Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

giovedì 8 settembre 2011

La solitudine è "plurale": riflessione con intermezzi musicali

Volendo parlare della solitudine, gli spunti dai quali partire per tentare una riflessione sono innumerevoli.
Personalmente mi piace partire da alcune considerazioni di Léo Ferré, musicista e chansonnier, ma soprattutto poeta della canzone, che aveva una mente brillante e poliedrica, e una vasta cultura.
L. Ferré nel 1971 pubblicò un album intitolato La solitude, e in esso vi era un brano avente lo stesso titolo, che tratteggiava i "contorni" della solitudine con versi sferzanti, lucidi sino a far male.


Non è difficile trovarlo sul Web. Ne esiste una versione in italiano, ma "incollo" qui la versione francese originaria, che preferisco:




Ma oltre al brano in questione, sono interessanti alcune cose che L. Ferré dice in un'intervista riportata sulla copertina del disco, dalla quale traggo qualche brano (la traduzione dal francese è mia):

Gli artisti sono tutti dei ribelli e dei solitari. Gauguin per esempio, e Van Gogh oh quanto! Quando si pensa alla solitudine di Ravel... Terribile! Solo col suo tumore nella testa. Sono finiti insieme. E Bartók, morto a New York nel 1945: alcuni amici hanno dovuto fare la colletta per poterlo far seppellire. Anche Villon era solo con l'ineffabile Charles d'Orléans, che era il Pompidou di quell'epoca. E Balzac, con la sua solitudine proporzionale a ciò che faceva. Non è certo un caso se Beethoven e Ravel non hanno avuto moglie né figli.

[...]

Françoise Travelet (intervistatrice): La solitudine che lei canta e dice di provare come una sofferenza, non la avverte in effetti piuttosto come un piacere?

Léo Ferré: La solitudine si vive con difficoltà. Il dramma dei solitari è che s'ingegnano sempre per non essere soli. Detto questo, io strizzo l'occhio al motto di Sartre: "L'Inferno sono gli altri". L'Inferno del solitario è l'Altro, colui che vuole schernire la sua solitudine, sopprimerla. Tutti sono soli ma nessuno lo sa.

Io credo che l'accelerazione della Storia, nelle nostre civiltà attuali di venditori d'immagini e di suoni, ci stia preparando un universo di matricole. Questo universo comincia con la Sicurezza Sociale, e presto gli uomini verranno immatricolati come si fa con le automobili. Metafisicamente è già avvenuto. L'unico rimedio è la solitudine. Ma è un rimedio da individualista. E la vera solitudine è la solitudine dell'artista.

F.T.: E' la solitudine del pensiero in generale nei confronti di una società che rifiuta. Ma nel suo caso, si scontra col fatto che lei è un uomo pubblico...

L.F.: C'è lì dentro qualcosa che non va, nella misura in cui io comunico con questa società. Mio malgrado, ci sono parole che escono dal mio cervello, da questo computer neurofilo che è la nostra coscienza; ci sono parole che io utilizzo e che serviranno forse a qualcuno.

Ma non è questo lo scopo col quale io scrivo. In definitiva, l'artista scrive per sé la prima volta, durante la prima ora. E poi arriva un momento in cui sente che ciò che scrive non gli appartiene più, e quel momento lì, malgrado tutto, mi risulta alquanto doloroso. E' difficile da spiegare...

In verità io voglio essere solo e non lo sono!

Uno si guarda vivere male e si dice: "Sono infelice e nessuno lo sa". Appena c'è una mano tesa, uno la afferra, ma viene vinto da questa amicizia improvvisa, dall'altro che gli arriva.

[...]
[Brani tratti dalla pochette dell'album La solitude di Léo Ferré, 1971, e in particolare dall'intervista all'autore, fatta da Françoise Travelet - trad. in italiano a cura del sottoscritto]

Ci sono concetti che non si possono affrontare senza il rischio di perdersi in un labirinto di sensi, esperienze, significati contrastanti; e questo perché ci sono idee, concetti (e alcuni concetti - come in questo caso - corrispondono a condizioni umane), che possono essere intesi e osservati da angolazioni differenti, pur conservando il loro nome. 
Alcune volte, come linguisti, esperti di logica e altri studiosi sanno, le parole che si hanno a disposizione - e le frasi nelle quali quelle parole vengono utilizzate - non hanno un senso univoco. Spesso una stessa parola, usata in contesti differenti, rimanda a significati differenti; oppure semplicemente il suo senso si "restringe" o si "espande" a seconda delle necessità.

La parola solitudine è un esempio di questa "ampiezza di significato" e "multivalenza" delle parole (ci sono termini più tecnici e precisi per definire questo concetto, ma essendo oscuri per chi non è "addetto ai lavori", non voglio adoperarli qui per non appesantire il discorso).



Infatti, in quanti modi e con quante sfumature di senso facciamo riferimento ogni giorno all'idea di solitudine e alla condizione che questa evoca?

Se qualcuno dice: "sono solo", possiamo pensare a cento cose diverse; quella frase può riferirsi ad una condizione momentanea ("sono solo perché in casa al momento non c'è nessun altro" oppure "sono solo in strada perché a quest'ora non passa nessuno"; ecc.) ma può anche riferirsi ad uno stato che permane o dura da molto tempo e che comunque coinvolge più a fondo la persona, quasi connotandone l'esistenza ("sono solo ormai, i figli sono grandi e lontani" può dire una persona anziana; oppure qualcun altro può dire: "in questa città sono così solo, non riesco a legare con nessuno"; ecc.).

Non c'è quindi in realtà una solitudine, ce ne sono potenzialmente tante, anche se tendiamo a indicarle tutte utilizzando la stessa parola.

E - come possiamo tutti affermare, basandoci sull'esperienza comune - c'è la solitudine fisica, dovuta all'assenza fisica del prossimo e dunque alla presenza di una sola persona in un posto (una casa, una camera d'albergo, un'automobile imbottigliata nel traffico, una strada sperduta, una spiaggia d'inverno, ecc.); ma c'è anche la solitudine "esistenziale" (o "spirituale", o morale, o del pensiero): la si avverte anche in mezzo a una folla di persone indaffarate di una grande città (nella metropolitana, per es., ma anche lungo un viale frequentatissimo) - perché appunto sono indaffarate per i fatti loro e avvertiamo la loro distanza mentale da noi.

Fisicamente in quel caso non siamo soli; cogliamo sguardi, gesti di quelle persone che vagano nello spazio attorno a noi (e anzi lo riempiono), possiamo talora udire le loro parole; ma la nostra esistenza non è realmente notata da nessuna di loro - così come noi della loro esistenza notiamo soltanto frammenti che non sono per noi significativi (uno sguardo, una frase colta al volo... soltanto frammenti, che tendiamo a dimenticare).

Ciascuno di noi è, in quella folla, un volto anonimo per gli altri, anche se è un individuo con precise caratteristiche in astratto e per se stesso (oltre che per la cerchia ristretta delle sue conoscenze: amici, parenti, ecc.).



La solitudine, anche quella esistenziale (non meramente fisica), possiamo quindi sperimentarla tutti ogni giorno; si può trattare però generalmente di momenti di solitudine nel corso di una giornata piena di relazioni importanti e coinvolgenti (affettive, di lavoro, ecc.). L'abitudine ci spinge a non fare più caso a quei momenti; sono come ponti che attraversiamo per andare da una sponda all'altra del fiume che divide le nostre vite in settori differenti (qua la casa, là il lavoro, più in là ancora impegni sociali che ci gratificano, e poi la fidanzata, oppure i figli da recuperare alla fine della scuola; eccetera).

In altri casi, tuttavia, la solitudine "esistenziale" va ben al di là di un semplice "ponte" che congiunge pezzi della nostra vita ricchi di condivisione e di compagnia. La solitudine, in questi casi, è uno degli ingredienti della struttura stessa della nostra esistenza. Però detto questo, si è ancora detto poco, anzi quasi nulla: perché questa solitudine radicata, o "strutturale" (brutto termine, ma ha il vantaggio di sintetizzare un'idea), può assumere a sua volta cento volti differenti.



Infatti, si spazia dalla solitudine di un anziano (o anziana) rimasto vedovo, i cui figli sono ormai chissà dove, a quella di uno straniero appena giunto in un posto di cui capisce poco la lingua e le usanze; o dalla solitudine di un/una single "incallito/a" perché deluso/a dopo varie esperienze amare a quella di chi si sente straniero pur non essendolo, giacché non si ritrova nelle "verità condivise" della sua comunità, del suo paesello o dei posti che si è trovato per varie ragioni a frequentare.

Oppure, per dare altri esempi, si va dalla solitudine del ragazzo che veniva "gettato" per un anno o più a "fare il soldato" e che non riusciva assolutamente a riconoscersi e a ritrovarsi in quella vita di militare che intimamente non gli apparteneva (in molti Paesi è ancora così) - solitudine che, essendo "esistenziale" e non "fisica", la compagnia dei "commilitoni" poteva forse attenuare per brevi momenti ma non cancellare - all'analoga solitudine della ragazzina o del ragazzino "buttata/o" in un collegio per anni e anni; per non parlare poi della solitudine degli ammalati nelle corsie d'ospedale...

I casi sono tanti, e nemmeno il più fantasioso elenco di esempi basterebbe a tratteggiarne la sconfinata varietà.

Ci si può sentire soli anche all'interno della propria famiglia, e forse anzi a causa di essa. E si può persino essere soli in due; la "solitudine duale" può essere, nel migliore dei casi, complicità che mette in sordina per il tempo necessario il resto del mondo e ascolta la passione che ha creato (quando accade, è meraviglioso sentirsi "Alone Together", come diceva la canzone di Arthur Schwartz & Howard Dietz: "Alone together, beyond the crowd, / Above the world, we're not too proud / To cling together...", ecc.); ma tante altre volte, la solitudine "a due" è la disillusione dell'idea di coppia, nella quale si scopre di essere due estranei l'uno per l'altra nonostante qualsiasi intimità (e in questa seconda ipotesi, ha ragione la canzone di Dalida, "Pour ne pas vivre seul", che dice tra l'altro: "Pour ne pas vivre seul / Moi je vis avec toi, / Je suis seule avec toi, / Tu es seul avec moi..." ma anche: "Pour ne pas vivre seul / On fait des cathédrales où tous ceux qui sont seuls / S'accrochent à une étoile"...). 

Tanto per alleggerire (o forse movimentare) un po' il discorso, dopo la canzone di L. Ferré, posto gli altri brani che ho appena citato, e comincio da "Alone Together" , qui nella versione moderna di Carly Simon:


 C'è una versione dello stesso pezzo che è più carica del calore malinconico-sensuale del jazz, ed è quella di Chet Baker; però non è cantata:


Di seguito, la canzone di Dalida citata prima, "Pour ne pas vivre seul":



...Poi si può scoprire, com'è accaduto a Léo Ferré, che "Tutti sono soli ma nessuno lo sa".

Infatti viaggiamo tutti, ogni giorno, fra i silenzi e i vuoti di quei ponti di "solitudine nella folla", che sono come oblò di una nave, o finestrini di un treno, che ci permettono di contemplare il paesaggio nel quale tutti siamo immersi. Lo osserviamo e poi ce ne allontaniamo in fretta, verso le nostre mete quotidiane; possiamo allontanarci quanto vogliamo, dimenticarlo quanto ci pare, ma il paesaggio è quello, sempre. E resta.

Della solitudine allora preferiamo non parlare. C'è la solitudine di Tizio, di Caio, o di Calpurnia e di Sempronia; ma non c'è mai, nei discorsi, se non come "convitato di pietra", la solitudine - quella senza appartenenze specifiche, universale.

Non ci alleniamo a capirla, a interpretarla, a nutrircene, anche; e quando ci càpita addosso con tutto il suo peso, ci spaventa, ci disorienta, ci stravolge. Eppure è stata sempre in attesa là fuori; non è venuta da un altro mondo.



"Io vengo da un altro mondo, da un altro quartiere, da un'altra solitudine..." recita Léo Ferré.

Abbiamo addosso innumerevoli numeri di matricola (il passaporto, la carta di credito...) - ricorda il poeta francese - eppure c'è qualcosa di noi che non vive dentro quei numeri; apparteniamo in teoria a diverse "tribù" contemporaneamente, abbiamo la necessità e la smania di appartenere a un rango, a un circuito, a un club, o meglio ancora di collezionare le appartenenze: così siamo contemporaneamente cittadini di..., fedeli di/a..., tifosi di..., dipendenti di..., tesserati di..., coniugati con..., eventualmente imparentati con...

Per carità, tutto questo è in una certa misura inevitabile; ma quando consideriamo il reticolo nel suo insieme, che ci tiene in vita e impigliati al tempo stesso, e il fatto che non siamo (nessuno) in assenza di quel reticolo al quale si riduce la nostra stessa esistenza "con" gli altri, avvertiamo un brivido che ci ricorda che qualcosa di noi rimane pur fuori, ed è precisamente la nostra solitudine, la parte che non può rimanere impigliata definitivamente in nessuna rete comune.



Qualcuno può scegliere di ignorarla il più possibile, quella solitudine che rimane come un residuo profondo nonostante ogni "scuotimento" che imponiamo al bicchiere, o come una parte di silenzio che nessun rumore riesce a sopraffare; ma qualcun altro può affrontarne l'esistenza e cercare di portare quel silenzio, quel "non detto" a galla, facendogli parlare per quanto possibile il linguaggio di tutti i giorni, anche se far parlare quella parte del nostro animo significa quasi smarrirsi in cerca di parole che è arduo trovare, e quindi assumere su di sé il ruolo "ingrato" dello straniero, che con la sua lingua "di altri mondi" rischia di essere guardato con sospetto o diffidenza.

"La disperazione è una forma superiore di critica. Per il momento, la chiameremo 'felicità'..." suggerisce L. Ferré.

Infatti, nella situazione appena descritta, la critica del senso delle cose dal punto di vista di una condizione universale di solitudine appare come disperazione; eppure non si tratta del punto di vista definitivo, perché nel momento in cui sperimentiamo l'esistenza di questa solitudine "interiore", sappiamo anche che non siamo soli in maniera netta e definitiva - almeno finché non siamo in un autentico deserto, in assenza di altri esseri umani.

Ciò che può apparire disperazione è piuttosto l'affiorare di quella parte del nostro essere che di solito sacrifichiamo per accettare una serie di convenzioni che ci consentono di parlare un linguaggio comune; se quella parte di noi non affiorasse, non ci accorgeremmo - per usare le parole di L. Ferré - di essere tutti immatricolati e di dover quindi, presto o tardi, fare i conti con tale condizione (o condizionamento!) che ci imponiamo di ignorare, facendo finta di niente (o meglio, facendo soprattutto finta di essere "assolutamente liberi").

Dobbiamo quindi essere grati a quella parte di noi, anche se la ascoltiamo con sconcerto...

E ancora, ci si può rendere conto che in un modo di vivere che è una specie di reticolato fitto di ipocrisie che reggono a loro volta reti di convenienze e strategie incrociate - che in vari aspetti ricordano l'antico spirito di appartenenza tribale, nei suoi lati peggiori - con le loro retoriche "d'ufficio" e le parole d'ordine irrinunciabili, l'unica maniera di ricreare la possibilità di cogliere e raccontare qualche sparuta (e sperduta) verità è isolarsi, o meglio isolare (cioè: separare dalla "compagnia obbligata/necessaria" del prossimo e delle appartenenze sociali, familiari, di corpo/corporazione, ecc.) una parte del proprio tempo e della propria vita - che può voler dire: creare un proprio spazio nel quale siano sospesi gli "ingressi di favore" alle retoriche di comodo, a un cospicuo numero di ipocrisie e ai luoghi comuni. Per questo tipo di solitudine si paga pur sempre un prezzo, nessuna scelta è comoda o indolore.

Se non vuoi adeguarti alle regole, scritte e soprattutto non scritte, alle quali deve sottostare chiunque voglia starsene immerso da mane a sera nella vita mondana, la solitudine, o una certa quantità di solitudine, più o meno ampia a seconda delle esigenze, diventa una scelta obbligata (ecco perché tante volte è oziosa la domanda: sei solo per scelta o perché costretto? Le scelte sono spesso condizionate: in teoria Tizio può scegliere tra la minestra e la finestra; ma se sceglie la finestra, un metaforico "finestrone" [al di là del quale lo attendono gli spazi di una solitudine strategica, come detto], si sente chiedere da molteplici voci curiose o stranite: "come mai? per scelta o per costrizione?" Giacché uno - così pare - non sceglie "liberamente" la finestra, se gli è stata offerta l'alternativa della minestra! Sì, ma per papparsi quella minestra, Tizio deve cominciare a dare il suo assenso complice a una serie di usi, abitudini diffuse e pre-giudizi che il gruppo "X" o "Y" o la famiglia "Z" o l'impresa "W" considera "d'ordinanza" - tutte cose che sono per lui probabilmente un prezzo inaccettabile da pagare. E allora, per quanto strano sembri, lui dice: "niente minestra, la lascio lì dov'è!").

Che ci piaccia o no, l'esilio è una condizione che ci sfiora continuamente; non si tratta necessariamente dell'esilio in senso proprio: possiamo scegliere di esiliarci pian piano all'interno della nostra collettività (senza varcare quindi fisicamente alcuna frontiera), oppure, anche senza aver fatto alcuna scelta, da un giorno all'altro possiamo scoprire di essere stati esiliati dal "mondo civile", talvolta - nei casi estremi - sino a perdere il diritto di esistere.



Per capirlo, è forse utile ricordare qualche altra "variante" della solitudine.

E' solo/sola, ad esempio, anche colui/colei che combatte ogni giorno contro un'ingiustizia, che riguarderebbe tutti/e - e invece quasi tutti, se non addirittura indifferenti, restano a guardare come semplici spettatori la solitudine di chi combatte (e ha davanti un avversario molto più forte, la violenta arroganza di un potente, ad es. di un dittatore o di qualche "oligarca"), trattano il solitario che si oppone all'ingiustizia alla stregua di un "don Chisciotte" ("Ma chi te lo fa fare?" è il ritornello che gli rivolgono) e restano come impalati davanti a un palcoscenico sul quale non salgono, anche se palpitano segretamente per ciò che vedono. 
Spesso sanno già che per via della sua solitudine il "don Chisciotte" ha la sorte già segnata, ma pur avendo tutti insieme il potere di cancellare quella solitudine, che è già il mirino di un'arma, non muovono un dito.

Così, quando si sente parlare di eroi, il termine rimanda implicitamente alla solitudine del loro atto, del loro gesto. Certo, dopo sono stati celebrati con tutti gli onori: ma dopo, appunto, quando il pericolo era cessato.

E' solo/a, molte volte, chi afferma una verità che la collettività non vuole (ancora) sentirsi dire: era solo perciò Galilei davanti a chi lo processava e davanti a gran parte dell'opinione pubblica del suo tempo; come era stato solo Socrate, molti secoli prima.

E sono soli gli innocenti che vengono condannati ingiustamente, tra la folla inferocita che li maledice e che non sa assolutamente vedere nel loro animo l'innocenza e nei propri occhi l'abbaglio.



Sono sole tutte le vittime dei pregiudizi - le "streghe", gli "untori", le donne lapidate per adulterio, i tanti capri espiatori, le infinite vittime dei pogrom e dei linciaggi di ieri e di oggi.

Sono soli coloro che vivono nei (e dei) loro deliri, che sono come mondi separati e isolati; alcuni di loro sono considerati folli, altri hanno invece la "fortuna" o l'abilità - non essendo sprovveduti - di trovare seguaci, e proprio uscendo dalla solitudine, che non sopportano più e cercano perciò di cancellare in sé estrapolandone una qualche ossessione sulla quale modellare tutto ciò che li circonda, diventano un dramma per l'umanità e in certi casi apparecchiano tragici esperimenti, nei quali il loro prossimo è la "cavia".

Sì, è vero, come riconosce Léo Ferré, "La solitudine si vive con difficoltà"; ma lei è la nostra seconda ombra, e ci segue diligente e sfrontata in ogni angolo nel quale ci andiamo a cacciare, non si fa affatto mandare via e non si fa ingannare dai nostri raggiri per evitarla; e soprattutto è camaleontica e plurale come la nostra esistenza.

6 commenti:

  1. Che bel post! Hai fatto davvero tanti esempi.
    Posso solo aggiungere un paio di considerazioni personali, ma che pure rientrano in qualche esempio che hai riportato.

    Personalmente vado spesso soggetta a provare due tipi di solitudine: quella causata dall'impossibilità di condividere (o far capire, anche, se vuoi) il nucleo più profondo della mia anima ("non si può donare agli altri il nostro io", scriveva Joyce in uno dei racconti di The Dubliners), e quella sprigionata nel trovarmi in mezzo a persone totalmente diverse da me (diverse sotto vari profili, sostanzialmente nella visione della vita o anche nella diversità di grado raggiunto nell'elaborazione della realtà e dei dati che ci vengono offerti). Anzi, più che solitudine, provo proprio un senso di disagio, profondissimo.
    Quando credo di star comunicando qualcosa a qualcuno e poi questi se ne esce con un'affermazione o una riflessione talmente distante da quello che intendevo realmente significare che proprio... come dire... mi cadono le braccia. E allora comprendo che, per quanto potrò sforzarmi, per quante parole io possa cercare di trovare e di usare, non riuscirò mai a comunicare davvero all'altro quello che volevo intendere.
    Ecco, è allora che mi sento più sola che mai.

    Un altro tipo di solitudine sperimentata, cui fai riferimento anche tu, è quella di lottare contro ingiustizie che non sono condivise dalla collettività.
    E qui l'esempio davvero più eclatante e significativo è quello del mio essere animalista ed antispecista. Certo, non sono proprio sola, ci sono altri animalisti, ma non è che nel quotidiano sto sempre in mezzo ad animalisti. Anzi, spesso frequento anche persone che proprio non ci pensano nemmeno a certe questioni. E, se ci pensano, non vedono le cose come le vediamo noi animalisti.
    Ogni volta che entro in un supermercato, ad esempio, scorgo orrori cui nessuno fa caso. E allora provo malessere nel vedere le persone sorridenti di fronte al banco del pesce, che ridono, scherzano mentre davanti ai loro occhi ci sono delle creature che stanno soffrendo (è il caso degli astici tenuti ancora vivi sul ghiaccio o con le chele legate).
    Mi sento come un'aliena improvvisamente atterrata in un mondo di cui non comprendo le leggi, né le coordinate spazio-temporali, nulla di nulla. La distanza tra me e le persone che acquistano creature vive un tanto al chilo, mi fa sentire sola come non mai.

    Guarda, se vuoi, leggi questa cosa che ho scritto tempo fa, non per autocitarmi eh, ma solo perché così potrai capire meglio di quale senso di alienazione e di estraneità rispetto alla realtà circostante io stia parlando (mi riferisco alla parte in cui parlo proprio degli astici e scampi vivi sul ghiaccio); e se non è solitudine questa!

    http://ildolcedomani.blogspot.com/2011/03/olocausto-invisibile-vi-riflessioni.html

    (segue)

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  2. Un altro tipo di solitudine fortissima che ho provato è quello dato dal malessere di natura psichica (fortunatamente solo un episodio risalente a qualche anno fa, poi superato). Uno psicologo infatti mi disse che, di default, il disagio psichico è INCONDIVISIBILE (per quanto ci siano tratti comuni) perché ognuno lo elabora soggettivamente. E questa è la paura più grande che infatti prova il "malato", quella di stare sul punto di impazzire, di provare qualcosa di unico, di essere l'unico al mondo a provare quel tipo di sensazione. Terribile.

    E, comunque sia, sia nasce e si muore soli. E questa è una grandissima verità (per quanto la frase sia entrata ormai un po' banalmente nell'uso comune).
    Condividere il proprio io, la propria essenza, è ciò che secondo me resta, ad un livello molto profondo, sostanzialmente impossibile. Ed è questo che ci rende tutti soli.

    Personalmente poi sono atterrita dall'idea della solitudine che sperimenterò nel momento della morte. Come puoi condividere - interiormente - un momento simile?

    Questi sono dei pensieri angosciosi che ho talvolta. E probabilmente il fatto che io abbia voluto oggi condividerli qui, scriverli, non è altro che l'ennesimo tentativo di sconfiggere e superare proprio questa "solitudine dell'anima". Ma è una tautologia. Si è soli proprio perché non si riesce a dimostrare, a mostrare la propria solitudine.

    In fondo chi scrive, chi cerca di comunicare attraverso l'arte, secondo me, è questo che tenta di fare.

    Un saluto

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  3. P.S.:
    Una nota positiva: in compenso ci sono anche quei momenti in cui capita di sentirsi profondamente in sintonia con qualcuno, momenti tali da infondere speranza e conforto.

    E poi c'è la letteratura: mi è capitato talvolta di leggere romanzi in cui anche solo la scelta di un termine, o una piccola descrizione di uno stato d'animo o di altro, sono stati in grado di mettermi in comunicazione con l'autore, di farmelo sentire vicino. Libri così sanno tenere compagnia più di certe persona in carne ed ossa :-D

    E pensare che poi nella vita di tutti i giorni io sono una persona molto socievole, definita solare, sorridente ecc. :-D Insomma, non si direbbe che io sia una persona capace di sentirsi sola. Eppure.

    Ancora complimenti per questo bel post!

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  4. E' vero che i "solitari (... ) s'ingegnano sempre per non essere soli" ed è anche vero che la disperazione che ne deriva è, paradossalmente, salutare, in quanto spia di una possibile, ancor più insopportabile, omologazione. Ho scelto come colonna sonora del tuo bellissimo post Chet Baker, forse non a caso. La musica esclusivamente strumentale, priva dell'altro, abusato codice, rende più semplice, anche se, forse, illusoria, l'identificazione in una solitudine "altra".

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  5. @Biancaneve: Sono d'accordo con quello che hai scritto.
    "Si è soli proprio perché non si riesce a dimostrare, a mostrare la propria solitudine."
    Sì, è una specie di tautologia, come giustamente hai commentato. E in sé esprime proprio il "cuore" della condizione esistenziale che la solitudine rappresenta.
    L'impossibilità di condividere ciò che si sente è spesso la prova tangibile del manifestarsi del nostro stato "carsico" di solitudine, sommerso ma sempre pronto a venir fuori.
    A volte, trovandomi con persone che non conoscevo (ad una cena, ad es.), mi son reso conto di essere - per usare ancora le espressioni di L. Ferré - di "un altro mondo, un altro quartiere, un'altra solitudine", soprattutto dopo aver tentato di scambiare con loro qualche parola, che non hanno compreso per nulla; e forse il mio disagio in quei casi si nota, perché certe cose non so mascherarle più di tanto.
    L'arte spesso è un tentativo di venir fuori da quella "tautologia", spezzandone il recinto; un tentativo fatalmente imperfetto, come tutti quelli che facciamo, però riesce tante volte a riempire - in maniera inspiegabile, persino "magica", se vuoi - proprio il "vuoto della comunicazione" che la solitudine ci mostra.
    Ed è vero che, proprio come certe opere d'arte ci dimostrano, ci sono momenti di sintonia profonda con un autore, con un artista, con un film, con una pagina scritta; ma anche, nella vita quotidiana, con delle persone, con delle situazioni, persino con... la natura, un paesaggio, il canto degli uccelli sugli alberi... (e penso che da animalista puoi comprendere questa annotazione).
    E poi, certo, c'è una componente di "angoscia" nel nostro rapporto con l'idea di solitudine, per le conseguenze dolorose e "finali" che richiama. E ad esempio proprio la scrittura, come "traccia di noi" (ma anche la pittura, la musica...), che va oltre la nostra materiale esistenza, è una maniera per allontanarsi da quell'angoscia, un "messaggio nella bottiglia" che affidiamo a ipotetici destinatari, che sono in fondo un pezzo della nostra speranza.

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  6. @giacy.nta: E' vero, la musica strumentale, come quella sorprendente di Chet Baker, liberando il campo dal sempre goffo e inadeguato tentativo delle parole di comunicare l'"incomunicabile" della nostra condizione (e quindi la solitudine), ci fa percepire meglio l'esistenza e l'universalità di quel sottofondo "indicibile". E forse la chiave è in quel connubio fra "universalità" e "impossibilità di dire (con parole)": la musica strumentale ci conferma sotterraneamente la possibilità di comunicare *nonostante* l'impedimento e la "goffaggine costitutiva" delle parole, e ci riconcilia in fondo con la nostra condizione. Anche se poi, come giustamente noti, la comunicazione - anche quella che avviene mediante le note musicali - è sempre affidata alla nostra disposizione a cogliere suggestioni, e cioè in definitiva anche a "ricamare" su quelle suggestioni, e a illuderci.

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