Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

giovedì 28 giugno 2012

Ma la chiarezza fece rumore (raccontino "fantapolitico")


Questa vicenda dello “spread” che, col suo imprevedibile oscillare, fa impallidire gli esperti e vacillare i governi, mi ha suggerito un raccontino di “fantapolitica”, nel quale finalmente esiste una “bocca della verità” che mette istantaneamente a nudo le incapacità di governanti ai quali gli elettori avevano dato troppo credito.

Lo “spread” nella realtà (condizionato com'è da umori incomprensibili e perfino cinici) non è adatto a ricoprire questo ruolo “prestigioso” di deus ex machina che ci liberi dai disastri che disinvolte retoriche riescono per troppo tempo a celare, però per un breve periodo ha – suo malgrado – svolto almeno la funzione di “controfigura” di questo comprimario desiderato e assente, suggerendocene così l'urgente necessità...


§

Si sapeva che quel giorno la Prodigiosa Macchina sarebbe stata pronta per offrire finalmente il suo inconfutabile responso. Varie prove di laboratorio avevano attestato ormai, senza lasciare spazio ad alcun residuo dubbio, che era capace di verificare all'istante la fattibilità di qualsiasi progetto o ipotesi o programma di lavoro, calcolando ogni possibile variabile, e comparando con stupefacente rapidità, sul breve e sul lungo (persin lunghissimo) periodo costi e benefici – includendo non solo quelli puramente economici ma persino quelli sociali.

Tuttavia in certi ambienti, dove si è allenati ad esercitare influenza, non si dà troppo credito alle innovazioni, o meglio le si considera sempre “addomesticabili”, adattabili alle proprie “sovrane” necessità. Sicché all'appuntamento con l'Epocale Verifica, reclamizzata da tutti i mezzi d'informazione, i due leader di grido, soprannominati “Do” e “Re” (come le due note musicali, non si sa bene perché), giunsero come di consueto impettiti e spavaldi. Niente sembrava impensierirli, erano certi che ancora una volta avrebbero dominato l'arena dell'opinione pubblica, incantando, come tecnologici serpenti, le telecamere, e attraverso queste, i propri sostenitori e simpatizzanti.

Se qualcosa preoccupava Do e Re era quel continuo calo di consensi che da qualche tempo i sondaggi mostravano; per la prima volta, anzi, i consensi di Do calavano esattamente quanto quelli di Re. Un tempo, invece, se cresceva il consenso per l'uno, calava quasi automaticamente il consenso dell'altro. Adesso non più; adesso qualcosa si era inceppato: non si capiva più dove migrassero gli scontenti, dove portassero il loro sostegno. Era questo l'unico tarlo che scavava nel pensiero dei due leader di grido.

Cos'era successo ai loro sostenitori? Si erano stancati di promesse favolose che ogni volta, ad elezioni terminate, venivano bruscamente ridimensionate? Forse qualche volta ci si era spinti a promettere che dalle fontane cittadine sarebbero sgorgati fiumi di vino e di birra, o che finalmente tutti avrebbero avuto il posto che meritavano in società in base alle loro qualità e aspirazioni, e senza favoritismi... Ma si sa, fa parte del gioco promettere tanto... la gente aveva sempre capito che un margine di esagerazione c'è, suvvia... non si era mai rabbuiata per “qualche” promessa audace che poi non era stata mantenuta.

Forse il vento stava cambiando, e non bastava più agitare una bandiera dai colori decisi per catturare i favori delle masse?

No, questo non poteva essere, ragionavano all'unisono Do e Re. Certe cose non cambiano così facilmente; le folle che scandivano commosse i loro nomi non potevano aver mutato testa in così poco tempo. La gente li amava, li adorava, voleva addirittura toccarli: Do e Re lo sapevano bene, avendo dovuto varie volte, specialmente in occasione dei comizi, sottrarsi all'entusiasmo eccessivo e frenetico dei loro caldi sostenitori.

Senz'altro il calo dei consensi era una faccenda temporanea – ne erano convinti – ma comunque bisognava far qualcosa per mostrare ai milioni di cittadini che non si stava con le mani in mano, e che si pensava sempre a loro, notte e giorno, come i “bravi leader” sanno fare.

Pur non essendosi consultati, in quanto rivali, entrambi erano convinti che questa Epocale Verifica, organizzata forse soprattutto per fare spettacolo, sarebbe potuta essere la Grande Occasione per riconquistare consensi, almeno per uno di loro (e ciascuno dei due ovviamente si augurava di essere il favorito).

Nei camerini dell'Importante Canale Televisivo vennero accuratamente incipriati come signori d'altri tempi e, quasi vedessero riflesso in quelle attente manovre l'alone eterno e dorato del potere, le loro (lievi) incertezze svanirono e i due leader di grido iniziarono a gonfiare i petti, preparandosi alla frizzante tenzone. Già la loro voce si faceva sicura e sprezzante, e trattavano i tecnici e i truccatori come umili comparse della vita, che avrebbero dovuto ringraziare la sorte per aver avuto il dono inaspettato di condividere per pochi attimi con simili Grandi l'aria che questi ultimi avevano respirato.

Sulle comode poltrone dello studio televisivo, i Grandi suddetti vollero essere illuminati con la luce migliore, affinché il dorato alone risaltasse con l'evidenza che meritava.

«Alle ultime elezioni io ho avuto quattordici milioni di voti. Io! Quattordici milioni! Tutti miei!» sussurrò Do, come a voler ricordare a se stesso ed al rivale la propria potenza, prima che il match cominciasse.

Per tutta risposta, Re scosse la testa, per nulla intimorito:
«I sondaggi ti dànno in calo. E comunque io alle ultime elezioni ho avuto ben dodici milioni di voti, che non sono bruscolini, e lo sai bene... e quel che più conta, i sondaggi mi dànno ora per favorito. Règolati un po' tu...»

«Io ti sopravanzo sempre e comunque» ridacchiò Do. «Anzi, il miglior sostegno al mio consenso sei tu, perché gli elettori indecisi non si fideranno mai di te, e preferiranno sempre me, persino quelli che non mi amano troppo. E fino a prova contraria, io rappresento ancora quattordici milioni di elettori. Io da solo, capisci? Io sono quattordici milioni di cittadini, io quindi sono la nazione intera

Nel tono di tali parole, come del resto nel viso di chi le pronunciava, si leggeva un'esaltazione che aveva perso da tempo ogni freno e ogni senso del limite.

Re scosse nuovamente la testa, con un leggero sorriso, ma Do si accorgeva che sotto quella sbandierata noncuranza il rivale non riusciva ancora a nascondere la ferita dello sconfitto. Rincarò quindi la dose, a mo' di pretattica, pregustando già una vittoria clamorosa in quella Epocale Verifica.

«Quando parlo io» mormorò Do, implacabile, «è tutto il popolo che parla, capisci? Insomma, quando parlo io, non sono veramente io a parlare, ma un'intera nazione, ed è una sensazione che non ha eguali... Ho avuto il mandato per governare alle ultime elezioni, e sai cosa significa? Che quando io e il mio partito prendiamo una decisione, è la decisione del popolo, mica la nostra.»

«Ah sì? E fammi capire una cosa: quando qualcuno di voi intasca qualche mazzetta, è il popolo che la intasca?» insinuò Re, sapendo di toccare un tasto delicato, che avrebbe di certo fatto innervosire il rivale.

«Sappi» fece Do mutando voce «che chi manca di rispetto a me e ai miei, manca di rispetto al popolo. La mia persona in sé non conta nulla» aggiunse ostentando umiltà, «io non mi difenderei neppure dalle insinuazioni, se riguardassero solo me, ma quello che non posso tollerare è che attaccando me e il mio partito in realtà si attacca e si offende tutto il popolo. Infatti io rappresento il popolo...»

«L'hai già detto» ironizzò Re.

«E' inutile che fai il sarcastico! Tu vorresti stare al mio posto, altrimenti non saresti qui stasera, a sfidarmi...»

«Potrai resistere al massimo ancora un mese, il Paese è in crisi e lo sai... e il tuo governo non se la passa molto bene, con tutte quelle dimissioni di ministri» puntualizzò Re.

«E' solo una fase passeggera, non illuderti. Il popolo ha sempre avuto fiducia in me, e ne avrà ancora, fìdati» dichiarò Do.

«Ma tu non sai come risolvere i problemi del Paese, e il tuo bluff ormai è bell'e scoperto. Non vai molto lontano, te lo dico io.»

«Invece ho ancora un asso nella manica... anzi, tanti, tanti assi... così tanti da stenderti tramortito. Tu e il tuo partito sarete messi al tappeto, e non vi rialzerete più!»

Re era sul punto di replicare, quando il Conduttore della Trasmissione li interruppe:

«Signori, siete pronti? Fra pochi secondi andiamo in onda...»

Lo sguardo dei due leader si accese di tensione, e quando il Conduttore, terminati i convenevoli, diede loro ufficialmente la parola, le schermaglie occuparono la scena.

Do fece numerose promesse agli elettori, e Re, individuati i punti deboli del suo discorso, li mise allo scoperto.

Do, irritato, invitò l'avversario a parlare del suo programma. Re con voce impostata fece a sua volta alcune promesse, e Do lo interruppe a sorpresa, sostenendo che erano irrealizzabili.

Il battibecco si fece scoppiettante, e le voci dei due leader di grido più volte si accavallarono. Si arrivò persino ad accuse personali e furono sfiorati gli insulti.

«Signori, signori» li fermò ad un tratto il Conduttore, «non vi accapigliate, per favore... forse dimenticate che stasera finalmente abbiamo una novità decisiva: la Prodigiosa Macchina, che vi saprà dire all'istante, con tanto di cifre e statistiche, quante delle vostre promesse sono credibili e realizzabili.»

Do, ancora infervorato per la discussione, sogghignò, come volesse intendere: “Ci vuol altro per intimorirmi! Io sono il popolo, figuriamoci...!”

Il Conduttore sembrò cogliere quell'espressione sul suo viso, tanto che commentò:

«Lei è scettico, per caso? Penso invece che resterà meravigliato... Mi sento addirittura di aggiungere che forse è finita un'epoca. Eh già» continuò, rivolgendosi con professionale disinvoltura alle telecamere, «finora, come tutti voi sapete, si è rivelato difficile, anzi – diciamolo pure – molte volte impossibile individuare con chiarezza e in maniera inoppugnabile gli errori, le cantonate e le bufale che si nascondevano nei discorsi dei politici e nei programmi di governo, e anche nelle decisioni di questa o quella maggioranza parlamentare, di questo o quel leader. Adesso invece l'epoca della vaghezza e dell'approssimazione è finita. Del resto solo i furbi d'accatto possono rimpiangerla, credo che su questo sarete tutti d'accordo con me...»

Re, che forse si rendeva ben conto delle conseguenze di un tale cambiamento, impallidì, e c'è chi lo sentì mormorare:

«Ma è terribile, se è davvero così!»

Do al contrario rimaneva spavaldo, col suo inamovibile sorriso di sfida impresso sulla faccia.

«Ma ha capito bene la posta in gioco?» lo interpellò il Conduttore. «Ha capito che se putacaso racconta una fandonia, o propone una misura economica o legislativa catastrofica o inapplicabile, viene sbugiardato all'istante, senza possibilità di equivoco, dalla Prodigiosa Macchina? Ha capito che non c'è più ambiguità che tenga? E soprattutto» aggiunse il Conduttore, rivolgendosi a entrambi i leader, perché prestassero la dovuta attenzione, «signori, avete capito che si può risalire adesso con certezza all'autore di ogni minima decisione disastrosa, e chiedergliene conto e ragione, e che quindi non ci si può più fare scudo delle solite scuse, come “è colpa dei governi precedenti, io non c'entro”, oppure: “il mio programma avrebbe funzionato se solo non ci fosse stata la crisi”?»

Re sembrò impallidire ancor più; Do se ne accorse, e non gli parve vero di poter approfittare della confusione dell'avversario per segnare un punto facile a proprio favore. Chiese quindi la parola e con aria sicura sentenziò:

«Io sono il primo a rallegrarmi di queste novità, che finalmente faranno chiarezza nel quadro politico... il mio avversario non sembra del mio stesso parere» - frase quest'ultima che pronunciò ridacchiando compiaciuto, e proseguì: «Io sono certo che i miei elettori continueranno a sostenermi, perché sanno che mantengo la parola.»

«Quindi non ha paura di questo confronto?» gli chiese il Conduttore.

«Assolutamente no.»

Fino a quel momento, l'ostentare tranquilla sicurezza era stata una carta vincente di Do, che quindi continuò a utilizzarla.

«E lei?» fece il Conduttore, rivolto a Re.

«Il mio caro avversario si sbaglia sul nostro conto» disse l'interpellato, con la fronte sudata. «Noi non abbiamo paura delle novità, se sono per il bene del popolo...»

«Lascia stare il popolo, tu non ne puoi parlare... il popolo sono io, visto che ho quattordici milioni di voti, dico: quattordici» fece Do sottovoce, per innervosire Re.

«Non vantarti troppo, il potere è sempre una cosa temporanea: oggi ce l'hai e domani no... e poi chi ti dice che quei milioni di voti sono ancora tuoi? Andiamo alle elezioni e vediamo» lo sfidò Re.

«Signori, prepariamoci» li interruppe il Conduttore: «è il momento della verità.»

Le luci calarono nello studio televisivo, e un silenzio che sembrava elettrico, attraversato com'era dall'attenzione e dall'emozione generale, s'impadronì dell'ambiente, e anche di molte case nelle quali gli occhi dei cittadini osservavano quel che accadeva sullo schermo.

Il Conduttore invitò quindi Do a pronunciarsi, e il leader snocciolò con scioltezza il programma del suo partito per «risolvere la crisi e rilanciare l'economia» (quante volte nel mondo questa frase era stata già udita invano!).

Fu poi la volta di Re, il quale sembrò inizialmente più impacciato, ma poi, preso l'avvio, guardò dritto nella telecamera e illustrò la ricetta del suo partito per... indovinate? Ma sì: per «risolvere la crisi e rilanciare l'economia», perbacco!

La Prodigiosa Macchina, che comprendeva il linguaggio umano, aveva incamerato ogni parola, ogni sillaba pronunciata solennemente dai due leader di grido e, sollecitata dall'Esperto Professore che l'aveva ideata e realizzata, elaborò i dati. Il pubblico nello studio televisivo, e in milioni di case, attendeva...

Si udì finalmente un suono elettronico – un suono gradevole, morbido, carezzevole; e subito dopo la Prodigiosa Macchina – che sapeva anche parlare, benché con una cadenza meccanica e monotona – pronunciò parole chiarissime, inequivocabili, che con tono di limpida sincerità, che forse solo una macchina come quella, priva di ogni interesse nei confronti delle passioni umane, poteva permettersi di avere, misero a nudo l'impreparazione, l'avventatezza e il pressapochismo di entrambi i leader di grido.

I loro programmi, dimostrò la Prodigiosa Macchina con una precisione che lasciava senza fiato, e al tempo stesso con una semplicità tale da farsi comprendere da chiunque, non solo non erano all'altezza della situazione, ma se fossero stati applicati alla lettera avrebbero danneggiato irreversibilmente l'economia del Paese.

Re, annichilito dalla figuraccia, balbettò qualcosa che si poteva intendere come:
«I nostri esperti hanno sbagliato... mi avevano assicurato che il nostro era il programma perfetto per salvare l'economia... Hanno sbagliato loro, non io! Non io, credetemi! Ma li cambierò, ve lo giuro! Li manderò via, li caccerò a calci dal partito! Ne consulterò altri, più bravi di loro...»

Ma i fischi del pubblico in sala non gli consentirono di farsi comprendere.

Do invece non voleva darsi per vinto.

«E' un tranello, è una trappola mediatica!» esclamò bilioso. «Sicuramente le mie parole sono state travisate, quella macchina è al servizio dei poteri forti, non è attendibile.»

Anche lui però conquistò la propria dose, alquanto massiccia, di fischi e di «buuh!» del pubblico.

«Pubblico prevenuto! Pubblico venduto!» sbraitò. «Scommetto che nessuno di voi è un mio elettore, quindi non mi potete giudicare! Io sono il popolo. Capite? Il popolo!»

I fischi si fecero più forti, quasi assordanti.

«Il popolo sono io, non siete voi!» si accalorò Do, arrivando a un passo dal delirio. «Impostori! Il popolo non siete voi! Solo io, in quanto popolo, potrei al limite contestare me stesso, voi non siete i miei quattordici milioni, dunque non siete nulla, non esistete nemmeno!»

I fischi divennero rabbiosi e tenaci, e coprirono ogni parola pronunciata in studio, tanto che i responsabili dell'Importante Canale Televisivo dovettero sospendere la trasmissione.

Fin dal mattino seguente, nel partito di Re cominciò ad accendersi un furioso dibattito sulle colpe della figuraccia in diretta televisiva; ci fu chi condannò sommariamente il leader, addossandogli ogni responsabilità, e chi lo difese a spada tratta, con o senza validi argomenti. Ma quanto più la discussione si accendeva e si scaldava, tanto più sembrava avvitarsi su se stessa come una trottola incapace di fermarsi. Come sempre, nel partito ci si immaginò di poter allontanare, con una titanica corale analisi, il momento di accertare le responsabilità. Quanto a Re, si ammalò – o così ufficialmente si disse – e si ritirò dalla scena, in attesa di trovare un successore.
«La Macchina non ci ha capiti» esclamò sconsolato un noto intellettuale vicino al partito.
«E' perché – diciamocelo schiettamente – non ne ha le capacità» gli fece eco un altro, notoriamente acido.
«Questo non puoi dirlo» lo corresse un terzo, con l'aria da professorino.
«E perché non posso? Non è politicamente corretto?» ridacchiò (senza gioia) l'acido.
«No, perché è una tesi alla quale non crederebbe nessuno. Non ci è di nessun aiuto, anzi dire una cosa simile può soltanto farci perdere altri voti... e non ce lo possiamo permettere.»
«Ma io me ne frego dei voti, dei consensi... è per questa stupida ossessione che siamo ridotti così!»
«Ma davvero? E allora perché partecipiamo alle elezioni? per perdere, magari? Ci diverte tanto?»
«Bisogna fare come me, essere controcorrente, ad ogni costo! Così adesso io, a differenza di te e degli altri, posso permettermi di dire che quella Prodigiosa Macchina è l'ennesima stupida infatuazione collettiva, che non capisce un tubo e spara sentenze a casaccio. Ve le bevete voi, io di certo no!»
«Va bene, con te è inutile parlare. Anche ammesso che sia come dici tu, la Macchina ora c'è, e con quella bisogna fare i conti, che ci piaccia o no...»
«Sì, forse qui sta la questione: dobbiamo rapportarci col linguaggio della Macchina» fece l'intellettuale che inizialmente era sconsolato, «i tempi vanno in questa direzione, e noi dobbiamo intercettarli...»
«Ma cosa dici? Intercettare cosa?» s'inalberò l'acido. «Ci stanno incastrando per l'ennesima volta, e voi qui a parlare e a perdere tempo...»
«Perché, tu invece cosa fai, oltre che parlare?»
(Inutile precisare che parlarono ancora a lungo.)

Nell'altro “campo” del resto non andava meglio. Il consenso verso Do dalla sera della Epocale Verifica cominciò a crollare miseramente; il leader di grido arrivò a perdere ogni giorno sistematicamente il 5%; il suo partito si diede da fare per porre riparo all'emorragia, cercando di far dichiarare «incostituzionale» la Prodigiosa Macchina, e contemporaneamente provando ad accreditare la tesi del “complotto mondiale” contro il “saggio, meraviglioso” leader. 
Una brillante penna di partito provò a sostenere l'esistenza di un «diritto alla menzogna», vero indicatore di una società «sana e libera», che può «sognare e illudersi», non essendo schiacciata dalla «brutalità insipida della realtà», e scrisse persino che erano i cittadini stessi a chiedere in fondo che per il loro bene non si umiliassero le loro speranze «indicandone il limite, con indicibile e irriguardosa volgarità», come faceva quella «invereconda, stucchevole Macchina, con la sua odiosa chiarezza e la sua disumana precisione, degna di miglior causa» (“miglior causa”, già: e quale, per esempio? - veniva spontaneo domandare).
Un giornale finanziato dal partito di Do pubblicò poi – a dispetto dei test di laboratorio considerati validi dall'intera comunità scientifica, attestanti il perfetto ed efficace funzionamento della Prodigiosa Macchina – un dossier che tendeva a dimostrare, attraverso oscuri “documenti esclusivi e riservati”, come l'Esperto Professore non fosse altro che «un agente provocatore al soldo di poteri occulti» e come di conseguenza la sua Macchina non fosse che uno «spaventoso imbroglio», un «cavallo di Troia» mirante a sovvertire gli equilibri politici «in nome di interessi inquinati e inquinanti».

Ma questa volta gli elettori preferirono credere ai test di laboratorio e alla comunità scientifica, piuttosto che all'esistenza degli «occulti» poteri; e il consenso di Do calò, calò, senza che nessuno più riuscisse a fermare quella discesa tanto rapida e in picchiata da apparire irreale. Anzi, appena rimise il naso fuori di casa, Do trovò ad accoglierlo una folla dai volti seri e duri; cercando di mantenere il suo tono sicuro di sempre, il leader si fece avanti, sorridendo, come se volesse dialogare, ma uno dei cittadini lo fermò con un gesto impaziente della mano e disse:

«Onorevole, il popolo di cui lei tanto parla non può concentrarsi in una sola testa, perché ci starebbe un po' stretto, non le sembra?»

Così dicendo, il cittadino additò la folla che era intorno a lui; il leader di grido in quel momento notò che si trattava di una folla sterminata, immensa, che occupava la strada – una delle vie più importanti della capitale – per tutta la sua lunghezza, sino all'orizzonte e forse oltre.

Do, che stava per dire qualcosa, per la prima volta nella sua vita sentì di non avere una risposta adatta; così si limitò ad annuire, pensoso, a testa bassa.

§

[Trattandosi di un'opera di fantasia, ogni eventuale riferimento ad avvenimenti, vicende, persone e personaggi della realtà è da considerarsi puramente casuale.]

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