del momento (molto meno ambiziosa, giacché non vuole “cambiare” nessun mondo) sembra essere là. E Gaber commenta, riferendosi proprio ai frequentatori di discoteche: “C'è chi si lamenta della vita / sgambettando”.

Già: poiché in un lavoro di routine, sottopagato e insoddisfacente non ci si realizza, e non c'è neppure più speranza di cambiare lo stato di cose (il “mondo della produzione”), l'unica “liberazione” possibile è nella conquista delle “trasgressioni private”, l'ultima frontiera dell'illusione compensatoria. L'insoddisfazione, e persino la protesta, s'incanalano nello scatenamento delle danze, fra le mura protettive della “discoteca”, o comunque della “festa”.

Il “mondo della produzione” ringrazia sentitamente: con questo modo di intendere la protesta, può conquistare, senza più incertezze, un nuovo mercato (il mercato del divertimento) e al tempo stesso si mette al riparo da ogni attacco frontale.

Migliaia di ragazzi e ragazze vengono lasciati in pasto alla loro nuova illusione o consolazione: pensano di “contestare” il mondo “sgambettando” (per usare l'efficace immagine gaberiana). E se ne stanno tranquilli nel loro recinto, immaginando sempre nuove “trasgressioni” nel privato che non intaccano però minimamente la struttura portante del sistema sociale ed economico. E' una specie di armistizio tacito.

Nella stessa canzone, La festa, si dice: “...E senza esitare un momento / sarebbero pronti a scannarsi per quel divertimento”.
[Sentendo queste parole cantate da Gaber, mi vengono in mente anche le “guerre da stadio”, dove il “gioco” (un gioco, nient'altro che un gioco, un divertimento, appunto!) diventa serio motivo di contrasto, rabbia, e anche peggio...].

Infatti, generalmente l'unica rabbia veramente diffusa che si può ancora scatenare si rivolge contro ciò che minaccia (o sembra minacciare) la “zona franca” del divertimento, del “tempo libero” riservato agli “esercizi di trasgressione” privata.

Nessun altro tema compatta con pari efficacia, oggi, gli umori e li indirizza verso la difesa della libertà (rigorosamente privata).

I sistemi autoritari odierni, o meglio quelli più “moderni”, che hanno compreso le potenzialità di questa scissione e di questa collettiva autoriduzione del senso della libertà, sono ben disposti a concedere al privato di ciascuno tutte le “trasgressioni” che vuole, senza più soverchia censura e intrusione, a patto che conceda però allo Stato “forte” il monopolio del pubblico (e quindi che ciascuno firmi l'abdicazione alla cittadinanza intesa come autogoverno e come diritto al pubblico dissenso).

Ma per tornare al “caso nazionale”, ciò che accomuna tutto sommato la protesta del “nostro” Sessantotto e l'attuale impasse della situazione sociale e politica italiana, è l'inamovibilità dei gruppi dirigenti, la loro “lunga permanenza” nelle posizioni di comando: insomma, quella che viene in maniera un po' colorita (ma efficace) definita gerontocrazia: come allora lo “svecchiamento” delle idee doveva passare necessariamente attraverso un ribaltamento dei ruoli fra le generazioni, giacché per troppo tempo e con eccessivo “egoismo” le generazioni “più anziane” avevano imposto alle altre il loro potere e preservato il loro ruolo modellando i rapporti sociali secondo una visione del mondo in linea di massima conservatrice, immobilista e tradizionalista (e quel ribaltamento, in parte, si realizzò e dette anzi la propria impronta simbolica al “Sessantotto”), così ora si rende decisivo un nuovo “ribaltamento dei ruoli”, che contribuisca, con un profondo rinnovamento dei gruppi dirigenti (che altrove, in Europa e nel mondo, è considerato normale...), a spazzare via i privilegi e le “paure conservatrici” di oggi, continuamente ribadite dai media e dalla retorica ufficiale, e a liberarci da “immobilismi” che durano ormai da troppo tempo.

A leggere certe cronache ormai sbiadite dell'epoca che va all'incirca dal 1966 ai primi anni Ottanta, si ricava la fotografia di una società – quella italiana – nella quale era in atto un serio conflitto fra generazioni, che si combatteva non solo nell'àmbito della vita pubblica e lavorativa, ma anche all'interno delle singole famiglie, con tanti/e ragazzi/e che fuggivano di casa per sottrarsi all'autoritarismo dei genitori (e raggiungere magari in autostop uno dei “raduni pop” di cui sopra, o una qualche “comune”...); madri e padri che inseguivano figli e soprattutto figlie fin nei cortei di protesta o nei “campeggi alternativi”, e pretendevano di riportarli a casa dopo averli presi a sberle in pubblico; genitori che intimavano ai loro figli (e figlie) giovanissimi/e, sotto la minaccia di spedirli/e “in manicomio” (o in qualche luogo similare), di smettere di leggere “certi libri” o di “fare politica”; ragazzi/e ai quali, in certe zone d'Italia, i genitori impedivano, anche a diciott'anni (e oltre) di avere le chiavi di casa o di usare il telefono (all'epoca rigorosamente “fisso” e controllabile); e così via (l'elenco potrebbe essere molto lungo...).

Si ha l'impressione che quei genitori si fossero ritrovati di colpo troppo vecchi rispetto a un'epoca che cambiava tanto rapidamente da spiazzarli: vecchi non in senso puramente anagrafico, s'intende, ma in quanto vistosamente e drammaticamente inadeguati, fuori posto, con la loro pretesa di interpretare il loro ruolo in una maniera quasi esclusivamente censoria e repressiva, per imporre codici morali e di comportamento che erano ormai – a loro insaputa, si direbbe – “fuori corso”, e il più delle volte irricevibili, nella nuova realtà che si andava vertiginosamente costruendo.

Anche oggi, come avveniva “ieri”, alla vigilia del Sessantotto, c'è un'ampia fascia sociale e generazionale (sinteticamente definibile come “generazione dei precari”) che non trova ascolto nei gruppi dirigenti – vasta categoria anche questa, che va dai politici propriamente detti agli opinion makers, passando per “gli esperti” (o “tecnici”), che in nome del “bene dei precari”, predicano “ancora più precarietà” (chiamandola ovviamente con un altro nome) – e che non può riconoscersi in loro e nei loro “valori” di riferimento.

Però oggi, a differenza di ieri, lo “spazio” per la rivoluzione, dall'orizzonte dei traguardi possibili, è scomparso. Le proteste e le “indignazioni” sembrano essere assorbite con facilità dall'attuale modello di vita, tanto che lo si può assimilare ad un guscio di gomma, così elastico da resistere a tensioni e torsioni fortissime, tornando sempre poi, infaticabile, alla posizione di partenza (mentre nel frattempo i “contestatori” hanno vanamente logorato le loro forze e la capacità di resistenza delle loro speranze).

Il conflitto generazionale all'interno delle famiglie, poi, si è totalmente trasformato, si è fatto più soft, sotterraneo; non c'è più un netto distacco in termini di valori e codici di comportamento, tra genitori e figli/e, generalmente (salvo marginali differenze “di dettaglio”, non certo paragonabili all'abisso che sembrava dividere le generazioni negli anni Settanta); e questo rende ancora più efficace quel “guscio di gomma” che impedisce ogni cambiamento evolutivo e sembra tenere tutto eternamente bloccato sotto la cappa di una “tutela bonaria” (non più chiaramente “repressiva”) che inibisce alla radice, proprio grazie al suo volto “buono” e rassicurante, ogni richiesta di “ricambio” (sembra dire, quel volto: “Non vi contrastiamo, cari, non preoccupatevi: fate quello che volete, dunque rilassatevi e lasciate a noi la fatica del potere”).

[Un paio di precisazioni: innanzitutto, lo sforzo di molti degli attuali genitori di interpretare il loro ruolo in maniera aperta è positivo, e cerca proprio di fare tesoro degli errori del passato, per non ripeterli; ma se da un lato la premurosa protezione che cercano di offrire ai figli, anche per smussare le durezze dell'attuale situazione sociale ed economica (il precariato, ecc.), svolge una funzione “vicaria” importantissima rispetto a uno Stato sociale sempre più sfilacciato, dall'altro la “cappa protettiva” ribadisce, nel “microcosmo” della famiglia, il “modello gerontocratico” predominante nella società, quasi dicesse: “Tu, figlio/a, sarai condannato/a a dipendere eternamente da me e a non emanciparti mai del tutto”.
In secondo luogo, qualcuno può far notare che la “repressione” è ancora presente nell'attuale modello sociale; ma, pur ammettendo questo dato, a mio parere non si può negare che ora essa agisca, a differenza che in passato, in maniera non generalizzata ma (sempre più) “chirurgica”, giacché sceglie di intervenire “strategicamente” in certi punti e momenti che considera critici, e ha sempre più difficoltà a trovare cittadinanza nel discorso pubblico, dovendo ogni volta esibire giustificazioni e “pezze d'appoggio” che una volta venivano date per scontate dall'opinione pubblica mainstream. Giustificazioni che scelgono a volte di proposito una retorica fatta di “vie traverse”, per evitare di far risuonare con evidenza ciò che si vuole trasmettere in sordina: e così, per fare un esempio macroscopico, gli interventi militari delle grandi e medie potenze nei conflitti di Paesi “non sviluppati” si definiscono oggi, con studiato eufemismo, interventi umanitari o missioni di pace, piuttosto che partecipazioni a guerre.]

Chi si rassegna, del resto, in una situazione siffatta, cos'altro può fare se non ripiegare sul “consumo selvaggio”, e dunque sull'uso intenso e pieno del proprio “tempo libero”, oltre i cui confini non sembra esserci più nient'altro? E allora la baldoria – come sembrano sapere i giovani citati all'inizio – diventa il massimo della contestazione possibile. Rebus sic stantibus. (Ma gli equilibri che dànno forma a un determinato tipo di società e a una determinata idea di “ordine sociale”, lungo il corso dell'esperienza storica sin qui conosciuta, non si sono mai rivelati così stabili, equi e perfetti da meritare – e da garantirsi – l'eternità.)


Testi citati:

- [Guarnaccia 2011]: M. Guarnaccia, Re Nudo Pop & altri festival. Il Sogno di Woodstock in Italia. 1968-1976, Vololibero edizioni, Milano (II ediz.).

- [Mirenzi 1997]: F. Mirenzi, Rock Progressivo Italiano. Vol. I: La storia, i protagonisti, i concerti, Castelvecchi, Roma.

2 commenti:

  1. Per me no. C'è un sacco di gente che non fa nulla ma non è affatto libera. Il tempo davvero libero è quello ben speso, ciao Ivan..:-))

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    1. Ciao Estrella!
      Sono d'accordo con te: il "tempo libero" rischia di diventare un'altra gabbia, un'ennesima costrizione sociale (ancora una volta mi viene in mente Gaber, quando parlava di Libertà obbligatoria, espressione ossimorica in apparenza, ma in realtà penetrante...) per riallinearci alla "tribù" persino nei divertimenti (se tali sono davvero...).
      E, come diceva Silvia commentando un suo post, la semplice esistenza di un tempo che definiamo "libero", dimostra che la nostra esistenza è ben poco "libera", nel suo complesso... il che è triste (a dir poco!).
      Perciò, sì: mi interessa soltanto il tempo ben speso, ovunque e comunque questo si consumi :-)

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