Hanno fatto
scalpore, come tutti sappiamo, alcune dichiarazioni del ministro
Fornero sul rapporto fra i giovani e il lavoro.
Al di là
dell'equivoco sulla qualifica di choosy
attribuita ai giovani di oggi – il Ministro ha spiegato che si
riferiva a un atteggiamento in voga sino a qualche tempo fa, giacché
i giovani precari di oggi sanno di “non potersi permettere” di
rifiutare un impiego – il suo discorso comunque riprende il leit
motiv della “flessibilità
obbligatoria”, da anni ormai ripetuto da politici, tecnici e
intellettuali influenti.
C'è chi,
dai giornali o da “pulpiti” autorevoli, ci dice che “bisogna
abituarsi alla flessibilità”, che “bisogna abituarsi a cambiare
continuamente lavoro durante la propria vita”, che “bisogna
abituarsi alla globalizzazione del mercato finanziario”, che
“bisogna tagliare le spese sociali”, ecc.
Nessuno
però ci spiega veramente perché dovremmo abituarci a simili cose;
se qualcuno finalmente lo facesse, e se la spiegazione fosse davvero
convincente, magari potremmo essere indotti a dare ragione a chi
sostiene tutti quei “bisogna... bisogna...”.
Bisogna
perché?
L'unica
risposta che viene fornita – a parte la più gettonata, “Ce
lo impongono i problemi di bilancio” (che però in tante occasioni
vengono utilizzati come un pretesto per attuare determinate politiche
discutibili senza incontrare opposizioni) – è: “Perché adesso i
mercati vogliono così”, con qualche interessante variante:
“L'Europa vuole così”, oppure: “Oggi il mondo è cambiato e
bisogna essere all'altezza delle sfide attuali”.
Bene.
I mercati “vogliono”, dunque... E i mercati cosa o chi sono,
visto che “vogliono”? da dove vengono? Qualcuno avrà pur
istituito – attraverso accordi internazionali, leggi nazionali,
provvedimenti vari e assortiti – questo
sistema di scambi economici che per comodità chiamiamo “mercato”
(o al plurale, “mercati”). E' un sistema come un altro,
e non è l'unico possibile;
è fatto così perché
c'è chi così, e non
altrimenti, l'ha voluto; non si è “fatto da sé”. Non l'abbiamo
trovato un giorno già bell'e fatto, fuori dalla porta di casa.
Anche
solo per questo motivo (e non è comunque il solo) non ci si può
venire a dire che l'attuale struttura degli scambi commerciali
internazionali, delle transazioni finanziarie “globalizzate”,
ecc., sia piovuta dal cielo
e sia una sorta di “destino” che ci tocca solo accettare e
subire, con tutte le conseguenze che provoca e porta con sé.
E
l'altro leit motiv,
“Oggi il mondo è cambiato (e bisogna eccetera eccetera...)”, non è
meno reticente e fuorviante. Il “mondo” non “cambia” da
sé; il “mondo” della
società umana, il “mondo” degli scambi economici, del lavoro
umano e della produzione è fatto di decisioni, transazioni e accordi
fra persone (anche in
rappresentanza di popoli, nazioni, ecc.).
Se
“bisogna” accettare il “destino” della flessibilità
permanente (che per molti/e si tramuta in precariato perenne), si
deve prima di tutto spiegare da dove deriva questa “necessità”
(posto che sia davvero tale): non certo dal “mondo” che “è
cambiato” (espressione che in sé non dice nulla: anche quando
costruiscono un nuovo palazzo su uno spiazzo da anni incolto, o
quando allestiscono un nuovo giardino pubblico in città, il “mondo”
cambia: ma qualcuno ha
deciso di costruire quel
palazzo, o di far esistere quel
parco per motivi precisi, non sono nati un bel giorno da sé
come se fossero funghi!).
Ma
sorvoliamo... D'accordo, possiamo anche ammettere che il
mondo sia cambiato;
di fatto cambia incessantemente; ma perché questo cambiamento
impone in particolare
ai lavoratori di diventare tutti flessibili e “non-choosy”? I
“sacrifici” devono essere imposti solo a una parte della
popolazione? Il “mondo” deve cambiare solo o soprattutto a
svantaggio dei lavoratori? L'unico “fattore produttivo” che deve
sacrificarsi, senza alcuna forma di “compensazione”, è il
lavoro? Questo non fa forse pensare che si tratti di un cambiamento
strategico, instradato
in una determinata direzione al fine di salvaguardare, ad es., la
remunerazione del capitale e (in particolar modo) la crescita
esponenziale e “globalizzata” delle speculazioni finanziarie?
Le
garanzie minime delle quali godeva il lavoratore vanno “sacrificate”,
ci dice la vulgata “mercatista” (diffusa da buona parte dei
“media mainstream”):
innanzitutto il contratto di lavoro a tempo indeterminato (ed è un
sacrificio di non poco conto, giacché ne trascina altri con sé, ad
es. la possibilità di fare programmi economici a lunga scadenza
[come l'acquisto di una casa, o anche il semplice affitto...], o il
diritto al congedo di maternità per le lavoratrici). Ma il
lavoratore cosa riceve in cambio
di questo notevole sacrificio?
La
risposta che in genere si può ottenere se si pone questo tipo di
domanda è: “L'economia ci guadagna” o in alternativa: “Si
accresce la produttività [o la competitività]” o “Si favorisce
la crescita e così stiamo tutti meglio”.
Ma
sono delle non risposte,
in realtà; è come se alla domanda “Dove vai?” qualcuno
rispondesse “Porto cipolle”.
Ripeto
quindi la domanda: – In cambio dei sacrifici che gli vengono
chiesti, cosa riceve il lavoratore?
Come viene ripagato il suo sacrificio? –
Un
interlocutore “mercatista” [altresì detto “fan della
globalizzazione sregolata e della finanziarizzazione
dell'economia”... ma è definizione troppo lunga] potrà forse
replicare, se ha voglia di evitare le banali risposte standard di cui
sopra: “Il suo sacrificio non può essere ripagato sùbito. Ma
rendendo più snello e flessibile il lavoro (sotto il profilo
contrattuale e degli oneri a carico dell'imprenditore), si avranno
crescita, sviluppo, migliore competitività, e così nel medio e
lungo periodo ci guadagneremo tutti, in quanto consumatori. Si
creeranno inoltre anche più posti di lavoro”.
Varie
sono le obiezioni che si possono muovere a un discorso del genere. In
primo luogo, bisogna intendersi sul significato da dare al concetto
di “crescita”. La si misura soltanto in termini di PIL e coi
consueti parametri (volume degli scambi commerciali, ecc.)? Il
“benessere” che la “crescita” dovrebbe attestare non è dato
forse anche da elementi che non possono essere compresi nella
semplice “sommatoria” della produttività [e fra questi elementi
dovremmo includere i fattori come l'ambiente che, pur non agevolmente “monetizzabili”, contribuiscono alla “qualità
della vita” o ne sono indice]?
In
secondo luogo, anche ammesso che per “crescita” si debba
intendere ciò che vogliono i “mercatisti”, è tutta da
dimostrare sul lungo periodo la correlazione fra “flessibilizzazione”
del lavoro e “crescita” (o “sviluppo”). A maggior ragione
quella correlazione è discutibile se diamo un significato più
“esigente” (sotto il profilo sociale) al concetto di “crescita”.
Inoltre,
l'idea che i sacrifici dei lavoratori
vengano ripagati in termini di benefici ai consumatori
ha in sé qualcosa di contorto e forse “dissociato”. Perché
qualcuno pensa che ciascuno/a di noi, o comunque ciascuno dei
lavoratori, debba porsi in conflitto... con se stesso/a? Nessuno/a di
noi è soltanto
consumatore, giacché la qualifica di consumatore
è potenzialmente universale:
infatti nessuno può fare a meno di consumare beni almeno per
sostentarsi (cibo, indumenti, ecc.). Ma questo vuol dire che il
lavoratore salariato/stipendiato è (come chiunque) anche
consumatore. Tuttavia, per tornare alla risposta del “mercatista”
tipo, il lavoratore come può ottenere benefici in quanto
consumatore dalla riduzione
delle proprie garanzie contrattuali? In cosa consiste il beneficio
che riceve se ad es., proprio come consumatore,
non può più accedere al mutuo per acquistare una casa?
La
categoria di consumatore è molto amata e utilizzata ultimamente
nelle riflessioni sull'economia e persino sulla politica, proprio
perché è universale, e tiene i discorsi a distanza di sicurezza
dalla visione e dalla nozione dei conflitti e delle contraddizioni
sociali.
Se
gli unici problemi dei quali (all'interno dei dibattiti mainstream)
è sensato parlare si riducono ai problemi del consumatore,
ogni altro soggetto possibile, a partire dal lavoratore,
viene relegato ai margini del discorso.
Ma
il consumatore non è mai un “omino” astratto, privo di volto e
di qualità (tranne quelle rilevanti per il marketing), come vorrebbe
la modellistica dei “mercatisti”: e del resto da dove ricava i
soldi che gli servono per consumare,
quell'omino astratto?
Soltanto
se restituiamo un vero volto e una vera identità a quell'“omino”
chiamato “agente razionale” dai mercatisti ci accorgiamo che il
soggetto “essere umano” non si può scindere a seconda delle
convenienze prendendone solo lo spicchio detto “consumatore” e
tralasciando sdegnati lo spicchio “lavoratore”. Perché lo
spicchio “consumatore” è molto sottile, anzi è solo una
superficie esterna, un involucro che non ha nessuna vita e nessun
significato senza il resto del corpo che produce
(e ri-produce!) per poter poi anche consumare.
E
se nel suo complesso il soggetto, come soggetto che produce e lavora,
non viene valorizzato e anzi viene sfruttato, è difficile che quello
stesso soggetto, proprio sul lungo periodo
caro a certi mercatisti, possa trovare compensi e gratificazioni
nella sua riduzione a consumatore.
Lo potrà fare forse per un certo tempo,
usando il consumo anche come rifugio, ma se a lungo andare le sue
energie si riducono e parallelamente aumenta lo stress (perché
sottopagato da troppo tempo, perché i debiti si accumulano, perché
ha sperimentato di non riuscire a costruire un progetto di vita
stabile, ecc.), il consumo
si stabilizza al livello della sopravvivenza “possibile” e può
essere semplicemente motivo di frustrazione, non più di
gratificazione.
E
quale “crescita” si costruisce in simili condizioni, se questa
situazione si moltiplica per tante persone immerse nella medesima
“palude”?
Non
si può poi parlare di “sviluppo” quando le condizioni medie dei
lavoratori di oggi, specie se hanno famiglia (e una certa età),
tendono a essere peggiori di quelle dei lavoratori di trenta o
quaranta anni fa. Diverse analisi recenti hanno sottolineato infatti
(e con una certa evidenza mediatica) che per la prima volta, da
quando l'Italia ufficialmente “cresce” per la sua
industrializzazione, “i figli stanno peggio dei padri”,
soprattutto se si guarda al potere di acquisto dei salari.
Ma
davanti a una simile constatazione, sorge un'altra serie di domande,
che si vorrebbero porre a chi esalta l'attuale assetto dell'economia
e dei “mercati”.
Perché
un lavoratore di oggi dev'essere meno tutelato di un lavoratore di
ieri? E' forse meno degno? Perché una lavoratrice oggi, se ha un
contratto di lavoro “precario”, ha meno diritto (eufemismo per
dire che non ha affatto diritto) al congedo per maternità? Cos'hanno
che non va, le lavoratrici e i lavoratori di oggi? Sono meno
“virtuosi” di quelli di ieri? Hanno qualche colpa da scontare,
forse?
In sostanza, non esiste forse a questo riguardo un problema
di equità e di giustizia? Si possono cancellare con un
tratto di penna aspettative che derivano da una maturazione politica
e sociale (o, se si vuole, da un'evoluzione dei rapporti sociali ed
economici, che si è tradotta persino in una evoluzione del
“costume”) durata decenni e che ha comportato anche lotte e
sacrifici? L'emancipazione (e la mobilità sociale, che a questa è
inscindibilmente associata) è un bene sociale o no? Dobbiamo
obbligatoriamente dare ragione a coloro che – con giri di parole –
cercano di farci intendere che sia invece un flagello del quale
sbarazzarsi al più presto?
Dagli
anni Sessanta ad oggi, e specialmente negli ultimi decenni, in Italia
molti giovani, sostenuti dalle loro famiglie, hanno investito nella
propria formazione; e in questi decenni studiosi e governanti
italiani hanno garantito e ripetuto che una migliore formazione e una
qualifica di studio elevata (diploma di scuola media superiore o
laurea) avrebbero permesso a ciascuno/a di migliorare le proprie
chances, le proprie
opportunità di vita e di lavoro. E d'altronde avere più diplomati e
più laureati, anche dal punto di vista complessivo della società e
dell'economia (e non solo dal punto di vista “egoistico” delle
ambizioni individuali, pur importanti), significava avere “più
(opportunità di) sviluppo”. Ora è cambiato qualcosa nell'agenda
pubblica? Non va più bene studiare, formarsi?
In
realtà ancora adesso un giovane con una buona qualifica, con un
ottimo titolo di studio, dev'essere considerato in qualche modo
un'“eccellenza” o – per usare un termine antipatico se riferito
a persone – una “risorsa”, non solo per sé ma anche per la
collettività.
Ebbene,
e la collettività cosa fa poi di quella “risorsa”, dopo avere
investito soldi e strutture per ottenere un'alta “scolarizzazione”?
La dilapida, sottoutilizzandola? Perché è questo che succede, ad
es., quando a un laureato si chiede di andare a fare il cameriere –
non per una stagione o due, ma per anni e anni...
E
se noi “dilapidiamo” il patrimonio di formazione che è
costituito dai nostri giovani più preparati e colti, come
pretendiamo di tornare a “crescere”?
L'inefficienza
del nostro sistema economico è da addebitare interamente ai
fantomatici “giovani choosy” [che certo ci sono e ci
saranno, ma, come lo stesso ministro Fornero ammette, non sono più
rilevanti come fenomeno] o non è forse in gran parte dovuta
all'inefficienza del cosiddetto “mercato del lavoro”, che non
seleziona i migliori (tra i giovani in cerca di occupazione) e tanto
meno li premia o li valorizza, se non occasionalmente? E per “mercato
del lavoro” non intendo qui soltanto le strutture dello Stato e le
istituzioni pubbliche (formazione, legislazione sul lavoro, uffici
per l'impiego, ecc.) ma anche l'organizzazione delle imprese (e più
precisamente il modo in cui le imprese reclutano i lavoratori).
La
fuga dei cervelli, ad es., è dovuta all'atteggiamento choosy dei
giovani o è piuttosto un fenomeno da addebitare alle varie
disfunzioni, mancanze e storture delle istituzioni e del mercato del
lavoro (come definito sopra)?
Perché
il mercato del lavoro da noi non tende a premiare i più preparati e
i più competenti (non parliamo poi dei più “geniali”) ma, nel
reclutare e selezionare i lavoratori (o meglio i candidati al
lavoro), sembra prediligere un'altra gerarchia di “valori”?
Sarebbe interessante capire quali sono questi “valori”
alternativi alla preparazione, all'attitudine e alla competenza, e
soprattutto perché vengono preferiti a quelli.
Perché
– e questo è solo un esempio – tanti giovani, quando presentano
un buon curriculum a un'azienda, con intenzioni tutt'altro che
choosy, si sentono rispondere: “Lei è troppo preparato per
noi”? Ma che vuol dire? Ma che sistema è? Dobbiamo forse arguire
che da noi si preferiscono gli impreparati e gli incompetenti? E
perché, di grazia? [E soprattutto: è con questi sistemi naif
di selezione e reclutamento che poi pretendiamo di ottenere lo
sviluppo e la crescita?]
D'altra
parte, se ci si forma per una determinata professione, spendendo
denaro, tempo (anni!) ed energie per raggiungere l'obiettivo (la
laurea, il dottorato, il “master”, ecc.), si possiede una
competenza che è legittimo desiderare di mettere a frutto.
E
invece, la “flessibilità obbligatoria” costringe potenzialmente
tutti/e a cambiare continuamente e freneticamente lavoro, senza
alcun riguardo per la formazione
e la vocazione di ciascuno/a. La flessibilità “eterna”, se
spinta davvero al suo estremo limite, ci rende tutti fungibili,
intercambiabili, come se fossimo tutti “esseri senza (specifiche)
qualità”, e questo a mio parere non è un passo avanti.
Tutt'altro...
E'
vero che la società è diventata più “veloce”, il progresso
tecnologico rapido di oggi impone cambiamenti più frequenti anche
nei sistemi e metodi di produzione e negli stessi prodotti, ecc.;
tutto vero; ma la capacità di adattamento
implicita nel concetto di flessibilità
si scontra con la richiesta di specializzazione
che proviene dallo stesso sistema economico-produttivo.
O
siamo iper-specializzati o siamo iper-flessibili. Sono due esigenze
antitetiche, e tuttavia il “mercato” oggi ci chiede di essere sia
l'una che l'altra cosa, contemporaneamente.
Come si può chiedere alle persone di investire (tempo, energie,
denaro) in una formazione iperspecialistica, dunque complessa, e poi
pretendere che quegli iperspecialisti (o anche solo specialisti
coscienziosi, senza “iper”), una volta formati, mettano da parte
il loro sapere specialistico per diventare “flessibili” e
adattarsi a qualsiasi lavoro? Davanti a una simile schizofrenia del
“mercato” sorge un dubbio: non è che per caso abbiamo rinunciato
a governare le trasformazioni e ci facciamo passivamente guidare da
processi decisi al di sopra delle nostre teste, senza nemmeno
chiederci (nemmeno davanti ad assurdità e contraddizioni evidenti)
dove stiamo andando? [E questa domanda la rivolgo specialmente ai
“tecnici” e ai decisori politici nazionali.]
Per
tornare quindi al discorso del Ministro, qualcuno lo usa come spunto
per dire che “è vero, i giovani oggi non vogliono lavorare”. Ma
è lo stesso ministro a smentire questo cliché,
dicendo che non è vero, in quanto i giovani precari di adesso non
sono più così choosy.
Il
fatto è che molti/e confondono le proprie esperienze personali con
l'andamento generale delle cose. Hanno conosciuto qualche giovane che
“non vuole lavorare” e da questa loro conoscenza empirica pensano
di poter ricavare una regola universale del tipo: “Ogni
giovane non vuole lavorare oggi, e dunque il giovane che
eventualmente si lamenta della propria condizione (perché è
sfruttato, non trova lavoro, ecc.) è una sorta di impostore”.
Non
è così.
In
realtà troppi giovani (e anche molti “non più giovani”) si
trovano non occasionalmente o saltuariamente ma pressoché
stabilmente a svolgere lavori sottopagati o addirittura non
retribuiti. Anche volendo credere a tutte le “buone ragioni” di
chi sostiene la “flessibilità obbligatoria”, come si può
ammettere e accettare che il lavoro non venga compensato, retribuito
e quindi onorato (nello stesso senso in cui si onora un
debito, ma anche perché il lavoro merita rispetto vero e non
solo retorico)? Come si fa a negare l'evidenza, ovvero il fatto puro
e semplice che queste forme di “lavoro” (sottopagato o
addirittura non retribuito) sono in realtà nuove forme di
sfruttamento?
Possiamo
dare tutte le giustificazioni che vogliamo alla “flessibilità”;
e probabilmente qualcuna di esse può avere un qualche senso; ma ciò
non toglie che il lavoro – come forse sapevano le generazioni che
ci hanno preceduto – deve dare dignità alle persone e non
sopprimerla. Un salario che non consenta al lavoratore una vita
dignitosa non è ammissibile, specialmente in Paesi che
pretendono di far parte di “esclusivi club” come il “G8”; se
la crescita, tanto decantata dai “mercatisti”, implica
l'aumento delle disparità sociali, si trasforma in crescita dei
privilegi (e del potere di ricatto dei detentori di
posizioni privilegiate sul resto della società), ed è cosa ben
diversa da quel che il nome suggerirebbe. Quanto allo sviluppo,
poi, se si realizza gettando nell'incertezza della “precarietà”
milioni di persone (non occasionalmente, ma stabilmente), dal punto
di vista sociale non si può definire tale, perché si traduce nel
suo opposto, ovvero nella “desertificazione” progressiva delle
prospettive di emancipazione e di mobilità sociale.
Abbiamo
appena parlato dell'ipotesi in cui il salario non sia sufficiente a
consentire una vita dignitosa; e cosa dire dei tanti casi in cui il
lavoro non viene neppure retribuito?
Se
ci mettiamo nei panni di un giovane di oggi, il quale dopo varie
“peripezie”, che si chiamano occupazioni saltuarie, lavori
interinali, lavori a chiamata, turni nei call center, ecc., e
nonostante quindi orari di lavoro “regolari” e tanta fatica,
dovendo registrare nel proprio personale bilancio lavori pagati poco,
salari ricevuti solo “a babbo morto” e lavori addirittura non
retribuiti, si accorge di non riuscire neppure a pagare regolarmente
il fitto di casa, dite davvero che non possiamo capire il suo
eventuale scoramento e la decisione di rinunciare a qualsiasi
progetto di vita a lungo termine, nel quale era compresa la fiducia
stessa nel lavoro?
Se
il lavoro si trasforma in una gimcana senza senso e senza dignità,
che richiede tanta fatica, impiego di energie e di tempo, e
restituisce in cambio solo frustrazione a iosa e la sensazione di non
farcela, di essere sempre comunque ai margini, senza soldi né
prospettive, si può anche capire perché qualcuno scelga di
rifiutare certe “proposte di lavoro” che offre il “mercato”,
anche a rischio di essere definito choosy.
Non voglio parlare di questa cattivissima signora a cui non crescono neanche le piante nell'orto per sua stessa ammissione. Dove non c'è amore muore tutto, e anche nella politica che riguarda le esigenze primarie quali il diritto allo studio prima e al lavoro poi ci vorrebbe più amore. Perché l'amore poi rende, restituisce anche dignità.
RispondiEliminaIo ho usato il discorso forneriano sui giovani choosy reali e immaginari (un nuovo spettro si aggira per l'Europa? i giovani che rifiutano lavori sottopagati o non retribuiti? In ogni caso, se fosse vero, sarebbe una "giusta rivoluzione", che costringerebbe tutti a ripensare modelli economici basati su vari livelli, anche sofisticati, di sfruttamento) - dicevo, ho usato il suo discorso come pretesto per parlare di un argomento che purtroppo, al di là di parole generiche e belle intenzioni, viene eluso perlopiù nel dibattito pubblico. Forse perché in proposito le risposte sensate scarseggiano e nella questione del lavoro vengono a galla le contraddizioni del nostro "modello di sviluppo", contraddizioni spinose e scomode (per i "decisori politici").
EliminaE comunque, col termine choosy è comparsa, nel nostro lessico politico, una parola che si presta (e sta già avvenendo, in Rete, sui blog, ecc.) a un utilizzo "ironico-dissacrante" che va in senso esattamente opposto rispetto a quello che immaginava il ministro. Le categorie, una volta create, assumono vita propria e possono sfuggire di mano a chi le ha "prodotte", ribaltando il loro scopo e/o significato originario.
Non so Ivan, non riesco a pensare a nulla che sia positivo a proposito di quella donna. Ti faccio leggere una cosa che almeno ti strapperà un sorriso: http://silviodigiorgio.blogspot.it/2012/11/animali-e-animali-2.html
RispondiElimina;-)
Ahah, ma io non "la" penso proprio, figùrati :-)
EliminaBello quel link, le caricature sono indovinatissime.
Quel ragazzo è bravissimo, scrive anche per Il Fatto, dico sempre che è l'unico Silvio che si merita la mia maiuscola..:-))
RispondiEliminaOttima analisi Ivaneuscar!
RispondiEliminaIn particolare vorrei soffermarmi su questa tua riflessione: "se la crescita, tanto decantata dai “mercatisti”, implica l'aumento delle disparità sociali, si trasforma in crescita dei privilegi (e del potere di ricatto dei detentori di posizioni privilegiate sul resto della società)".
Infatti è proprio questo che sta avvenendo. A fronte di tantissimi lavoratori cui stanno venendo sottratti pian piano i più elementari diritti (guadagnati in anni ed anni di lotte sociali), si affermano categorie di intoccabili, i nuovi "padroni" (di cui la Fornero fa parte: mi domando perché non rinunci lei al suo ruolo pubblico per andare a lavorare come precaria).
Aggiungo che quando si svolge un lavoro non consono alle proprie attitudini, magari distante mille miglia da quella che è stata la propria formazione (formazione che uno si è scelto, si suppone, per passione), il lavoro finisce per diventare una vera e propria schiavitù, un lavorare per portare a casa due soldi a fine mese e basta, il che può essere sopportato se almeno il guadagno permette comunque di potersi dedicarsi nel tempo libero ai propri svaghi, ossia di essere altro oltre al lavoro recuperando una dimensione individuale che non sia ridotta al solo essere lavoratore o consumatore; ma se per di più non si riesce nemmeno a guadagnare per pagarsi l'affitto di casa, viene negata persino la possibilità di pagarsi un cinema, una mostra, di farsi un piccolo viaggio, finanche di comprarsi un libro per rilassarsi la sera, allora davvero l'esistenza si trasforma in un inferno. Anche perché non tutti hanno poi la capacità di essere "filosofi" e di accontentarsi del sole che sorge ogni mattina. Un minimo di gratificazioni credo siano legittime.
Non tanto tempo fa ho visto un film dal titolo Gli Equilibristi, in cui si vede quanto oggi persino divorziare o separarsi è divenuto un privilegio per soli ricchi in quanto, senza doppio stipendio, non si fa avanti. Per non parlare poi degli affitti altissimi e della gente (parlo anche di adulti, non solo di giovani studenti) che è costretta a dividere l'appartamento con altre persone, il che può essere anche piacevole, ma non è detto.
Quello che voglio dire è che se almeno il lavoro flessibile fosse ben remunerato potrebbe permettere comunque una certe progettualità, o di fare investimenti, invece oltretutto è anche sottopagato. E poi qualcuno mi spiegasse perché noi ci dobbiamo abituare a questa nuova situazione, però le banche invece per concedere mutui, carte di credito ecc. continuano a voler chiedere garanzie a lungo termine. C'è qualcosa che non torna. Da una parte ci dicono che il mondo sta cambiando e che dobbiamo accettarlo, dall'altra i privilegi e gli strapoteri delle banche e del grosso capitale rimangono gli stessi. Da una parte ci chiedono di lavorare senza garanzie, dall'altra queste sono necessarie per partecipare della vita quotidiana.
E poi, come giustamente ricordi, il PIL purtroppo non tiene conto della qualità della vita. Ad esempio esso aumenta anche tramite gli investimenti bellici, ma di certo le guerre non sono proprio esempi massimi del benessere di un paese; idem per le spese mediche, faranno anche aumentare il PIL, ma testimoniano di un malessere generalizzato.
Ti ringrazio per il bel commento...
EliminaAggiungo che quando si svolge un lavoro non consono alle proprie attitudini, magari distante mille miglia da quella che è stata la propria formazione (formazione che uno si è scelto, si suppone, per passione), il lavoro finisce per diventare una vera e propria schiavitù... (più tutte le giuste considerazioni che seguono, nel tuo commento).
Credo che sia proprio questo il punto fondamentale: il lavoro, nel mondo moderno, dovrebbe essere una via per giungere alla realizzazione della propria personalità: il lavoro dovrebbe liberare. Nelle concezioni antiche e pre-moderne il lavoro poteva anche essere schiavitù, o "servaggio": era considerato normale, in quel modello sociale gerarchico, basato su differenze insopprimibili di ceto, intendere il lavoro, assimilato alla "fatica bruta", come "asservimento" e come "condanna", destinata ai soggetti che nella scala sociale occupavano i gradini inferiori "per decreto di natura".
Nel mondo odierno, nel nostro modello sociale e culturale, questa idea del lavoro non è più concepibile, e in teoria non lo è. Nessuno esalta più in termini espliciti la "schiavitù" o l'asservimento "per decreto di natura", però di fatto il lavoro è assoggettato a certi meccanismi e a certe condizioni che lo riportano (e ci riportano) indietro di secoli (pur con tutte le meraviglie della tecnologia attuale!), giacché lo "riconfigurano" come condizione alienante, che non consente alcuna "realizzazione di sé" al lavoratore e, attraverso la "precarietà sottopagata", lo riconsegnano a un'assoggettazione di tipo sostanzialmente schiavistico. Sì, perché, rispetto al vecchio rapporto di lavoro, il tempo di lavoro resta quasi sempre il medesimo (e quindi il tempo di vita che viene speso, e dunque "perso" irrecuperabilmente dal lavoratore), ma il lavoratore, a parità di tempo ed energia impiegati, non ha più alcuna protezione (le ferie, il riposo per malattia e - somma, cinica inciviltà [a mio parere] - anche il congedo per maternità) e per giunta la sua retribuzione diventa inconsistente e inadeguata, del tutto consegnata ai "capricci" del mercato (e può il lavoro, inteso in senso moderno, essere soltanto un mercato?).
[Continuo]
Come tu rilevi, e come io avevo fatto notare nel post, l'aspetto peggiore della precarietà è proprio il fatto che questa da noi si accompagna pressoché costantemente a basse (e inadeguate) retribuzioni (o addirittura all'assenza di retribuzione tout court, cosa davvero inacettabile e inescusabile, da qualunque punto di vista la si consideri!).
EliminaProbabilmente non sono neppure i "singoli" imprenditori (specie i piccoli) a "generare" questo meccanismo: i sistemi produttivi ed economici vanno al di là dei singoli individui; il fatto che molte piccole (e anche medie) imprese attualmente chiudono i battenti (oppure, entrate da poco sul mercato, hanno vita brevissima) sta ad indicare che i vantaggi di questa organizzazione economico-produttiva si concentrano sempre più in pochissime mani (il grande capitale, specialmente quello finanziario). E' il modello sociale e di vita che nell'insieme si è sfaldato; e i lavoratori forse possono opporsi alla "deriva" soltanto unendo i loro sforzi al di là delle frontiere, e insomma facendo fronte comune in tutto il mondo. Finché qualcuno farà credere loro che approfittando della situazione, e disponendosi a "farsi più schiavi" degli altri (dicesi concorrenza al ribasso o "lotta fra svantaggiati"), possano migliorare le loro condizioni, il sistema appronterà modelli "contrattuali" sempre più svantaggiosi per il lavoro nel suo insieme; e il "vantaggio differenziale" dei lavoratori [il vantaggio che alcuni di essi pensano di avere sugli altri "offrendo" la propria opera per un tozzo di pane] nelle diverse aree geografiche si ridurrà sino a farsi risibile.
[Continuo]
E poi, come giustamente ricordi, il PIL purtroppo non tiene conto della qualità della vita. Ad esempio esso aumenta anche tramite gli investimenti bellici, ma di certo le guerre non sono proprio esempi massimi del benessere di un paese; idem per le spese mediche, faranno anche aumentare il PIL, ma testimoniano di un malessere generalizzato.
EliminaIl PIL, per certi aspetti, monopolizzando l'attenzione dei mass media e dell'opinione pubblica, di fatto diventa un'arma di distrazione di massa, una maniera di rendere invisibili determinate questioni che invece sono centrali, per la società e per l'economia. Certo, con questo non voglio dire che il PIL, come misuratore, non serve a niente; ma non è l'"indicatore unico e universale" del "benessere", come molti pensano. E ciò che tralascia è importante quanto (se non più di) quello che considera.