Le considerazioni che seguono si collegano alle riflessioni fatte in due precedenti post: In vista di un'etica lungimirante, e Coscienza etica e/o processi storico-politici, dei quali costituiscono una nota a margine. (Ma valgono anche come annotazioni a sé stanti.)
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La considerazione che segue spiega perché forse l'antispecismo come “assoluto” (o in forma “pura”) sia un obiettivo esigente e arduo da raggiungere – e perché tutto sommato lo “specismo moderato” [al quale pure accennava Leonardo Caffo ma – come si legge nel primo dei succitati post – in un senso diverso da quello da me qui espresso] possa essere invece un traguardo politicamente e socialmente (ma anche “tecnicamente”) a portata di mano.
[Non si tratta – lo dico a scanso di equivoci – di un tentativo di “confutare alla radice” la teoria antispecista: pretese del genere sono fuori luogo nell'àmbito di un confronto di idee, come questo, privo di accenti presuntuosi e sprezzanti, e comunque richiederebbero argomentazioni ben più complesse di queste mie osservazioni. Si tratta semplicemente di interrogativi che si generano a margine di una riflessione.]
Come ricordava Caffo, richiamandosi alle riflessioni di altri studiosi, non si può prescindere del tutto dal ruolo che riveste il grado di (maggiore o minore) “prossimità” dell'altro, nei giudizi che esprimiamo e nelle scelte che compiamo – e che coinvolgono anche l'altro in questione.
Anche la preferenza per i vegetali nell'alimentazione, rispetto agli animali, non è a ben vedere che la scelta del “male minore”: si sacrificano le specie viventi a noi meno prossime per salvare quelle che più ci assomigliano (ovvero le specie animali), tenendo conto del fatto che non possiamo non alimentarci di specie viventi, almeno finché non si creerà un cibo sintetico del tutto privo di controindicazioni per la nostra salute [ma d'altra parte, se siamo sostenitori dell'alimentazione a base di cibi “naturali”, “biologici”, ecc., come potremmo accettare l'idea di nutrirci di “robaccia sintetica”? Ma questo è un altro discorso, che magari potrà essere approfondito altrove].
Con questo non voglio dire che la scelta vegana o vegetariana sia priva di fondamento; ma che non possiamo, a mio parere, eliminare del tutto, e una volta per tutte, dal nostro ragionamento e dalle nostre pratiche, da un lato l'aggressione - per motivi alimentari - nei confronti di una qualche forma di vita “non-umana”, e dall'altro la preferenza per il “meno dissimile” (da noi).
E nel caso dell'antispecismo che si limita a tutelare quello che comunemente viene definito mondo animale, la frontiera ideale che separa “noi/esseri civili” da “gli altri/i barbari” viene spostata, ma non eliminata. Le specie animali, se la visione dell'antispecismo dovesse affermarsi, sarebbero assimilate, in virtù delle “somiglianze di famiglia”, alla specie umana e perciò qualsiasi discriminazione (e oppressione) nei loro confronti verrebbe considerata illegittima e infondata; ma al tempo stesso le specie vegetali continuerebbero ad essere considerate (non addirittura “non-vita”, questo no, ma) “vita trascurabile”, sacrificabile (in quanto “aliena” rispetto alla nostra forma di vita), e quindi oggetto legittimo di sfruttamento.
[Immagino una possibile obiezione a questo dubbio: qualcuno potrebbe ad es. far notare che mentre per le specie animali si può parlare dell'esistenza di una individualità, dalla quale deriva la possibilità di considerare i singoli animali come soggetti veri e propri, per le specie vegetali non vale la stessa cosa: a che titolo infatti possiamo considerare come “individuo”, ad es., una pianta di rosmarino o di cipolla? Eppure, almeno per gli alberi si può dire che ciascun esemplare è unico e differente dai propri simili, ed è quindi in qualche modo un “individuo”. Ad ogni modo, non è un discorso così semplice e scontato.]
D'altra parte ci sono studi che si occupano di dimostrare che una qualche forma di sofferenza (la capacità di provare qualcosa di simile al dolore) esiste anche nel mondo vegetale.
E comunque, pur senza voler aderire a questa concezione ancora “di frontiera”, si deve ammettere che lo sfruttamento intensivo del mondo vegetale (si pensi al problema della deforestazione) produce devastazioni che incidono in modo drammaticamente negativo sulle condizioni di vita dell'ambiente nel suo complesso – e dunque anche sull'habitat e sul benessere delle specie animali.
Si può pensare quindi a uno “specismo moderato” che, ammettendo forme di tutela anche per le specie vegetali, le consideri pur sempre “cittadine di serie B” rispetto alle cittadine “di serie A” (che sarebbero le specie animali, homo sapiens incluso). In questa prospettiva, alle “cittadine di serie B” toccherebbe l'onere esclusivo di fungere da fonte di alimentazione per la specie umana, ma in compenso verrebbe eliminata ogni altra forma di sfruttamento a loro danno.
In definitiva, se ci atteniamo a un paradigma etico rigoroso nella sua astrattezza, che, disconoscendo a priori una pluralità di "tonalità", può consentire soltanto di scegliere fra due "colori" (bianco o nero, bene o male), ne deriva che non possiamo pensarci innocenti nei confronti del mondo vivente: finché per nutrirci avremo bisogno di tessuti provenienti da organismi dotati di una qualche forma di vita, non lo saremo mai.
Detto altrimenti, non ci possiamo sottrarre del tutto al compito di distinguere e dunque di discriminare non solo fra cosa e cosa, ma anche fra soggetto e soggetto. Ciò che fa la differenza allora non è la discriminazione in sé, ma la motivazione che ne è alla base.
Qualche via d'uscita, in questo specifico caso, c'è? Chissà...
Forse, dopo avere escluso gli animali dalla nostra alimentazione, dovremo scegliere di nutrirci non di tutti i vegetali indiscriminatamente, ma esclusivamente di specie viventi così “primordiali” nella loro struttura da essere sprovviste (quasi) totalmente della capacità di soffrire.
O forse è necessario che qualcuno, studiando la questione, ci spieghi bene quando un essere vegetale soffre; soffre forse se viene sradicato, ma non subisce danno se invece ci si limita a cogliere i suoi frutti? [non lo so: ipotizzo] - e allora dovremo nutrirci solo rigorosamente di bacche, noci, mele, ecc. (e non invece di cipolle, patate, carote, lattughe?).
[N.B.: ma d'altra parte, come si evince dalla lettura dei due post citati all'inizio, eccellenti studiosi dimostrano in maniera convincente che non si può legare la dignità di un essere vivente alla sola sua capacità di soffrire!]
Se inseguiamo un paradigma teorico, o una forma di vita, che ci renda “buoni” e “innocenti” in assoluto, forse andremo sempre fuori strada.
Mi viene in mente – a proposito del “cattivo uso” delle categorie etiche – il caso di una madre che voleva impedire alla figlia (già in età scolare, peraltro) di guardare in televisione documentari nei quali si vedessero animali carnivori come i leoni azzannare le loro prede erbivore. “Mia figlia si spaventa” diceva “vedendo la crudeltà di certe scene”.
Al di là delle considerazioni pedagogiche che un simile atteggiamento richiama – e che non mi competono – ritengo sia insensato continuare ad attribuire alla Natura, magari indebitamente personificata (e con la maiuscola!), qualità come la “bontà” o la “cattiveria”. Fra le specie viventi non umane, e a maggior ragione nell'àmbito di fenomeni “non organici” come i venti, le maree, ecc., non ci sono comportamenti “virtuosi”, “malvagi”, ecc.
Per usare le parole di Eduardo De Filippo, il mare, contrariamente a quanto pensa “la gente”, non è mai buono né cattivo: anche quando crea onde altissime, che ci fanno paura, sta semplicemente “facendo il mare”, niente di più; la qualifica di “cattivo” gliela attribuiamo noi indebitamente, perché lo costringiamo dentro le nostre categorie di giudizio umane.
E dunque, anche la scena del leone che azzanna la gazzella, ad es., non esprime la “cattiveria” del leone, ma solo la sua fame. Capire questo significa – da un altro punto di vista, parallelo e complementare a quello dell'antispecismo – combattere l'antropocentrismo dei nostri giudizi e comportamenti.
E, sempre perché non si può estendere la portata dell'etica oltre i suoi necessari confini, non è compito di alcuna teoria politica o sociale – e neppure di alcun movimento di liberazione – renderci tutti, come singoli, “finalmente” buoni, saggi, sinceri, trasparenti, generosi, ecc.
Mettendo in luce e poi gradualmente eliminando (del tutto o tendenzialmente) le contraddizioni sociali, l'oppressione, le discriminazioni ingiuste, lo sfruttamento, ecc., movimenti come quello dei lavoratori, o quello per l'emancipazione delle donne o, adesso, quello antispecista (ma anche molti altri), destituiscono di fondamento le giustificazioni storiche, politiche e sociali che hanno sorretto, nella coscienza diffusa, nella retorica pubblica, nell'ideologia, ecc., determinate forme di discriminazione, di oppressione e di sfruttamento, e – lungi dal modificare la “natura umana” (questa entità sfuggente) e dunque il ruolo delle scelte etiche del singolo – tolgono spazio e legittimazione agli alibi sociali o ideologici a cui i singoli soggetti fanno ricorso per dotare di senso condiviso determinate loro scelte.
Quando il singolo soggetto deve rendere conto del proprio comportamento socialmente ingiustificato, è posto di fronte alla nudità della propria scelta etica, e non può sfuggire ad essa, essendo mancante l'assenso “ideologico” della collettività.
Per fare un esempio estremo ma comprensibile: se pensiamo a società arcaiche (astratte, in questo caso, e quindi puramente ipotetiche) nelle quali il capofamiglia poteva personalmente uccidere sùbito dopo la nascita un figlio eventualmente gracile, deforme, e quindi non conforme alla propria idea di “prole”, quando esercitava tale prerogativa egli non commetteva un orrendo infanticidio, agli occhi della sua comunità. L'ideologia dominante di quest'ultima, infatti, sosteneva quel suo potere di vita e di morte; e anzi il capofamiglia, nell'atto di “sacrificare” la vita del figlio, non faceva che confermare il valore e il fondamento di una norma socialmente condivisa.
Quello stesso padre, catapultato nel mondo di oggi, se uccidesse suo figlio appena nato, commetterebbe in ogni caso un infanticidio, deprecato e condannato unanimemente dalla società, dall'etica, dalle leggi, dalla sensibilità comune, ecc.; e si troverebbe dunque solo di fronte alla nudità etica della sua scelta omicida, che – a differenza di quanto accadeva nella situazione “arcaica” prima ipotizzata – non confermerebbe né replicherebbe in alcun modo la validità di “un'eccezione” al divieto di uccidere socialmente ammessa e approvata, derivante dal “potere di vita e di morte” dei padri sui figli, oggi non più concepibile.
Eppure, oggi come ieri (per rifarci a questo esempio), ci sono padri che uccidono i figli (avviene molto raramente, certo: e ci mancherebbe!). Non è cambiata la “natura umana”, da questo punto di vista. Non siamo (mai, in nessun tempo) tutti quanti “buoni” e innocenti.
Ma ciò che è cambiato è politicamente e socialmente ben più importante di ciò che è rimasto immutato. Oggi un padre omicida – pur se compie lo stesso atto per il quale nella ipotetica società arcaica sarebbe stato considerato un “buon padre” – è penalmente, personalmente responsabile del suo grave atto: è dunque soltanto un essere malvagio, che deve rispondere di una sua scelta criminale individuale.
(Variante più vicina ai nostri tempi, anche se forse non ugualmente perfetta come parallelo: se un soldato uccide in un conflitto un nemico, rispettando le leggi di guerra, compie un atto doloroso e tragico, sì, ma giustificato dalle norme socialmente condivise.
Se quello stesso soldato, quello stesso identico uomo, finita la guerra, torna a casa e uccide qualcuno – magari con la stessa arma che usava da soldato – è “semplicemente” un assassino, che deve rispondere penalmente del suo crimine, come chiunque altro. Non è più quindi un “buon soldato” che ha difeso la patria – non ha quindi più la “copertura” dell'alibi sociale e collettivo – ma un essere moralmente malvagio, un singolo che è cattivo e dal quale la collettività deve dissociarsi.)
E così, un giorno, se l'antispecismo entrerà a far parte a pieno titolo del nostro modello di vita, chi sfrutterà o eserciterà oppressione su un essere vivente non potrà più appellarsi, per giustificare la propria condotta, a norme condivise di segno “specista”, e dovrà rispondere, allora sì, come singolo, della propria scelta moralmente riprovevole.
Ciao Ivaneuscar,
RispondiEliminainnanzitutto è sempre un piacere seguire i tuoi ragionamenti e riflessioni;
premetto che ancora non ho avuto modo di leggere le altre tue considerazioni perché in questi giorni non avrei potuto dedicarmici con la giusta attenzione che meritano (così come devo ancora leggere le altre replice all'articolo di Caffo), ma intanto ti lascio una breve replica a queste tue ultime.
Secondo me, come alla fine mi sembra di capire concordi anche tu, iniziando a parlare anche dei vegetali confondiamo troppo le cose e ci allontaniamo dal vero nocciolo della questione: intanto l'ecosistema è diviso in mondo animale (animali non umani ed animali umani), mondo vegetale, mondo minerale.
L'antispecismo nasce come teoria filosofica la quale, prendendo atto dell'orrore dello sfruttamento degli animali, cerca di opporvisi con ragionamenti logico-filosofici (e Caffo nel suo articolo ha riassunto tutta la storia dell'antispecismo, da Singer in poi, senza dimenticare che ci sono stati anche antecedenti letterari, ad esempio nei saggi di Tolstoj o nelle opere di alcuni anarchici, come è stato riportato in questo blog che seguo da un po': https://stregaa.wordpress.com/2012/03/18/tracce-di-antispecismo-nellanarchismo-classico/) .
Come suggerisce Regan nel suo I diritti degli animali, certamente il mondo tutto merita rispetto, ma di certo a noi interessa in questo momento storico riuscire a far passare appunto i diritti animali e metterci a parlare delle stalattiti e stalagmiti o delle pietre, dei cristalli ecc. sarebbe poco pertinente: sono anch'esse espressioni bellissime e meravigliose della natura e meritano attenzione e rispetto, ma non pertinenti all'oggetto dei nostri studi.
Né, appunto, possiamo applicare alla natura il concetto di malvagia e immorale, essendo, pure come asseriva Leopardi, semplicemente, "indifferente" alle sorti degli umani. Insomma, non è che quando piove e fa freddo qualcuno ci sta facendo un dispetto. :-D
I vegetali poi comunque non hanno un cervello come gli animali e nemmeno un sistema nervoso. E comunque bisogna sempre tener presente che uccidendo e mangiando gli animali si finisce per distruggere non so quante volte un totale in più di piante, visto che molti animali che finiscono nel piatto si nutrono proprio di vegetali.
C'è anche da tener presente che frutti ed ortaggi non devono essere strappati con violenza ad aggressione, cadendo appunto da soli quando sono maturi (anzi, i frutti e determinati ortaggi) devono essere colti, altrimenti marcirebbero. La pianta madre non muore. Quindi è un po' diverso il discorso rispetto all'uccisione di un animale, che è del tutto un individuo unico.
Buona parte della deforestazione, almeno nella foresta amazzonica, è causata dalla richiesta di sempre un maggior numero di pascoli per i bovini.
(continua)
E comunque, queste argomentazioni secondo me ci allontanano dal vero nocciolo della questione; io penso che si possa essere antispecisti solo tendenzialmente, anche perché tra una zanzara ed un essere umano è logico che - dovendo scegliere - salverei l'essere umano. Ma così è per tutto. Non si può essere un qualcosa al cento per cento.
RispondiEliminaPerò, e ora arrivo al succo di quello che vorrei realmente dire, prendere atto del fatto che non si può essere totalmente antispecisti, non dovrebbe mai e poi mai esonerarci dal fare ciò che oggi è nelle nostre possibilità fare, ossia diventare tutti vegetariani e vegani. Certo, l'economia ne riceverebbe un gran bello scossone, ma lentamente la produzione potrebbe venire riconvertita (come è già successo in passato con la rivoluzione industriale in cui tante attività sono venute meno, ma ne sono sopraggiunte altre).
Insomma... se è pur vero che tra la zanzara e l'uomo salverei l'uomo, questo non significa affatto che io ogni sera d'estate mi metta a sterminare ogni zanzara che trovo, al limite metto un dissuasore nella camera per evitare che mi pungano di notte (qualcosa che le tenga lontane), così come se non posso esimermi dal mangiare le piante, almeno però evito di uccidere gli animali.
A me sembra che a forza di voler trovare un modello perfetto e fattibile, inconfutabile ed effettivamente applicabile di antispecismo, intanto si trascuri la questione fondamentale che è quella che miliardi di animali in questo momento stanno subendo le pene e torture più atroci (ieri ho visto un video su allevamenti di mucche da latte e su allevamento di oche per la produzione di foie gras... che dire... allucinanti!).
Che fare allora? Come muoversi? Ecco, forse più che tentare di arrivare alla teorizzazione di un antispecismo perfetto, tenterei la via dell'ottenimento di questi famosi diritti alla vita - che oggi purtroppo non sembrano estendibili agli animali - ricordandoci che in passato appunto si era pensata la stessa cosa, ossia che non potessero essere estendibili, anche riguardo ai neri, alle donne e finanche ai bambini (non solo ai neonati, ma ai bambini anche più grandi; in fondo tutta l'attenzione e la cura per l'infanzia è un fenomento abbastanza recente, anche solo cinquant'anni fa i bambini non solo potevano essere picchiati e puniti in maniera deprecabile dai genitori, ma anche dagli insegnanti a scuola).
Una via civico-politica quindi, come suggerisci anche tu, ma non nel senso di adesione ad un'ideologia specifica già percorsa alla quale, per comodità, si possa aggiungere ed incollare anche la questione degli animali, ma pensata proprio specificamente per gli animali ed in questo senso davvero a-specista, ossia lontana da ogni visione antropocentrica perché in fondo il vero specismo è quello antropocentrico (ossia nel senso che l'essere umano rapporta e conduce tutto a se stesso).
Se dobbiamo pensare agli animali, prendere le loro difese, visto che non possono farlo da soli, che si pensi solo a loro. Uno specismo allora? Forse, ma a misura d'animale e non di uomo.
Un saluto. :-)
Ciao Biancaneve,
RispondiEliminanoto con piacere che ancora una volta hai colto il significato essenziale delle mie riflessioni :)
Trovo particolarmente importanti i passaggi in cui dici: "A me sembra che a forza di voler trovare un modello perfetto e fattibile, inconfutabile ed effettivamente applicabile di antispecismo, intanto si trascuri la questione fondamentale..." (e altri simili).
Infatti, dell'impostazione di Caffo mi ha convinto specialmente l'approccio piuttosto "pragmatico", col quale dimostrava che in fondo l'antispecismo nasce non per tutelare in astratto "le specie viventi" (come il termine antispecismo, se preso alla lettera, lascerebbe intendere - giacché si contrappone alla discriminazione fra "le specie", senza ulteriore... specificazione, è il caso di dire), ma quelle che, in virtù della loro particolare "prossimità" a noi umani (fuor di metafora: gli animali), sentiamo di dover liberare da sofferenza, sterminio, oppressione, sfruttamento.
C'è poco da fare, insomma: la "prossimità" è un elemento centrale del ragionamento antispecista; e come tentavo di dire in questo post, non penso ci si possa sottrarre alla necessità di fare distinzioni, specificazioni. Anche perché - volendo riprendere il tuo ragionamento - per tentare di salvare tutto (vegetali, animali, e magari rocce, oceani, ecc.) attraverso la chimera di una teoria "onnicomprensiva" (che forse come tale non esisterà mai), rischiamo di non riuscire a "salvare" niente.
Il percorso di liberazione - che certo in prospettiva (io me lo auguro) può arrivare ad abbracciare tutto l'ambiente - deve cominciare dagli esseri a noi più vicini (si torna sempre lì, facciamocene una ragione...); e quindi, come tu dici, la questione centrale *ora* (in questo momento storico) è quella degli animali. Solo dopo, quando eventualmente lo "specismo" a danno delle specie animali sarà stato superato, si potrà procedere con ulteriori passi, magari, chissà.
Intanto, potrebbe avere un senso proporre comunque (come dicevo nel post) una tutela parallela a quella spettante agli animali, ma meno profonda ed "esigente" (sulla base delle diverse "specificità"), anche al resto del mondo vivente "non-animale".
In sostanza, quindi, mi piace la tua dichiarazione finale, perché la considero una bella risposta ai quesiti che ponevo: "Se dobbiamo pensare agli animali, prendere le loro difese, visto che non possono farlo da soli, che si pensi solo a loro. Uno specismo allora? Forse, ma a misura d'animale e non di uomo."
Biancaneve, prendo spunto ancora dal tuo commento per aggiungere qualcosa che mi premeva chiarire (anche se forse traspare già dai miei post).
RispondiEliminaSono perfettamente d'accordo quando dici: "io penso che si possa essere antispecisti solo tendenzialmente, anche perché tra una zanzara ed un essere umano è logico che - dovendo scegliere - salverei l'essere umano. Ma così è per tutto. Non si può essere un qualcosa al cento per cento."
Ecco, infatti - come dicevo sinteticamente in uno dei miei primi post, che si può trovare sotto la voce "Intransigenza" - io temo e ho sempre temuto certe forme di "intransigenza" teorica, volte alla ricerca della "purezza" e dell'"assoluto", che nella realtà sono introvabili, ricerca che di solito conduce solo in vicoli ciechi.
La "critica intransigente", che punta ad abbattere "interamente" l'assetto della società, non salvandone nessun "pezzetto" (come se nella realtà non ci fosse niente da salvare, niente a cui aggrapparsi), in realtà conduce, nel suo eccesso di zelo, alla paralisi (dell'azione, delle prospettive e alla fine anche delle speranze).
Si può mettere in pratica un'idea di solito solo "tendenzialmente", giacché di fatto, per quel che si è detto, non può probabilmente esserci un "comportamento" antispecista che sia tale al cento per cento (la teoria sì, la teoria, a differenza delle pratiche calate nella concretezza dei rapporti sociali, nella sua capacità di volare "libera" nel mondo del pensiero, può scorgere "purezze" che nella realtà sono inattingibili). E ciò che si può dire dell'antispecismo, in proposito, si può dire anche di altre teorie.
Secondo me, poi, bisogna anche evitare di confondere questo atteggiamento di "prudenza pragmatica" col "moderatismo": essere "moderati" significa adagiarsi, crogiolarsi nell'esistente (salvo concedere qualche minima modifica del "sistema" qua e là, che non turbi gli equilibri esistenti); invece aderire a una teoria di cambiamento "radicale", ma tenendo ben presenti le difficoltà di tradurla in termini "puri" nel corpo vivo della realtà sociale (e dunque non pretendendo che - irragionevolmente - la realtà si adatti interamente alle nostre pretese astratte e intransigenti), è cosa ben diversa.
Il "moderatismo" non mi piace; ma - a differenza di certi "intransigenti" della rivoluzione (astratta, sempre), pronti a dare lezioni a tutti, che talvolta ho incontrato nella vita - non lo confondo con quella "prudenza pragmatica" di cui parlavo, che forse qualche volta alcuni risultati (anche radicali!) può portarli a casa.