Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

giovedì 22 marzo 2012

Coscienza etica e/o processi storico-politici. Ancora qualche commento sull'antispecismo

Mi càpita a volte – come credo càpiti a molti/e – scrivendo con curiosità intorno a un determinato argomento o tema, di sviluppare ulteriori riflessioni, di suscitare in me per primo ulteriori interrogativi.

A maggior ragione, poi, se intorno a quel tema o argomento il dibattito “ferve”.

D'altra parte, questo blog - come suggerisce il suo nome - è soprattutto un work in progress. Non ci sono “verità definitive”, qui, né ragionamenti che portino a conclusioni “indiscutibili” e “inoppugnabili”. Qualche punto fermo qua e là c'è, ma il resto è da considerarsi un discorso aperto, in attesa di sviluppi e “migliorie”.


E così, rileggendo il mio post precedente, e “rimuginando” sulle riflessioni già fatte, anche grazie alla lettura di un contributo di Marco Maurizi, Tre passi avanti e due indietro. Una riposta a Caffo, che come suggerisce il titolo, sottopone a critica lo scritto di Caffo – da me analizzato e commentato (si veda In vista di un'etica lungimirante, in questo blog) – ho avvertito la necessità di aggiungere ancora qualche considerazione.

Questo post sarà dunque una sorta di “appendice” al post immediatamente precedente.

Uno dei problemi che restano aperti, qualunque sia la prospettiva teorica che si assume, è il rapporto fra comportamenti (e consapevolezza) degli individui e trasformazione del “paradigma” socio-economico (ovvero: abbandono del “paradigma produttivistico” che si fonda sullo sfruttamento dell'ambiente, delle specie viventi, ecc.). Se è problematico incidere su quei comportamenti (se non in tempi molto lunghi), come si può ottenere quella trasformazione? E viceversa: come, e in quali termini, un'eventuale “decisione illuminata” adottata (ad es.) per via legislativa può mutare la mentalità diffusa (ormai plasmata e influenzata dall'“egoismo proprietario” e “produttivista”)?

Si tratta di una questione eminentemente politica, e non già etica: tale aspetto politico era il “non detto”, da me sottinteso nel post precedente, o meglio lasciato in sospeso, come questione aperta (non solo rispetto all'etica dell'ambiente o all'antispecismo, ma in rapporto – mi pare – a tutta la galassia di teorie che oggi si pone, formulandola in termini nuovi, la prospettiva dell'“emancipazione” dei nuovi – ma anche dei “vecchi” – oppressi).

Coglievo en passant questo aspetto, nel post precedente, quando scrivevo, commentando lo scritto di Bellan:

«Il problema sta in questo: gli individui non sempre (ovvero, non tutti e, soprattutto, non in ogni circostanza) hanno le cognizioni e gli strumenti analitici per decidere liberamente e comportarsi come soggetti realmente autonomi e razionali, anche perché la cultura che ci ha formati e che struttura le nostre concezioni del mondo e i nostri comportamenti, in quanto “seconda natura”, in realtà ci rende incapaci di “ascoltare” in modo diretto e immediato – come Rousseau avrebbe voluto – la “natura prima”, o meglio le “ragioni” dell'ambiente in quanto tale. E si tratta di un'incapacità costitutiva, nel senso che anche se riusciremo a porre le basi per un'autentica etica dell'ambiente, non per questo saremo in grado di tornare ad essere “buoni selvaggi”, completamente liberi dai condizionamenti di una qualche cultura e perciò capaci di “sentire” in maniera immediata le ragioni dell'ambiente (ammesso che, nel suo “integralismo”, questa possa mai essere per l'umanità una condizione auspicabile)» [mio post preced.: In vista di un'etica...].

E più sotto, nello stesso post, rilevavo parimenti, a proposito del ragionamento di Caffo:

«C'è un limite alla possibilità di trasformare hic et nunc, qui ed ora, attraverso un discorso affidato alla pura razionalità, i comportamenti diffusi degli esseri umani, a causa – come già si diceva – della “seconda natura”, ovvero della cultura nella quale essi vivono, cultura che orienta e in qualche misura plasma i loro valori, le loro aspettative e le loro scelte» [mio post già citato].

Per riflettere su questo argomento, è utile leggere il succitato post di Marco Maurizi, Tre passi avanti e due indietro. Una riposta a Caffo, pubblicato nel blog “Asinus Novus”. Non entro nel merito delle critiche rivolte a Leonardo Caffo, in quanto, come già detto, mi dichiaro “non competente” in materia di antispecismo (ma interessato ad approfondire, questo sì...).

Per mia formazione, non posso che concordare sulla necessità, espressa da Maurizi, di considerare la sostanza e la portata politiche della teoria antispecista – e, aggiungo, di qualsiasi altra teoria che sviluppi “anticorpi” di critica al modello sociale “produttivistico” dominante.
Nessuna teoria, infatti, può a mio parere incidere profondamente sulla società, sulla mentalità diffusa e sulle visioni del mondo egemoni (che influiscono sul “microcosmo” degli individui e del “privato”), se si accontenta di porre questioni “etiche”, arrestandosi al limitare dello “specifico politico” (ovvero della teoria politica vera e propria), come se quest'ultimo fosse un tabù, oppure una “appendice” inessenziale.

Rivolgendo alcune obiezioni a Caffo, Maurizi afferma che il punto vero della discussione è «se si debba affrontare il fenomeno specismo in termini individuali o sociali» (e quindi sostiene che, limitandoci a considerare la questione dal punto di vista “degli individui”, non riusciamo a coglierne la vera essenza “politica”, che come sempre non si può ridurre o riportare interamente all'etica). Quindi aggiunge:

«Se l’ideologia della nostra specie, infatti, è solo la somma delle singole ideologie individuali (cioè del modo in cui i singoli giustificano a se stessi e agli altri la violenza che mettono in opera) non abbiamo fatto un passo fuori dall’orizzonte della filosofia morale. La società, come effetto combinato, transindividuale e surdeterminato dell’azione dei singoli, non la vediamo ancora, così come il suo potere sulla coscienza di questi singoli. Rimaniamo nel cartesianesimo del soggetto disincarnato e trasparente a se stesso. Cioè ancora nell’etica» [Maurizi, Tre passi].

Una teoria politica deve insomma agire sui “meccanismi di sistema” e non sulla “buona coscienza” dei singoli, che si colloca su un piano differente e distinto (a parte le possibili relazioni e connessioni fra piano etico e piano politico, sulle quali pure è necessario lavorare per ottenere trasformazioni permanenti e radicate della mentalità, dei comportamenti e delle abitudini).

Il problema dell'impossibilità di mutamenti diffusi che si realizzino “qui ed ora” è affrontato da Maurizi e correttamente definito – a mio parere – proprio in rapporto alla natura politica della “questione specista” (ma – aggiungo ancora una volta, poiché è ciò che qui particolarmente mi interessa – tale ragionamento è valido relativamente a tutte le “questioni” che il paradigma “produttivistico”, fondato su una “catena” di dominio e sfruttamento, crea, e che sono tutte essenzialmente politiche: sfruttamento del lavoro, dell'ambiente, discriminazioni di genere, ecc.).

Egli scrive infatti:

«[...] l’antispecismo politico è “politico” proprio perché pensa che la soluzione ai problemi posti dall’oppressione animale siano politici, cioè sociali, cioè storici! Dunque non si può immaginare che la soluzione sia che dall’oggi al domani la società attuale diventi una società senza sfruttamento animale. Ragionare così significa ancora ragionare in termini etici e non politici, limitandosi a proiettare sull’agire sociale le caratteristiche dell’azione individuale. Solo gli individui e non le società, infatti, agiscono dall’oggi dal domani: gli atti sociali sono “processi” e, come tali, non sono né istantanei né unilineari» [Maurizi, Tre passi].

E per far comprendere, o semplicemente per rammentare a tutti, che i mutamenti politici sono processi che si svolgono lungo un arco di tempo (e non “conversioni istantanee”, che possono essere proprie soltanto del percorso etico dei singoli), poiché reagiscono a situazioni prodotte da fattori storicamente individuabili (e non da entità indefinite come il Destino, il Fato, la Natura Umana, ecc.) e si collocano in una precisa storia (della società, dell'economia, dell'ideologia, ecc.), Maurizi si richiama a due esempi noti a tutti:

«Infatti, anche la liberazione degli schiavi e delle donne non è avvenuta “in un colpo solo”, benché la loro liberazione integrale sia stata proclamata ben prima delle leggi che ne sancivano l’avvenuta liberazione; anzi, proprio la sua teorizzazione radicale ha permesso di applicare, seppure in forma non immediata e totale, un principio di uguaglianza politica “allargato”» [Maurizi, Tre passi].

Questo passaggio è particolarmente importante e delicato. In poche righe condensa parecchie questioni.
Innanzitutto postula la necessità di porre fin da sùbito in maniera radicale l'esigenza di liberazione di una determinata categoria di soggetti, collegandola dunque a un “universale”, ovvero giustificando la richiesta in termini di pari dignità di tutti gli esseri umani – o di tutti i cittadini, o nel caso dell'antispecismo, in termini di pari dignità fra specie viventi (col lessico politico attuale diremmo forse: di uguale rispetto).
Possiamo quindi anche dedurne che la definizione della “platea universale” che funge da orizzonte di riferimento e al tempo stesso da obiettivo finale dello stesso processo di liberazione, muta a sua volta col passare del tempo (prima i cittadini, poi l'umanità, infine le specie viventi tutte).

Inoltre, il passaggio citato suggerisce che il processo (processo, si ricordi sempre, e non atto istantaneo) di liberazione non parte dall'alto, e non comincia dunque con un atto (una decisione del legislatore o delle pubbliche autorità), ma nasce da una presa di coscienza favorita da una riflessione collettiva, da un paradigma di riferimento alternativo a quello egemone e che a quest'ultimo si contrappone. La legge interviene solo successivamente, a sancire – e quindi a prendere atto di – un processo di liberazione già in corso, e già (quasi) interamente definito.

Tuttavia, la sanzione che la legge offre è un obiettivo politicamente significativo e prioritario. Rende visibile e palpabile il mutamento di paradigma, il “diritto di cittadinanza” conquistato dal soggetto “liberato” (nell'esempio di Maurizi: gli schiavi e le donne).

E bisogna anche chiedersi: la sanzione legislativa, e dunque il riconoscimento sul piano della norma formale, conclude in maniera soddisfacente il processo di liberazione? Domanda, questa, che a sua volta ne produce un'altra: fino a che punto la legge, la norma formale, è in grado di portare a termine un processo di liberazione? può con la sua sola “forza” (che consiste poi nella forza dell'autorità politica, della coercizione, ma anche nel valore “pedagogico” della legge, ecc.) spianare gli ostacoli che nella società eventualmente si oppongono al pieno riconoscimento della pari dignità del soggetto oppresso?

E' precisamente in questo snodo che si colloca il problema del rapporto fra politica ed etica (o mentalità diffusa), fra il “generale” (le leggi e le istituzioni) e il “particolare” (i comportamenti individuali o di gruppo).

La questione femminile (e quindi proprio il processo di liberazione delle donne, di cui si parlava) sta lì a testimoniare che il problema è tutt'altro che risolto. Il riconoscimento formale/politico – sebbene forse incompleto – non manca; eppure i comportamenti “molecolari” della società non sono perfettamente conformi a tale riconoscimento.

Perlomeno, non si può dire che il processo di liberazione della donna si sia definitivamente concluso con la concessione formale della cittadinanza e della pari dignità. E' un processo tuttora in corso, che è soggetto a correzioni, aggiustamenti, assestamenti, persino preoccupanti arretramenti, e che rivela in maniera forse esemplare come sia complicato coniugare la cura dell'“insieme” o del “generale” (ossia il piano politico) con la trasformazione “molecolare” della società (i valori introiettati dai singoli, i loro comportamenti, e in definitiva le “ricadute” del processo politico di liberazione sul piano etico).

E che il rapporto fra piano politico e piano etico sia la “corda sensibile” della questione specista, come di altre “questioni” che hanno dato origine ad analoghe prese di coscienza e a movimenti di liberazione, è confermato da altre considerazioni di Maurizi:

«Si dirà: ma se far entrare gli animali nella considerazione culturale non li salverà, visto che non salva nemmeno gli umani, cosa dobbiamo fare? Ecco la risposta la dà l’antispecismo politico: finché penseremo in termini etici e individuali saremo solo in grado di definire obiettivi “culturali” (carte dei diritti, dibattiti bioetici, educazione) e il raggio d’azione sarà sempre limitato a ciò che esperiamo direttamente (boicottaggio delle merci “insanguinate”). Ragionare in termini politici significa invece puntare ad una modifica sociale di quei rapporti, al cambiamento delle strutture produttive, delle modalità di gestione del potere e di assunzione delle decisioni. Solo su questo versante dell’azione (non più individuale ma collettiva) possiamo sperare di porre fine anche all’asservimento umano non nel “mondo dei valori” ma in quello dei rapporti reali» [Maurizi, Tre passi].

Dopo queste osservazioni, sorge però immediatamente l'interrogativo: qual è il “piano d'azione”? Come impostare, cioè, una strategia di azione che operi prevalentemente (se non esclusivamente) sul terreno politico? In cosa si distingue da una strategia mirante essenzialmente alla “conversione” delle coscienze dei singoli (e dunque operante sul piano dell'etica)?
Ma soprattutto (e ancora), posto che – lo stesso Maurizi lo afferma, confutando l'impostazione di Caffo – non si può definire un preciso rapporto di causa-effetto: quanto, in che misura e sino a che punto il mutamento «delle strutture produttive, delle modalità di gestione del potere e di assunzione delle decisioni», e cioè il cambiamento sul terreno politico, è in grado di modificare gli atteggiamenti e i comportamenti diffusi e “molecolari”, individuali?

Ad alcune di queste domande (specialmente all'ultima) nessuno forse può dare una risposta precisa, non trattandosi di processi “logicamente necessari”, ma soltanto “probabili” entro il quadro offerto dalla situazione storicamente data (e quindi contingente, non “standardizzabile” e non cristallizzabile in un “modello” universale e universalmente replicabile a piacere).

Maurizi esprime lucidamente la differenza fra un procedimento “logico” ed un processo “storico” o “materiale”, proprio per definire la natura essenzialmente politica del processo di liberazione – di qualsiasi processo di liberazione (come quelli da lui precedentemente citati, degli schiavi o delle donne) e non soltanto di quello relativo alle specie viventi dall'oppressione del “produttivismo”, alla quale egli si riferisce in via principale:

«[...] è falso che l’antispecismo politico si occupi del “meccanismo logico di oppressione”, perché, appunto, non si occupa dell’ideologia bensì del meccanismo di sfruttamento, che non è “logico” ma “materiale” (cioè fisico, storico e sociale: cioè esso ha a che fare con un modo di gestione dei “corpi” e questo modo di gestione si modifica storicamente e si modifica non nel pensiero, meno che mai del pensiero “individuale”, ma in base ai rapporti tra umani, cioè a qualcosa che eccede le loro coscienze singole ed è sempre “di più” – come insegnano in modi diversi Marx, Durkheim e Weber – del loro agire meramente individuale). L’antispecismo politico nasce proprio per uscire dalla mera considerazione logica dell’oppressione animale e per proporne un’analisi materialistica» [Maurizi, Tre passi].

Il problema forse è che oggi – dopo decenni di analisi critiche, che talvolta si traducevano in “rivoluzioni” (sociali, di costume, legislative, ecc.) e talvolta invece solo in puri esercizi intellettuali – le teorie politiche impegnate ad elaborare pensiero “critico” fanno fatica a sviluppare una loro peculiare pratica, una strategia d'azione sul “corpo del reale” che intendono mutare o “rivoluzionare”.

Ma questa difficoltà non ci deve scoraggiare a priori.

Uno dei problemi più difficili o comunque più delicati, nell'elaborazione di una teoria politica, è la definizione dei soggetti o, se si preferisce – per evitare i rischi derivanti dalle “sedimentazioni” storiche dell'uso di questo termine – degli agenti, o degli attori (sociali) coinvolti.

Non è neppure questo un problema da poco, poiché – con gran disappunto dei cultori della logica “pura” e delle scienze che possono risolvere ogni problema con formule matematiche (più o meno complesse) – come sa già da molto tempo chi studia i fenomeni sociali e politici, e come Maurizi ci ricorda:

«[...] già Aristotele avvertiva che si devono distinguere gli ambiti in cui è possibile determinare la necessità di un ragionamento, da quelli in cui il risultato del ragionamento è solo probabile. Il “rigore” non sta nel pretendere da ogni ragionamento l’assoluta necessità, bensì nel saper operare in ogni ambito con il metodo adeguato. [...] Se si analizza un processo sociale è del tutto ovvio che non si potrà darne una descrizione in termini assoluti e necessari poiché si tratta non di oggetti “chiusi” definibili in modo formale e univoco bensì di oggetti costitutivamente “aperti” (le definizioni univoche in quest’ambito sono certo possibili procedendo in modo arbitrario e convenzionale, come avviene in quelle scienze sociali che “scimmiottano” le scienze della natura finendo per perdere la specificità del proprio oggetto)» [Maurizi, Tre passi].

Le “contraddizioni” che riguardano i processi politici e sociali non sono definibili soltanto o prevalentemente come tali rispetto alle “leggi” della logica, ma anche e soprattutto rispetto all'intreccio che si determina inevitabilmente, nell'interazione umana e sociale, fra i soggetti (chiamiamoli comunque così per eleganza di discorso...) e anche tra i soggetti stessi e le loro azioni, laddove il limite che il soggetto incontra nel padroneggiare la sua stessa azione e comprenderla sino in fondo è proprio quella “discrepanza” da individuare; o ancora – per usare un lessico oggi corrente – essa si rivela nelle narrazioni che i soggetti elaborano per collocarsi entro il discorso pubblico, e che finiscono invece per essere (fra)intese e percepite come specchi fedeli dell'autentico e originale sentire dei “narranti” (giacché ci si dimentica di tenere nel dovuto conto la loro origine non soggettiva [e meno che mai “intimistica”!], ma “relazionale”).

Insomma, all'interno di una teoria politica o sociale, a poco serve (è di scarsa utilità, rispetto alla validità “operativa” della teoria stessa) padroneggiare i soli strumenti della logica formale, e con questi aggredire ad es. le contraddizioni presenti nelle ideologie diffuse; è più opportuno invece far emergere l'interazione fra le ideologie che orientano la “forma di vita” o ne esprimono, quasi come affioranti iceberg, la diffusa auto-giustificazione, e gli attori sociali, e di questo rapporto far rilevare gli “scricchiolii” e gli attriti, per portare alla luce il “sommerso”, fatto di rapporti di forza dati immotivatamente per legittimi [se volessimo fare un paragone per comprendere quest'ultimo punto, potremmo pensare ai casi di quelle persone che, pur non possedendo la laurea, esercitavano la professione medica o forense, non avendo per anni incontrato nessuno che chiedesse loro di mostrare il titolo di studio: erano sotto gli occhi di tutti ma nessuno li “vedeva” realmente per ciò che erano, ovvero “monete false”] e di asimmetrie generate da malcelate rendite di posizione.

In quest'ottica, allora, non si tratta di individuare “soggetti” nel senso corrente del termine – ovvero, non si tratta di costruire una sorta di “teatrino dei pupi” nel quale far agire diversi “personaggi” che tramite i loro contrapposti “caratteri individuali” ben marcati e distinti portino avanti il dramma e al tempo stesso ne spieghino gli sviluppi – bensì di comprendere che “l'azione” è determinata da un intreccio di rapporti: ovvero i soggetti dei processi e dei mutamenti corrispondono esattamente a quei rapporti stessi e alla “trama” che essi costituiscono.
E non trattandosi di un dramma “di personaggi”, non possiamo ritrovare qui l'“eterna lotta” fra un “buono” e un “cattivo”, senza la quale il contrasto di “caratteri” (che è il sale del dramma) non può vivere. Infatti, non siamo nell'àmbito dell'etica (l'unico terreno dove un dramma del genere ha un senso e una collocazione), ma, come si è detto, nel campo della politica.

A una conclusione del genere Maurizi giunge, affermando:

«L’antispecismo “politico” non pone affatto l’uomo “al centro dell’etica” perché essa non pone un “soggetto” al centro della sua teoria bensì un “rapporto”! Infatti è “politica” e non “etica”! E quel rapporto di cui si occupa è un rapporto differenziale (cioè “tra” diversi) che si fa spesso gerarchico. Dunque è il rapporto tra umani e il rapporto tra umani e non-umani» [Maurizi, Tre passi].

In ogni caso, se teorizziamo la necessità di un processo di liberazione, che porti al superamento di un'oppressione, facciamo comunque riferimento a un soggetto, che di quel processo sarebbe il principale beneficiario.
Si vuole in fondo dire – ed è questo il senso del discorso di Maurizi (e delle teorie politiche di emancipazione inscritte in quella tradizione) – che i processi politici non possono incidere sui soggetti in quanto tali, ma soltanto sulla struttura dei rapporti fra soggetti. E per “struttura” si deve intendere soprattutto la “modalità” del rapporto, il suo modo di rappresentarsi e la “logica” che ne è alla radice: e – intesa in questo senso – la “modalità” del rapporto muterebbe di senso, tramite il processo di liberazione, cessando di essere “gerarchica” (e pertanto strumento di riproduzione dell'oppressione).

Detto ciò, comunque, e cioè assodato che se non si dà priorità alla questione politica non si può innescare alcun reale processo di liberazione (dall'oppressione, ecc.), ci resta tra le mani – come in tutti i processi di liberazione – la necessità di arrivare a incidere sui comportamenti “molecolari”, quotidiani, diffusi, in quanto (oggi, sulla base delle esperienze fatte dai precedenti movimenti di liberazione, ne siamo consapevoli), finché non avvengono modificazioni significative a questo livello “molecolare”, nessun processo di mutamento radicale può dirsi realizzato e perciò neppure realmente determinante (ai fini del cambiamento di un “paradigma”, come quello “produttivistico”, o di un'intera “forma di vita”): nella migliore delle ipotesi, la situazione resta com'è, e la presa di coscienza di un gruppo resta confinata nella propria “nicchia”, più o meno estesa, a testimoniare una irriducibile “differenza culturale” o “di sensibilità”, che stenta però a farsi “senso comune”.
Ma forse – non drammatizziamo eccessivamente – è solo una questione di “tempi”, e come abbiamo detto, i processi non sono mai in grado di produrre cambiamenti istantanei e “miracolosi”.

Testo citato:

- [Maurizi, Tre passi]M. Maurizi, Tre passi avanti e due indietro. Una riposta a Caffo, nel blog “Asinus Novus”, URL: http://asinusnovus.wordpress.com/2012/03/18/tre-passi-avanti-e-due-indietro-una-riposta-a-caffo/


Note a margine
Seguono ora, ciascuna in un post a parte, un paio di “note a margine”, stimolate dalle considerazioni fatte in questo post e nel precedente, ma non direttamente derivanti – sia chiaro – dalle tesi (di Bellan, di Caffo e di Maurizi) che ho commentato. E per questo le definisco “a margine” – per questo, ma anche perché si tratta di questioni “laterali”, per così dire (non necessariamente e letteralmente “marginali”, però), rispetto al tema centrale del post.

Nota a margine n. 1 Quando diciamo che "X" (natura, storia, individuo...) non esiste

Nota a margine n. 2 In lotta contro "il male"? Etica, liberazione, antispecismo


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