Quando si
parla di musica, di letteratura o di arte – si sa – i “valori
oggettivi” si intrecciano in maniera talora inestricabile con i
gusti personali; dunque quando ci si avventura ad affermare: “Il
musicista X è un genio
assoluto, incommensurabile”,
si rischia di sentirsi rispondere: “Sarà un genio per te, io non
lo sopporto nemmeno in fotografia e la sua musica mi dà l'allergia”.
Certo,
forse bisognerebbe evitare le affermazioni iperboliche – ed evitare
quindi di distribuire la patente di “genio” con leggerezza, sulla
spinta (talora fallace) dei propri personali entusiasmi – per
accontentarsi di dichiarazioni più sobrie, misurate, argomentate.
Ogni campo tuttavia ha il proprio specifico bagaglio di saperi,
competenze, ecc., e la musica non fa eccezione: dunque se non si è
“esperti del settore”, ma semplici “amatori” (e/o ascoltatori
un po' competenti), come me, il valore oggettivo
di un'opera o di un autore va “maneggiato con cura” e toccato
nell'argomentare con molta circospezione e delicatezza. E'
preferibile, in questi casi, partire con franchezza dalle proprie
predilezioni personali, per poi tentare di capire se tali
predilezioni si coniugano in maniera accettabile con un'analisi
obiettiva e se il valore soggettivamente attribuito può coincidere
almeno parzialmente con la “grandezza oggettiva” dell'opera o
dell'autore analizzati.
E
dopo simile premessa, sono qui a parlare di un disco che ho
reiteratamente ascoltato nel corso degli anni con immutato diletto.
Il fascino che su me ha sempre esercitato mi ha spinto a chiedermi –
come spesso càpita, al cospetto di ciò che ci piace particolarmente
– quale “segreto” nasconda, ovvero quale sia la “formula”
che ha potuto produrre un così felice risultato.
Tutti
i lettori sapranno di certo che a una domanda così non può mai
seguire una risposta soddisfacente; ma sapranno altrettanto bene che
è una delle molle che ci istiga a “saperne di più” delle cose
che catturano la nostra fantasia.
Il
disco del quale parlo è “Sulle corde di Aries”,
di Franco
Battiato,
e risale al 1973, dunque esattamente a quarant'anni fa – è stata
anche questa circostanza (la “cifra tonda” del suo
“anniversario”) a suggerirmi di parlarne.
Quattro
decenni fa il panorama dell'Italia era un altro, non solo dal punto
di vista sociale e politico, ma anche – ciò che qui più ci
interessa – dal punto di vista musicale. Quelli erano anni,
infatti, nei quali stavamo uscendo gradualmente da un certo
provincialismo: se altrove le barriere tra “musica colta” e
musica “del volgo” (pop, rock, canzonette...) erano cadute già
con un certo fragore e scalpore (negli Usa già con Gershwin, in
qualche modo, e poi in maniera più dirompente con Zappa; nel Regno
Unito con il progressive
rock;
ecc.: e solo per citare al volo qualche esempio), in Italia chi come
Battiato tentava analogamente di farle saltare, per consegnare
davvero (per dirla con L. Ferré) la musica
alle strade,
rimaneva ai margini del “mercato”, considerato, più che una rara
avis
(qual era in effetti), un enigma umano ai limiti della
mistificazione.
Si parla di “musica sperimentale”,
quando ci si riferisce al genere di musica che Battiato negli anni
tra il 1972 e il 1979 portava nei concerti e incideva su disco; ma di
per sé è un'etichetta vaga e imprecisa: indica infatti non già un
genere musicale, bensì un'attitudine, un atteggiamento verso la
“materia sonora”. In questo senso, possono essere considerate
ugualmente “sperimentali” due composizioni diversissime tra loro,
come il Pierrot Lunaire di Schönberg,
ad es. in virtù dell'ardita innovazione che a suo tempo apportò
nell'uso della voce, e In C di Terry Riley, che a metà
degli anni Sessanta del Novecento fece della ripetizione ipnotica di
pattern sonori un nuovo linguaggio. Al di là della loro
“aura” sperimentale, non hanno però niente in comune tra loro, e
probabilmente qualche studioso potrebbe inorridire nel vederle
accostate.
(E d'altronde, non era “sperimentale”,
ai suoi tempi, anche l'accostamento tra linguaggio jazz e
poema sinfonico, tentato con trepidazione da Gershwin in Rhapsody in Blue? E che dire di un album come “Switched-on Bach” di W. Carlos?).
Ciò che è vero comunque – per tornare
al tema – è che Battiato in quel periodo ha attraversato, con
grande curiosità e dedizione (e rinuncia alla fama facile), generi e
stili diversi, cogliendone di volta in volta il limite e sforzandosi
quindi di superarlo. Aveva verso la musica l'atteggiamento dello
sperimentatore, ma le forme musicali e il materiale sonoro che
maneggiava non si possono considerare “inclassificabili” in senso
assoluto – almeno, se si tiene conto di ciò che musicalmente
succedeva in quegli anni in Europa, o a Baltimora, o in California
(tanto per dire).
Senza
voler ricostruire minuziosamente il percorso artistico di Battiato
(altri l'hanno già fatto con buoni risultati), si può notare
comunque ad esempio che i suoi primi due album “sperimentali”,
“Fetus”
e “Pollution”,
sono riconducibili alla musica elettronica e al rock d'avanguardia:
per l'Italia si trattava di novità assolute, e anche nel panorama
europeo quei dischi risultavano originali e innovatori, anche se
carichi a volte (lo riconosce il loro stesso autore) di una certa
ingenuità espressiva, figlia forse della volontà di svecchiarsi
rapidamente, che accomunava una buona parte della società italiana.
La provocazione per “stupire a tutti i costi” e suscitare
scandalo era una tentazione alla quale a quell'epoca Battiato non
riusciva a sottrarsi: lo testimoniano lo spettacolo “Battiato
Pollution”,
la copertina di “Fetus”,
la “pubblicità del divano” [se ne fa cenno ad es. in A.
La Posta 2010, pp. 16-17],
certe interviste che il musicista rilasciava, ecc.
Nei
concerti che Battiato iniziò a tenere nel 1973, la sperimentazione
consisteva poi essenzialmente nella pratica dell'improvvisazione:
grazie a questa, e al suo carattere di “rito liberatorio”, il
musicista a poco a poco si emancipò dagli stilemi del rock. Ma quel
genere di improvvisazione, che per semplicità (e con una certa dose
di approssimazione) possiamo definire “non jazzistica”, era forse
quasi sconosciuto a quell'epoca in Italia ma non altrove. La fusione
fra happening
e concerto, che La Monte Young, ad es., aveva sperimentato qualche
anno prima negli Stati Uniti, precede di certo gli happening
italiani di Battiato del '73-'76. Ma che ne sapeva il giovane “medio”
italiano, allora, di Fluxus, o anche di Charlemagne Palestine, e
persino di Terry Riley? Ben poco, in effetti...
Singolare
è poi – se ci si riflette – l'accostamento che all'epoca è
stato fatto tra Battiato e Stockhausen. L'avanguardia europea che il
compositore di Colonia rappresentava autorevolmente aveva il culto
della partitura – retaggio dell'idea ottocentesca del
compositore/autore totale dell'opera sonora – e considerava con un
certo scetticismo l'improvvisazione. Eppure
– forse in nome della comune vocazione per il “nuovo”, e di
un'idea mistica del suono, al di là delle differenze di scuola – i
due si sono incontrati e reciprocamente stimati, tanto che Battiato,
in dischi come “Clic”
e come lo stesso “Sulle
corde di Aries”,
ha reso in una certa misura omaggio all'illustre tedesco:
l'intenzione quasi “prometeica” di Battiato d'altronde (e, sia
pure su “altre lunghezze d'onda” e attraverso altri percorsi, di
altri validi musicisti come ad es. Frank Zappa) era quella di rendere
popolare la ricerca musicale, abbattendo – almeno nello “spazio
liberato” del concerto – gli steccati che dividevano di norma i
“sapienti” e gli “incolti”. L'avanguardia non doveva più
essere appannaggio di poche “anime elette”, ma strumento e
occasione per elevarsi collettivamente, musicista e pubblico nello
stesso istante e idealmente (talvolta perfino concretamente) sullo
stesso palco. L'improvvisazione era la via più adatta per
raggiungere questo traguardo, anche perché permetteva di sviluppare
idee musicali in sintonia con gli umori e le impalpabili suggestioni
provenienti dall'uditorio.
E
non è un caso se forse uno dei dischi più belli (non solo a mio
parere) di Battiato – e comunque fra i miei preferiti – ovvero
appunto “Sulle
corde di Aries”,
è nato attraverso questo procedimento: la maggior parte dei temi che
lo compongono è stata infatti precedentemente “testata” per mesi
da Battiato in concerti, nei quali le idee iniziali sono state via
via levigate, cesellate, perfezionate quasi “in tempo reale”, o
comunque in presenza degli ascoltatori e in parte grazie anche ai
loro feedback.
“Sulle
corde di Aries”
è quindi in una certa misura il momento di sintesi di un'esperienza
più ampia, e forse è questo uno dei motivi del suo fascino. E' ciò
che è rimasto di una “scultura sonora” iniziale, una volta che,
pezzo dopo pezzo, concerto dopo concerto, sono state eliminate le parti rivelatesi superflue o sovrabbondanti.
Ma non è solo il procedimento creativo a
risultare decisivo: contano anche il linguaggio e le scelte
estetiche.
In
quasi tutti i brani che compongono l'album, sembra di assistere
all'amalgama in teoria “improbabile” eppure nei fatti convincente
fra elettronica e memorie remotissime (vagamente “mediterranee”).
Il dialogo fra l'ultra-antico e l'iper-moderno, fra un passato tanto
remoto da apparirci imprecisabile e la modernità “futuribile”
per antonomasia costituita dai sintetizzatori elettronici (per
l'epoca all'avanguardia, oggi già obsoleti, per la verità...) è
costante, nel disco, e non dà mai la sensazione della forzatura o
del kitsch;
non c'è la volontà di “stupire a tutti i costi”, che poteva
esserci nei precedenti due album. Qui il suono non è usato come
strumento di straniamento e di provocazione, perché l'autore sembra
il primo a provare stupore e lo trasmette quasi magneticamente
all'ascoltatore – stupore di fronte alla sorprendente verginità
di un tessuto sonoro dal sapore ancestrale
e quindi al cospetto di un tesoro dimenticato da tempo nelle viscere
della terra eppure ancora scintillante.
In
proposito è illuminante questa dichiarazione di Battiato: «Il
sintetizzatore è stato, nella mia esperienza, uno strumento
terapeutico. Sono andato al di là dello strumento. Ho fatto dei
viaggi misteriosi e fantastici a cavallo del suono. […] Non
sperimentavo sulla musica in sé, quanto su me stesso. La ricerca
sonora fine a se stessa non mi ha mai interessato. […] mi sono
trovato ad armonizzare col sintetizzatore alla maniera greca, a
percorrere con suoni artificiali le civiltà passate. Questo è stato
veramente interessante! Per me lo strumento elettronico era una
specie di macchina del tempo, tramite la quale sondavo la mia psiche
percettiva» [Battiato-Pulcini
1992, p. 19].
E' interessante forse scendere più in
profondità per cogliere le scelte – in termini di linguaggio
musicale – che Battiato ha compiuto nei brani più importanti
dell'album.
Il brano principale e più elaborato,
quanto a durata e struttura, ovvero Sequenze e frequenze,
che occupa interamente la prima facciata del long playing
originale, è un vero e proprio set di matrice improvvisativa,
sottoposto poi a montaggio in studio. In realtà, alcune parti sono
precisamente strutturate e altre affidate alla libera creazione del
momento, sempre però all'interno di parametri prefissati.
L'unica parte propriamente free è
quella introduttiva, nella quale suoni elettronici, strumenti a fiato
e voci di soprano, in assenza di un ritmo ben definito, compongono e
scompongono incessantemente, quasi come creature in un acquario,
armonie atonali: forse è questo incipit a rinviare più
direttamente alle composizioni di Stockhausen.
Ma come se, stanco di fluttuare
nell'etere rarefatto e atemporale di queste dissonanti
improvvisazioni iniziali, cercasse un equilibrio più solido, il
pezzo dopo poco tempo cambia completamente aspetto e il
sintetizzatore elettronico, assumendo il ruolo di strumento-guida,
comincia a enunciare un tema che fa presto dimenticare le atmosfere
free atonali, in quanto si colloca con voluta indecisione – almeno inizialmente – fra
il RE dorico (o modo dorico sul RE) e il RE eolico – dunque in ogni
caso nell'àmbito dell'improvvisazione modale (in un secondo tempo, l'indecisione cade e il modo dorico si svela).
[Nota. Non è facile spiegare in
due parole, o in due righe, specialmente a chi non ha dimestichezza
con la teoria musicale, cosa sia in effetti la musica modale –
che rinvia al concetto di modo (musicale) – e in cosa si
distingua dalla musica tonale, che si basa sulla tonalità,
“grammatica sonora” per eccellenza dell'Occidente moderno; in
ogni caso, per provare a capire di cosa si tratta, si può dare
un'occhiata qui. Per approfondire la questione, può essere
utile invece consultare l'eccellente introduzione di L. Rognoni
all'ediz. italiana del Manuale di armonia di A. Schönberg:
Rognoni 1984, pp. XXI-XXIV.]
E' questa scelta “modale”, per così
dire, uno degli ingredienti del sapore arcaico di alcuni brani
dell'album, come questo. Ma è anche la maniera con la quale viene
presentato e “abbigliato” questo tema che ne esalta la funzione e
l'incanto: sembra il residuo di un'antica danza o di un antico canto
rituale, spuntato come dal nulla e impadronitosi inspiegabilmente di
una fonte iper-moderna di suoni, quale il sintetizzatore, per
suggerire la persistenza del passato e delle radici apparentemente
perdute, anche sotto la “crosta” spessa del presente sazio di sé
e delle proprie confortanti certezze. E' dunque la “teatralità”
della comparsa e dell'azione di questo primo tema, oltre che il “DNA
musicale” della sua struttura, a scolpirsi come un richiamo di
altri mondi nella mente di chi ascolta.
Quando subentra la voce, il testo
accentua le suggestioni della musica, contribuendo a garantire
l'immersione nei ricordi del passato, e precisamente in un'infanzia
raccontata per brevi immagini che assomigliano a icone, quasi come se
si trattasse di un racconto collettivo, stilizzato, e non di
un'esperienza personale, individuale del “cantore”.
In coincidenza con la linea melodica del
canto, il pezzo si fa armonicamente più mosso, spostando
continuamente il “baricentro” dall'accordo minore sul RE
all'accordo maggiore sulla stessa nota, e poi ancora dall'accordo
minore sul RE all'accordo maggiore sul DO.
Sono spostamenti minimi, tuttavia,
rispetto a quelli tipici della musica “moderna” (anche “di
consumo”): bastano comunque, nella loro strategica frugalità, a
ribadire l'estraneità del brano alla logica tonale; il DO maggiore,
appena suggerito, viene infatti sùbito “scacciato” per riportare
l'atmosfera sonora sotto il dominio del RE dorico o eolico (viene
perlopiù eluso il riferimento alla sesta, che potrebbe sciogliere il
dubbio fra le due possibilità).
Nel corso della parte cantata, con
l'insinuarsi del fa diesis e dunque dell'accordo maggiore sul
RE, il baricentro del pezzo si sposta ulteriormente, e al termine del
canto si assesta definitivamente sul RE misolidio. Ed è nel quadro
di questo “modo”, anch'esso derivante dalla musica premoderna,
che si svolge di qui in poi la parte preponderante (in termini di
durata) del brano. Sono gli strumenti elettronici a farsi sentire
qui, con il supporto di qualche discreta percussione e soprattutto
della kalimba, che monopolizza l'attenzione verso la fine.
Se interpretata in termini “tonali”,
come il nostro orecchio moderno tende inavvertitamente a fare, questa
parte di Sequenze e frequenze sembra il frutto di
un'anomala dilatazione della dominante di SOL maggiore [qualche spiegazione sulla nozione musicale di dominante è qui], che
rifiuta ostinatamente di “obbedire” all'attrazione della tonica
e di cederle dunque il passo.
L'effetto che il RE misolidio produce, in
combinazione con la ritmica incalzante (affidata prevalentemente a un
bordone di sintetizzatore), è – tale l'accostamento che mi viene
sempre in mente – dionisiaco, o bacchico se si preferisce: il
dominio è ora quello dell'euforia incontenibile, che vuole abbattere
ogni limite e sopravvivere a ogni soprassalto di stanchezza, per
ridarsi continuamente nuova energia, attingendola inspiegabilmente da
se stessa. Il lungo segmento improvvisativo che conduce alla
conclusione del brano è punteggiato da fraseggi ora impazienti e
densi, ora più distesi e dilatati, del sintetizzatore: qui il
riferimento alle epoche si fa confuso, come se ci si addentrasse in
un'atmosfera onirica; non si è più sicuri di viaggiare tra scorci
del passato, ma non si è ancorati neppure nel presente, che grazie a
quell'indecifrabile “ribellione della dominante” (errore
interpretativo del nostro “orecchio mentale”, come si diceva)
sembra essersi dissolto – sta a noi decidere se tale assenza ci
sconcerta o ci solleva (anche solo per lo spazio di un disco...).
Unico neo di un brano peraltro
affascinante: proprio la lunga parte conclusiva sembra talora –
forse per la sua eccessiva dimensione rispetto al resto – patire
momenti di “fiacchezza” creativa (rischio che d'altra parte
sempre si corre quando si fa musica “senza spartito” o con un
semplice canovaccio): qualche taglio in più in fase di “montaggio”
avrebbe risolto certi scompensi.
Bisogna notare anche che Battiato si era
già misurato con una struttura musicale molto simile almeno in un
altro brano, un po' più breve di Sequenze e frequenze:
mi riferisco a Beta contenuto nel precedente album,
“Pollution”.
Anche Beta comincia infatti
con un magma sonoro privo di ritmo e di un preciso riferimento tonale
o modale, realizzato unicamente attraverso suoni emessi dal
sintetizzatore “VCS3”, che con la sua intonazione imprecisa e
oscillante e il suo timbro corposo sembra apportare un tono di
irriverenza “barbarica”. Ad esso si accompagna, da un certo punto
in poi, la voce di Battiato, che esegue una sorta di recitativo.
Finito questo segmento, il clima cambia completamente: fattosi da
parte il sintetizzatore, entrano in scena un coro di voci distorte,
un pianoforte (in qualche punto rimpiazzato da una chitarra
elettrica) e la sezione ritmica, per dar vita a improvvisazioni
eseguite nel modo di LA dorico, all'interno delle quali perlopiù il
piano ha il compito di “tenere il filo” e di riportare a galla,
di quando in quando, come una reminiscenza onirica, un tema già
sentito in brani precedenti dell'album, mentre il coro “distorto”
spazia liberamente fra le diverse note del modo dorico sul LA,
avventurandosi spesso in intrecci dissonanti, tuttavia sempre
cangianti e tendenti al vago. Anche in questo caso, il riferimento
alla musica modale tende a creare nell'ascoltatore una sorta di
ideale “falla temporale”, dalla quale si affacciano a sorpresa
ere perdute, forse conservate sui “fondali” di una qualche
“memoria ancestrale”, in attesa di essere riscoperte. Non è però
solo l'impianto modale del pezzo a suscitare simili effetti e
sensazioni: un ruolo importante in ciò è svolto dal particolare
arrangiamento, nel quale il pianoforte, coi suoi interventi misurati
e perfettamente “squadrati”, rappresenta in un certo senso la
parte “razionale”, o la coscienza, e le voci, irreali e sinuose,
il territorio del sogno, dai confini fluttuanti, nel quale la
coscienza rischia ad ogni passo di smarrirsi. Un brano come Beta
(alla pari di gran parte dell'album che stiamo esaminando) potrebbe
in effetti rappresentare un bell'esempio di “musica onirica” –
a mio parere la più difficile da realizzare, giacché, proprio come
i sogni, non si può evocare a comando e sembra comparire qua e là,
inattesa.
Tornando a “Sulle corde di
Aries”, il pezzo che apre la seconda facciata del vinile,
intitolato Aries, ha l'aspetto di un intermezzo, perché
risulta, nella sua brevità, diverso dagli altri che compongono
l'album – ed è l'unico nel quale le improvvisazioni si spingono
verso i territori del jazz vero e proprio (non particolarmente
amato da Battiato, che però in rari casi, specie in questo periodo,
è disposto a fare delle eccezioni).
Aria
di rivoluzione
è un brano che si presenta formato da due metà quasi speculari: la
prima, cantata e quasi interamente predeterminata dall'autore, e la
seconda affidata ai soli strumenti e consistente in improvvisazioni.
In apparenza, a giudicare dal testo, è
una delle composizioni più “politiche” di Battiato – tenendo
anche conto che vi sono parti nelle quali una voce femminile (che è
quella di Jutta Nienhaus, vocalist degli Analogy, gruppo “prog-rock”
transnazionale di quegli anni) recita in lingua originale versi
senz'altro “impegnati” di Wolf Biermann, un poeta tedesco
(dell'ex DDR, la Germania comunista).
Ancor
più che di rivoluzione, come il titolo promette, i testi (sia quello
cantato che quello recitato) parlano in realtà di guerra: una guerra
che inizialmente non sembra viva e presente, in quanto vissuta
attraverso i ricordi di altre generazioni; in particolare, il
musicista siciliano fa – cosa per lui inconsueta – un riferimento
autobiografico ed evoca l'immagine di suo padre, camionista in
Abissinia durante la seconda guerra mondiale. E per celebrare
ottusamente la propria autodistruzione in quella guerra, l'Europa –
fa notare l'autore – ha sostituito le proprie «canzoni»
(nelle quali è evidentemente racchiusa la voglia di esistere e di
evolversi) con angoscianti «sirene
d'allarme».
Il
presente subentra nella seconda strofa e risulta ugualmente assorbito
dall'impulso alla guerra («Passa
il tempo, / sembra che non cambi niente»
canta polemicamente Battiato), che però assume nuove forme e si
manifesta sempre più come guerra civile “sottotraccia”, anche
laddove sembrano esserci pace e benessere; la richiesta di «nuovi
valori»
proveniente dai giovani ha come controcanto sonoro non più le sirene
d'allarme, ma le grida di «chi
andrà alla fucilazione».
Si tratta forse di un incubo, ma certo è
una delle immagini più dure utilizzate da Battiato nei testi delle
sue canzoni: risente senz'altro del clima di grande contestazione
(generazionale, ma non solo) di quegli anni e delle paure che li
attraversavano (se si guardava al di là dei confini italiani, del
resto, le “grida” dei “fucilati” e dei torturati erano una
realtà quotidiana nei cosiddetti “regimi dell'ordine”; e
qualcuno, a quell'epoca, avrebbe voluto fare in Italia “come in
Cile” o “come in Grecia” - quella del regime dei colonnelli,
beninteso, e non quella di Socrate o Platone...).
Musicalmente anche questo brano di “Sulle
corde di Aries” unisce l'uso degli strumenti elettronici
con le suggestioni del passato; infatti, oltre all'impianto modale,
che troviamo anche qui, si può rilevare che la parte del canto,
riprendendo antiche tradizioni “mediterranee” (a partire dal
canto gregoriano, che però non sembra essere il modello di
riferimento principale) è perlopiù melismatica [si veda qui
per avere qualche nozione sul cosiddetto melisma], dunque si discosta
dall'uso moderno (soprattutto in ambito pop e generalmente
“leggero”) che predilige il canto “sillabico”, forse perché
più concentrato sul senso del testo.
La
parte delle improvvisazioni strumentali, che funge da lunga “coda”
del pezzo, è piuttosto statica, e acquista poco risalto, anche
rispetto alle analoghe parti degli altri brani dell'album, ed è
forse per questo che nella prima ristampa antologica dei primi
quattro dischi di Battiato (ovvero nel doppio LP “Feedback”,
del 1976) verrà tagliata e la parte cantata di Aria
di rivoluzione
farà da preludio alle improvvisazioni strumentali di Sequenze
e frequenze.
Il brano che chiude l'album, Da
Oriente a Occidente, comincia con un tema accennato dal
sintetizzatore, che ci riporta agli echi ancestrali del brano
iniziale, sospeso com'è tra RE dorico e RE eolico (anche qui, per
l'omissione della sesta). La voce compare presto in scena e stavolta
il testo decisamente evoca suggestioni dell'antichità al limite del
mito: parla di un viaggio da compiere, «lontano
da queste tenebre», dove
«matura l'avvenire».
Si tratta quindi di un viaggio simbolico, che permetta una rinascita
interiore: «al fuoco delle
tenebre / scelgo una nuova vita»
sono infatti le parole con le quali si conclude il canto. Sùbito
dopo, torna a farsi sentire il primo tema di Sequenze
e frequenze, in modo
dorico ma stavolta sul SOL; cambiano anche gli strumenti ai quali è
affidato: non più sintetizzatori elettronici ma oboi e percussioni
“etniche”, ai quali si affiancano successivamente la mandola e un
coro che esprime vocalizzi.
L'incontro “ad occhi aperti” col
passato è qui una suggestione ancora più forte che all'inizio
dell'album, forse anche grazie alla strumentazione apparentemente
“arcaica” (ed espressamente “mediterranea”); il tema fa da
spunto a nuove improvvisazioni, che sono particolarmente riuscite e
convincenti, senza forzature o tempi morti, e sembrano evocare danze
d'altri tempi – non agevolmente identificabili, ma genericamente
lontanissimi – o anche rituali collettivi ancestrali [si veda anche
A. La Posta 2010, p. 43, che in proposito parla di riti
«legati alle ricorrenze dei cicli stagionali nell'agricoltura
antica»]. La chiusura della lunga improvvisazione – e dell'album –
è affidata all'iniziativa della mandola, che fa convergere su sé
l'attenzione dell'ascoltatore e degli altri strumentisti e con pochi
fraseggi netti porta la tensione accumulata dalla musica a spegnersi
su se stessa, senza transizioni (e dunque senza le tradizionali
cadenze tonali): l'eco della danza antica (o del rito) s'interrompe
bruscamente, come un sogno, e per qualche istante, a causa di questo
“risveglio” improvviso, si ha l'impressione del vuoto, la
vertigine del silenzio, che col sottinteso della nostalgia moltiplica
il potere della musica, dandoci la certezza che torneremo a cercarla,
ad ascoltarla.
All'epoca in cui “Sulle corde di
Aries” venne pubblicato, alcuni esperti della stampa
specializzata cercarono di capire di quali influenze musicali fosse
“debitore”, e fecero ad esempio i nomi di Terry Riley o dei Popol
Vuh. E' indubitabile che un album come “Hosianna Mantra”
(1972), dei Popol Vuh appunto, riveli all'ascolto –
nonostante l'assenza di suoni di matrice elettronica – molte
affinità con l'album di Battiato (un discorso analogo si può fare
per certe composizioni di Riley; e altri nomi si possono senz'altro
citare): come sempre, una composizione o in genere un'opera artistica
mostra inevitabilmente il suo essere figlia di un ambiente storico e
culturale preciso, la sua vicinanza a certe aspirazioni espressive,
culturali, sociali, ecc., di un determinato periodo; ma, se ha “filo
da tessere”, mostra anche qualcos'altro, che le appartiene in via
esclusiva – qualcosa che possiamo definire approssimativamente come
lascito originale.
Deriva probabilmente dal particolare
valore di questo “lascito” la difficoltà che si incontra se si
tenta classificare o incasellare “Sulle corde di Aries”
in qualche genere: è musica elettronica? Sì, ma anche altro. E'
“musica etnica”? Sembra, ma non lo è propriamente. Sono “canzoni
d'autore”? Non nel senso che di solito si dà all'espressione. E'
musica d'avanguardia? Non nel senso ortodosso del termine (non c'è
il rifiuto dell'armonia o della melodia, ad es., e non ci sono
parentele strette con Cage, Stockhausen, ecc., anche se una certa
attiguità c'è)... E così via.
Forse
anche per questa sua inclassificabilità “Sulle
corde di Aries”
non ha quasi “eredi”, se si eccettua l'album immediatamente
successivo di Battiato (“Clic”,
del 1974): è un'esperienza che rimane pressoché isolata nel
panorama musicale nostrano. E anche altrove si tentano in massima
parte (salvo illuminate eccezioni) fusioni fra i generi che risultano
cerebrali, “di maniera”, in cui si sente prevalere la filologia o
la bravura dell'interprete – soprattutto nell'accumulare citazioni,
che tali restano se viste sullo sfondo dell'insieme. La “suggestione
del suono”, o il suono come veicolo di suggestione è cosa diversa
rispetto alle “fusioni” o fusion
dominate dalla tecnica (esecutiva, principalmente, ma adesso anche
“campionatoria”) o dalla moda. E del resto, quando la “fusione”
fra i “generi” diventa essa
stessa
un genere, una maniera,
probabilmente perde la sua carica genuina, la sua forza
primigenia.
Se
restiamo negli anni Settanta, qualche paragone si può fare, per un
verso, con “Sonanze”
(1975) di Roberto Cacciapaglia (che a tutt'oggi è purtroppo un unicum
nella produzione di questo autore) o, per un altro, con qualche
lavoro degli Aktuala e soprattutto di Lino Capra Vaccina (“Antico
adagio”,
1978),
tutte opere rimaste però all'epoca pressoché sconosciute ai più.
Lo stesso Battiato si è poi concentrato
su altri percorsi creativi, abbandonando ad esempio progressivamente
il ricorso all'improvvisazione per rivalutare il procedimento
compositivo “classico” (la scrittura “esatta” delle note sul
pentagramma, dunque la predeterminazione precisa di melodia, armonia,
ritmo, timbri, dinamiche, ecc.), e si è infine riconciliato – dopo
aver portato per un po' la sua “sperimentazione” in un alveo
accademicamente meno “alieno” – con i “generi musicali” di
successo popolare. Non ha perso inventiva e talento, certo,
e scrive ancora brani degni di nota; eppure in qualche modo le
intuizioni felici di “Sulle corde di Aries”, che
sapevano far riecheggiare con profonda suggestione mondi perduti e
chissà come ricomparsi, si fanno rimpiangere.
Testi
citati:
-
[Rognoni 1984]: L. Rognoni, Introduzione all'ediz.
it. di A. Schönberg, Manuale
di armonia, Il Saggiatore, Milano.
-
[Battiato-Pulcini 1992]: F. Battiato, Tecnica mista su
tappeto. Conversazioni autobiografiche con F. Pulcini,
EDT, Torino.
- [A.
La Posta 2010]: A. La Posta, Franco Battiato. Soprattutto il
silenzio, Giunti, Firenze-Milano.
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