Perché - si potrà domandare qualche lettore - parlo di questo tema?
Le ragioni sono tante, ma principalmente questa, che credo da sola basti: lo considero un problema grave, che una società realmente "civile" dovrebbe a parer mio affrontare seriamente, senza rifugiarsi nei soliti alibi.
E la ricerca dell'alibi, di uno degli alibi qualsiasi coi quali si cerca solitamente di minimizzare la gravità della questione, mi dà in questo caso fastidio oltre ogni immaginazione.
Anche perché, mai come in questo caso, mi suona come una inopportuna e vergognosa fuga (collettiva) dalle responsabilità.
Perché parlarne adesso, oggi? Perché è un tema sempre attuale, ed ogni momento è quello buono (finché non troverà una vera soluzione).
C'è una vera e propria emergenza in Italia, che ci viene raccontata da giornali, notiziari televisivi, siti Web, ma ce la lasciamo scivolare addosso, senza metterla nella dovuta evidenza.
Di cosa parlo? E' presto detto: avete notato quante donne, di ogni età, vengono uccise da padri, mariti, fidanzati, e insomma da uomini che fanno parte della loro cerchia di parenti, conoscenti e amici?
Sono tante, sono troppe, per un Paese che si ritiene civile, appartenente al "G8", alla storia d'Europa, eccetera eccetera.
Ma sì, come dicevo i giornali parlano di molti di quei casi, ma appunto come singoli casi di cronaca; quasi nessuno, tra opinionisti, giornalisti e redattori, sui media più seguiti e "gettonati", si prende la briga di tirare le somme della situazione ed evidenziare che un "filo rosso" unisce tutte quelle morti, ovvero un'unica, tragica incultura da noi ancora purtroppo diffusa.
Soltanto alcuni canali d'informazione più sensibili, in genere curati e gestiti da donne, chiamano le cose col loro nome, e a proposito di questa catena di morti parlano di "femminicidio".
[Benché si tratti di un termine e di un concetto introdotti di recente, esistono già testi di approfondimento sul tema, in particolare il volume di Barbara Spinelli, Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale, F. Angeli ed., Milano 2011 (II ediz.). C'è anche un blog che si chiama "Femminicidio" e che spiega alcune questioni essenziali.]
Se ad esempio volete sapere quante sono le donne uccise da mariti, padri, ecc., dall'inizio di quest'anno ad oggi, cercate questa informazione su qualcuno di quei siti, in genere blog di donne molto competenti e coraggiose [posso qui citare un paio di tali blog, che seguo assiduamente: "Vita da streghe" e "Femminismo a sud"].
Forse qualcuno rimarrà sorpreso nel leggere la cifra.
E se rimaniamo sorpresi, probabilmente è il caso di cominciare a porci alcuni interrogativi, alcuni seri perché.
I giornali e la televisione selezionano le informazioni e le notizie e le forniscono poi secondo certi loro criteri, legati soprattutto alla necessità di "attrarre" l'interesse del pubblico.
Quindi di solito dànno maggiormente spazio alla suspence e al racconto noir: cioè preferiscono soffermarsi sui delitti che non hanno (ancora) un colpevole certo, perché questa incertezza, questa tensione fanno salire appunto l'attenzione e l'interesse dei lettori e spettatori, li appassionano e creano al loro interno opposte tifoserie (colpevolisti vs. innocentisti).
Fanno notizia per giorni e per settimane le donne o le ragazze uccise da non-si-sa-chi; invece le donne o le ragazze, il cui assassino ha la "sfortuna" di essere scovato subito, scompaiono presto dai titoli dei giornali e dalla memoria del "pubblico".
Insomma, sembra che a noi lettori/spettatori interessi solo la soluzione del "giallo", e la tensione che questa crea e che ci porta poi a volere, come catarsi collettiva, "punizioni esemplari" (qualcuno parla anche di pena di morte) per il colpevole "finalmente assicurato alla giustizia".
Però le vittime restano là dove sono: vittime senza più parola appunto, e ben presto (con l'oblio portato dal tempo) senza più nome.
E allora, non pensiamo soltanto ai colpevoli "assicurati alla giustizia"; pensiamo invece a quelli che colpiranno ancora, visto che tanti hanno già colpito [le cifre di cui parlavo prima]; pensiamo a quello che c'è da fare per combattere questa cultura del femminicidio!
Come mai davanti a questo impegno voltiamo troppe volte la testa dall'altra parte?
Perché si parla tanto di "emergenza sicurezza" in termini generici e astratti, a mo' di spauracchio "acchiappaconsensi" in zona elezioni, e mai (da parte dei mezzi d'informazione mainstream e delle forze politiche più in vista) di "emergenza femminicidio", che è un fenomeno preciso, dai contorni netti?
Qual è il problema?
Io qualche domanda me la pongo da tempo, e ho recuperato un testo che avevo abbozzato in proposito tempo fa, in occasione di uno degli omicidi di donne che aveva ottenuto le prime pagine sui giornali, per essere poi puntualmente dimenticato - testo che ho condiviso all'epoca nella ristretta cerchia di un social network.
Scrivevo così, e sottoscrivo tuttora:
Fa orrore ma soprattutto rabbia venire a sapere che un'altra donna, l'ennesima donna, è stata uccisa da un suo parente prossimo, da un suo stretto congiunto.
Forse una gran fetta dell'opinione pubblica, in Italia, su questi temi è "distratta", e preferisce volentieri girare la testa dall'altra parte, come e quando può; salvo poi improvvisamente inorridire davanti ad un nuovo delitto, per giunta meravigliandosi proprio come se cose così non fossero purtroppo già successe; ma poi dimenticherà e tutto tornerà come prima. Voglio sperare che non sia così, ma lo temo, purtroppo.
Non è il primo caso, questo, ma solo l'ennesimo. Se talora questi delinquenti arrivano sino all'omicidio, in tanti altri casi ne fanno a meno; ma la violenza rimane, eccome se rimane.
Talora il carnefice arriva al delitto peggiore, togliendo la vita alla propria vittima; ma in altri casi la violenza subita rimane nel vissuto e nella memoria della vittima, e comunque, in un modo o nell'altro, le distrugge l'esistenza, le scava dentro un solco profondo, una ferita che gli altri non vedono assolutamente, ma che lei avverte ogni giorno, talvolta in ogni ora della sua giornata; si costringe a volte lei stessa al silenzio per la paura di non trovare ascolto, per la paura stessa dell'enormità di ciò che ha subìto, per il timore che ciò che le è capitato, per la sua irreparabilità, la divida per sempre dagli altri...
Personalmente ho conosciuto donne che hanno subìto violenze da parte di padri o fidanzati, e quindi - com'è del resto mio costume - so di che cosa parlo, e la mia rabbia ha un fondamento preciso, fatto di sofferenze concrete, di persone che hanno dovuto ricorrere talvolta ad un lungo percorso di analisi e terapia (psicologica e non) per superare la vera e propria devastazione che la violenza di quei padri e quei fidanzati aveva prodotto in loro.
Vi dico anche di più: non sempre "certe cose" succedono in "ambienti degradati" o ai cosiddetti "margini della società". Ci sono certi "insospettabili" che meriterebbero gli si sputasse in faccia quando passano per strada, nel loro completo giacca & cravatta, e mentre si apprestano a sedere, come se nulla fosse, dietro una più o meno prestigiosa scrivania per iniziare la loro giornata di lavoro.
Qualcuno di loro, all'esterno delle mura domestiche, sembra tanto "una brava persona", magari sembra anche "tanto spiritoso"; ma si tratta solo di un'immagine che quella persona si costruisce accuratamente, per crearsi un ulteriore alibi davanti al "mondo" e magari per non dover fare i conti fino in fondo con ciò che realmente è; perché poi quella stessa "brava persona", quel tranquillo operaio, quel taciturno contadino, quel bravo impiegato, quel simpatico e brillante professionista, tornato a casa, diventa letteralmente un altro e protetto dalla privacy domestica non si comporta certamente da padre nei confronti della propria figlia. E se lo fanno certi padri, inutile dire cosa possono talvolta fare certi zii, cugini, nonni...
Forse una gran fetta dell'opinione pubblica, della cosiddetta 'ggente, non sa (io sospetto: a volte preferisce non sapere) che le donne subiscono violenza soprattutto da parte dei familiari e dei fidanzati.
Troppi casi (in genere quelli che non sfociano, come stavolta, in omicidio) si aprono e si chiudono (se si chiudono) tra le mura domestiche, quelle mura che gli occhi indiscreti degli estranei non devono penetrare, secondo una cultura ancestrale e troppo spesso deleteria.
Ecco perché sarebbe ora (ritengo che socialmente e culturalmente saremmo maturi ormai per farlo) che si lasciassero da parte certi "timori reverenziali", certe censure tramandate e funzionali solo alla conservazione dell'esistente (con tutte le sue inconfessabili magagne!), per analizzare a fondo - se necessario spietatamente, denunciando tutto quel che c'è da denunciare - lo "stato di salute" reale delle relazioni personali all'interno delle famiglie, senza generalizzazioni e idealizzazioni che impediscono di osservare e anzi di mettere sotto una lente d'ingrandimento le incongruenze, le ingiustizie e le vere e proprie sofferenze che si determinano tra le mura domestiche, e delle quali spesso all'esterno di quelle mura non si ha sentore.
Non a caso preferisco usare il plurale quando parlo di famiglie; perché quando si esalta in astratto la famiglia al singolare, lo si fa chiudendo un occhio e anzi entrambi sulle famiglie che non rispondono affatto all'ideale idilliaco che nei discorsi pubblici e nella retorica dominante si associa alla famiglia.
Tante, troppe volte le famiglie sono trappole di sopraffazione e di omertà dentro le quali rimangono soffocate, distrutte psicologicamente o addirittura fisicamente uccise proprio quelle persone che maggiormente avrebbero bisogno di protezione (quella che in teoria la famiglia, la loro famiglia dovrebbe offrire): donne, ragazze, bambini...
Se quindi qualcuno mi chiede cosa ne penso della famiglia, non posso che rispondere: "Dipende; c'è famiglia e famiglia, e io non difendo la famiglia in generale, ma soltanto quella che onora i suoi compiti principali, affettivi, educativi, e soprattutto che tutela i suoi componenti più deboli; sostengo la famiglia che si spende per la dignità di tutti i suoi componenti, per insegnarla ai bambini con l'esempio concreto di ogni giorno, e che non invoca l'opacità o addirittura il segreto e l'omertà per coprire le proprie colpe e indecenze e per perpetrare soprusi e sopraffazioni al proprio interno; e quindi, della famiglia in generale, come valore astratto da sbandierare per motivi ideologici, che finisce per coprire col proprio mantello anche le ingiustizie e le violenze che avvengono in certe famiglie, non so davvero che farmene".
Poi possiamo aprire un capitolo, altrettanto sgradevole ma necessario, sui fidanzati che commettono violenza a danno della "loro" ragazza, o addirittura la uccidono; qualcuno dovrà prima o poi cominciare a mettere sotto accusa in maniera decisa tutti questi residuati e cascami di patriarcato, che sono ancora sedimentati in certe norme non scritte (le peggiori, perché nessuno le controlla, e quasi nessuno si prende la briga di analizzarne il fondo rancido per portarle allo scoperto), norme che di fatto regolano ancora (anche fuori della legge scritta se non contro di essa) la convivenza fra le persone e soprattutto fra i sessi.
Perché se una donna ti lascia o si allontana da te, ti senti in diritto di ucciderla? Questo diritto chi te lo dà? perché pensi di averlo? chi te l'ha mai concesso?
E perché pensi di poter costringere la tua compagna a un rapporto con te, anche contro la sua volontà? chi o cosa ti fa pensare che tu abbia un diritto simile?
Con queste ed altre domande dirette e incalzanti dobbiamo cominciare a interrogarci. In qualche modo, la vecchia immagine del pater familias, che aveva diritto di vita e di morte su tutte le persone sottoposte alla sua "potestà", continua a sopravvivere, dopo tante riforme del costume e anche del diritto di famiglia, è un fantasma che si aggira ancora fra noi; un ospite non dichiarato, che però condiziona ancora le nostre vite. Si comporta proprio come un "latitante eccellente"; ma sta a noi catturarlo e "assicurarlo alla giustizia".
Dobbiamo stanarlo anche quando si nasconde fra le pieghe di vecchi credi e testi sacri, anche quando si nasconde nelle nostre abitudini quotidiane, nelle nostre frasi fatte, anche quando si acquatta sul fondo di battute "machiste", o quando riemerge come un rigurgito dal nostro risentimento: perché è di tutte queste complicità piccole e grandi, e di questi alibi, che si alimenta e si fa scudo.
Ti ringrazio per aver sollevato un problema tanto grave ed anche parecchio diffuso, ma di cui appunto, non si parla affatto (o non come si dovrebbe); in generale, l'opinione pubblica (i media, gli opinionisti, la gente comune) tende a considerare le violenze sulle donne come un episodio marginale, come un'eccezione, un fatto insolito anziché il frutto di una cultura purtroppo condivisa (ma forse sarebbe il caso di parlare di dis-cultura) che sotterraneamente continua a venire perpetuata, anche attraverso espressioni e modi di dire dall'apparenza ingenui.
RispondiEliminaInoltre è da non sottovalutare un altro tipo di violenza: quella di natura psicologica; molti uomini hanno la tendenza a ridimensionare e sminuire il valore della femminilità, facendo sentire le loro fidanzate, mogli, compagne, figlie, sorelle come esseri incapaci, delle inette, inferiori sotto il profilo intellettuale ("tu sei una scema", "non capisci niente", "ma che cosa vuoi capire tu che sei una donna?").
Credo allora che per risolvere il problema alla base - e cioè per comprendere come, dove, quando e perché si formi nella mente maschile l'idea falsata che delle donne si possa abusare, sia in senso fisico, che psicologico - sia opportuno cercare di andare a stanare alla radice tutti quei falsi miti all'origine del pregiudizio nei confronti del femminile.
Pensa che proprio in questi giorni sto meditando di scrivere un post sul femminismo, o meglio, sull'idea errata che le battaglie femministe siano state un tentativo da parte delle donne di prendere il potere sugli uomini, mentre in realtà sono state lotte per ottenere riconoscimenti e diritti - sociali, politici, culturali - che per troppo tempo ci sono stati negati.
E trovo scandaloso che siano proprio - in alcuni casi - le donne a voler prendere le distanze dalle teorie femministe, come fossero qualcosa di cui vergognarsi, concezioni del passato che ormai, secondo alcune, non avrebbero più ragione di essere.
Non immagini quante volte abbia sentito questa espressione: "per carità, io non sono affatto femminista, però...",oppure anche "non per essere femminista, ma... ", come se il ricorso alle teorie femministe fosse chissà quale abominio.
Una cosa che - da donna - non posso fare a meno di notare (e che, per inciso, mi ferisce sempre molto) è la continua e sottointesa allusione che dobbiamo sempre subire, anche in situazioni e frangenti che di sessuale hanno ben poco; es: una donna che commette un'infrazione mentre guida è sempre, immancabilmente "una puttana", o "una zoccola" (epiteti vari a seconda del paese in cui si trova). Ma cosa c'entra questa indebita allusione sessuale?
Non stigmatizzare queste espressioni - quasi fossero divertenti e divertite inezie - crea e fonda il presupposto per una cultura maschilista e di sopraffazione nei confronti delle donne.
Inoltre c'è anche pochissima informazione; ad esempio le donne dovrebbero sapere che un uomo che alza le mani una volta, molto probabilmente lo farà ancora. Non sempre, ci sono anche le eccezioni, come sempre, però una natura violenta dà in genere segnali ben precisi. Una persona violenta può anche tuttavia essere curata; in genere è la violenza che genera altrettanta violenza e infatti, guarda caso, gli uomini che picchiano le donne sono stati spesso a loro volta bambini che hanno subito violenze in famiglia, o che, comunque sia, sono stati abituati a considerare "normale" un certo tipo di comportamento.
RispondiEliminaDico questo perché so che molte donne accettano e subiscono atteggiamenti violenti da parte dei loro compagni, mariti ecc. perché ne sono innamorate o perché riconoscono in loro altri lati positivi che andrebbero a compensare; magari sapere che, se proprio si tiene a non perdere una persona perché comunque le si vuole bene, esiste la possibilità concreta di farla curare e riabilitare (ovviamente non sarà un percorso facile) potrebbe aiutare molte donne ad affrontare la situazione o indurle a far uscire il problema allo scoperto anziché tenersi tutto dentro.
Condivido pienamente le tue riflessioni. E approvo la tua intenzione di scrivere un post sul femminismo.
RispondiEliminaLa violenza sulle donne comincia dal linguaggio; perché in esso a sua volta si riflette tutta una mentalità. Bisognerebbe essere vigili e annotare tutti gli spunti di denigrazione del femminile che emergono in certe conversazioni, formali e informali, e nei messaggi che compaiono sui media o nella pubblicità, o nei film, per poterli smascherare, per poterne sviscerare l'interno, subdolo meccanismo.
Pensiamo ad esempio all'immaginario che si riflette nei film (che mediamente - non parlo dei grandi capolavori - rispecchiano un certo "pacchetto" di luoghi comuni condivisi dal pubblico). In certi film del passato, ad esempio, si narrava di donne che abbandonavano mariti traditori o meschini, ma quasi sempre poi lei veniva rappresentata come confusa o "mal consigliata" da parenti o amiche, e il racconto terminava immancabilmente (salvo i casi di finali tragici) con la moglie che tornava a casa, più "pentita" lei del consorte, perché in ogni caso, qualsiasi cosa avesse fatto il marito, il posto della moglie era accanto a lui, pronta a sopportarlo sempre e comunque.
Del resto uno dei cliché del teatro moderno (da cui ha attinto anche certo cinema) è "La bisbetica domata" di Shakespeare, che sostiene la tesi secondo cui la donna non può avere un carattere o fare "di testa propria"; deve farsi invece "domare" ovvero dominare dal marito... e solo così tutti possono vivere "felici e contenti".
Nei film degli ultimi decenni il vecchio costume "perbenista" disegnato tutto a svantaggio della donna è stato sostituito da tesi e trame più sfumate e diplomatiche.
Ma il costume della denigrazione dell'immagine e della dignità della donna emerge anche dopo il '68. Mi viene in mente un esempio, fra i più eclatanti. Non so se hai presente la terribile scena (almeno per me è tale) del film "Amore mio aiutami" di e con Alberto Sordi, dove lui picchia brutalmente Monica Vitti (in realtà interpretata in quelle scene dalla allora giovane controfigura Fiorella Mannoia). Per tutto il film il protagonista maschile è presentato come "vittima", un po' cialtrona sì ma sempre "vittima", dell'instabilità sentimentale della moglie; sicché quella scena brutale di pestaggio appare sì, già nell'intento del regista, come esagerata e inopportuna, ma tra le righe il racconto suggerisce sornionamente che in fondo quella cosa "può accadere", se uno è esasperato, perché in fondo lei "se l'è andata a cercare".
Quel film nel suo insieme è un classico esempio di stereotipo antifemminile (e il famoso "se l'è andata a cercare" è un segnale evidente e ricorrente di atteggiamento pregiudizialmente antifemminile), e il suo tono da commedia non fa che rendere più odioso lo stereotipo. In particolare quella sequenza del pestaggio, non solo per il contenuto (già insopportabile, per me) ma anche per il modo quasi documentaristico in cui è girata, che implica un certo indugiare sul fatto, quasi a volerne rendere partecipi (e complici) gli spettatori, la dice lunga sul ruolo che hanno il linguaggio e la comunicazione - in questo caso il linguaggio e la comunicazione cinematografici - nel perpetuare un certo "costume" di sopraffazione e violenza contro le donne.
Ho fatto un esempio, ma se ne possono fare molti altri...
Circa le donne che prendono con imbarazzo le distanze dal femminismo, confermo che è un fatto che più volte ho constatato anch'io, con rammarico. Ricordo che ad una cena fra amici, durante una discussione sulle donne in politica (mi pare), una ragazza dichiarò, come per allontanare da sé chissà quali pericoli: "Voglio dire che non sono femminista". Io le chiesi se avesse mai letto libri sull'argomento, e lei disse di no; al che le feci notare che "il femminismo" è un arcipelago nel quale ci sono diverse correnti di pensiero di donne che si confrontano, e che anche per un uomo è molto importante confrontarsi con quelle riflessioni, per rimettere in discussione stereotipi, luoghi comuni e retoriche che rischiano di soffocarci *tutti/e*. Infatti è così che la penso. E' sempre prezioso misurarsi con chi mette in discussione l'esistente; perché sotto pensieri e comportamenti che diamo per scontati spesso ci sono condizionamenti sociali e culturali che mirano a renderci replicanti di un unico modello. E guarda caso, quel modello può non piacerci affatto, specie se è intessuto di violenza e sopraffazione quotidiana, verbale e non.
RispondiEliminaSe però molte donne temono di apparire "come le femministe", e si affrettano a prenderne le distanze, è anche perché sentono, annusano nell'aria che è la vecchia costruzione ideologico-sociale del patriarcato a dominare ancora l'immaginario di questa società; e pensano di doversi adeguare a questo immaginario, poiché la contestazione, in termini di sacrifici, costa molto di più. Insomma, l'esempio è ancora la "Bisbetica domata" di cui sopra: poiché il modello imperante mette in cattiva luce le "bisbetiche" e solletica in ogni modo le "domate", le ragazze si fanno due conti e immaginano che se fanno troppo le "bisbetiche" resteranno sole e magari anche senza lavoro (perché anche lì, in un mondo di precariato, sembra che siano apprezzati solo i "domati" e le "domate"); perciò accettano di presentarsi già come "domate" alla radice, per non rendersi invise ai possibili corteggiatori e compagni. E già, un mondo che fa della "libera concorrenza" un mito, non può che riportare in auge gli pseudo-valori del vecchio patriarcato, anche se sotto forme più adatte ai tempi: nella "grande concorrenza" solo chi è più invitante, sorridente, malleabile, vince; le altre (e gli altri, perché vari sono i "mercati" della "competizione generale") saranno lasciate/i indietro, saranno lasciate/i sole/i.
Anche la presa di coscienza della natura violenta di certi partner non sempre è facile e immediata, da parte delle donne. Anche lì il ruolo di abitudini, costumi, usi è fondamentale; e la terapia di riabilitazione può essere un percorso da studiare.
Avevo già avuto modo di menzionare questo blog in un mio post di qualche tempo fa (quello sul Gay Pride) e riguardo alle tue riflessioni - che sottoscrivo appieno - è più che mai pertinente:
RispondiEliminahttp://costanzamiriano.wordpress.com/about/
La visione dell'autrice e degli altri partecipanti al blog è oltremodo viziata dall'ideologia cattolica, sarebbe quindi interessante anche approfondire l'argomento proprio sotto questo ulteriore aspetto: quanto ha significato nel nostro paese una certa visione della donna basata su pregiudizi e dogmi legati alle credenze della religione cattolica? E' una delle religioni più maschiliste che io conosca, fors'anche più di quella musulmana.
Pensa anche soltanto all'idea vetero-testamentaria del peccato indotto dalla donna.
Per non menzionare poi tutti i processi alle streghe di cui la Chiesa - oggi - cerca di minimizzare la reale portata, anche in termini propriamente numerici.
Ci sarebbe da aprire un capitolo a parte su questa visione profondamente errata della donna che la Chiesa ha contribuito a tramandare nei secoli, i cui rivoli continuano ad essere sotterraneamente sparsi, anche solo a livello di consuetudini e modi di dire popolari.
La Letteratura poi ha fatto il resto (ma non dimentichiamo che anche in questo caso la cultura canonica è stata appannaggio dei Padri della Chiesa e che in passato soltanto i clerici avevano accesso alla cultura).
Sulla mitizzazione della figura della donna (santa o puttana) diffusa dalla Letteratura (del passato, come moderna) e dal cinema ci sarebbe da scrivere moltissimo. Proprio il cinema, con il gioco di luci, inquadrature, stereotipi vari, ha forzato culturalmente la visione del femminile.
Non dimentichiamo poi che fino agli anni sessanta nel nostro paese le donne cosiddette adultere erano soggette a sanzioni penali di vario tipo, mentre gli uomini no.
http://it.wikipedia.org/wiki/Adulterio#L.27adulterio_nel_diritto_italiano
Per riassumere: linguaggio, cultura mediatica, religione, superstizioni, tradizioni e credenze popolari, modi di dire diffusi, atteggiamenti ecc., sono tutti fattori che contribuiscono alla diffusione di una cultura maschilista in cui la visione della donna è quella di un essere inferiore che deve e può essere soggetto a vessazioni e sopraffazioni.
"Per riassumere: linguaggio, cultura mediatica, religione, superstizioni, tradizioni e credenze popolari, modi di dire diffusi, atteggiamenti ecc., sono tutti fattori che contribuiscono alla diffusione di una cultura maschilista in cui la visione della donna è quella di un essere inferiore che deve e può essere soggetto a vessazioni e sopraffazioni."
RispondiEliminaVerissimo: tanti elementi contribuiscono e concorrono, talora sostenendosi e rafforzandosi a vicenda, a perpetuare una certa immagine del "ruolo" della donna e della sua "sottomissione", spacciata come "naturale" (?).
La religione, soprattutto laddove tuttora svolge il suo ufficio di "instrumentum regni", ovvero di sostegno morale-ideologico degli assetti di potere esistenti (assetti politici, sociali ed economici insieme), ha un ruolo non secondario, nel giustificare una certa idea patriarcale circa il "ruolo naturale" della donna.
Il panorama è variegato, almeno da noi (anche perché, come i cattolici spesso lamentano, la società si è ormai secolarizzata e non ascolta più a capo chino i "precetti"), e accanto ai settori più "tradizionalisti" del cattolicesimo che santificano tutti i pregiudizi e le retoriche del passato sul ruolo "sottomesso" della donna, ci sono voci più illuminate. Tuttavia penso che la prevalenza del "maschile" nelle religioni più diffuse (in quelle monoteiste, ad es.) sia di per sé un ostacolo oggettivo alla comprensione della pari dignità del genere femminile, da parte dei ministri di culto e dei teologi di quelle fedi: infatti non "aiuta" in questo senso il fatto che i ministri di culto (sacerdoti, ecc.) siano tutti di sesso maschile. E' un modo indiretto di considerare la donna "impura", inadatta al rapporto "privilegiato" con il sacro. Ed è un atteggiamento che ha radici molto antiche, che sarebbe lungo esaminare qui; in ogni caso, personalmente non ritengo che il grado di "antichità" di una concezione costituisca di per sé un indicatore "attendibile" della sua validità oggettiva... Quante volte i nostri antenati hanno preso clamorose "cantonate"! E' nostro diritto perciò prenderci la libertà di criticare le loro concezioni quanto e come vogliamo.
Siamo esseri pensanti, e perciò non (necessariamente) seguaci passivi e acritici di pensieri altrui.
Quanto ai rapporti fra concezioni diffuse da lungo tempo (come gli stereotipi del patriarcato) e potere, ci si può chiedere: ma perché determinati ordinamenti politici autocratici sostengono accanitamente le discriminazioni contro il genere femminile (le più eclatanti: l'obbligo del velo o del burqa, il divieto di svolgere determinati lavori, ecc.; ma non sono le sole) e difendono con altrettanto ardore determinati intollerabili privilegi maschili, perfettamente speculari rispetto a quelle discriminazioni?
RispondiEliminaLa risposta più semplice può essere: perché quasi sempre il potere, in quegli ordinamenti, è detenuto dagli uomini. Ma in sé non è una spiegazione sufficiente; c'è qualche altro motivo sul quale riflettere...
Un giorno uno studioso proveniente da un Paese mediterraneo (moderatamente tradizionalista, ma prevalentemente laico), col quale mi trovai a parlare, se ben ricordo, a margine di un convegno, mi spiegò (ricordo il senso del discorso, non le parole esatte, ma la ricostruzione è fedele): "Da noi c'è abbastanza libertà di pensiero e di costumi; le donne vestono come meglio credono, lavorano... Eppure vedi per strada che gli uomini vanno in giro più fieri, spavaldi, mentre le donne si guardano sempre attorno incerte come se chiedessero scusa per la loro libertà... e quando c'è un uomo si fanno da parte, rispettose, come se si trattasse di un principe. E' una sensazione appena evidente, ma la noti. E' perché da noi, nel privato, l'uomo è ancora *il padrone*, nonostante le leggi moderne; in casa è servito e riverito come un principe, ed è sempre lui a prendere le decisioni importanti e ad avere l'ultima parola. Il potere da noi fa di tutto per far sentire l'uomo ancora il padrone della sua famiglia, nonostante l'incalzare della modernità... ed è una scelta deliberata, non esplicitamente dichiarata ma concreta e palpabile, da parte delle autorità. Infatti, molti di quegli uomini che girano per strada così spavaldi, nella vita pubblica e sul lavoro non contano nulla, sono sfruttati, sottopagati, senza diritti... e il potere concede loro questa specie di valvola di sfogo, per tenerli buoni e mantenere il consenso nonostante tutto: anche se al di fuori della loro famiglia sono uno zero, quando tornano a casa sono dei prìncipi, perché le loro donne, dopo aver lavorato magari anche più dei mariti in qualche fabbrica, lustrano le loro scarpe e stirano le loro camicie senza fiatare. E questo basta a gratificarli."
E' una descrizione che spiega molte cose... Il potere assoluto che è al vertice del sistema, per un verso sfrutta e bistratta i cittadini-sudditi, ma per l'altro garantisce a una parte di loro (divide et impera!) micro-poteri assoluti, per farne dei "micro-re" almeno nell'ambito della loro vita privata; ovviamente qualcuno deve pagare i pesanti costi di questo "patto scellerato": e, guarda caso, quel "dovere" spetta alle donne.
Insomma, parlare della questione femminile significa riflettere su molti ambiti della nostra vita sociale e sui nostri punti di riferimento culturali; anche soltanto per questo, varrebbe la pena parlarne di più.
solo per questo post ed i tuoi commenti, ti stimo a prescindere :)
RispondiEliminanon so se la conosci mi ti segnalo il blog di
Iaia Caputo, autrice di un libro "l'assenza degli Uomini" riferibile proprio al contesto del tuo post per quanto riguarda i Femmicidi e non solo
ciao
Grazie di cuore per la stima "a prescindere" :)
EliminaAvevo sentito citare Iaia Caputo, ma non mi era capitato di leggere niente di suo; dopo questa tua segnalazione ho dato un'occhiata al suo blog, e mi pare degno di nota, per l'acutezza degli argomenti e la limpidità di scrittura.
Posso sfogarmi? Uno degli aspetti peggiori del vero e proprio "bollettino di guerra" dei femminicidi (una donna uccisa ogni 2-3 giorni) è la pietosa definizione con cui i media definiscono il fattaccio: delitto passionale, tragedia dell'amore, lui non si rassegnava, lui la voleva ancora, lui non voleva perderla.... Lui insomma, voleva e pretendeva e disponeva. Lui aveva deciso per entrambi. Lui dava e toglieva il potere di vivere e quindi anche quello di decidere. E se lei ha deciso diversamente ha "ferito" i sentimenti di lui - di lei di quel che lei ha provato durante una relazione evidentemente sbagliata, del terrore che l'ha colta quando ha capito che sarebbe morta, del fatto che persino lei avesse diritto a vivere come meglio le pareva, poco si dice. Lei ha "sbagliato", ferendo un codice d'onore fasullo e desueto che però viene rinvigorito ad ogni "lui non si rassegnava"... E via, fino al prossimo delitto.
RispondiEliminaCuriosamente, ben pochi alfieri del neomoralismo, della sottomissione femminile ecc. ecc. parlano mai di questi fatti. Evidentemente, un embrione merita più considerazione d'una donna o ragazza ammazzata - spesso con modalità atroci - per aver lasciato un marito, un compagno, un fidanzato con cui non era più possibile stare insieme.