1. La
libertà è il tempo libero?
Prendo
spunto da una nota di vita quotidiana per avventurarmi in riflessioni
più ampie.
La mattina
del 25 aprile – una mattina soleggiata, con un cielo limpido che in
questa stagione si era finora visto poco – nella strada dove vivo,
ad un certo punto si sono cominciate a sentire canzoni pop e rock
suonate a tutto volume: provenivano dall'autoradio di una macchina
parcheggiata con gli sportelli aperti. Intorno all'automobile, un
gruppo di ragazzi e ragazze – età media sui vent'anni, non
di più – che davano sfogo allegramente alla loro voglia di
far festa, e soprattutto di comunicare rumorosamente al quartiere la
loro esistenza e la loro giovanile effervescenza. Si erano
“appropriati” dell'attenzione di una strada intera, per almeno
tre quarti d'ora; era una sorta di rudimentale happening
festaiolo per dire: “Noi ci siamo, siamo qui, ascoltateci!”.
“Cosa
c'è di strano?” potranno chiedersi i... miei lettori.
Beh,
forse il fatto singolare è che si trattava – come ho detto –
del 25 aprile. I brani musicali che ascoltavano quei giovani non
avevano nulla di “politico”, vi garantisco: nessun canto
partigiano, nessuna “Bella ciao”... solo “normali” brani da
classifica pop del momento. Per loro il 25 aprile era insomma
semplicemente una festa
come un'altra, un'occasione per stare insieme e divertirsi.
Là
per là mi sono detto: “Ma come? E' il 25 aprile, e questi
qua non pensano che al solito
divertimento ad alto volume?”.
Subito
dopo però ho cominciato a riflettere: quei ragazzi e quelle
ragazze fanno parte della generazione sulla quale incombe il
“destino” del precariato eterno; il loro divertimento
è una forma di evasione dalla loro condizione di vita. Un
passo dopo l'altro, in effetti, il divertimento
è diventato ciò che dà senso alle vite; il tempo
libero è il recinto nel
quale si esprime la voglia di evadere dalle costrizioni di un lavoro
avaro di soddisfazioni (e, troppe volte, di “senso”). Molti/e
quindi finiscono per vivere in funzione
di quello spazio che considerano “liberato”, perché è
l'unico nel quale ritengono di poter esprimere ciò che sono,
al di là dei ruoli “funzionali” e poco gratificanti del
lavoro.
Così,
dentro quello spazio, nient'altro ha più importanza: è
come una bolla incantata
nella quale non valgono le regole e le preoccupazioni di tutti i
giorni, in quel “micro-mondo” – per il breve lasso di tempo in
cui l'incantesimo dura – non vale nulla
del “macro-mondo” che resta fuori, non vale neppure una
ricorrenza come il “25 aprile” [o meglio, non ha valore il suo
significato, ma il “micro-mondo” del divertimento fa propria solo
la sua funzione di “opportunità” di tempo liberato dal
lavoro], perché anche quella fa parte del “macro-mondo”
dei doveri, delle preoccupazioni...
E
qui però qualche domanda s'impone: che peso finisce per avere
questa distinzione fra “tempo della produzione” e “tempo
libero” (che si sovrappone al “tempo del consumo” e con questo
si confonde)? Non è di fatto una “frantumazione
schizofrenica” della nostra esistenza? Non dovremmo forse
pretendere di ritrovare il senso
non solo nel “tempo libero”, ma anche nel tempo “di
produzione”, e ricongiungere così il puzzle
disarticolato delle nostre vite?
2.
Un rapido sguardo al Sessantotto (senza troppo revival...)
Per
quanto possa suonare strano ad alcuni/e, la lotta per disporre di un
tempo libero e liberato
dotato di un proprio autonomo senso comincia negli anni della
Contestazione, insomma – se proprio vogliamo indicare una data
approssimativa – nel mitico e vituperato (a seconda dei punti di
vista) 1968.
Il
tempo “liberato” diventa allora occasione per appropriarsi di uno
spazio per sé,
in cui vigono regole nuove (o la sospensione delle regole tout
court).
Se
si prova a fare qualche passo indietro, si comprende infatti che nel
“groviglio” ideologico, politico, generazionale e “sentimentale”
del Sessantotto era insita, in qualche misura, anche l'esaltazione
della libertà individuale come valore
in sé,
che viene finalmente autorizzato
a ignorare gli altri “valori”
sino a quel momento imperanti e condizionanti (il peso della
tradizione, la struttura patriarcale e gerarchica della società,
l'etica del sacrificio).
Il
legame fra liberazione
(intesa in senso sociale, collettivo) e libertà
è in effetti molto stretto (e difficilmente potrebbe essere
altrimenti): solo un filo molto sottile li separa; e, separandoli, li
tiene comunque in collegamento.
Dall'esaltazione
dell'individuo come monade
assolutamente libera da vincoli (tradizionali e sociali) al trionfo
del disimpegno e dell'edonismo (più o meno “reaganiano”)
il passo è breve. All'inizio i “semi” di questa
trasformazione non sono percepiti come tali, e quindi il processo –
almeno nella fase della “contestazione” – non si genera in
maniera del tutto chiara e consapevole (specialmente riguardo alle
sue conseguenze ultime), certo; ma ogni movimento “epocale”, a
mio avviso, deve assumersi la responsabilità storica
di tutte le proprie conseguenze, di quelle positive (e il Sessantotto
ne ha avute) come di quelle dubbie o decisamente negative (o anche
semplicemente “depressive”).
Ritengo
necessario chiarire che il mio intento qui (nelle poche righe di
questo post!) non è quello di fare l'agiografia del '68, e
neppure quello di porlo frettolosamente sul banco degli imputati:
sono entrambi atteggiamenti che non condivido, perché non
colgono il groviglio di esigenze sacrosante, di speranze di
cambiamento giuste (seppur impazienti), ma anche di errori ed
esagerazioni, che il '68 - come ogni altro vasto movimento sociale -
contiene e ha rappresentato in sé. C'è chi lo legge
oggi come una rivoluzione autentica, chi come una rivoluzione tradita
(tradita in primo luogo dai suoi stessi protagonisti, venuti a
compromessi con l'establishment)
e chi addirittura come una sciagura che ha “rovinato” la bella,
pacifica e sonnolenta società italiana allora felice del suo
“boom”.
Non è difficile
riconoscere in queste tre letture altrettante posizioni politiche,
tra loro in contrasto più o meno netto.
A mio parere non si può
negare che il movimento culminato nelle manifestazioni studentesche
del '68 (dopo un'incubazione, non meno decisiva, che aveva
attraversato buona parte degli anni Sessanta) abbia dato voce e
forza, in Paesi allora piuttosto “attardati” (se non arretrati)
sotto il profilo della cultura politica, come il nostro, a istanze di
ceti sociali emergenti, che non potevano più sentirsi
adeguatamente rappresentati da politiche tagliate su misura per un
modello di società che ormai era quasi del tutto tramontato
(la società rurale, coi suoi cicli lunghi, le sue tradizioni
immutabili e il suo tendenziale conservatorismo e antimodernismo,
anche sotto il profilo delle strutture relazionali e familiari).
Il
movimento prodotto dal '68 ha reso possibile riforme importanti ed
epocali per l'Italia (che appunto solo qualche anno prima - e senza
quel “ciclone” - sarebbero state impensabili): basti citare lo
Statuto dei lavoratori o la riforma del diritto di famiglia - e sono
solo gli esempi più eclatanti.
In
quell'occasione mancò comunque una saldatura, o perlomeno
mancò un dialogo franco e privo di ostilità preconcette
fra i partiti e i movimenti, e fu questo
uno dei veri problemi di quella stagione, se non il
problema principale; i partiti, e soprattutto i partiti di sinistra
(per formazione più vicini alle istanze dei gruppi scaturiti
dal '68), obbedendo quasi istintivamente al loro bisogno di egemonia,
si impegnarono strenuamente a spegnere
il movimento, in un modo o nell'altro (cooptandone alcuni “pezzi”,
ad es., ma non solo), anziché rispondere alla sfida della
democratizzazione “dal basso” della società, che quello
esprimeva.
E
il movimento non si lasciò spegnere facilmente, ma
disarticolandosi, reagì comunque secondo strategie differenti,
che spaziarono dall'estremismo anti-partitico e dal filone
iper-libertario che si sviluppò a partire dallo slogan
cripto-nichilista del “vogliamo tutto” (tendenze queste che col
tempo, a volte malgrado le loro stesse intenzioni iniziali, crearono
terreno fertile per l'azione di penetrazione del liberismo
rapace,
e con esso dell'individualismo esasperato e asociale, atomistico,
nonché “disperato” politicamente), sino alla vera e
propria pratica dell'azione armata, anch'essa impolitica (perché
irriconducibile a qualsiasi progetto di emancipazione, rivoluzionario
o meno) nel suo vaneggiamento solipsistico, sanguinoso e sanguinario.
Il
“volere tutto” e insieme il “tutto distruggere” è il
corto circuito che mette in crisi la lucidità di intenti e di
programmi, rendendo i “rivoluzionari” incapaci di interpretare la
realtà, ricca di pieghe e di dettagli che è necessario
definire
e distinguere
nel modo più chiaro possibile, se l'azione politica, anche
“rivoluzionaria”, non vuole finire nel vaniloquio e nella
farneticazione, più o meno “dotta”.
Ma
il Sessantotto non si può certo ridurre tutto a questi esiti
tardi ed estremi, se non per un calcolato desiderio di farne una
parodia politicamente conveniente (per determinati scopi,
s'intende...).
Uno dei problemi principali
da affrontare, comunque, quando si cerca di ricostruire genesi, senso
e contenuti di un movimento come quello del Sessantotto, è
l'individuazione del suo “albero genealogico”: di chi è
“figlio”, insomma? di quali culture, di quali esigenze? Deriva
forse da altri movimenti, già presenti sulla scena, che hanno
contribuito, con la loro azione e le loro idee, a farlo nascere?
C'è
chi, limitando il proprio sguardo all'Italia – nella propria
personale interpretazione “genealogica” del Sessantotto – lo fa
nascere dai “fermenti” di una certa sinistra di ispirazione
marxista (si pensi ad es. al gruppo che dà vita alla rivista
“Quaderni Piacentini”)
maturata nell'inquietudine del nostrano “boom” economico e
insofferente nei confronti dei partiti “istituzionali” (che
allora, nella “famiglia” della sinistra, erano essenzialmente il
Pci e il Psi); c'è chi ne fa semplicemente il riflesso delle
rivendicazioni e delle contestazioni studentesche d'Oltreoceano,
manifestatesi con veemenza tale, nel '68, da avere risonanza
mondiale; e c'è chi fa notare che già prima del 1968, qua e là nel mondo, erano nati movimenti, di
matrice artistica e culturale più che politica (si pensi alla
cosiddetta beat generation,
al situazionismo,
ma anche al movimento artistico Fluxus),
i quali mettevano in questione determinate “certezze” della
società borghese e la sua etica fatta di benessere materiale,
di “rispettabilità” esteriore e di assortiti status
symbols.
Nel Sessantotto italiano, in
particolare, si sono incontrati questi vari elementi (e probabilmente
altri ancora), e nonostante la loro eterogeneità sono riusciti
per un certo periodo ad amalgamarsi, seppure in maniera imperfetta e
parziale, per poi – superata la “spinta” dell'entusiasmo
iniziale – separare le loro rispettive strade, non sempre in
maniera indolore.
L'impronta
iniziale del “Sessantotto” italiano è in realtà
frutto dei movimenti hippy,
provos
e beat (in
Italia gli ultimi due dettero vita a pubblicazioni periodiche di
breve durata, come “Mondo beat”
e “Onda verde”,
che costituiscono oggi documenti storici importanti di quel periodo,
specie per capire le rivendicazioni del Movimento), generalmente
accomunati dall'etichetta freak,
che a loro volta potevano dirsi derivati dall'amalgama “creativo”
fra esperienza beat
e hippy
statunitense ed esperienza “esistenzialista” europea.
L'egemonia politica del
movimento è stata successivamente assunta da settori più
“politicizzati” e organizzati del medesimo, prevalentemente di
ispirazione marxista; ma, come si diceva poc'anzi, le due “anime”
del movimento (in realtà tre, se si aggiunge la sua
componente studentesca, decisiva nel costituire la “massa d'urto”
che crea – diremmo oggi – l'evento “spettacolare” della
contestazione con l'occupazione degli Atenei, ecc., se non
addirittura quattro: non si deve infatti dimenticare
l'importanza delle lotte sindacali, e quindi della componente sociale
della contestazione) hanno cercato di trovare punti d'incontro,
influenzandosi reciprocamente: ad es., l'esperienza di movimenti come
“Lotta Continua” (citato qui a mo' di esempio, ma non rappresenta
l'unico caso...) si spiega anche in questi termini.
(Altri movimenti di natura
politica, come ad es. i gruppi stalinisti o maoisti, invece, pur
rivolgendosi alla “platea” ideale rappresentata dal Movimento
degli studenti e degli operai che, a partire dal biennio '68-'69,
dànno vita ad una lunga stagione di protesta e rivendicazioni
– platea che da quei movimenti politici viene considerata
strategica perché sensibile a ciò che in quegli anni ha
il sentore di “rivoluzionario” e genericamente “antiborghese”
– disprezzano o criticano fortemente l'anima “libertaria” e
“individualistica” del Sessantotto, che emergerà
chiaramente soprattutto nel corso del decennio successivo, pur
affiancandosi per un bel po' ai cortei di protesta e ai
“collettivi”.)
E'
da allora infatti che nel concetto e nei programmi della sinistra
gli originari contenuti socialisti e/o marxisti cominciano a
mescolarsi con istanze libertarie e talora decisamente freak.
Le
istanze di alcuni importanti movimenti di liberazione (che come il
femminismo, ad es., si basano spesso su un'elaborazione teorica
raffinata e sono dotati di una capacità di analisi e di
critica avanzata e nient'affatto “ingenua”) trovano a loro volta
cittadinanza nell'alveo di questa alleanza, che anzi diventa l'humus
ideale per sviluppare una nuova coscienza – specie nelle nuove
generazioni sensibili alla contestazione dell'esistente – e per
diffondere quella che è a tutti gli effetti, se considerata
globalmente, una “controcultura”, che contesta radicalmente i
princìpi, gli assunti e i fondamenti della vecchia “cultura”
dominante nella società, fondamentalmente repressiva e basata
su un variegato insieme di ingiustificabili discriminazioni (di ceto,
di genere, ecc.) e di pregiudizi indifendibili.
Pur
dovendo riconoscere quindi ai movimenti più propriamente
politici nati durante o in séguito al Sessantotto il ruolo da
questi avuto nel trasformare alcune richieste del Movimento in
proposte politicamente “strategiche”, talora anche legislative,
volte a modificare nel profondo i valori della società e
soprattutto i fondamenti dei rapporti sociali e interpersonali, si
deve aggiungere che forse non tutte le fonti di informazioni e studi
su quella stagione dànno conto nel modo dovuto del ruolo
fondamentale che, come si accennava, hanno avuto movimenti come
quello dei provos,
o come quello beat
(verso i quali la stampa dell'epoca e i benpensanti manifestavano
aperto disprezzo classificando come “capelloni” i giovani che ne
facevano parte), nel dare l'avvio in Italia, almeno fin dal 1966,
alle prime forme di “contestazione” e alle prime rivendicazioni
“libertarie” che saranno poi riprese e amplificate dal
Sessantotto (e dal Movimento che anche negli anni successivi ha
continuato a battersi per gli stessi obiettivi).
3.
Il “tempo liberato” e il tempo “libero”
Il
percorso sociale e ideale mediante il quale si afferma la concezione
(che si fa poi convinzione diffusa) del “tempo liberato” come
oasi spaziale e temporale sottratta ai ritmi e alle esigenze
tiranniche della “produzione”, e quindi all'obbligo di
conformarsi a una performance e a un ruolo ben precisi e
standardizzati, si può ricostruire a posteriori in diversi
modi; uno di questi è, ad esempio, lo studio dei “raduni
pop” e dei miti collettivi – e delle aspettative generazionali e
“transnazionali” – ad essi associati, specie negli anni fra il
1966 e il 1977 (approssimativamente).
Una
pubblicazione che mi è capitata sottomano di recente, nel
rievocare in maniera succinta e tuttavia efficace quelle vicende,
ricostruisce così le premesse e gli inizi di quel processo:
«La generazione ribelle e disobbediente degli anni '60 si sente
“altro” rispetto alla società che la circonda. Il mondo
non corrisponde alle sue attese e ciò che vede non la
rassicura. [...] L'impressione generale è che la società
degli adulti sia malvagia e malata, ad un passo dal collasso.
Qualcuno sta anche pensando che forse è il caso di affrettare
il processo con qualche spallata ben assestata. [...] Sono tempi di
energia strabordante, incontenibile, tutto tende a riversarsi verso
l'esterno [...] le strade si riempiono d'arte, di happening, fuori
dalle gallerie e dai musei. Gli attori sono usciti dai teatri per
ricalcare le orme della Commedia dell'Arte, nelle piazze. I cineasti
inseguono la vita e portano le cineprese fuori dagli studi. Gli
studenti non si accontentano di tenere dibattiti nelle aule e
manifestano per le vie» [Guarnaccia
2011, pp. 9-10].
Ben
presto la musica rock, specialmente nel suo filone “alternativo”
e creativamente più ambizioso, poi passato alla storia come
progressive rock (e
all'epoca chiamato però semplicemente pop,
definizione che oggi designa invece la musica leggera scritta
appositamente per vendere in tutto il mondo e finire nelle
“classifiche”), diventerà non soltanto la colonna sonora
di questo movimento giovanile transnazionale, ma il suo collante, il
segno distintivo dell'appartenenza al movimento e della condivisione
dei suoi “valori”.
Come
efficacemente ricorda il testo già citato:
«L'embrione
di spettacolo all'aria aperta, che prenderà il nome di pop
festival, esordisce a San Francisco, nella seconda metà degli
anni '60, in perfetta sintonia con il terremoto generazionale in
atto. E' una formula espressiva ibrida, multimediale, molto
promettente. Si propone come un accogliente campo di addestramento
estivo per la rivoluzione culturale, una prova generale per
l'edificazione di una nuova società. [...] Durante il suo
periodo pionieristico, è vissuto come una festa di famiglia,
un territorio liberato, l'enclave di un'ipotetica Repubblica Popolare
Giovanile, una zona temporaneamente autonoma dal controllo
dell'establishment» [Guarnaccia 2011, pp. 12-13].
Nel
tempo, la purezza di questo “mito” iniziale si corrode, qualcosa
si perde per strada; ma – specialmente in Europa, e persino in
Italia, dove il fenomeno (come quasi sempre càpita, da noi)
arriva in ritardo di qualche anno – l'illusione del “territorio
liberato”, che si pone al di fuori delle “brutture” circostanti
della produzione e dello sfruttamento intensivo del lavoro, resiste
ostinata per quasi un decennio, con alti e bassi.
Già
a partire da Woodstock (1969), in parte, e soprattutto dalla terza
edizione del Festival dell'Isola di Wight (1970), che rappresentano i
tentativi più ambiziosi di “pop festival”, il fenomeno,
giunto all'apice quanto a potenzialità e a risonanza nei mass
media, rivela tutte le proprie pecche. L'illusione comincia a
sfaldarsi (soprattutto nei Paesi in cui è nata).
Infatti,
il Terzo Festival di Wight dimostra che il mondo della “produzione”
e della “mercificazione”, e insomma del business,
ha ormai colto le potenzialità che, dal proprio punto di
vista, il pubblico dei “raduni pop” rappresenta, in quanto
mercato:
«Supportata
da un marketing martellante, questa edizione [del Festival di Wight]
procede senza tentennamenti sulla via del massimo profitto con il
minimo investimento [...]. Nessuno pensa di far tesoro delle
esperienze passate, di considerare le esigenze del pubblico. L'unico
interesse è stipare più gente possibile in un'area
recintata, spremendola a dovere» [Guarnaccia
2011, p. 43].
In
più, «Per la prima volta nella storia del pop festival,
la parte più vicina al palco viene riservata ad un pubblico
VIP, pronto a pagare il triplo di un biglietto normale. Cade il tabù
dell'egualitarismo pop» [Guarnaccia 2011, p. 43].
Non
è un buon biglietto da visita, per le aspettative di gran
parte del pubblico, affamato di ideali. Così il festival,
cominciato con tante ambizioni (soprattutto sotto il profilo degli
incassi...), si conclude fra le dure contestazioni del pubblico
(accompagnate da incidenti e atti di vandalismo), e l'amarezza degli
organizzatori.
La
stessa parabola si verifica nel “microcosmo” italiano, coi raduni
pop organizzati dalla rivista “Re Nudo”,
dal 1971 al 1976, un appuntamento annuale che era diventato
importante per i giovani dell'epoca: prima infatti c'è
un'entusiasmante fase “ascendente” (quanto ad affluenza di
pubblico, a spirito “comunitario” e “libertario” e a
partecipazione degli artisti), specialmente tra il '71 e il '74, e
poi la caduta rovinosa, con l'ultima edizione del '76 [degli aspetti
drammatici di questa edizione del Festival, che dimostrano la “fine
dell'idillio” (e cioè dell'illusione di creare, con la
“festa” e l'aggregazione del cosiddetto “proletariato
giovanile”, un mondo a parte, “liberato” per propria intrinseca
virtù), si trova traccia, tra l'altro, in un film di Alberto
Grifi, Parco Lambro 1976,
e nella canzone di Gianfranco Manfredi, Un tranquillo
festival pop di paura].
Da
noi, in particolare, come ricorda uno studioso del settore, agli
inizi degli anni Settanta la musica (quella del progressive
rock, non
certo quella “commerciale”) coi
suoi festival e raduni, diventa occasione per un nuovo tipo di
aggregazione giovanile:
«I giovani parteciparono in massa a
queste sempre più numerose manifestazioni non solo per
ascoltare la nuova musica ma anche per poter incontrare altri giovani
con cui confrontare le proprie idee. Così la nuova generazione
cominciò ad andare in giro on the road,
zaino e sacco a pelo, dando vita a inconsuete e variopinte
migrazioni. Il desiderio di aggregazione rappresentava la voglia dei
giovani di urlare al mondo la loro esistenza, il loro modo di
pensare, la loro diversità rispetto ai loro padri. Fu un
fenomeno importantissimo perché, se in altre nazioni
l'identificazione giovanile aveva avuto il suo sviluppo [...] in
Italia questo non era mai avvenuto. Così, grazie a questo
esplosivo cocktail di musica e politica, l'esercito dei giovani si
confrontava e prendeva sempre più coscienza delle proprie
possibilità» [Mirenzi
1997, p. 52].
Nei
festival e “raduni pop” che si susseguirono numerosi in Italia in
quegli anni (specialmente fra il 1971 e il 1975), la musica
rappresentava il segno distintivo di appartenenza ad un mondo (votato
alla “contestazione” dell'esistente e alla contestuale
“liberazione”), e quindi fungeva da richiamo per spingere i
giovani a mettersi in marcia verso la provvisoria “terra promessa”,
ma non costituiva la ragione profonda dell'aggregazione:
«La musica era solo un pretesto. I festival erano il palcoscenico, più
che dei gruppi, del proletariato giovanile e un importantissimo
veicolo di diffusione della “controcultura”. Dove, a fianco degli
spettacoli musicali, si tenevano i dibattiti più svariati, le
proiezioni dei film più alternativi, gli inviti alla lettura e
infinite altre iniziative» [Mirenzi 1997, p. 67].
Arriva
però, come si è detto, il momento in cui questa
esperienza rivela i propri limiti, o meglio dimostra di non poter
reggere le esigenti aspettative dell'utopia. Lo spirito
dell'Aggregazione
“disorganizzatamente liberatoria”
e della Festa
(significativamente le ultime edizioni del Festival di “Re Nudo”
si richiamano a questo appellativo) si rivela incapace di spegnere,
di per sé, le contraddizioni e i furori del mondo circostante,
e questo limite, che sembra apparire di colpo come un trauma,
smentisce le illusioni che sino a quel momento erano state coltivate.
Le
ambizioni maggiori di quell'utopia sono apparentemente scomparse, ma
in realtà, con gli anni e coi decenni, generazione dopo
generazione, sono rifluite in sogni di portata più ridotta, in
piccoli circoli, in “comitive” di giovani che cercano nell'uscita
del sabato sera il loro tempo “liberato”, lontani dal mondo degli
altri e tuttavia
omologati, nei gesti e nelle aspirazioni, a quasi tutti gli
altri, in un “divertimentificio”
che è diventato industria rivolta a un pubblico di massa.
Siccome
si è accennato alla musica, prima, non è fuori luogo
citare in proposito alcune canzoni di Giorgio Gaber, che
rappresentano con particolare acume questo spirito della festa
come illusione dello spazio liberato.
La
prima, Le nostre serate,
risale in realtà agli anni Sessanta, ma sembra parlare di
oggi, ironizzando sul sabato sera da “inventare” per uscire dalla
noia e dalla routine,
che investe quindi inesorabilmente il “tempo libero” esattamente
come il tempo “obbligato” del lavoro e della produzione – e li
accomuna, eliminando ogni fittizia distinzione.
Nella
canzone Guardatemi bene,
che fa parte dello spettacolo “Polli di
allevamento”
(1978), Gaber dipinge lo smarrimento della generazione che stava
esaurendo le speranze del “lungo Sessantotto” italiano e si
tuffava in una ribellione sorda, individualistica ormai,
interpretando la “festa” come una sorta di “ora d'aria”
rispetto a costrizioni sociali ed economiche che nessuno pensava più
di poter eliminare, generazione che – come cantava Gaber –
sembrava dire: “...Me
ne frego dei partiti, me ne frego dei gruppi, / tentativi disperati
ne ho fatti già troppi”.
(Lo dicono forse anche oggi queste
generazioni?).
E
nella canzone La festa,
sempre dello spettacolo “Polli di allevamento”,
Gaber parla ancora delle trasformazioni cruciali alle quali assiste
negli anni in cui le illusioni dell'aggregazione
giovanile come “mondo a parte”, liberato e liberatorio, che può
arrivare a contagiare e a
cambiare anche il mondo “di fuori”,
cominciano a svanire. In quel periodo, le discoteche sono entrate nel
novero dei miti giovanili: chi è in,
chi si adegua alla moda del momento, non può mancare il sabato
sera in quei luoghi, la “liberazione” del momento (molto meno
ambiziosa, giacché non vuole “cambiare” nessun mondo)
sembra essere là. E Gaber commenta, riferendosi proprio ai
frequentatori di discoteche: “C'è
chi si lamenta della vita / sgambettando”.
Già:
poiché in un lavoro di routine,
sottopagato e insoddisfacente non ci si realizza,
e non c'è neppure più speranza di cambiare
lo stato di cose (il “mondo della produzione”), l'unica
“liberazione” possibile è nella conquista delle
“trasgressioni private”, l'ultima frontiera dell'illusione
compensatoria. L'insoddisfazione, e persino la protesta, s'incanalano
nello scatenamento delle danze, fra le mura protettive della
“discoteca”, o comunque della “festa”.
Il
“mondo della produzione” ringrazia sentitamente: con questo modo
di intendere la protesta, può conquistare, senza più
incertezze, un nuovo mercato (il mercato
del divertimento)
e al tempo stesso si mette al riparo da ogni attacco frontale.
Migliaia
di ragazzi e ragazze vengono lasciati in pasto alla loro nuova
illusione o consolazione: pensano di “contestare” il mondo
“sgambettando” (per usare l'efficace immagine gaberiana). E se ne
stanno tranquilli nel loro recinto, immaginando sempre nuove
“trasgressioni” nel privato
che non intaccano però minimamente la struttura portante del
sistema sociale ed economico. E' una specie di armistizio tacito.
Nella
stessa canzone, La festa,
si dice: “...E
senza esitare un momento / sarebbero pronti a scannarsi per quel
divertimento”.
[Sentendo
queste parole cantate da Gaber, mi vengono in mente anche le “guerre
da stadio”, dove il “gioco” (un gioco, nient'altro che un
gioco,
un divertimento,
appunto!) diventa serio motivo di contrasto, rabbia, e anche
peggio...].
Infatti,
generalmente l'unica rabbia veramente diffusa che si può
ancora scatenare si rivolge contro ciò che minaccia (o sembra
minacciare) la “zona franca” del divertimento,
del “tempo libero” riservato agli “esercizi di trasgressione”
privata.
Nessun
altro tema compatta con pari efficacia, oggi, gli umori e li
indirizza verso la difesa della
libertà
(rigorosamente privata).
I
sistemi autoritari odierni, o meglio quelli più “moderni”,
che hanno compreso le potenzialità di questa scissione
e di questa collettiva autoriduzione
del senso
della libertà, sono ben disposti a concedere al privato
di ciascuno tutte le “trasgressioni” che vuole, senza più
soverchia censura e intrusione, a
patto che
conceda però allo Stato “forte” il monopolio del pubblico
(e quindi che ciascuno firmi l'abdicazione alla cittadinanza intesa
come autogoverno
e come diritto al
pubblico dissenso).
Ma
per tornare al “caso nazionale”, ciò che accomuna tutto
sommato la protesta del “nostro” Sessantotto e l'attuale impasse
della situazione sociale e politica italiana, è
l'inamovibilità dei gruppi dirigenti, la loro “lunga
permanenza” nelle posizioni di comando: insomma, quella che viene
in maniera un po' colorita (ma efficace) definita gerontocrazia:
come allora lo “svecchiamento” delle idee doveva passare
necessariamente attraverso un ribaltamento dei ruoli fra le
generazioni, giacché per troppo tempo e con eccessivo
“egoismo” le generazioni “più anziane” avevano imposto
alle altre il loro potere e preservato il loro ruolo modellando i
rapporti sociali secondo una visione del mondo in linea di massima
conservatrice, immobilista e tradizionalista (e quel ribaltamento,
in parte, si realizzò e dette anzi la propria impronta
simbolica al “Sessantotto”), così ora si rende decisivo un
nuovo “ribaltamento dei ruoli”, che contribuisca, con un profondo
rinnovamento dei gruppi dirigenti (che altrove, in Europa e nel
mondo, è considerato normale...), a spazzare via i privilegi e
le “paure conservatrici” di oggi, continuamente ribadite dai
media
e dalla retorica ufficiale, e a liberarci da “immobilismi” che
durano ormai da troppo tempo.
A leggere certe cronache ormai sbiadite
dell'epoca che va all'incirca dal 1966 ai primi anni Ottanta, si
ricava la fotografia di una società – quella italiana –
nella quale era in atto un serio conflitto fra generazioni, che si
combatteva non solo nell'àmbito della vita pubblica e
lavorativa, ma anche all'interno delle singole famiglie, con tanti/e
ragazzi/e che fuggivano di casa per sottrarsi all'autoritarismo dei
genitori (e raggiungere magari in autostop uno dei “raduni pop”
di cui sopra, o una qualche “comune”...); madri e padri che
inseguivano figli e soprattutto figlie fin nei cortei di protesta o
nei “campeggi alternativi”, e pretendevano di riportarli a casa
dopo averli presi a sberle in pubblico; genitori che intimavano ai
loro figli (e figlie) giovanissimi/e, sotto la minaccia di spedirli/e
“in manicomio” (o in qualche luogo similare), di smettere di
leggere “certi libri” o di “fare politica”; ragazzi/e ai
quali, in certe zone d'Italia, i genitori impedivano, anche a
diciott'anni (e oltre) di avere le chiavi di casa o di usare il
telefono (all'epoca rigorosamente “fisso” e controllabile); e
così via (l'elenco potrebbe essere molto lungo...).
Si
ha l'impressione che quei genitori si fossero ritrovati di colpo
troppo vecchi
rispetto a un'epoca che cambiava tanto rapidamente da spiazzarli:
vecchi non in senso puramente anagrafico, s'intende, ma in quanto
vistosamente e drammaticamente inadeguati, fuori
posto,
con la loro pretesa di interpretare il loro ruolo in una maniera
quasi esclusivamente censoria e repressiva, per imporre codici morali
e di comportamento che erano ormai – a loro insaputa, si direbbe –
“fuori corso”, e il più delle volte irricevibili, nella
nuova realtà che si andava vertiginosamente costruendo.
Anche
oggi, come avveniva “ieri”, alla vigilia del Sessantotto, c'è
un'ampia fascia sociale e generazionale (sinteticamente definibile
come “generazione dei precari”) che non trova ascolto nei gruppi
dirigenti – vasta categoria anche questa, che va dai politici
propriamente detti agli opinion
makers,
passando per “gli esperti” (o “tecnici”), che in nome del
“bene dei precari”, predicano “ancora più precarietà”
(chiamandola ovviamente con un altro nome) – e che non può
riconoscersi in loro e nei loro “valori” di riferimento.
Però oggi, a differenza di ieri,
lo “spazio” per la rivoluzione, dall'orizzonte dei traguardi
possibili, è scomparso. Le proteste e le “indignazioni”
sembrano essere assorbite con facilità dall'attuale modello di
vita, tanto che lo si può assimilare ad un guscio di gomma,
così elastico da resistere a tensioni e torsioni fortissime,
tornando sempre poi, infaticabile, alla posizione di partenza (mentre
nel frattempo i “contestatori” hanno vanamente logorato le loro
forze e la capacità di resistenza delle loro speranze).
Il conflitto generazionale all'interno
delle famiglie, poi, si è totalmente trasformato, si è
fatto più soft, sotterraneo; non c'è più
un netto distacco in termini di valori e codici di comportamento, tra
genitori e figli/e, generalmente (salvo marginali differenze “di
dettaglio”, non certo paragonabili all'abisso che sembrava dividere
le generazioni negli anni Settanta); e questo rende ancora più
efficace quel “guscio di gomma” che impedisce ogni cambiamento
evolutivo e sembra tenere tutto eternamente bloccato sotto la cappa
di una “tutela bonaria” (non più chiaramente “repressiva”)
che inibisce alla radice, proprio grazie al suo volto “buono” e
rassicurante, ogni richiesta di “ricambio” (sembra dire, quel
volto: “Non vi contrastiamo, cari, non preoccupatevi: fate quello
che volete, dunque rilassatevi e lasciate a noi la fatica del
potere”).
[Un paio di precisazioni: innanzitutto,
lo sforzo di molti degli attuali genitori di interpretare il loro
ruolo in maniera aperta è positivo, e cerca proprio di fare
tesoro degli errori del passato, per non ripeterli; ma se da un lato
la premurosa protezione che cercano di offrire ai figli, anche per
smussare le durezze dell'attuale situazione sociale ed economica (il
precariato, ecc.), svolge una funzione “vicaria” importantissima
rispetto a uno Stato sociale sempre più sfilacciato,
dall'altro la “cappa protettiva” ribadisce, nel “microcosmo”
della famiglia, il “modello gerontocratico” predominante nella
società, quasi dicesse: “Tu, figlio/a, sarai condannato/a a
dipendere eternamente da me e a non emanciparti mai del tutto”.
In secondo luogo, qualcuno può far
notare che la “repressione” è ancora presente nell'attuale
modello sociale; ma, pur ammettendo questo dato, a mio parere non si
può negare che ora essa agisca, a differenza che in passato,
in maniera non generalizzata ma (sempre più) “chirurgica”,
giacché sceglie di intervenire “strategicamente” in certi
punti e momenti che considera critici, e ha sempre più
difficoltà a trovare cittadinanza nel discorso pubblico,
dovendo ogni volta esibire giustificazioni e “pezze d'appoggio”
che una volta venivano date per scontate dall'opinione pubblica
mainstream. Giustificazioni che scelgono a volte di proposito
una retorica fatta di “vie traverse”, per evitare di far
risuonare con evidenza ciò che si vuole trasmettere in
sordina: e così, per fare un esempio macroscopico, gli
interventi militari delle grandi e medie potenze nei conflitti di
Paesi “non sviluppati” si definiscono oggi, con studiato
eufemismo, interventi umanitari o missioni di pace,
piuttosto che partecipazioni a guerre.]
Chi si rassegna, del resto, in una
situazione siffatta, cos'altro può fare se non ripiegare sul
“consumo selvaggio”, e dunque sull'uso intenso e pieno del
proprio “tempo libero”, oltre i cui confini non sembra esserci
più nient'altro? E allora la baldoria – come sembrano
sapere i giovani citati all'inizio – diventa il massimo della
contestazione possibile. Rebus sic stantibus. (Ma gli
equilibri che dànno forma a un determinato tipo di società
e a una determinata idea di “ordine sociale”, lungo il corso
dell'esperienza storica sin qui conosciuta, non si sono mai rivelati
così stabili, equi e perfetti da meritare – e da garantirsi
– l'eternità.)
Testi
citati:
-
[Guarnaccia 2011]:
M. Guarnaccia, Re
Nudo Pop & altri festival. Il Sogno di Woodstock in Italia.
1968-1976, Vololibero
edizioni, Milano (II ediz.).
-
[Mirenzi 1997]:
F. Mirenzi, Rock
Progressivo Italiano. Vol.
I: La storia, i
protagonisti, i concerti,
Castelvecchi, Roma.
Per me no. C'è un sacco di gente che non fa nulla ma non è affatto libera. Il tempo davvero libero è quello ben speso, ciao Ivan..:-))
RispondiEliminaCiao Estrella!
EliminaSono d'accordo con te: il "tempo libero" rischia di diventare un'altra gabbia, un'ennesima costrizione sociale (ancora una volta mi viene in mente Gaber, quando parlava di Libertà obbligatoria, espressione ossimorica in apparenza, ma in realtà penetrante...) per riallinearci alla "tribù" persino nei divertimenti (se tali sono davvero...).
E, come diceva Silvia commentando un suo post, la semplice esistenza di un tempo che definiamo "libero", dimostra che la nostra esistenza è ben poco "libera", nel suo complesso... il che è triste (a dir poco!).
Perciò, sì: mi interessa soltanto il tempo ben speso, ovunque e comunque questo si consumi :-)