Non intendo
parlare in realtà della sentenza dell'Aquila [per i dettagli vedere ad es. qui e qui], della quale molto
si discute in questi giorni, anche perché evito per principio di
addentrarmi in casi specifici [poiché a) è inopportuno
improvvisarsi giudici ed entrare nel merito di una questione della
quale per forza di cose si conosce molto poco, ovvero solo i dati che
i media divulgano; b) spesso la discussione sul caso singolo
fa perdere consistenza alla “visione d'insieme”, sociale,
politica, ecc., di un problema, che mi interessa molto di più], però
prendo quel caso e la conseguente discussione come spunto per fare
alcune riflessioni che mi stanno a cuore su un tema forse “attiguo”
e “collaterale” (o forse importante per il caso stesso che ha
suscitato il dibattito... chissà, giudichi il lettore).
Meditavo
infatti in questi giorni intorno a questa domanda che mi pongo e che
porrei a qualunque interlocutore interessato: Quale ruolo devono
avere gli scienziati nell'arena pubblica? (E per arena pubblica
non intendo ovviamente il loro ruolo specifico di ricercatori e
scienziati, ma lo spazio nel quale si prendono decisioni
di rilevanza pubblica e/o si influisce
autorevolmente sulle decisioni medesime).
Ma
quella domanda a mio avviso è strettamente collegata a quest'altra,
non meno importante: Che cosa ci aspettiamo noi
(intesi come “pubblico” di cittadini) dalla scienza e dagli
scienziati, studiosi, esperti, ecc.?
E
forse, per dare alla prima domanda una risposta che abbia un minimo
di senso, bisogna partire dalla seconda.
Cosa
chiede in effetti la “platea” dei cittadini alla scienza e agli
esperti?
A
mio parere, nella maggior parte dei casi, ci rivolgiamo alla scienza
e agli esperti per avere certezze,
punti fermi.
Se
così è, dobbiamo però chiederci: può la scienza darci davvero e
in ogni caso le
certezze che vogliamo
e cerchiamo? E' questa la sua vera funzione o “missione”?
E'
vero che la ricerca scientifica ha il compito di colmare gli
innumerevoli “vuoti” del sapere e della conoscenza che ci
portiamo dietro da sempre, e ha quindi la “missione” di svelare
la soluzione di enigmi in questo o quel campo (talvolta sfatando
leggende anche di vecchia data, come la teoria dei “quattro
elementi” o quella della “generazione spontanea”), ma questo
non vuol dire che la ricerca abbia in sé tutte le risposte
e tutte le certezze
che a volte le chiediamo o addirittura da essa pretendiamo.
La
ricerca scientifica ha portato e porta tuttora benefici in termini di
miglioramento della qualità della vita, ma soprattutto ha imposto,
perlomeno da Galileo in poi, un nuovo sguardo sulla realtà, un nuovo
atteggiamento (anche collettivo, sociale), del tutto in antitesi col
vecchio principio di autorità in base al quale si riteneva un tempo
che pochi antichi “saggi” avessero già scoperto le “verità”
importanti, che bisognava solo commentare e interpretare e giammai
confutare e/o contestare. Lo sguardo “scientifico” sul mondo e
sulla realtà ha implicato quella che si potrebbe definire la
rivoluzione della verifica
(che si collega strettamente al diritto di confutazione
delle presunte “autorità”,
antiche o non): non possiamo arrivare a stabilire alcuna certezza
se non adottando un complesso metodo (che dai tempi di Galileo si è
andato sempre più affinando) mediante il quale si sottopone
qualsiasi ipotesi a verifica sperimentale. Ed è solo dopo tale
verifica che l'ipotesi può trasformarsi in una certezza,
la quale però – si badi – non è mai in sé definitiva né
inconfutabile, giacché
può essere a sua volta rimessa in questione, in tutto o in parte, da
nuove ipotesi scientifiche suffragate da nuove accurate verifiche
sperimentali.
La
ricerca scientifica insomma, se è veramente tale, non ha certezze
definitive da offrire, bensì
traguardi provvisori.
Illumina numerosi aspetti della realtà che fino a poco prima erano
oscuri, enigmatici o addirittura ignoti, tuttavia la “luce” che
essa offre è simile a quella di una buona torcia, talora persino a
quella di un potente riflettore, ma non si può mai paragonare a
quella piena del sole splendente in un cielo limpido. Non può
insomma trasformare la notte in giorno, anche se può illuminare la
“notte” del nostro sapere in maniera egregia (e col tempo può
aumentare l'intensità della propria luce e il campo delle cose che
illumina).
La
scienza – non dovremmo dimenticarlo – è cosa “umana”,
sottoposta ai limiti costitutivi dell'umano (limiti non “assoluti”
e non certo definiti una volta per sempre, giacché si modificano
magari nel tempo proprio grazie alla conoscenza e all'esperienza, ma
pur sempre limiti);
non possiamo chiedere perciò che si faccia “sovrumana” per
venire incontro al nostro bisogno di rassicurazione.
La
consapevolezza dei limiti della scienza, a mio avviso, dovrebbe
diventare parte della nostra coscienza civile; ma non è solo il
cittadino “comune” a dover rendersi conto che le sue richieste
nei confronti della scienza non possono essere “irragionevoli”.
Dopo
aver risposto alla seconda domanda, si può in effetti affrontare la
prima.
Se
è giusto che i cittadini sappiano di non poter chiedere sempre
rassicurazioni e certezze “assolute” alla scienza e agli
studiosi, è altrettanto giusto che i decisori politici
e gli studiosi stessi evitino
di fornire certezze nei casi in cui la scienza può fornire solo
probabilità.
Ritengo
che si debbano sempre nominare le cose col loro nome appropriato: le
certezze vengano pubblicamente definite certezze (laddove lo sono
davvero) e le probabilità siano definite pubblicamente probabilità.
E
quando il decisore
politico
(sindaco, assessore, ministro, funzionario, ecc.) chiede allo
studioso di dargli
certezze
perché vuole rassicurare i cittadini, lo studioso a mio avviso non
dovrebbe essere tenuto a cedere alle ragioni dell'ordine pubblico,
giacché forse non è quello il suo compito; se sotto il profilo
scientifico non v'è certezza circa il futuro verificarsi di un
determinato evento, lo studioso dovrebbe a mio avviso sottolineare il
semplice grado
di probabilità
dell'evento stesso (ammesso che sia determinabile nel caso specifico)
e soprattutto rifiutarsi
di fornire
certezze, in un senso o in un altro, se certezze scientifiche non vi
sono.
Sia poi il decisore
politico
ad assumersi per
intero l'onere e la responsabilità della decisione,
dal momento che il suo specifico compito è quello.
Se
quindi poi, nonostante i dati corretti forniti dallo
studioso/esperto, il decisore politico inventasse per ragioni
“politiche” o di ordine pubblico (malinteso) una certezza
che non c'è,
dovrebbe essere chiamato successivamente a rispondere in prima
persona di tutte le conseguenze derivanti da quella sua “invenzione”.
C'è
anche un caso più sottile: ad es., quando si discute dell'influenza
di determinati fattori (legati all'inquinamento, come le immissioni
di determinate industrie o le onde elettromagnetiche, ecc.) sulla
diffusione di determinate patologie, spesso gli esperti dicono che
non ci sono ricerche che confermino che vi sia una connessione tra il
“fattore sospetto” (inquinamento, ecc.) e la patologia. Alcuni di
loro, partendo da questo inoppugnabile dato di fatto [che chiamerò
per comodità discorsiva “affermazione A”], si spingono però a
dire che siccome
non c'è la prova della connessione,
bisogna agire, allo stato delle cose, come
se
quella connessione non
potesse effettivamente esserci né potesse mai essere provata
[“affermazione
B”].
Se
però c'è il fondato sospetto (di fronte a dati statistici
allarmanti, ad es.) che quella connessione (tra fattore di rischio e
patologia), pur non provata al
momento
scientificamente, ci sia, perché mai i cittadini dovrebbero
attenersi alla “affermazione B” dell'esperto che è basata su
un'inferenza del tutto discutibile e soggettiva dell'esperto medesimo
(a differenza dell'“affermazione A”, rigorosamente scientifica) e
non invece a considerazioni prudenziali come la seguente: “Bene,
non ho la prova scientifica della connessione, ma poiché è molto
probabile che prossime ricerche la accertino, io evito per quanto
possibile di espormi alla fonte del rischio e/o faccio di tutto
perché le ricerche vengano continuate e approfondite e il pericolo
venga pubblicamente messo in rilievo”?
Nell'esempio
qui fatto, è l'esperto stesso che, probabilmente per non “creare
allarmismi”, confonde la risposta sul merito scientifico della
questione, che gli compete (“affermazione A”), e la prescrizione
di un comportamento
(“affermazione B”) che – pur presentato come l'unico corretto –
è di fatto discutibile (pur potendo essere in astratto ragionevole);
ed è discutibile proprio perché non è l'unica conseguenza
ragionevolmente ricavabile dalla certezza “minimale” presentata
dall'esperto nella sua “affermazione A”.
Se
infatti una certezza del nesso fra causa ed effetto (ad es.,
inquinamento in una data zona e aumento dei decessi per una
determinata patologia) oggi
non c'è
(come si ricava dall'“affermazione A”), ciò non esclude comunque
che, dati i gravi indizi già esistenti (alta mortalità nella zona a
causa della patologia X), domani
o in un futuro non lontano questa certezza (o una probabilità alta
che si approssimi maggiormente alla certezza), sulla base di nuovi
studi e migliori cognizioni scientifiche, ci sia.
E
allora, se io, Tizio, ad es. ho figli ancora piccoli, potrò e/o
dovrò agire in base alla prescrizione derivante dall'“affermazione
B” dell'esperto, e quindi tenermi tranquillamente l'inquinamento
senza minimamente protestare in virtù del fatto che oggi, sulla
base delle conoscenze finora acquisite,
non posso riconoscerlo come causa certa del pericolo di patologie? O
non dovrò/potrò piuttosto, come genitore di bambini piccoli,
comportarmi secondo una prudenza maggiore di quella che la semplice
“dichiarazione degli esperti” mi suggerisce, anzi velatamente mi
prescrive?
Devo
insomma stare passivamente ad aspettare che la patologia grave X
colpisca anche me o la mia famiglia, sol perché “oggi la scienza
non è certa” circa il nesso tra inquinamento del mio quartiere e
patologia X, oppure devo attivarmi affinché le ricerche vengano
approfondite, il quartiere sia bonificato, siano prese misure
precauzionali dalle autorità competenti, ecc.?
In
sostanza, forse dovremmo ragionare sul fatto che, in una qualsiasi
questione, la “parola dell'esperto”, per quanto autorevole, non
può essere l'ultima
parola.
La decisione finale può e deve spettare ad altri: a seconda delle
circostanze, alle autorità o, probabilmente nella maggior parte dei
casi, alle persone singole (o dev'essere affidata in certi casi alla
consultazione popolare).
Una
volta che lo studioso/esperto ci ha descritto i dati del problema e
indicato alcuni suggerimenti operativi, il suo compito termina lì.
Se
l'esperto non sa fornirmi motivazioni scientifiche perché io agisca
o non agisca in un determinato modo, non si vede perché debba
prescrivermi un determinato comportamento piuttosto che un altro;
laddove, rispetto ad una particolare circostanza X, non v'è
certezza, perché la scienza
sulla base delle conoscenze attuali e dei dati raccolti
non può fornirla, la scelta circa il comportamento che le persone
singole o le collettività devono adottare (o è opportuno che
adottino) nella circostanza X dev'essere affidata interamente alle
persone o alle collettività in questione, che hanno
il diritto di conoscere tutti i dati che possono metterle in
condizione di operare una scelta ponderata e ragionevole.
Per
riprendere l'esempio del quartiere inquinato, io, Tizio, posso
scegliere di ignorare il pericolo e soprattutto i miei timori, e di
attenermi quindi alla prescrizione
tranquillizzante
dell'esperto (“affermazione B”); ma posso ugualmente
e legittimamente
non accontentarmi del semplice responso (“affermazione A”) che mi
dice: “al momento la scienza non ha le prove”, giacché questa
certezza, per il suo stesso contenuto “minimale”, nulla mi dice
circa i rischi che la mia salute (o quella dei miei familiari)
potrebbe effettivamente correre. “La scienza non sa”, certo, e
tuttavia, a fronte di dati comunque allarmanti (l'alta mortalità per
patologia X nel mio quartiere), magari l'inquinamento può essere
davvero
la causa della patologia X: chi può escluderlo? Il dubbio resta
ragionevolmente in piedi, e se c'è, posso/devo io ignorarlo? Non ho
forse la responsabilità di tutelare la mia salute e soprattutto
quella di chi mi è caro? E può questa responsabilità dirsi
realmente
soddisfatta se mi limito a ripetermi come un mantra: “al momento la
scienza non ha le prove”?
In
sintesi, quel che auspico è che, laddove se ne determini la
necessità (pericolo di calamità, situazioni gravi di inquinamento,
ecc.), sia data sempre e a tutti/e effettivamente la possibilità
di conoscere i dati indispensabili che consentano a ognuno/a di
tutelarsi
in maniera consapevole e oculata; e quindi, non soltanto gli esperti
e le autorità devono fornirci tutti i dati perché noi possiamo
valutare la questione, ma essi devono anche e soprattutto evitare di
presentarci le
probabilità come certezze (o viceversa),
e di presentarci come obbligate
determinate scelte che invece obbligate non sono (essendo di fatto
opinabili).
Forse,
per ciò che si è detto fin qui, è necessario che cambi il rapporto
fra la società e la scienza, diventando più maturo: noi non
dobbiamo più chiedere alla scienza ciò che questa non può darci
(il che presuppone però in tutti/e noi, o almeno nella gran parte di
noi, una maggiore “confidenza” con la conoscenza scientifica, i
suoi metodi, i suoi scopi, la sua mentalità) e d'altro canto gli
esperti/studiosi/scienziati devono, per così dire, giocare con noi a
carte scoperte: per dirla con una battuta, forse non è giusto
chieder loro di allarmarci a tutti i costi, ma neppure è giusto che
vengano chiamati (o si considerino chiamati) a “indorare la
pillola” che taluni decisori politici pretendono di farci mandar
giù “per il nostro (presunto) bene” (e, come si può ben capire,
quella “pillola” può rappresentare molte cose: ad es., la pace
sociale, la tranquillità pubblica, o peggio, determinati interessi
“intoccabili”).
Penso che come dici tu, ognuno dovrebbe occuparsi di quel che sa e conosce, oggi va di moda invece, che tutti parlino della qualunque. Così come va di moda rincorrere la scienza, o per meglio dire farla correre anche semplicemente per quel che riguarda la metereologia. Una volta bastava sapere che tempo avrebbe fatto il giorno dopo, oggi no, bisogna sapere esattamente che tempo farà fra cinque giorni, sette ore, sedici minuti e venticinque secondi. Io non so nulla di terremoti e mai mi sognerei di dare giudizi o pretendere financo di avere un'opinione nel merito, però mi piacerebbe sapere quand'è che le sentenze “vengono rispettate”, in questo paese, a me pare che questo non succeda mai, salvo quando il politico delinquente viene prescritto perché è finito il tempo regolamentare per processarlo o quando viene assolto perché nel frattempo il reato di cui era accusato è stato opportunamente candeggiato e fatto sparire. Nel caso caso recentissimo ad esempio, quando condannano un criminale incallito, predisposto naturalmente a delinquere la sentenza non solo non va rispettata ma bisogna aggiungere anche gli insulti ai Magistrati.
RispondiEliminaNon si capisce perché una pletora di giornalisti che nulla sa di dinamiche ambientali e scientifiche relative ai disastri debba definire una sentenza choc, anzi “shock” come l’ottima Repubblica che ormai veleggia in un mare tutto suo raccontando un paese dove accadono solo cose per dare dispiaceri al buon governo e al presidente della repubblica; dispetti e falsità seminati apposta per destabilizzare l’Italia nel suo momento migliore. Né si capisce perché un ministro la cui prima azione politica fatta mettendo piede in parlamento è stata tirare fuori di nuovo la questione del nucleare debba e possa permettersi di ridicolizzare dei giudici che hanno stabilito una cosa sacrosanta e cioè che a nessuno deve essere permesso, nemmeno a Galileo che infatti non lo ha fatto e per questo è scampato al rogo per un soffio, di raccontare balle pericolose. Bastava non dire nulla, perché se un terremoto non si può prevedere non si deve né si può nemmeno dire che non succederà. Ciao, Ivan, bentornato..:-)
Giustamente fai notare: Una volta bastava sapere che tempo avrebbe fatto il giorno dopo, oggi no, bisogna sapere esattamente che tempo farà fra cinque giorni, sette ore, sedici minuti e venticinque secondi. Come dicevo nel post, il fatto è che chiediamo troppo alla scienza; pretendiamo rassicurazioni "assolute" che sono impossibili (e forse sempre lo saranno, per quanti progressi la scienza potrà fare...).
EliminaAlcuni pensano che la scienza sia una specie di "sostituto laico" della religione: le certezze che un tempo si chiedevano alla religione, ai suoi dogmi e ai suoi catechismi e precetti, oggi molti le chiedono alla scienza. Niente di più sbagliato, secondo me. Il fatto è che a volte sono gli stessi studiosi/scienziati ad alimentare questa errata aspettativa, sciorinando certezze che tali non sono, se non in via del tutto provvisoria. (Ad es., in alcuni campi, per spiegare uno stesso fenomeno o una stessa questione ci sono più teorie concorrenti; alcuni studiosi, per avallare la loro personale teoria, tendono a presentarla pubblicamente come l'unica vera, l'unica in possesso di certezze, e cioè "enfatizzano" le loro argomentazioni per averla vinta nell'agone della ricerca scientifica, screditando implicitamente tutte le teorie diverse e concorrenti. In questi casi, viene presentata per ragioni polemiche come "spiegazione certa" di un fenomeno o di una questione controversa una spiegazione che è "vera" solo alla luce di una determinata teoria, ma non è vera in assoluto. Il pubblico "profano" non è detto che conosca o afferri al volo queste sottigliezze, e se crede a ciò che lo studioso dice, tenderà a pensare che gli sia stata fornita una "certezza incrollabile" con la quale spegnere finalmente le proprie ansie).
[continua]
Qualcuno potrà osservare: "Ma se la scienza non offre certezze, perché dovremmo far ricorso ad essa? Non è preferibile - nei casi dubbi almeno - affidarci a una qualche religione, che ci offre sempre risposte certe e definite? Non dovremmo considerare superiore un sapere che ci offre certezze rispetto ad uno che ci offre perlopiù dubbi o pure probabilità?".
EliminaRispondere in maniera esauriente a queste domande non si può ovviamente in questo piccolo spazio (ci vorrebbe un intero post, ma di quelli lunghi!). Posso però dire almeno che quelle domande dànno per scontato che si debba per forza aver bisogno di certezze; ma non è affatto detto che sia preferibile una certezza "qualunque" - che pur senza prove e appigli empirici tiene a bada le nostre paure ancestrali - alla coscienza dei limiti del proprio sapere. Insomma, non è detto che di fronte all'impossibilità (momentanea) di spiegare un fenomeno, un processo fisico, biologico, ecc., si debba far ricorso per forza di cose a un "surrogato" di spiegazione che si limiti a far echeggiare nel nostro animo suggestioni vaghe di mondi immaginari e mai provati (o trovati). Forse un bel Non so, un Qui si ferma il mio sapere, ne sono cosciente è di gran lunga preferibile rispetto a un C'è un mistero, non fatevi domande, non possiamo svelarlo; io però - a differenza di voi - posso interpretarlo e sono l'unico autorizzato a farlo (e non vi dico quali strumenti uso per interpretarlo, però dovete fidarvi). Sarà un mio limite, ma personalmente non mi fido di chi pretende di farsi unico interprete autorizzato di un mistero pur senza fornirci le basi scientifiche della sua pretesa. Se c'è un mistero da qualche parte, è tale per tutti ed è per definizione inspiegabile e insondabile. Punto. Non c'è altro da dire o da aggiungere, a mio avviso; e ciononostante il mondo è pieno di "scuole di pensiero", chiese, gruppi, ecc., che a partire da quello che loro stessi/e definiscono un mistero pretendono di arrivare a definire la Verità. Non una "verità" qualunque, ma proprio la Verità... Boh?
[continua]
Poi è vero che, come fai notare, la nostra fame di certezze diventa sempre più "feroce", e non ci basta più sapere vagamente "che tempo farà"; vogliamo assolutamente sapere che tempo farà fra cinque giorni, sette ore, sedici minuti e venticinque secondi. E se non ce lo dicono, o sbagliano le previsioni, guai! Facciamo causa al responsabile delle previsioni meteo! Come se il suo errore o la sua imprecisione fossero generati comunque e per forza dalla sua cattiveria, malafede, ecc., e giammai dai limiti oggettivi della conoscenza scientifica... E anche qui mi viene da commentare sconsolato: boh...
Elimina[continua]
Sulla questione della magistratura, del rispetto delle sentenze, ecc., ci sarebbe poi da dire tantissimo, come ben si può immaginare; e lo spazio di un commento non è purtroppo sufficiente. Mi limito solo ad osservare che il rapporto fra cittadini e istituzioni, e fra cittadini e magistratura, è in Italia soggetto - oltre a tanti altri vizi e storture - alla tentazione del doppio standard, arte nella quale siamo maestri (come del resto nell'arte dell'incoerenza eletta a sistema, che è l'altra faccia del "doppio standard"): vorremmo che le leggi fossero severe, e severi i magistrati nell'applicarle, ma soltanto per quanto concerne gli altri. Se e quando la legge punisce noi, o il magistrato viene a chieder conto a noi dei nostri atti, quella stessa legge che applicata agli altri ritenevamo giustissima diventa improvvisamente tirannica, insensata, inaudita... Noi siamo sempre l'eccezione alla regola, per definizione, e dovremmo sfuggire per decreto specialissimo e "ad personam" al rigore della legge che se applicata solo agli altri, beninteso, ci va benissimo. E quindi, il magistrato che colpisce la sacra eccezione che noi siamo e pretende di applicare a noi, proprio a noi, la legge che dovrebbe esistere per tutti tranne che per noi, a nostro avviso si accanisce ingiustamente e ce l'ha con noi. Come quando il professore a scuola ci mette un cattivo voto: l'atteggiamento è sempre quello... Mai che ci assumiamo le nostre responsabilità. Col che voglio dire: non è il comportamento di un singolo a colpirmi (un comportamento isolato, per quanto criticabile o deplorevole, è pur sempre circoscrivibile e arginabile); è il fatto del consenso, dei milioni di persone che si sono dette in questi anni lui è come me, io sono come lui, a catturare invece la mia attenzione e a suscitare in me domande. E la domanda che oggi mi sembra pressante è: riusciremo a curare i nostri vizi collettivi, come quello suddetto? Certe abitudini e attitudini non vanno via così facilmente, che il premier sia Pinco oppure Pallino...
EliminaE certamente concordo con questa tua cristallina considerazione: Bastava non dire nulla, perché se un terremoto non si può prevedere non si deve né si può nemmeno dire che non succederà.
Bentornata a te sul mio blog!
Credo che le questioni che poni, assai interessanti, andrebbero riformulate in modo più analitico, perché un conto è la scienza, e un conto gli scienziati.
RispondiEliminaPer cui sdoppierei la prima domanda (Quale ruolo devono avere gli scienziati nell'arena pubblica?)
nel seguente modo:
Quale deve essere il ruolo della scienza rispetto alla necessità di prendere decisioni utili alla collettività?
Che ruolo devono avere gli scienziati a questo proposito?
Analogamente andrebbe sdoppiata la seconda questione:
Che cosa ci aspettiamo noi dalla scienza?
Che cosa ci aspettiamo noi dagli scienziati?
Credo che distinguere possa portare a maggiore chiarezza.
E aiuterebbe a capire che molto di ciò che si ammanta o viene ammantato di scientificità, per i motivi più disparati, spesso non dovrebbe godere di questa prerogativa; ed allo stesso modo si arriverebbe a capire che molti pretesi scienziati utilizzano metodi e linguaggi tutt'altro che scientifici..
Molte tue considerazioni riguardo il ruolo della scienza le condivido: dato per acquisito che lo strumento scientifico è uno strumento in progressivo affinamento, ma che non potrà in molti casi mai arrivare a dare certezze assolute, simile a una bussola costruita sempre meglio, ma soggetta a incertezze di misura e influenze imprevedibili al momento, direi che la sua funzione dovrebbe essere quella di fornire una indicazione; qualunque indicazione, anche se imperfetta, è preferibile al brancolare nel buio.
E la scienza, non gli scienziati, già stabilisce il suo grado di approccio alla verità, attraverso valutazioni probabilistiche.
Gli scienziati, invece, dovrebbero avere il semplice ruolo di latori dell'informazione scientifica. Dovrebbero limitarsi a dire: la scienza, e non io, dice questo, e io mi limito a riportarlo. Quindi gli scienziati non dovrebbero avere alcun ruolo in quella che definisci arena pubblica.
Le decisioni devono spettare solo ed esclusivamente al potere esecutivo. E come, giudiziosamente, i poteri democratici devono rimanere divisi, anche la conoscenza scientifica dovrebbe rispettare i limiti il suo ambito. Per il bene di tutti.
Ma è chiaro che anche i rappresentanti del mondo scientifico anelano al loro quarto d'ora di notorietà.
Ma gli scienziati, ribadisco, non sono la scienza.
Riguardo alla seconda questione, così da me sdoppiata:
Che cosa ci aspettiamo noi dalla scienza?
Che cosa ci aspettiamo noi dagli scienziati?
ritengo che, come giustamente dici anche tu, esista una sorta di aspettativa para-religiosa, che pretende di ricavare risposte che non possono essere date; quello che è peggio è che i sacerdoti di questa para-religione, gli scienziati, si prestano volentieri al gioco.
Oracoli vaniloquenti e vanesii di un dio muto.
bentornato anche da parte mia
Aggiungerei, quasi come fosse una nota a margine, ma in realtà è il punto focale, che quando parliamo di "scienza" stiamo parlando di un qualcosa di virtuale. La "Scienza" intesa come amorevole studio delle relazioni tra fatti che accadono e osserviamo, condotto con la volontà di comprendere e descrivere e spiegare, non è la scienza asservita agli interessi di questo o quel potere.
RispondiEliminaIn un tempo in cui è il mercato a decidere i piani di studio, a dare fondi a questa ricerca piuttosto che quella, non possiamo davvero stupirci che la scienza "ringrazi".
La Scienza non lo farebbe, e forse questo vuol dire che
Le due domande, fatte diventare quattro nel mio commento precedente, dovrebbero essere portate a otto, distinguendo non solo la scienza dagli scienziati, ma anche la scienza dalla Scienza, e gli scienziati dagli Scienziati.
Ciao Xtc, e grazie di essere passata di qui. Molto puntuali le tue osservazioni; e in effetti tenere distinti la scienza e gli scienziati aiuta a spiegare alcune cose. La più semplice (ma non per questo meno importante): non basta essere o essere definiti "scienziati" per farsi portavoce o "portatori" di un punto di vista "scientifico" sulla realtà e sulle questioni. E tra l'altro anche il migliore scienziato - essendo pur sempre "umano" come chiunque - può in qualche circostanza non dare il meglio di sé, perché in errore senza volerlo, o perché trascinato da qualche polemica, o perché portato a voler convincere a tutti i costi gli interlocutori anche a rischio di "stiracchiare" le probabilità trasformandole in certezze, o per il "quarto d'ora di notorietà", ecc. (ricordo che in un tuo recente commento sul tuo blog facevi giustamente notare che anche Einstein può aver detto qualcosa di non condivisibile: nella scienza, a differenza che nelle religioni e nelle ideologie basate sul fideismo, non dovrebbe avere cittadinanza l'ipse dixit: un'affermazione non è vera solo perché pronunciata dallo scienziato superlativo X, fosse pure un premio Nobel, o Einstein, ecc.).
Elimina[continua]
In sostanza quindi hai ragione nel dire che gli scienziati non dovrebbero avere alcun ruolo in quella che definisci arena pubblica.
EliminaAlla scienza, o meglio - seguendo il tuo ragionamento - alla Scienza, in quanto bagaglio di accurati studi e saperi, e non a questo o quello studioso trasformato indebitamente in oracolo "tecnocratico", dovrebbe spettare il compito di fornire suggerimenti e indicazioni, fermo restando che la decisione finale, politica, dev'essere lasciata a chi rappresenta la collettività, o ai cittadini stessi quando occorre. Non penso che in una democrazia debbano essere gli esperti, nemmeno i migliori, a prendere le decisioni, perché questa sarebbe un'abdicazione, che ci trasformerebbe tutti/e in eterni minorenni sottoposti/e a tutela (e chi decide se l'esperto è davvero in grado di scegliere sempre per il meglio e nell'interesse della collettività? Non è anch'egli/ella "umano, troppo umano" come tutti/e noi e, come prima si diceva, soggetto a "tentazioni" ed errori? Anche il governo dei tecnici/esperti è una forma di fideismo, stiamo attenti...).
Quando poi rammenti che oggi è il mercato a decidere i piani di studio, a dare fondi a questa ricerca piuttosto che quella tocchi veramente un tasto dolente, dolentissimo: il mercato non è affatto "neutro" o neutrale, è il barometro degli interessi prevalenti e dominanti; ma non è bene che il sapere sia condizionato dai vincitori del momento, perché altrimenti si trasforma presto o tardi in "sapere cortigiano", che è cosa ben diversa dalla Scienza.
Per quanto inesatta e imprecisa, ci sono sempre uomini e donne dietro e dentro la scienza, io la preferisco a tutte le religioni e non la considero un sostitutivo, anzi, la metto sicuramente davanti e sopra alle religioni; il trascendentale non mi ha mai convinta. Se, specialmente la religione cattolica per mezzo dei suoi referenti ha sempre contrastato la scienza e la cultura anche con metodi violenti qualche ragione ci sarà. Agli sciamani, santoni, sacerdoti, rabbini e quant'altro continuo a preferire medici, ingegneri, avvocati, architetti, e quant'altro. Ciao Ivan! :-))
RispondiEliminaAnch'io preferisco affidarmi alla scienza. Questo o quello scienziato possono sbagliare; questa o quella scelta tecnologica possono essere discutibili; ma la "scienza" è altra cosa, e dovremmo tenerla tutti in grande considerazione. Molti dimenticano, quando polemizzano a testa bassa contro "la scienza", che se non fosse per questa, pretenderemmo ancora - tanto per fare un esempio - di salvarci da qualche periodica epidemia di peste prendendocela con gli untori o straparlando di "punizioni inviate dal cielo"...
EliminaOggi più che mai bisogna difendere la scienza, questo paese sta regredendo in un modo impressionante. La cultura cammina con la scienza, non certo con le idee di chi pensa che tutto succeda perché lo vuole dio, in questo paese c'è una gravissima emergenza proprio a livello culturale. E il dramma è che non c'è via d'uscita. Io spesso parlo con la gente, nei negozi, un po' ovunque, e resto allibita dalla quantità di persone che non leggono un giornale, ché un libro sarebbe già troppo, e lo dicono ridendo, vantandosi della leggerezza in cui vivono. Io sarò anche esagerata per certi versi ma non saprei mai vivere così.
EliminaScrivi: - ...resto allibita dalla quantità di persone che non leggono un giornale, ché un libro sarebbe già troppo, e lo dicono ridendo... - e non posso che condividere il tuo stupore. A mio avviso, se l'avversione nei confronti della lettura è in sé già abbastanza preoccupante, quando è così diffusa come in Italia, ciò che (mi) sconvolge davvero è il fatto che qualcuno arrivi addirittura a vantarsi del fatto di non toccare mai libro (e neppure giornale...). L'ignoranza tronfia e "programmatica", se diventa addirittura una "moda" (come temo che da noi già sia), o uno stile di vita persino, rappresenta la vera base della nostra crisi. Il rifiutarsi per principio di sapere, di studiare, o anche solo di informarsi, in effetti non è più "semplice" ignoranza ma - quando diventa un'attitudine o una "scelta" piuttosto diffusa - regressione (tutt'altro che felice) verso una condizione di "eterni adolescenti", o meglio di eterni "lucignoli" (del romanzo di Collodi) che si fanno [con piena coscienza, però, a differenza del Lucignolo romanzesco] abbindolare dal primo "paese dei Balocchi" che vien loro fatto balenare davanti agli occhi.
EliminaForse questo atteggiamento è perfino più grave della crisi politica attuale, anche perché con tutta probabilità ne costituisce la premessa sociale e culturale, l'"antefatto" indispensabile per capire davvero il "romanzo" dei nostri problemi attuali.
Rsatto.
RispondiEliminaCome scrivo e dico spesso, l'ignoranza è perfino una legittima e libera scelta che però non è giusto far subire a tutti.
Perché alla fine, è la somma degli ignoranti che ha consegnato il paese ad un delinquente abituale, prim'ancora che la bicamerale superaccessoriata offertagli dallo skipper alle cime di rapa.
...l'ignoranza è perfino una legittima e libera scelta che però non è giusto far subire a tutti: mi dichiaro assolutamente d'accordo!
Elimina...skipper alle cime di rapa...: gustosa definizione, ahah, e fìdati perché te lo dice un pugliese (lo skipper... in questione è invece, ad esser precisi, pugliese solo di adozione).
Lo so, lo so.
RispondiEliminaLa scorsa estate siamo venuti in Salento, e, non so perché ma un sacco di gente mi aveva dato delle commissioni da fare qualora mi fossi recata anche in quel di Gallipoli..:-))