Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

domenica 31 marzo 2013

Idee che rimbalzano per il mondo: il progetto di riforma costituzionale islandese. Un commento con suggestioni e proposte


La notizia della riforma costituzionale islandese ha attraversato come una meteora il cielo della nostra informazione ed è poi scomparsa rapidamente dietro l'orizzonte; eppure si tratta di una questione importante.

[Per approfondire, leggere i documenti di séguito linkati: link I (su “La Stampa.it”), link II (su “Treccani.it”), link III (su “Il cambiamento.it”), link IV (su “iMille.org”)]

L'esperimento di riforma che si è tentato nell'isola nordica non ha precedenti, come molti commentatori hanno sottolineato, e per vari motivi.

Innanzitutto, forse per la prima volta la rabbia popolare – una rabbia non ciecamente devastante ma capace di esercitare raziocinio – ha imposto lì alle istituzioni l'accettazione di un principio fino a quel momento eluso o negato: le decisioni dei governi e dei governanti, che producono risultati disastrosi in termini sociali ed economici, non possono rimanere senza conseguenze sul piano delle responsabilità personali. Chi esercita la sovranità “in nome, per conto e per il bene del popolo” insomma non è immune da colpe per gli atti che compie, proprio perché agisce in nome della collettività e se la danneggia deve render conto (anche in sede giurisdizionale, se necessario) del danno causatole.


Inoltre, per la prima volta, grazie a una procedura articolata – forse ancora imperfetta, come qualcuno ha notato, ma certamente perfettibile – che prevede in più modi, momenti e livelli l'intervento diretto dei cittadini, questi ultimi hanno potuto esprimere in prima persona le loro istanze e farle pesare nell'elaborazione del progetto di riforma costituzionale.

Il progetto ha superato brillantemente anche l'“esame” referendario (uno dei passaggi previsti dalla procedura cui si accennava), nell'ottobre scorso, e attende ora soltanto di essere discusso in Parlamento.

Non so quanti l'abbiano letto attentamente in Italia – non credo in molti, a giudicare dagli scarsi o scarni approfondimenti (salvo lodevoli eccezioni) che si sono potuti leggere sui giornali e sul Web.

Personalmente ritengo che il progetto costituzionale islandese vada letto e conosciuto anche da noi, specialmente in un momento nel quale si spera nel “cambiamento” e nella trasformazione in senso (maggiormente) partecipativo della nostra democrazia (prevalentemente) rappresentativa – ed anche nel rafforzamento dei diritti fondamentali delle persone, nonché del controllo sugli atti dei pubblici poteri.

Mi accingo quindi, per dare un piccolo contributo alla conoscenza di questo documento, a evidenziarne alcuni articoli, che appaiono innovativi non soltanto alla luce della storia istituzionale e costituzionale dell'Islanda e dei Paesi scandinavi in genere, ma soprattutto rispetto al dibattito politico delle nostre latitudini.

[Il testo completo del progetto di Costituzione dell'Islanda, in lingua inglese, è reperibile qui; una traduzione in italiano – della quale mi sono avvalso, con qualche modifica, per le citazioni del testo – è reperibile invece qui]

Tralascerò, per ovvi motivi, gli articoli del progetto costituzionale islandese che contengono princìpi ormai universalmente accettati e recepiti, con varianti di scarsa rilevanza, nelle Costituzioni di tutti i Paesi democratici, a cominciare dall'Italia, e concentrerò invece la mia attenzione sugli articoli che introducono novità significative o che propongono emendamenti degni di nota ai princìpi costituzionali classici delle democrazie.

1. Una sintetica analisi dei princìpi rilevanti del progetto di Costituzione islandese

Orbene, per cominciare, nell'art. 6 del progetto di riforma costituzionale in esame, che reca come titolo “Uguaglianza”, si stabilisce non solo che tutti sono uguali davanti alla legge (principio classico del liberalismo), ma anche che tutti «godono dei diritti umani senza alcuna discriminazione riguardante il sesso, l’età, il genotipo, l’origine geografica o economica, la disabilità, l’orientamento sessuale, la razza, il colore, le opinioni politiche, le frequentazioni, la religione, la lingua o condizioni di censo, nascita o altro».
L'elenco è ampio e particolareggiato, forse per non dare adito a inopinate esclusioni: il principio di uguaglianza – dichiara in sostanza questa norma – mira a decretare l'illegittimità sul piano costituzionale di qualsiasi tipo di discriminazione fra esseri umani, nessuno escluso, a prescindere da qualsiasi giustificazione storica, tradizionale, religiosa, settaria, ideologica, ecc., che possa essere addotta per sostenere la giustezza dell'esclusione di questo o quel gruppo sociale, etnico, religioso, ecc., dal godimento dei diritti sanciti dalla Costituzione stessa. E a corollario di un'affermazione così limpida e chiara, l'articolo specifica anche che «Uomini e donne godono degli stessi diritti sotto ogni aspetto», negando quindi categoricamente e in radice la legittimità di qualsiasi differenziazione fra i sessi in fatto di godimento di diritti.

L'art. 8, apparentemente lapidario, è in realtà importante, perché sancisce che a tutti (intesi secondo le specificazioni dell'art. 6, ovvero nel senso di “tutti senza escludere nessuno per la sua etnia, le sue opinioni, il suo orientamento affettivo, ecc.”) dev'essere garantita non una vita purchessia, bensì una vita dignitosa. Inoltre l'articolo dice che «La diversità della vita umana è rispettata». Numerose importanti implicazioni può avere questa affermazione; ad esempio, significa tra l'altro che lo Stato riconosce che la vita umana non è riconducibile né riducibile a un unico modello astratto presuntivamente “buono”; la diversità delle opinioni, degli stili di vita, delle scelte individuali, dei gusti, degli orientamenti, ecc. – una diversità costitutiva delle comunità umane, che non si può ridurre a unità se non con un atto di arbitrio antidemocratico – è un dato che il legislatore e la società devono accettare e limitarsi a registrare, senza pretendere di alterarlo o, men che meno, sopprimerlo, magari in nome della discutibile imposizione di un unico panel di valori ritenuto (arbitrariamente sino a prova contraria) l'unico accettabile moralmente o socialmente.

L'art. 9 stabilisce che è dovere delle autorità proteggere sempre (quindi senza alcuna eccezione) i cittadini dalla violazione dei loro diritti fondamentali, anche qualora tale violazione sia compiuta da pubblici poteri.

L'art. 10 (che reca come titolo “Rispetto della dignità personale”) recita: «A tutti sono garantite le libertà fondamentali e la protezione contro ogni forma di violenza e di abuso all'interno come all’esterno delle mura domestiche». La lotta contro la violenza – anche e soprattutto quella che si scatena talora nei rapporti interindividuali, familiari e di coppia – assume quindi il rango di principio costituzionale, dal quale il legislatore e gli operatori della sicurezza pubblica non possono prescindere.

Quasi a integrare quanto disposto dagli ultimi due articoli citati, l'art. 12 (“Diritti dei minori”), dando rilievo ai minori come soggetti bisognosi di particolare tutela, dichiara poi che «A tutti i bambini vengono garantiti la protezione e il soddisfacimento dei bisogni di cura» e inoltre che il loro interesse, nei provvedimenti che li riguardano, è prioritario.

L'art. 14, nel tutelare la libertà di opinione e di espressione, sancisce tra l'altro che «I Governi devono garantire le condizioni per lo svolgimento di un dialogo aperto e informato», il che vuol dire che il diritto a esprimere e a scambiarsi opinioni e pareri non è una semplice facoltà dei singoli che il governo deve limitarsi a “non impedire” e a non ostacolare, bensì è il prerequisito per un dialogo libero da vincoli e informato, dialogo che diventa quindi bene costituzionalmente tutelato, che le pubbliche autorità sono tenute a garantire attivamente (eliminando tutti gli ostacoli che dovessero renderlo di fatto impraticabile o difficilmente attuabile) se non addirittura a promuovere.
Nello stesso articolo si stabilisce altresì che l'accesso a Internet – altro prerequisito essenziale, ormai, per un dialogo «aperto e informato» – non può essere impedito a nessuno, se non con sentenza emessa per casi specifici dagli organi giurisdizionali competenti.

L'art. 15, che sancisce e regola il “Diritto all'informazione”, afferma che «Chiunque è libero di raccogliere e diffondere informazioni». La libera raccolta e circolazione delle informazioni è considerata, alla pari del «dialogo aperto e informato», un ingrediente essenziale per la formazione di convincimenti, opinioni, idee e in definitiva per il corretto svolgersi del dibattito presso i canali nei quali si manifesta la pubblica opinione.
L'amministrazione pubblica, afferma inoltre questa norma, «è trasparente» e deve conservare traccia dei suoi atti e provvedimenti. Con le sole eccezioni dovute alla sicurezza nazionale e alla riservatezza personale, «La raccolta, diffusione e trasmissione dei documenti, la loro conservazione e pubblicazione non può essere limitata»; e in ogni caso, anche riguardo ai documenti tutelati dal segreto, si devono per legge stabilire tempi entro i quali renderli accessibili a tutti. La loro accessibilità pubblica non è dunque vietata in perpetuo, ma solo rinviata.

Nel sancire poi la libertà di religione, l'art. 18 stabilisce che «A tutti è garantito il diritto di avere proprie convinzioni religiose e filosofiche, compreso il diritto di cambiare religione o convinzioni personali e il diritto di rimanere al di fuori delle organizzazioni religiose».
Nessuno può quindi essere perseguitato, sia in maniera palese che sotterranea, per presunta “apostasia”: il diritto di cambiare opinione, in qualsiasi àmbito che riguardi la coscienza personale, è tutelato costituzionalmente. Inoltre si ha pieno diritto a non professare alcuna fede religiosa.
(Bisogna però anche tener presente che, in ossequio alla tradizione di molti Paesi di religione protestante luterana, viene conservata la “religione di Stato” in Islanda, come si evince da alcune disposizioni del progetto di Costituzione.)

Nell'art. 21, dedicato alla “Libertà di riunione”, viene garantito a tutti il diritto di riunirsi in assemblea, non solo per riunioni propriamente dette, ma anche per effettuare e organizzare azioni di protesta.

L'art. 22 menziona i “Diritti sociali” garantendo a tutti coloro che versino in stato di bisogno il «diritto alla sicurezza e all'assistenza sociale». Anche in questo caso, nessuna eccezione o discriminazione può essere tollerata.
Le disposizioni di questo articolo vengono integrate da quelle dell'art. 23, che garantisce a tutti, in nome del diritto alla salute fisica e psicologica, la fruizione di prestazioni sanitarie «accessibili, appropriate e adeguate».

A sua volta, l'art. 24, dedicato all'“Istruzione”, oltre alle consuete disposizioni sull'istruzione di base obbligatoria, contiene la seguente affermazione: «L'istruzione deve mirare ad uno sviluppo completo per ogni individuo, al pensiero critico e alla consapevolezza dei diritti umani, democratici e dei doveri».
L'istruzione, considerata uno strumento per educare alla cittadinanza, nell'ottica di questo progetto costituzionale, deve formare essenzialmente cittadini consapevoli, che conoscano i loro diritti e i loro doveri, il senso e il valore della democrazia e – questione non secondaria – deve promuovere e coltivare il vero “cuore” della libertà democratica, ovvero il pensiero critico, che si traduce nella capacità di ciascuno di formarsi opinioni autonome, di autodeterminarsi e di interpretare la realtà senza dar credito passivamente alle “verità ufficiali” e al bagaglio di dogmi (anche sociali), preconcetti e luoghi comuni che, tendendo alla preservazione di un monolitico e immutabile “pensiero unico”, non di rado favorito da settori privilegiati della società, impediscono spesso alla società e a ciascun individuo di prendere coscienza della vera sostanza dei problemi socio-politici (e conseguentemente impediscono di discutere collettivamente, senza pregiudiziali “fideistiche” – e senza immotivati e arroganti anatemi, estrinsecazione autoritaria dei preconcetti e luoghi comuni di cui sopra, contro questo o quel filone di pensiero – dei mezzi per porvi rimedio).

L'art. 29 sancisce il “Divieto di trattamenti inumani”, nei quali comprende espressamente la pena di morte, la tortura e i lavori forzati.

Nell'art. 31 si specifica poi che nell'ordinamento giuridico islandese non si può introdurre mai, in nessun tempo e per nessuna ragione, il servizio militare obbligatorio.
(Diversa la situazione nel nostro ordinamento: l'art. 52 della Costituzione italiana fa tuttora menzione dell'obbligo di prestare il servizio militare, anche se questo è per il momento sospeso dalla legislazione ora in vigore.)

L'importanza che nell'ordinamento dell'isola nordica viene data all'ambiente è testimoniata dall'art. 33, nel quale si stabilisce che «La natura dell’Islanda è il fondamento della vita del Paese. Ognuno ha l'obbligo di rispettarla e proteggerla». Una disposizione chiara e senz'altro all'avanguardia: la natura non è un mero accessorio che ciascuno, a suo capriccio, può danneggiare o deturpare, ma è «il fondamento» stesso «della vita del Paese». E' una constatazione che corrisponde semplicemente alla realtà delle cose, e in un mondo che non fosse sopraffatto e fuorviato da tradizioni e abitudini spesso deliranti (anche qualora plurisecolari), o dall'ottusa prevalenza del profitto e del tornaconto momentaneo su ogni altra considerazione, non ci sarebbe neppure bisogno di menzionarla nelle Costituzioni.
Ma non è tutto: sempre l'art. 33 sancisce che «La legge garantisce a tutti il diritto ad avere un ambiente salubre, acqua fresca, aria pulita e natura incontaminata»: è dunque preciso dovere costituzionale delle istituzioni (oltre che di ciascun cittadino) vigilare costantemente affinché l'inquinamento non danneggi l'ambiente.
E ancora, decreta questo articolo del progetto costituzionale, «Le risorse naturali sono gestite in modo da ridurre al minimo il loro esaurimento a lungo termine, rispettando i diritti della natura e delle generazioni future».
Fra i diritti costituzionalmente garantiti, vengono dunque menzionati i diritti della natura (in specie il diritto a venir protetta dal pericolo di soverchio e scriteriato sfruttamento delle sue risorse) e quelli delle generazioni future: diritti che le carte costituzionali del passato purtroppo sottovalutavano o ignoravano del tutto e che oggi invece appaiono rilevanti e non più sacrificabili.

A integrazione delle disposizioni previste nell'articolo appena esaminato, l'art. 34 stabilisce che «In Islanda le risorse naturali non sono di proprietà privata ma sono proprietà comune e perpetua della nazione. Nessuno può acquisire le risorse naturali e i relativi diritti come proprietà o uso permanente e queste non possono mai essere vendute o ipotecate».
Le risorse naturali sono costitutivamente patrimonio di tutti e quindi non possono essere assoggettate alle leggi del profitto di pochi: il profitto – pur tutelato, con la proprietà privata e la libertà di impresa, dalla stessa Costituzione, nei settori nei quali non produce svantaggi per la collettività – è incompatibile con la fruizione aperta e non monetizzabile di beni comuni come le risorse naturali. Tra le risorse tutelate espressamente da questo articolo, vi sono «le scorte ittiche, le altre risorse del mare e dei fondali sotto la giurisdizione islandese, le fonti d'acqua e diritti di produzione elettrica, l’energia geotermica e i giacimenti minerari».
La norma fissa anche precisi vincoli in capo alle autorità pubbliche sulle modalità di utilizzo delle risorse naturali sopra definite, infatti dice: «L'utilizzo delle risorse è orientato ad uno sviluppo sostenibile e nell'interesse pubblico».
Non è l'unico riferimento al ruolo dei pubblici poteri, in questa materia, infatti l'articolo stabilisce anche che «Le autorità di governo insieme a coloro che utilizzano le risorse sono responsabili per la loro protezione».
Compare quindi, in un luogo cruciale, la responsabilità dei pubblici poteri, che informa tutto il progetto costituzionale e ne rappresenta una delle novità più importanti.

Di ambiente si parla anche nell'art. 35, nel quale si stabiliscono altri doveri a carico dei pubblici poteri: «Le autorità pubbliche sono tenute ad informare il pubblico sullo stato dell'ambiente e della natura e l'impatto delle relative attività. Le autorità governative e le altre parti devono fornire informazioni su qualsiasi calamità naturale imminente e sull’inquinamento ambientale».
Le autorità non possono quindi “minimizzare” i pericoli legati all'ambiente e alla sua conservazione, in nome di un polveroso e paternalistico “dovere di non allarmare”, in altre parti del mondo (ove, rivelandosi in questo un'attitudine insultante e offensiva da parte delle pubbliche autorità, i cittadini non vengono considerati evidentemente davvero “maggiorenni”) purtroppo ancora considerato imprescindibile...
Il diritto all'informazione si intreccia qui col diritto alla partecipazione dei cittadini alla formulazione di decisioni che li coinvolgono: «La legge garantisce il coinvolgimento della popolazione ai preparativi per le decisioni che hanno un impatto sull'ambiente e sulla natura e la possibilità di cercare l'intervento di un arbitrato imparziale».

L'art. 36, concludendo le disposizioni riguardanti la tutela delle specie viventi, menziona in particolare gli animali e, dando incarico al Parlamento di emanare apposite leggi, sancisce il divieto assoluto di maltrattamenti a loro danno; specifica inoltre che la legge deve proteggere le specie a rischio di estinzione, fissando quindi misure e strategie all'uopo opportune.

Passando ora a esaminare brevemente le norme che regolano l'ordinamento dei pubblici poteri, possiamo constatare che l'art. 48, recante il titolo “Indipendenza dei membri del Parlamento”, stabilisce che «I membri del Parlamento sono guidati unicamente dalle loro convinzioni e non da istruzioni da parte di terzi»: si conferma qui il principio conosciuto come “divieto del mandato imperativo”, patrimonio comune di tutte le democrazie parlamentari moderne [si veda ad es. l'art. 67 della Costituzione italiana], principio in base al quale ogni parlamentare rappresenta la nazione o la cittadinanza nel suo insieme e quindi non è tenuto a obbedire a istruzioni provenienti da singoli elettori (o da gruppi di elettori) – e in teoria neppure a istruzioni provenienti dai dirigenti del proprio partito di riferimento.
Pur se ineccepibile sotto il profilo delle garanzie costituzionali, giacché consente al parlamentare di sottrarsi ai condizionamenti esterni e di giudicare serenamente e con coscienza i provvedimenti sui quali è chiamato a esprimersi, il “divieto del mandato imperativo” suscita ultimamente non poche perplessità, poiché si presta ad abusi da parte dei parlamentari, o meglio può essere utilizzato come “foglia di fico” per giustificare “cambi di casacca” che hanno talora motivazioni poco nobili, slegate dal vero interesse della nazione (che il parlamentare è sempre tenuto ad anteporre a ogni altro interesse). Inoltre, il “divieto del mandato imperativo” nei fatti non è davvero un divieto pieno, poiché quasi mai il parlamentare è in grado di sottrarsi agli ordini che riceve dal proprio partito, se non rischiando di essere espulso dal medesimo, subendo per giunta il biasimo dell'opinione pubblica, anche qualora l'ordine del partito sia palesemente ingiusto; e d'altra parte, la dialettica propria delle democrazie non auspica una indipendenza piena e letterale del parlamentare rispetto al proprio partito, perché questa si configurerebbe come sganciamento completo dell'eletto dal mandato ricevuto dagli elettori (che non votano solo la persona, ma anche, in modo inscindibile, l'idea politica che quella esprime e che si compendia nel simbolo del partito nelle cui liste il candidato si presenta alle elezioni).
Il discorso è complesso e il dibattito sul tema è molto articolato, trattandosi di uno dei nodi più delicati della democrazia rappresentativa; ma quel che è certo è che – come d'altronde questa norma inserita nel progetto costituzionale islandese conferma – il principio in questione, che dev'essere senz'altro ridiscusso ed emendato (prevedendo forse nuove forme di controllo sull'operato dei parlamentari), per l'importanza che riveste non può tuttavia essere cancellato dall'ordinamento con un semplice tratto di penna.

L'art. 50 regola poi i conflitti di interessi dei parlamentari, decretando che «A un membro del Parlamento è fatto divieto di partecipare a deliberazioni parlamentari che riguardino suoi interessi particolari e significativi o quelli di persone con cui ha stretti legami». E' un principio che altri ordinamenti non prevedono e che invece potrebbe contribuire a migliorare la trasparenza delle decisioni pubbliche e del rapporto fra eletti ed elettori.

Per quanto riguarda la fase della promulgazione delle leggi, l'art. 60 prevede che, qualora il Presidente dell'Islanda si rifiuti di controfirmare un provvedimento legislativo approvato dal Parlamento, con decisione motivata, «Il disegno di legge diviene comunque legge, ma solo dopo essere stato sottoposto entro tre mesi ad un referendum per l’approvazione o il rifiuto. Una maggioranza semplice dei voti decide se la legge rimane in vigore. Tuttavia, il referendum non ha luogo se il Parlamento abroga l'atto entro cinque giorni dal diniego da parte del Presidente».
Insomma, nei casi in cui sorge un conflitto fra il Parlamento e il Capo dello Stato in merito a un determinato provvedimento di legge, sono gli elettori, supremi arbitri in quanto destinatari finali del provvedimento in questione, a dirimere la “controversia”, decidendo con referendum a quale dei due poteri dar ragione. E il Parlamento ha un solo modo per evitare il referendum: ritirare il disegno di legge contestato.
Ritengo sia una buona maniera per ridurre la distanza fra eletti ed elettori, prima che questa nei casi critici si trasformi in assoluta estraneità, ossia per integrare gli istituti della rappresentanza – specialmente nei casi in cui per qualche motivo le loro decisioni appaiono discutibili – con efficaci e tempestivamente attivabili strumenti di partecipazione che possano fungere da indispensabile “correttivo”.

Nell'art. 63 si fa menzione di un organo collegiale inedito in altri ordinamenti, la Commissione Costituzionale di Vigilanza del Parlamento, la quale «indaga su tutti i provvedimenti e le decisioni dei Ministri e del Governo come ritiene opportuno. La Commissione ha l'obbligo di avviare tali indagini su richiesta di un terzo dei membri del Parlamento».

L'art. 65 dà facoltà a un decimo degli elettori di «fare richiesta per un referendum su di una legge approvata dal Parlamento. La petizione è presentata entro tre mesi dal momento in cui la legge è stata approvata. La legge è abrogata se respinta dal corpo elettorale, altrimenti resta in vigore. Tuttavia, il Parlamento può decidere di abrogare la legge prima che il referendum abbia luogo». In sostanza, si tratta di un referendum equivalente a quello abrogativo previsto dall'art. 75 della Costituzione italiana; in questo caso, si tratta però di un referendum “confermativo” e quindi il significato del “Sì” è opposto rispetto a quello del referendum abrogativo italiano. Infatti, al cittadino italiano, in occasione di tali referendum, si domanda se intende abrogare la norma in discussione, laddove al cittadino islandese – in base a questo progetto costituzionale – si chiede se intende mantenere in vigore la norma sottoposta al voto popolare.

L'art. 66 disciplina un istituto equivalente a quello che nell'ordinamento italiano è definito e noto come “proposta di legge di iniziativa popolare” [il cui fondamento normativo è l'art. 71, comma 2, della Costituzione italiana]. Però, mentre da noi i cittadini, dopo aver raccolto le firme per depositare la proposta di legge presso le Camere, non possono fare altro che attendere le decisioni del Parlamento, che peraltro è autorizzato anche a far cadere nel vuoto la proposta di legge presentata dagli elettori, nel progetto costituzionale islandese le cose funzionano altrimenti. Secondo il disposto dell'art. 66, infatti, «Il dieci per cento degli elettori può presentare un progetto di legge in Parlamento. Il Parlamento può presentare una controproposta nella forma di un altro disegno di legge. Se il disegno di legge degli elettori non viene ritirato è sottoposto a referendum, così come il disegno di legge del Parlamento se introdotto. Il Parlamento può decidere se rendere il referendum vincolante».
Ora, se è vero che quest'ultima disposizione concede comunque l'ultima parola al Parlamento, è anche vero che il disegno di legge presentato dagli elettori costringe in ogni caso il legislativo, se non gradisce quel testo, a formulare una propria controproposta: il semplice “insabbiamento” della proposta di legge proveniente dagli elettori non è un'opzione praticabile.

L'art. 67, nello stabilire i princìpi fondamentali che devono regolare i vari tipi di referendum previsti dall'ordinamento, analogamente a quanto statuisce la Costituzione italiana, afferma che alcune materie, come le tasse, il bilancio dello Stato e gli accordi internazionali (ma anche i diritti di cittadinanza), non possono essere sottoposte a referendum. Inoltre «Si deve garantire che un disegno di legge proposto dagli elettori sia in conformità con la Costituzione. In caso di non conformità alla Costituzione i tribunali saranno chiamati a risolvere tali controversie».

L'art. 75 prevede l'istituto del Mediatore parlamentare, un'autorità indipendente che «deve difendere i diritti dei cittadini e controllare l'amministrazione dello Stato e degli enti locali» e deve adoperarsi «per assicurare il rispetto della non discriminazione nella pubblica amministrazione nell'osservanza della legge e delle buone prassi amministrative».

L'art. 84, che regola le procedure per la rimozione del Presidente dell'Islanda dal suo incarico, stabilisce fra l'altro che «Il Presidente può essere rimosso dal suo incarico prima della fine del mandato purché ciò sia accettato dalla maggioranza dei voti in un referendum su iniziativa del Parlamento e sarà necessario che tre quarti dei membri del Parlamento votino per questo. Il referendum deve avvenire entro due mesi dal momento del voto in Parlamento e il Presidente non deve svolgere il suo ufficio dal momento in cui il Parlamento adotta la sua risoluzione fino a quando i risultati del referendum sono noti».
Insomma, anche in questo caso si fa ricorso al referendum e sono gli elettori ad avere l'ultima parola: loro hanno scelto il Presidente (che infatti viene eletto a suffragio universale) e sono sempre loro a decidere se “licenziarlo”. Il Parlamento fa da “filtro iniziale” alla procedura, ossia accerta (ad ampia maggioranza) che sussistano le condizioni per chiedere la rimozione del Presidente dall'incarico, ma non può prendere una decisione in merito.

Quanto alla formazione del Governo, l'art. 90 stabilisce che «Il Parlamento elegge il Primo Ministro», su proposta del Presidente, sentiti i partiti e i parlamentari.
«Il Primo Ministro viene regolarmente eletto se la proposta viene approvata dalla maggioranza del Parlamento. In caso contrario, il Presidente dell'Islanda presenta una nuova proposta nello stesso modo. In mancanza di tale proposta è accettata un’elezione che ha luogo tra i candidati proposti dai membri del Parlamento, i partiti parlamentari o il Presidente dell'Islanda. Il candidato con più voti sarà il Primo Ministro.
Se non viene eletto un primo Ministro entro dieci settimane, il Parlamento è sciolto e sono indette nuove elezioni».
In tal modo, il Presidente e il Parlamento sono responsabili in egual misura per la scelta del Primo Ministro (difficile dunque che possa ipotizzarsi un “governo del Presidente”).

L'art. 93, riprendendo i princìpi sanciti dall'art. 15 sul diritto all'informazione, li applica ai rapporti fra Parlamento e Governo: e così «Un Ministro ha l'obbligo di riferire al Parlamento o in una Commissione parlamentare tutte le informazioni, documenti e relazioni su questioni che sono sotto la sua autorità se non sono classificate come segrete dalla legge» e non può adoperare alcuna reticenza né “edulcorare” fatti, documenti e questioni nella sua risposta al Parlamento, giacché «Le informazioni fornite da un Ministro al Parlamento, alle sue Commissioni e ai suoi membri, devono essere corrette, pertinenti e adeguate»: anche, se non soprattutto, in questo si sostanzia il rapporto di fiducia fra legislativo ed esecutivo, in base a questo testo di riforma costituzionale.

L'art. 108 sancisce l'“Obbligo di consultazione” per le questioni che toccano le comunità locali: nella fase di preparazione delle norme, enti locali e associazioni territoriali devono essere obbligatoriamente consultate.

Per quanto riguarda gli accordi internazionali che comportano per lo Stato la cessione di parte dei suoi poteri sovrani, l'art. 111 stabilisce tra l'altro che «Il trasferimento di poteri dello Stato è sempre revocabile»: in quest'àmbito nessuna decisione è irreversibile (lo Stato non perde mai i suoi poteri, insomma, ma può al massimo temporaneamente accantonarli). Inoltre «Se il Parlamento approva la ratifica di un accordo che comporta un trasferimento di poteri dello Stato, la decisione è sottoposta ad un referendum per l'approvazione o il rifiuto. I risultati di tale referendum sono vincolanti»: in una materia così delicata i cittadini devono dire la loro e le pubbliche autorità non possono “paternalisticamente” ignorare o scavalcare le loro decisioni. Se lo Stato trasferisce i suoi poteri a organismi sovranazionali, è solo quando e perché i cittadini lo vogliono. Su questo tema, nessun'altra autorità, neppure il Parlamento, può decidere alcunché, ma solo proporre.

Infine, l'art. 112 impone a ogni autorità pubblica di «rispettare le norme in materia di diritti umani ritenute vincolanti per lo Stato dal diritto internazionale e garantire la loro attuazione ed efficacia, coerentemente con il proprio ruolo, in base alle legge e nei limiti delle proprie competenze».

Tirando le somme, sicuramente per molti aspetti il progetto costituzionale islandese appare molto coraggioso e avanzato, poiché recepisce le richieste provenienti da vari movimenti e rafforza il ruolo dei cittadini-elettori nel processo decisionale, al tempo stesso sottoponendo l'azione dei pubblici poteri a maggiori vincoli e controlli rispetto al passato, dato che coloro che esercitano funzioni pubbliche, specie nei ruoli politici apicali, sono qui considerati pienamente responsabili delle decisioni che prendono nell'esercizio dei loro poteri.

Qualcuno ha osservato che però alcune ambiziose enunciazioni di principio di questo testo di riforma costituzionale rischiano di rimanere lettera morta, non essendo facilmente attuabili, almeno nel breve periodo.

[Si veda ad es. qui una “recensione critica” del progetto costituzionale islandese comparsa sul Web.]
(Si vedano poi d'altronde le caute riflessioni che esprimo nelle conclusioni di questo post, più in basso.)

Questo può essere almeno in parte vero; ma il tentativo è comunque promettente e, se la riforma va effettivamente in porto, può aprire la strada a una nuova “stagione costituente” almeno in Europa e forse anche altrove.

2. Qualche proposta di riforma costituzionale per altre latitudini

E prendendo spunto da un progetto di riforma costituzionale così all'avanguardia, si possono senz'altro ipotizzare alcuni correttivi che si potrebbero apportare al nostro ordinamento.

Senza alcuna pretesa di completezza, passo a enumerare quelli che personalmente ho immaginato e che porrei in discussione volentieri in un'ipotetica assemblea costituente.

Si tratta magari soltanto di un “sogno ad occhi aperti”, ma talvolta conviene – anche per respirare per un momento un'aria più tollerabile di quella che abitualmente ci circonda – affidarsi a questo genere di sogni.

Innanzitutto, se il mio “sogno” fosse determinante, i caratteri fondamentali del nuovo sistema politico sarebbero: la centralità (vera, concreta) del Parlamento e un ruolo non marginale e non meramente simbolico degli istituti di democrazia diretta.

E così, per tutelare davvero la centralità del Parlamento, il governo (che dovrebbe tornare ad essere realmente un “esecutivo” e smetterla di essere un “deus ex machina” del nulla) non potrebbe più porre “ad libitum” la questione di fiducia: come avviene in altri Paesi, il governo avrebbe a disposizione solo due o al massimo tre occasioni ogni anno per “giocarsi” il jolly della questione di fiducia, e dovrebbe imparare seriamente a giocarselo bene.

[A mio parere, in questi anni si è insistito anche troppo sul mito della governabilità, e l'enfasi eccessiva che è stata data a questo termine è servita quasi esclusivamente a svilire il ruolo del Parlamento, in qualche caso arrivando ai limiti del vilipendio: demitizzare il ruolo del governo, togliendolo dal cielo e riconducendolo sulla terra, dov'è il suo reale posto, servirebbe forse a persuaderci – consegnandoci finalmente a una salutare lucidità, dopo secoli di ibride e vischiose “teologie politiche” – che nel campo della politica non ci sono dei ex machina e che è inutile delegare a un Gatto o a una Volpe la moltiplicazione dei nostri “zecchini” (da intendere non solo e non necessariamente in senso letterale, come “soldi”), sapendo peraltro benissimo, “in cuor nostro”, che quel potere non lo hanno e non lo avranno mai. Si può obiettare che si tratta di un percorso di risveglio arduo e accidentato, ma, affrontandolo un passo alla volta, sono convinto che ormai si possa intraprenderlo, con tutte le cautele del caso... D'altra parte non si deve neppure far l'errore di credere che della funzione di governo – sia pure “ristrutturata” e depurata da aloni mitico-sacrali ormai sorpassati (decisamente non è più tempo di Re taumaturghi [cit.]) – si possa tranquillamente fare a meno.]

Inoltre, dovrebbe essere tassativamente vietato l'abuso della decretazione d'urgenza: il governo potrebbe sì presentare decreti legge basati sui requisiti di necessità e urgenza, ma questi requisiti dovrebbero essere severamente vagliati dal Parlamento, o da una sua commissione specifica, che deciderebbe a scrutinio segreto e inappellabilmente in merito a tale questione preliminare.
Ove il Parlamento, o una sua commissione, rilevasse che tali requisiti di “necessità e urgenza” non sussistono, il decreto legge perderebbe efficacia e non potrebbe essere presentato poi dal governo neppure un nuovo decreto legge sulla stessa materia, se non nella legislatura successiva (ovviamente, se non vuole aspettare tanto, il governo può decidere di “declassare” il decreto legge a “semplice” disegno di legge, il quale seguirebbe l'ordinario iter di approvazione alle Camere).

Sempre al fine di tutelare la centralità del Parlamento, si dovrebbe tornare al sistema elettorale proporzionale – l'unico che rispecchi i reali orientamenti del Paese – e si dovrebbe vietare l'apposizione dei nomi sui simboli di lista e di partito, seguiti dall'indicazione: “presidente” o simili, in quanto i cittadini non sarebbero chiamati a votare per un qualche leader ma per i loro rappresentanti, vincolati al rispetto di un determinato programma politico.

Insomma, il Parlamento sarebbe il vero centro del sistema (fatti salvi gli istituti di democrazia diretta, di cui si parla dopo) e il governo sarebbe un puro comitato esecutivo, eletto dal Parlamento in seduta comune, presieduto a rotazione da ciascuno dei ministri e soggetto alle direttive del Parlamento medesimo, a sua volta posto sotto la stretta supervisione del corpo elettorale.

Il governo potrebbe essere sfiduciato su iniziativa del Parlamento in qualsiasi momento, a patto però che fosse pronta una soluzione alternativa (una nuova maggioranza parlamentare, ad esempio, ma non solo).

Nel rispetto del divieto del mandato imperativo [si veda il ragionamento già fatto poc'anzi], il parlamentare non sarebbe costretto a subire diktat dalle segreterie di partito, ma d'altra parte – siccome ogni libertà deve essere legata a una corrispettiva responsabilità – sarebbe tenuto a rispettare gli impegni assunti con gli elettori; nel caso in cui, nel corso del suo mandato, cambiasse parere, orientamento, schieramento, ecc., dovrebbe sottoporsi a un nuovo voto, questa volta “ad personam”: gli elettori – o meglio, soltanto quelli del collegio nel quale è stato originariamente candidato – sarebbero cioè chiamati a pronunciarsi circa l'opportunità della sua permanenza in Parlamento. La “libertà di coscienza” è un principio nobile e non deve perciò trasformarsi in un pretesto per svincolarsi dagli impegni assunti in campagna elettorale, come troppe volte è avvenuto.

Circa il secondo punto – gli istituti di democrazia diretta – nel nuovo sistema politico le proposte di legge di iniziativa popolare non sarebbero le “cenerentole” della legislazione, come oggi purtroppo avviene: infatti, il Parlamento avrebbe non solo il dovere di metterle nell'ordine del giorno dei suoi lavori, ma anche quello di discuterle – con la facoltà di emendarle – e successivamente di metterle ai voti.

Nel caso in cui respingesse la proposta di legge di iniziativa popolare, il Parlamento avrebbe l'obbligo di accompagnare il suo parere negativo con una motivazione scritta, articolata, chiara ed esaustiva (fatti salvi i rilievi di incostituzionalità, che dovrebbero essere deferiti alla Corte Costituzionale). La fondatezza di tale motivazione dovrebbe poi passare obbligatoriamente al vaglio degli elettori mediante un referendum; qualora gli elettori “bocciassero” a loro volta il parere negativo del Parlamento, la legge di iniziativa popolare entrerebbe in vigore nel testo originariamente voluto dai firmatari della proposta.

3. In conclusione, qualche riflessione che raffreddi entusiasmi eccessivi

Dopo avere illustrato questi “sogni” di riforma mi sembra importante sottolineare tuttavia che nessuna proposta di legge, e a maggior ragione nessuna proposta di riforma costituzionale, può nascere perfetta nel chiuso di un “laboratorio”, o nella mente di una singola persona (a prescindere dalla sua preparazione, dalla sua cultura, dalla sua serietà, ecc.): le norme – e a maggior ragione le Costituzioni – in una democrazia si formano e si perfezionano all'interno di un pubblico dibattito, e grazie ad esso, perché non possono che essere un traguardo raggiunto collettivamente, condividendo i saperi e raggiungendo accordi intorno a decisioni che non marginalizzino pregiudizialmente nessuno, e anche perché – banalmente – una testa, da sola, non può cogliere con precisione tutti gli aspetti di un problema o tutte le soluzioni che ad esso si possono dare né è probabile che sia in grado di stabilire in maniera ottimale la scala di priorità dell'agenda politica.

Inoltre, nessun principio generale di “ingegneria costituzionale” – per quanto ragionevole – può in sé riassumere, racchiudere ed esaurire le istanze sociali e politiche più giuste, le soluzioni più adeguate ai problemi della società, ecc.: e così, ad es., per quanto la “centralità del Parlamento” possa in astratto essere preferibile all'invadenza sistematica dell'esecutivo, vi possono essere situazioni, circostanze, materie nelle quali una decisione presa tempestivamente da un organo di vertice, che si assuma la responsabilità politica delle proprie scelte, sia preferibile a un dibattito prolungato ed estenuante, nel quale nessuno si assume la responsabilità di riconoscere l'urgenza di dare soluzione a un problema, per quanto pressante esso sia.

D'altra parte, le norme di legge e le Costituzioni si misurano necessariamente con la prassi; e se le “dure repliche” provenienti da quest'ultima mettono ripetutamente in difficoltà l'architettura ideale di un ordinamento politico – ad es. perché alcune norme cruciali si rivelano inapplicabili o troppo ambigue per dar adito a un'interpretazione condivisa, ecc. – a lungo andare la “prassi” rischia di prendere interamente il posto della “lettera” della norma e la Costituzione si trasforma in un guscio vuoto.

Di tutti questi aspetti bisogna tenere conto quando si progettano riforme costituzionali; e non bisogna poi dimenticare che non sempre le soluzioni ai problemi sociali o economici si possono rintracciare nella “ristrutturazione” dei pilastri costituzionali di un ordinamento. Le Costituzioni, insomma, sono importanti, anzi importantissime (io stesso, come si può ben capire leggendo questo post, mi interrogo con una certa passione sul modo per migliorarle), ma sono solo uno degli “ingredienti” della politica. Mai cadere nell'illusione che, risolto il problema dell'architettura costituzionale di un Paese (ammesso che lo si risolva in modo ottimale...), siano d'un colpo risolti tutti i problemi cruciali e spinosi che la politica e la società pongono.

E' importante a mio avviso esserne coscienti, perché è un errore di prospettiva che può rendere miopi anche i migliori “decisori politici” e i cittadini più “appassionati” della cosa pubblica, non consentendo loro di vedere le crepe che pian piano si insinuano anche nel più solido edificio istituzionale e lo rendono inesorabilmente inviso a tutti coloro che da quelle crepe (da intendersi anche come discrepanze e iati fra le “parole” e le “cose”) sono direttamente minacciati.

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