Nella politica si è chiamati a confrontarsi con dilemmi, nel senso che le scelte che la politica si trova ad affrontare non sono quasi mai alternative “secche”: l'ottimo da una parte, il pessimo dall'altra.
Sicché dobbiamo forse diffidare sia di chi ci dice: “Il mondo è andato sempre così, ci sono state sempre ingiustizie; quindi, se non si può fare nulla, tanto vale lasciare tutto com'è” (opzione conservatrice “secca”) sia di chi ci dice: “Ho la ricetta per costruire finalmente il paese dei balocchi; perciò basterà applicarla e all'istante tutto cambierà, tutti saranno felici, ricchi, realizzati, e sparirà ogni conflitto” (opzione rivoluzionaria “utopica” in senso stretto).
Forse in entrambi i casi si tratta di tentativi - per quanto differenti tra loro nelle premesse e/o negli esiti - di fuggire dalla fatica delle cose quotidiane, dall'apparente lentezza e “ingratitudine” del lavoro sulla realtà, fatto con tenacia giorno per giorno senza cedere all'illusione di rintracciare scorciatoie a tale fatica o surrogati nei quali rifugiarsi.
Può sembrare comodo e ragionevole rinunciare al lavoro quotidiano sulle cose, sulla mentalità diffusa, sulle abitudini, sui rapporti sociali, ecc., per tagliare in maniera netta questo “nodo di Gordio”; però il nodo non si lascia tagliare così facilmente, e quando crediamo - in un modo o nell'altro - di essercene sbarazzati, ricompare.
Tanta gente, qua e là, ha creduto e crede (ancora) nella dittatura, questo gigante dai piedi d'argilla, soltanto perché apparentemente è un regime politico che sembra spezzare, compiaciuto della propria forza, il nodo suddetto - ma questo regime “sbrigativo”, nelle sue cento o mille forme (autoritarismo, totalitarismo, in versione antimoderna o ultramoderna, ecc.), scambiato per una comoda scorciatoia alla risoluzione (definitiva?!) dei rapporti umani e sociali, non fa altro che stringere ancora di più il nodo, e talvolta ne crea di nuovi, finendo per impigliarsi nei crimini che esso stesso produce in sé e attorno a sé. Produce delitto (arresta, tortura, uccide chi dissente; pretende di imporre con metodi brutali e sanguinari una presunta “verità unica”; senza contare poi che - per riprendere interessanti riflessioni del filosofo Giuseppe Rensi - rende ipertrofico e quindi mostruoso il concetto di autorità adattandolo ai propri interessi di potere “di parte” e così facendo lo scredita nell'immaginario collettivo; ecc.) e perisce spesso per delitto, perché dopo averlo insegnato ne perde fatalmente il “monopolio” e i discepoli si rivelano a un tratto più bravi del maestro, ponendo fine alla sua “carriera”.
Mettendo quindi da parte l'illusione delle “soluzioni semplici e lineari” che taglino ad ogni costo (anche a costo di vite umane) il nodo di Gordio, preferisco considerare i dilemmi della politica partendo dalla “fatica quotidiana” del cercare soluzioni che si trasformino in decisioni collettivamente condivise.
La politica non avrebbe neppure senso, se il suo compito fosse quello di scegliere esclusivamente fra opzioni “autoevidenti”, del tipo: “Volete voi pace, ricchezza e salute per tutti, oppure guerra, povertà e malattia per tanti?” (a mo' di ipotetico quesito referendario...).
Voglio dire: se le scelte da compiere si ponessero sempre in questi termini chiari e non-problematici (in termini cioè di perfetta alternativa fra un bene certo e “assoluto” e un male altrettanto certo e “assoluto”), il “mestiere” della politica non avrebbe neppure uno scopo e un senso.
In tanti casi le scelte sono invece più “intricate” e problematiche. Per capire di cosa stiamo parlando, secondo me è utile partire da esempi riguardanti il “microcosmo” delle persone.
[Ipotesi A] - Se il bandito Tizio, notoriamente sanguinario, aggredisce Caio in un luogo deserto, quest'ultimo pur essendo non-bellicoso deve difendersi (ad es. con un sasso pesante che trova a portata di mano) oppure rispettare il principio della non-violenza e lasciarsi sopraffare? Deve prevalere cioè il “bene” della non-violenza o il “bene” della propria incolumità e sopravvivenza?
In questo caso, Caio è in un certo senso lasciato solo a decidere, solo con la sua coscienza e col suo istinto di sopravvivenza; deve cioè decidere soltanto per sé, e quindi è libero (ammesso che si possa essere “liberi” sotto una minaccia di quel genere, e dovendo decidere in pochi secondi...) di prendere qualsiasi decisione.
[Ipotesi B] - Il problema si complica un po' se l'ipotesi è leggermente diversa: ovvero, Tizio resta il bandito sanguinario e feroce che è, ma in questo caso aggredisce in un luogo remoto e solitario l'indifesa Gaia, e Caio è un terzo soggetto che per combinazione si trova a passare di lì, e pur essendo pacifico e disarmato, ha l'opportunità di sorprendere Tizio alle spalle avvinghiandosi alla sua gola per costringerlo a lasciar andare Gaia (o malmenandolo con un oggetto pesante raccattato sul posto, ecc.: non ha importanza la modalità dell'attacco...).
Ma, pur avendone l'opportunità, deve farlo? Deve cioè prevalere (paura a parte) la solidarietà con Gaia – il principio che chi è in difficoltà va difeso – oppure il principio della non-violenza, considerato un “bene assoluto” da Caio?
Non è una scelta facile, come si comprende; ed è certo più complessa che nell'ipotesi precedente, perché qui Caio – lo voglia o no – assume una decisione che non riguarda solo se stesso, ma coinvolge anche l'incolumità e forse la vita di Gaia.
Qui, comunque si regoli Caio, viola un qualche principio di segno positivo: in un caso, viola il principio della solidarietà verso gli indifesi, e nell'altro il principio della non-violenza.
E' la tipica situazione nella quale uno dei due “beni” o valori dev'essere sacrificato; non li si può far trionfare entrambi nello stesso momento. Si usa dire che in casi come questo si sceglie “il male minore”, ma sarebbe più corretto dire che si fa prevalere un valore sull'altro: è una tipica scelta politica.
Certo, sarebbe bello poter sempre salvare “capra e cavoli”, e avere quindi insieme – per insistere con quell'esempio – incolumità di tutti e non-violenza, ovvero ragionevolezza e pace; ed è sicuramente la soluzione ottimale, alla quale puntare nel corso del tempo. Ma se qui e ora quei princìpi entrano in conflitto, che si fa? La politica deve assumersi la responsabilità di decidere, com'è suo compito, anche qui e ora se necessario, o di fronte a scelte “dilemmatiche” deve astenersi da ogni decisione, perché qualunque sua decisione finirebbe per sacrificare qualche “bene” o principio di segno positivo?
I dilemmi che riguardano le collettività sono anche più complessi di quelli ipotizzati sopra; perché se nell'ipotesi prospettata prima, si può immaginare [come Ipotesi B2, o B “corretta”] che Caio cerchi di conciliare i due valori in gioco – ad es., Caio potrebbe scegliere di implorare Tizio di convertirsi ai princìpi della non-violenza, lasciando andare Gaia, o offrirsi come ostaggio al posto della ragazza, ecc. – in ipotesi nelle quali sono coinvolte opportunità e valori di intere comunità, distinguere fra i valori implicati dalle differenti singole scelte – stabilendo quindi priorità e gerarchie fra quei valori – non è sempre un compito facile; e non è facile neppure trovare mediazioni (o conciliazioni soddisfacenti dei diversi valori in gioco, come accade nell'Ipotesi B2).
Perché, seguendo l'Ipotesi B2, se il bandito Tizio rifiuta decisamente la proposta di Caio, il dilemma si ripropone: in questo caso però, a differenza che nell'Ipotesi B “secca”, Caio può dire: “Io ce l'ho messa tutta, mi sono persino sottoposto al rischio di subire ritorsioni da Tizio, perciò la mia parte l'ho fatta; di più non potevo davvero fare”.
Il suo può essere un discorso sensato e ragionevole; ma solo se limitato a un caso singolo, su piccola/piccolissima scala. Uno Stato, o un'istituzione pubblica, potrebbe addurre le stesse giustificazioni di Caio, cioè di un privato, di fronte al fallimento del suo tentativo di conciliazione?
Non necessariamente; il discorso, se riferito ai doveri dello Stato, e cioè della politica, si fa meno semplice.
Non credo che la politica possa sottrarsi al suo dovere di cercare soluzioni a dilemmi laceranti, che investono il suo stesso ruolo: lo Stato – per rifarsi sempre all'esempio di prima – ha il dovere prioritario di difendere l'incolumità degli indifesi, e non può abdicare facilmente a questo dovere senza nel contempo mettere in questione la sua stessa legittimità.
Lo Stato, nel caso contemplato nell'ipotesi B2, non può cavarsela semplicemente dicendo: “Ho fatto tutto il possibile”, perché questa risposta non sarebbe vera, rispetto ai suoi doveri istituzionali: il suo dovere di difendere gli indifesi resta, e se ha scelto di non tenerne conto, pur potendo efficacemente intervenire (c'erano ad es. cecchini ben addestrati, che avrebbero potuto sparare con precisione alla testa di Tizio, salvando la vita di Gaia), ha appunto compiuto una scelta, della quale deve assumersi interamente la responsabilità pubblica.
Ha scelto quello che riteneva il “male minore”, o meglio il valore più importante: ma resta una scelta discutibile, criticabile, controversa. Non c'era il “bene assoluto” da una parte, e il “male assoluto” dall'altra; c'era però una scelta da fare, e lo Stato non poteva esimersi dal farla, accollandosi inoltre interamente il rischio di venire discusso e contraddetto dall'opinione pubblica.
Quindi, se lo Stato lascia agire il bandito Tizio pur potendolo mettere in condizione di non nuocere (con metodi violenti e sbrigativi), fa salvo il principio della non-violenza ma viola il suo dovere di proteggere l'incolumità di Gaia; se viceversa fa sparare alla testa di Tizio, cede alla “tentazione” della violenza, ma non viene meno al suo dovere di proteggere l'incolumità di chi è indifeso.
Qualcuno resterà comunque scontento della decisione presa dallo Stato, qualunque essa sia. Qualche “bene assoluto” verrà comunque violato, quando ci si trova in una situazione che non lascia alternative e che induce a scegliere fra “valori” in conflitto; tuttavia in questa scelta difficile consiste il ruolo dello Stato e della politica.
(Certo, si tratta poi di stabilire chi e come decide... e qui si aprirebbe un discorso ugualmente importante, che però non si può esaurire in questa sede e in poche righe, anche se qualcosa aggiungo nelle precisazioni, in fondo al post).
Ci sono poi teorie che sostengono esplicitamente che la politica dovrebbe affrancarsi dall'ossessione per la decisione: secondo queste tesi, il male starebbe soprattutto lì.
Bisogna però comprendere concretamente come, in quali termini ed entro quali limiti, potrebbe funzionare una politica che non decide – non perché non sa, ma perché non vuole decidere, in quanto programmaticamente ha scelto (e anche questa è tecnicamente una decisione, però!) di rifiutare la decisione come “destino”, come opzione e come concetto.
Non si comprende con sufficiente chiarezza se l'assenza di decisione possa bastare a salvare non solo la politica dai suoi dilemmi, ma a “salvare” tutti noi; e neppure è chiaro se l'assenza di decisione vada compensata con la presenza di qualcos'altro, o se viceversa il suo “vuoto” sia tranquillamente gestibile e non produca traumi.
Il mio dubbio è che, quando avremo realizzato un modello di convivenza sociale e politica che non ha bisogno di decisioni, avremo “quadrato il cerchio” o trovato la pietra filosofale, e insomma saremo entrati nel paese dei balocchi: quello che l'umanità cerca da tanto tempo; chissà perché non l'ha ancora trovato... chissà!
Precisazioni. E' importante, in una democrazia vera, che la quantità di “puro arbitrio” delle decisioni venga ridotta al minimo (ad un minimo tollerabile, dovuto al margine di imperfezione che ogni sistema ha), o preferibilmente azzerata; e quindi è necessario porsi la questione della partecipazione dei cittadini alle decisioni: il problema è quindi come influire sulle decisioni; tutt'altra cosa è abolire le decisioni stesse - anzi abolire la decisione come categoria tipica della politica.
Se si abolisce la decisione, infatti, non ha più senso neppure porre la questione della partecipazione dei cittadini, ovvero della “democrazia partecipativa”: infatti, in assenza di decisioni da prendere, a cosa parteciperebbero, in definitiva, i cittadini?
D'altra parte, però, se si ammette che le decisioni sono un elemento qualificante, anzi cruciale della politica, e perciò vanno assunte quando (e se) necessario, bisogna poi riconoscere che sono vincolanti e vanno rispettate da tutti, a maggior ragione se i cittadini, attraverso opportune (e non solo simboliche) procedure, hanno contribuito, per la loro parte, a suggerirle e/o a determinarle.
Dunque, una decisione assunta attraverso meccanismi di partecipazione della cittadinanza, non è per questo meno vincolante: tutt'altro! Quindi, anche i cittadini che hanno contribuito a quella decisione, sono ad essa vincolati: il fatto di partecipare a una decisione non può essere motivo che permetta di sentirsi esonerati dall'obbligo di rispettare quella stessa decisione (conformandosi ad essa e insomma “obbedendo” alle sue prescrizioni).
Semplificando un po' la questione (ma rendendo l'espressione dei concetti più incisiva) si potrebbe dire così: la partecipazione è cosa ben diversa dall'anarchia; anche perché la partecipazione non abolisce le istituzioni e le norme - con il loro contenuto coercitivo e vincolante - ma tende piuttosto a rafforzarne la legittimazione, avvicinandole il più possibile, rispettivamente nelle modalità d'azione (le istituzioni) e nei contenuti (le norme), ai voleri della cittadinanza.
Inoltre, i dilemmi della politica possono essere anche apparentemente meno tragici di quelli prospettati sopra (i casi limite sono più comprensibili, nel loro ruolo di esempi), ma ugualmente “stringenti”; ad es.: un'importante catena commerciale decide di far costruire una sua filiale alla periferia di una grande città; promette di dare “posti di lavoro” a molte persone - soprattutto ai giovani - in un momento in cui c'è “fame” di occupazione, ma d'altro canto la costruzione del mega-market con parcheggi toglierà suolo e spazio a un parco pubblico che molti cittadini desidererebbero in quella zona. Che fare? Privilegiare l'occupazione o il verde pubblico?
Variante più drammatica dello stesso esempio (basata come la precedente su casi reali): in una città, una società propone di impiantare uno stabilimento che fabbrica sostanze chimiche “a rischio”, che possono causare inquinamento (anche minimo) e, col tempo, problemi per la salute degli abitanti. D'altro canto però la città ha “fame” di posti di lavoro, e quello stabilimento ne creerebbe parecchi, portando un certo benessere in centinaia o migliaia di famiglie.
Da un lato, c'è il “bene” della salute della popolazione, e dall'altro c'è il “bene” di un lavoro decentemente retribuito per tante persone disoccupate.
Che fare? Quale alternativa scegliere? Il sì o il no?
[E' evidente che io - in particolar modo rispetto a dilemmi sociali e politici come quello appena descritto (tutela della salute vs. posti di lavoro) - ho una mia opinione, ovvero una mia risposta che in un eventuale referendum, ad es., tradurrei in un voto; ma non è questo il “cuore” della questione che qui volevo discutere (non è insomma questo il tema del post: “Le mie ricette per risolvere i più grandi problemi sociali” o suppergiù...). E inoltre, prima di chiedersi: Quale risposta dare al tema specifico X?, è importante porre/porsi la domanda: In che modo posso informarmi o essere adeguatamente informato sui pro e sui contro che le varie risposte possibili al tema X comportano? (e di conseguenza: Ho la possibilità di accedere a informazioni complete e attendibili che mi consentano di farmi un'opinione motivata - e non soltanto superficiale - intorno alla questione X, e di formulare quindi, da cittadino, una mia risposta consapevole?).
Quanto poi all'ipotesi di abolire la decisione dalla politica, non è una possibilità che voglio escludere a priori per “partito preso”: se un giorno qualcuno/a elaborerà un programma concretamente attuabile, con punti precisi da realizzare, che trasformi stabilmente i rapporti umani e sociali a tal punto da rendere inutile o almeno irrilevante la scelta fra diverse opzioni e/o interessi, e di conseguenza la categoria della decisione, sarò ben lieto di accogliere questa novità e di salutarla come una grande rivoluzione culturale, politica e sociale; ma fino a quel momento, mi riserverò la libertà di manifestare in merito con ironia il “pessimismo della ragione”.]
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