La
notizia della riforma costituzionale islandese ha attraversato come
una meteora il cielo della nostra informazione ed è poi scomparsa
rapidamente dietro l'orizzonte; eppure si tratta di una questione
importante.
[Per
approfondire, leggere i documenti di séguito linkati: link I (su
“La Stampa.it”), link II (su
“Treccani.it”), link III (su
“Il cambiamento.it”), link IV
(su “iMille.org”)]
L'esperimento
di riforma che si è tentato nell'isola nordica non ha precedenti,
come molti commentatori hanno sottolineato, e per vari motivi.
Innanzitutto,
forse per la prima volta la rabbia popolare – una rabbia non
ciecamente devastante ma capace di esercitare raziocinio – ha
imposto lì alle istituzioni l'accettazione di un principio fino a
quel momento eluso o negato: le decisioni dei governi e dei
governanti, che producono risultati disastrosi in termini sociali ed
economici, non possono rimanere senza conseguenze sul piano delle
responsabilità personali. Chi esercita la sovranità “in nome, per
conto e per il bene del popolo” insomma non è immune da colpe per
gli atti che compie, proprio perché agisce in nome della
collettività e se la danneggia deve render conto (anche in sede
giurisdizionale, se necessario) del danno causatole.
Inoltre,
per la prima volta, grazie a una procedura articolata – forse
ancora imperfetta, come qualcuno ha notato, ma certamente
perfettibile – che prevede in più modi, momenti e livelli
l'intervento diretto dei cittadini, questi ultimi hanno potuto
esprimere in prima persona le loro istanze e farle pesare
nell'elaborazione del progetto di riforma costituzionale.
Il
progetto ha superato brillantemente anche l'“esame” referendario
(uno dei passaggi previsti dalla procedura cui si accennava),
nell'ottobre scorso, e attende ora soltanto di essere discusso in
Parlamento.
Non so quanti l'abbiano letto attentamente in Italia – non credo in
molti, a giudicare dagli scarsi o scarni approfondimenti (salvo
lodevoli eccezioni) che si sono potuti leggere sui giornali e sul
Web.
Personalmente
ritengo che il progetto costituzionale islandese vada letto e
conosciuto anche da noi, specialmente in un momento nel quale si
spera nel “cambiamento” e nella trasformazione in senso
(maggiormente) partecipativo della nostra democrazia
(prevalentemente) rappresentativa – ed anche nel rafforzamento dei
diritti fondamentali delle persone, nonché del controllo sugli atti
dei pubblici poteri.
Mi
accingo quindi, per dare un piccolo contributo alla conoscenza di
questo documento, a evidenziarne alcuni articoli, che appaiono
innovativi non soltanto alla luce della storia istituzionale e
costituzionale dell'Islanda e dei Paesi scandinavi in genere, ma
soprattutto rispetto al dibattito politico delle nostre latitudini.
[Il
testo completo del progetto di Costituzione dell'Islanda, in lingua
inglese, è reperibile qui; una traduzione in italiano –
della quale mi sono avvalso, con qualche modifica, per le citazioni
del testo – è reperibile invece qui]
Tralascerò,
per ovvi motivi, gli articoli del progetto costituzionale islandese
che contengono princìpi ormai universalmente accettati e recepiti,
con varianti di scarsa rilevanza, nelle Costituzioni di tutti i Paesi
democratici, a cominciare dall'Italia, e concentrerò invece la mia
attenzione sugli articoli che introducono novità significative o che
propongono emendamenti degni di nota ai princìpi costituzionali
classici delle democrazie.
1.
Una sintetica analisi dei princìpi rilevanti del progetto di
Costituzione islandese
Orbene,
per cominciare, nell'art. 6 del progetto di riforma costituzionale in
esame, che reca come titolo “Uguaglianza”,
si stabilisce non solo che tutti sono uguali davanti alla legge
(principio classico del liberalismo), ma anche che tutti «godono
dei diritti umani senza alcuna discriminazione riguardante il sesso,
l’età, il genotipo, l’origine geografica o economica, la
disabilità, l’orientamento sessuale, la razza, il colore, le
opinioni politiche, le frequentazioni, la religione, la lingua o
condizioni di censo, nascita o altro».
L'elenco
è ampio e particolareggiato, forse per non dare adito a inopinate
esclusioni: il principio di uguaglianza – dichiara in sostanza
questa norma – mira a decretare l'illegittimità sul piano
costituzionale di qualsiasi
tipo di discriminazione fra esseri umani, nessuno escluso,
a prescindere da qualsiasi giustificazione storica, tradizionale,
religiosa, settaria, ideologica, ecc., che possa essere addotta per
sostenere la giustezza dell'esclusione di questo o quel gruppo
sociale, etnico, religioso, ecc., dal godimento dei diritti sanciti
dalla Costituzione stessa. E a corollario di un'affermazione così
limpida e chiara, l'articolo specifica anche che «Uomini
e donne godono degli stessi diritti sotto ogni aspetto»,
negando quindi categoricamente e in radice la legittimità di
qualsiasi differenziazione fra i sessi in fatto di godimento di
diritti.
L'art.
8, apparentemente lapidario, è in realtà importante, perché
sancisce che a tutti (intesi secondo le specificazioni dell'art. 6,
ovvero nel senso di “tutti senza escludere nessuno per la sua
etnia, le sue opinioni, il suo orientamento affettivo, ecc.”)
dev'essere garantita non
una vita purchessia, bensì una vita
dignitosa.
Inoltre l'articolo dice che «La
diversità della vita umana è rispettata».
Numerose importanti implicazioni può avere questa affermazione; ad
esempio, significa tra l'altro che lo Stato riconosce che la vita
umana non è riconducibile né riducibile a un unico modello astratto
presuntivamente “buono”; la diversità delle opinioni, degli
stili di vita, delle scelte individuali, dei gusti, degli
orientamenti, ecc. – una diversità costitutiva
delle comunità umane, che non si può ridurre a unità se non con un
atto di arbitrio antidemocratico – è un dato che il legislatore e
la società devono accettare e limitarsi a registrare, senza
pretendere di alterarlo o, men che meno, sopprimerlo, magari in nome
della discutibile imposizione di un unico panel
di valori ritenuto (arbitrariamente sino a prova contraria) l'unico
accettabile moralmente o socialmente.
L'art.
9 stabilisce che è dovere delle autorità proteggere sempre
(quindi senza
alcuna eccezione)
i cittadini dalla violazione dei loro diritti fondamentali, anche
qualora tale violazione sia compiuta da pubblici poteri.
L'art.
10 (che reca come titolo “Rispetto
della dignità personale”)
recita: «A
tutti sono garantite le libertà fondamentali e la protezione contro
ogni forma di violenza e di abuso all'interno come all’esterno
delle mura domestiche».
La lotta contro la violenza – anche e soprattutto quella che si
scatena talora nei rapporti interindividuali, familiari e di coppia –
assume quindi il rango di principio costituzionale, dal quale il
legislatore e gli operatori della sicurezza pubblica non possono
prescindere.
Quasi
a integrare quanto disposto dagli ultimi due articoli citati, l'art.
12 (“Diritti
dei minori”),
dando rilievo ai minori come soggetti bisognosi di particolare
tutela, dichiara poi che «A
tutti i bambini vengono garantiti la protezione e il soddisfacimento
dei bisogni di cura»
e
inoltre che il loro interesse, nei provvedimenti che li riguardano, è
prioritario.
L'art.
14, nel tutelare la libertà di opinione e di espressione, sancisce
tra l'altro che «I
Governi devono garantire le condizioni per lo svolgimento di un
dialogo aperto e informato»,
il che vuol dire che il diritto a esprimere e a scambiarsi opinioni e
pareri non è una semplice facoltà
dei singoli che il governo deve limitarsi a “non impedire” e a
non ostacolare, bensì è il prerequisito per un dialogo libero
da vincoli
e informato,
dialogo che diventa quindi bene costituzionalmente tutelato, che le
pubbliche autorità sono tenute a garantire
attivamente
(eliminando tutti gli ostacoli che dovessero renderlo di fatto
impraticabile o difficilmente attuabile) se non addirittura a
promuovere.
Nello
stesso articolo si stabilisce altresì che l'accesso
a Internet
– altro prerequisito essenziale, ormai, per un dialogo «aperto e
informato» – non può essere impedito a nessuno, se non con
sentenza emessa per casi specifici dagli organi giurisdizionali
competenti.
L'art.
15, che sancisce e regola il “Diritto
all'informazione”,
afferma che «Chiunque è
libero di raccogliere e diffondere informazioni».
La libera raccolta e circolazione delle informazioni è considerata,
alla pari del «dialogo aperto e informato», un ingrediente
essenziale per la formazione di convincimenti, opinioni, idee e in
definitiva per il corretto svolgersi del dibattito presso i canali
nei quali si manifesta la pubblica opinione.
L'amministrazione
pubblica, afferma inoltre questa norma, «è
trasparente»
e deve conservare traccia dei suoi atti e provvedimenti. Con le sole
eccezioni dovute alla sicurezza nazionale e alla riservatezza
personale, «La
raccolta, diffusione e trasmissione dei documenti, la loro
conservazione e pubblicazione non può essere limitata»;
e in ogni caso, anche riguardo ai documenti tutelati dal segreto, si
devono per legge stabilire tempi entro i quali renderli accessibili a
tutti. La loro accessibilità pubblica non è dunque vietata in
perpetuo, ma solo rinviata.
Nel
sancire poi la libertà di religione, l'art. 18 stabilisce che «A
tutti è garantito il diritto di avere proprie convinzioni religiose
e filosofiche, compreso il diritto di cambiare religione o
convinzioni personali e il diritto di rimanere al di fuori delle
organizzazioni religiose».
Nessuno
può quindi essere perseguitato, sia in maniera palese che
sotterranea, per presunta “apostasia”: il diritto
di cambiare opinione,
in qualsiasi àmbito che riguardi la coscienza personale, è tutelato
costituzionalmente. Inoltre si ha pieno diritto a non professare
alcuna fede religiosa.
(Bisogna
però anche tener presente che, in ossequio alla tradizione di molti
Paesi di religione protestante luterana, viene conservata la
“religione di Stato” in Islanda, come si evince da alcune
disposizioni del progetto di Costituzione.)
Nell'art.
21, dedicato alla “Libertà
di riunione”,
viene garantito a tutti il diritto di riunirsi in assemblea, non solo
per riunioni propriamente dette, ma anche per effettuare e
organizzare azioni di protesta.
L'art.
22 menziona i “Diritti
sociali”
garantendo a tutti coloro che versino in stato di bisogno il «diritto
alla sicurezza e all'assistenza sociale».
Anche in questo caso, nessuna eccezione o discriminazione può essere
tollerata.
Le
disposizioni di questo articolo vengono integrate da quelle dell'art.
23, che garantisce a tutti, in nome del diritto alla salute fisica e
psicologica, la fruizione di prestazioni sanitarie «accessibili,
appropriate e adeguate».
A
sua volta, l'art. 24, dedicato all'“Istruzione”,
oltre alle consuete disposizioni sull'istruzione di base
obbligatoria, contiene la seguente affermazione: «L'istruzione
deve mirare ad uno sviluppo completo per ogni individuo, al pensiero
critico e alla consapevolezza dei diritti umani, democratici e dei
doveri».
L'istruzione,
considerata uno strumento per educare alla cittadinanza, nell'ottica
di questo progetto costituzionale, deve formare essenzialmente
cittadini consapevoli, che conoscano i loro diritti e i loro doveri, il senso e il
valore della democrazia e – questione non secondaria – deve
promuovere e coltivare il vero “cuore” della libertà
democratica, ovvero il pensiero
critico,
che si traduce nella capacità di ciascuno di formarsi opinioni
autonome, di autodeterminarsi e di interpretare la realtà senza dar
credito passivamente alle “verità ufficiali” e al bagaglio di
dogmi (anche sociali), preconcetti e luoghi comuni che, tendendo alla
preservazione di un monolitico e immutabile “pensiero unico”, non
di rado favorito da settori privilegiati della società, impediscono
spesso alla società e a ciascun individuo di prendere coscienza
della vera sostanza dei problemi socio-politici (e conseguentemente
impediscono di discutere collettivamente, senza pregiudiziali
“fideistiche” – e senza immotivati e arroganti anatemi,
estrinsecazione autoritaria dei preconcetti e luoghi comuni di cui
sopra, contro questo o quel filone di pensiero – dei mezzi per
porvi rimedio).
L'art.
29 sancisce il “Divieto
di trattamenti inumani”,
nei quali comprende espressamente la pena di morte, la tortura e i
lavori forzati.
Nell'art.
31 si specifica poi che nell'ordinamento giuridico islandese non si
può introdurre mai,
in nessun tempo e per nessuna ragione, il servizio militare
obbligatorio.
(Diversa
la situazione nel nostro ordinamento: l'art. 52 della Costituzione
italiana fa tuttora menzione dell'obbligo di prestare il servizio
militare, anche se questo è per il momento sospeso dalla
legislazione ora in vigore.)
L'importanza
che nell'ordinamento dell'isola nordica viene data all'ambiente è
testimoniata dall'art. 33, nel quale si stabilisce che «La
natura dell’Islanda è il fondamento della vita del Paese. Ognuno
ha l'obbligo di rispettarla e proteggerla».
Una disposizione chiara e senz'altro all'avanguardia: la natura non è
un mero accessorio che ciascuno, a suo capriccio, può danneggiare o
deturpare, ma è «il fondamento» stesso «della vita del Paese».
E' una constatazione che corrisponde semplicemente alla realtà delle
cose, e in un mondo che non fosse sopraffatto e fuorviato da
tradizioni e abitudini spesso deliranti (anche qualora
plurisecolari), o dall'ottusa prevalenza del profitto e del
tornaconto momentaneo su ogni altra considerazione, non ci sarebbe
neppure bisogno di menzionarla nelle Costituzioni.
Ma
non è tutto: sempre l'art. 33 sancisce che «La
legge garantisce a tutti il diritto ad avere un ambiente salubre,
acqua fresca, aria pulita e natura incontaminata»:
è dunque preciso dovere costituzionale delle istituzioni (oltre che
di ciascun cittadino) vigilare costantemente affinché l'inquinamento
non danneggi l'ambiente.
E
ancora, decreta questo articolo del progetto costituzionale, «Le
risorse naturali sono gestite in modo da ridurre al minimo il loro
esaurimento a lungo termine, rispettando i diritti della natura e
delle generazioni future».
Fra
i diritti costituzionalmente garantiti, vengono dunque menzionati i
diritti
della natura
(in specie il diritto a venir protetta dal pericolo di soverchio e
scriteriato sfruttamento delle sue risorse) e quelli delle
generazioni future:
diritti che le carte costituzionali del passato purtroppo
sottovalutavano o ignoravano del tutto e che oggi invece appaiono
rilevanti e non più sacrificabili.
A
integrazione delle disposizioni previste nell'articolo appena
esaminato, l'art. 34 stabilisce che «In
Islanda le risorse naturali non sono di proprietà privata ma sono
proprietà comune e perpetua della nazione. Nessuno può acquisire le
risorse naturali e i relativi diritti come proprietà o uso
permanente e queste non possono mai essere vendute o ipotecate».
Le
risorse naturali sono costitutivamente patrimonio di tutti e quindi
non possono essere assoggettate alle leggi del profitto di pochi: il
profitto – pur tutelato, con la proprietà privata e la libertà di
impresa, dalla stessa Costituzione, nei settori nei quali non produce
svantaggi per la collettività – è incompatibile con la fruizione
aperta e non monetizzabile di beni comuni come le risorse naturali.
Tra le risorse tutelate espressamente da questo articolo, vi sono «le
scorte ittiche, le altre risorse del mare e dei fondali sotto la
giurisdizione islandese, le fonti d'acqua e diritti di produzione
elettrica, l’energia geotermica e i giacimenti minerari».
La
norma fissa anche precisi vincoli in capo alle autorità pubbliche
sulle modalità di utilizzo delle risorse naturali sopra definite,
infatti dice: «L'utilizzo
delle risorse è orientato ad uno sviluppo sostenibile e
nell'interesse pubblico».
Non
è l'unico riferimento al ruolo dei pubblici poteri, in questa
materia, infatti l'articolo stabilisce anche che «Le
autorità di governo insieme a coloro che utilizzano le risorse sono
responsabili per la loro protezione».
Compare
quindi, in un luogo cruciale, la responsabilità
dei pubblici poteri, che informa tutto il progetto costituzionale e
ne rappresenta una delle novità più importanti.
Di
ambiente si parla anche nell'art. 35, nel quale si stabiliscono altri
doveri a carico dei pubblici poteri: «Le
autorità pubbliche sono tenute ad informare il pubblico sullo stato
dell'ambiente e della natura e l'impatto delle relative attività. Le
autorità governative e le altre parti devono fornire informazioni su
qualsiasi calamità naturale imminente e sull’inquinamento
ambientale».
Le
autorità non possono quindi “minimizzare” i pericoli legati
all'ambiente e alla sua conservazione, in nome di un polveroso e
paternalistico “dovere di non allarmare”, in altre parti del
mondo (ove, rivelandosi in questo un'attitudine insultante e
offensiva da parte delle pubbliche autorità, i cittadini non vengono
considerati evidentemente davvero “maggiorenni”) purtroppo ancora
considerato imprescindibile...
Il
diritto all'informazione si intreccia qui col diritto alla
partecipazione dei cittadini alla formulazione di decisioni che li coinvolgono: «La
legge garantisce il coinvolgimento della popolazione ai preparativi
per le decisioni che hanno un impatto sull'ambiente e sulla natura e
la possibilità di cercare l'intervento di un arbitrato imparziale».
L'art.
36, concludendo le disposizioni riguardanti la tutela delle specie
viventi, menziona in particolare gli animali e, dando incarico al
Parlamento di emanare apposite leggi, sancisce il divieto assoluto di
maltrattamenti a loro danno; specifica inoltre che la legge deve
proteggere le specie a rischio di estinzione, fissando quindi misure
e strategie all'uopo opportune.
Passando
ora a esaminare brevemente le norme che regolano l'ordinamento dei
pubblici poteri, possiamo constatare che l'art. 48, recante il titolo
“Indipendenza
dei membri del Parlamento”,
stabilisce che «I
membri del Parlamento sono guidati unicamente dalle loro convinzioni
e non da istruzioni da parte di terzi»:
si conferma qui il principio conosciuto come “divieto del mandato
imperativo”, patrimonio comune di tutte le democrazie parlamentari
moderne [si veda ad es. l'art. 67 della Costituzione italiana],
principio in base al quale ogni parlamentare rappresenta la nazione o
la cittadinanza nel suo insieme e quindi non è tenuto a obbedire a
istruzioni provenienti da singoli elettori (o da gruppi di elettori)
– e in teoria neppure a istruzioni provenienti dai dirigenti del
proprio partito di riferimento.
Pur
se ineccepibile sotto il profilo delle garanzie costituzionali,
giacché consente al parlamentare di sottrarsi ai condizionamenti
esterni e di giudicare serenamente e con coscienza i provvedimenti
sui quali è chiamato a esprimersi, il “divieto del mandato
imperativo” suscita ultimamente non poche perplessità, poiché si
presta ad abusi da parte dei parlamentari, o meglio può essere
utilizzato come “foglia di fico” per giustificare “cambi di
casacca” che hanno talora motivazioni poco nobili, slegate dal vero
interesse della nazione (che il parlamentare è sempre tenuto ad
anteporre a ogni altro interesse). Inoltre, il “divieto del mandato
imperativo” nei fatti non è davvero un divieto pieno, poiché
quasi mai il parlamentare è in grado di sottrarsi agli ordini che
riceve dal proprio partito, se non rischiando di essere espulso dal
medesimo, subendo per giunta il biasimo dell'opinione pubblica, anche
qualora l'ordine del partito sia palesemente ingiusto; e d'altra
parte, la dialettica propria delle democrazie non auspica una
indipendenza piena e letterale del parlamentare rispetto al proprio
partito, perché questa si configurerebbe come sganciamento completo
dell'eletto dal mandato ricevuto dagli elettori (che non votano solo
la persona, ma anche, in modo inscindibile, l'idea politica che
quella esprime e che si compendia nel simbolo del partito nelle cui
liste il candidato si presenta alle elezioni).
Il
discorso è complesso e il dibattito sul tema è molto articolato,
trattandosi di uno dei nodi più delicati della democrazia
rappresentativa; ma quel che è certo è che – come d'altronde
questa norma inserita nel progetto costituzionale islandese conferma
– il principio in questione, che dev'essere senz'altro ridiscusso
ed emendato (prevedendo forse nuove forme di controllo sull'operato
dei parlamentari), per l'importanza che riveste non può tuttavia
essere cancellato dall'ordinamento con un semplice tratto di penna.
L'art.
50 regola poi i conflitti di interessi dei parlamentari, decretando
che «A
un membro del Parlamento è fatto divieto di partecipare a
deliberazioni parlamentari che riguardino suoi interessi particolari
e significativi o quelli di persone con cui ha stretti legami».
E' un principio che altri ordinamenti non prevedono e che invece
potrebbe contribuire a migliorare la trasparenza delle decisioni
pubbliche e del rapporto fra eletti ed elettori.
Per
quanto riguarda la fase della promulgazione delle leggi, l'art. 60
prevede che, qualora il Presidente dell'Islanda si rifiuti di
controfirmare un provvedimento legislativo approvato dal Parlamento,
con decisione motivata, «Il
disegno di legge diviene comunque legge, ma solo dopo essere stato
sottoposto entro tre mesi ad un referendum per l’approvazione o il
rifiuto. Una maggioranza semplice dei voti decide se la legge rimane
in vigore. Tuttavia, il referendum non ha luogo se il Parlamento
abroga l'atto entro cinque giorni dal diniego da parte del
Presidente».
Insomma,
nei casi in cui sorge un conflitto fra il Parlamento e il Capo dello
Stato in merito a un determinato provvedimento di legge, sono gli
elettori, supremi arbitri in quanto destinatari finali del
provvedimento in questione, a dirimere la “controversia”,
decidendo con referendum a quale dei due poteri dar ragione. E il
Parlamento ha un solo modo per evitare il referendum: ritirare il
disegno di legge contestato.
Ritengo
sia una buona maniera per ridurre la distanza fra eletti ed elettori,
prima che questa nei casi critici si trasformi in assoluta
estraneità, ossia per integrare gli istituti della rappresentanza –
specialmente nei casi in cui per qualche motivo le loro decisioni
appaiono discutibili – con efficaci e tempestivamente attivabili
strumenti di partecipazione che possano fungere da indispensabile
“correttivo”.
Nell'art.
63 si fa menzione di un organo collegiale inedito in altri
ordinamenti, la Commissione Costituzionale di Vigilanza del
Parlamento, la quale «indaga
su tutti i provvedimenti e le decisioni dei Ministri e del Governo
come ritiene opportuno. La Commissione ha l'obbligo di avviare tali
indagini su richiesta di un terzo dei membri del Parlamento».
L'art.
65 dà facoltà a un decimo degli elettori di «fare
richiesta per un referendum su di una legge approvata dal Parlamento.
La petizione è presentata entro tre mesi dal momento in cui la legge
è stata approvata. La legge è abrogata se respinta dal corpo
elettorale, altrimenti resta in vigore. Tuttavia, il Parlamento può
decidere di abrogare la legge prima che il referendum abbia luogo».
In sostanza, si tratta di un referendum equivalente a quello
abrogativo previsto dall'art. 75 della Costituzione italiana; in
questo caso, si tratta però di un referendum “confermativo” e
quindi il significato del “Sì” è opposto rispetto a quello del
referendum abrogativo italiano. Infatti, al cittadino italiano, in
occasione di tali referendum, si domanda se intende abrogare
la norma in discussione, laddove al cittadino islandese – in base a
questo progetto costituzionale – si chiede se intende mantenere
in vigore
la norma sottoposta al voto popolare.
L'art.
66 disciplina un istituto equivalente a quello che nell'ordinamento
italiano è definito e noto come “proposta di legge di iniziativa
popolare” [il cui fondamento normativo è l'art. 71, comma 2, della Costituzione italiana]. Però, mentre da noi i cittadini, dopo aver raccolto le
firme per depositare la proposta di legge presso le Camere, non
possono fare altro che attendere le decisioni del Parlamento, che
peraltro è autorizzato anche a far cadere nel vuoto la proposta di
legge presentata dagli elettori, nel progetto costituzionale
islandese le cose funzionano altrimenti. Secondo il disposto
dell'art. 66, infatti, «Il
dieci per cento degli elettori può presentare un progetto di legge
in Parlamento. Il Parlamento può presentare una controproposta nella
forma di un altro disegno di legge. Se il disegno di legge degli
elettori non viene ritirato è sottoposto a referendum, così come il
disegno di legge del Parlamento se introdotto. Il Parlamento può
decidere se rendere il referendum vincolante».
Ora,
se è vero che quest'ultima disposizione concede comunque l'ultima
parola al Parlamento, è anche vero che il disegno di legge
presentato dagli elettori costringe in ogni caso il legislativo, se
non gradisce quel testo, a formulare una propria controproposta: il
semplice “insabbiamento” della proposta di legge proveniente
dagli elettori non è un'opzione praticabile.
L'art.
67, nello stabilire i princìpi fondamentali che devono regolare i
vari tipi di referendum previsti dall'ordinamento, analogamente a
quanto statuisce la Costituzione italiana, afferma che alcune
materie, come le tasse, il bilancio dello Stato e gli accordi
internazionali (ma anche i diritti di cittadinanza), non possono
essere sottoposte a referendum. Inoltre «Si
deve garantire che un disegno di legge proposto dagli elettori sia in
conformità con la Costituzione. In caso di non conformità alla
Costituzione i tribunali saranno chiamati a risolvere tali
controversie».
L'art.
75 prevede l'istituto del Mediatore parlamentare, un'autorità
indipendente che «deve
difendere i diritti dei cittadini e controllare l'amministrazione
dello Stato e degli enti locali»
e deve adoperarsi «per
assicurare il rispetto della non discriminazione nella pubblica
amministrazione nell'osservanza della legge e delle buone prassi
amministrative».
L'art.
84, che regola le procedure per la rimozione del Presidente
dell'Islanda dal suo incarico, stabilisce fra l'altro che «Il
Presidente può essere rimosso dal suo incarico prima della fine del
mandato purché ciò sia accettato dalla maggioranza dei voti in un
referendum su iniziativa del Parlamento e sarà necessario che tre
quarti dei membri del Parlamento votino per questo. Il referendum
deve avvenire entro due mesi dal momento del voto in Parlamento e il
Presidente non deve svolgere il suo ufficio dal momento in cui il
Parlamento adotta la sua risoluzione fino a quando i risultati del
referendum sono noti».
Insomma,
anche in questo caso si fa ricorso al referendum e sono gli elettori
ad avere l'ultima parola: loro hanno scelto il Presidente (che
infatti viene eletto a suffragio universale) e sono sempre loro a
decidere se “licenziarlo”. Il Parlamento fa da “filtro
iniziale” alla procedura, ossia accerta (ad ampia maggioranza) che
sussistano le condizioni per chiedere la rimozione del Presidente
dall'incarico, ma non può prendere una decisione in merito.
Quanto
alla formazione del Governo, l'art. 90 stabilisce che «Il
Parlamento elegge il Primo Ministro»,
su proposta del Presidente, sentiti i partiti e i parlamentari.
«Il
Primo Ministro viene regolarmente eletto se la proposta viene
approvata dalla maggioranza del Parlamento. In caso contrario, il
Presidente dell'Islanda presenta una nuova proposta nello stesso
modo. In mancanza di tale proposta è accettata un’elezione che ha
luogo tra i candidati proposti dai membri del Parlamento, i partiti
parlamentari o il Presidente dell'Islanda. Il candidato con più voti
sarà il Primo Ministro.
Se
non viene eletto un primo Ministro entro dieci settimane, il
Parlamento è sciolto e sono indette nuove elezioni».
In
tal modo, il Presidente e il Parlamento sono responsabili in egual
misura per la scelta del Primo Ministro (difficile dunque che possa
ipotizzarsi un “governo del Presidente”).
L'art.
93, riprendendo i princìpi sanciti dall'art. 15 sul diritto
all'informazione, li applica ai rapporti fra Parlamento e Governo: e
così «Un
Ministro ha l'obbligo di riferire al Parlamento o in una Commissione
parlamentare tutte le informazioni, documenti e relazioni su
questioni che sono sotto la sua autorità se non sono classificate
come segrete dalla legge»
e non può adoperare alcuna reticenza né “edulcorare” fatti,
documenti e questioni nella sua risposta al Parlamento, giacché «Le
informazioni fornite da un Ministro al Parlamento, alle sue
Commissioni e ai suoi membri, devono essere corrette, pertinenti e
adeguate»: anche, se non
soprattutto, in questo si sostanzia il rapporto di fiducia fra
legislativo ed esecutivo, in base a questo testo di riforma
costituzionale.
L'art.
108 sancisce l'“Obbligo di consultazione”
per le questioni che toccano le comunità locali: nella fase di
preparazione delle norme, enti locali e associazioni territoriali
devono essere obbligatoriamente consultate.
Per
quanto riguarda gli accordi internazionali che comportano per lo
Stato la cessione di parte dei suoi poteri sovrani, l'art. 111
stabilisce tra l'altro che «Il trasferimento di poteri
dello Stato è sempre revocabile»:
in quest'àmbito nessuna decisione è irreversibile (lo Stato non
perde mai i suoi poteri, insomma, ma può al massimo temporaneamente
accantonarli). Inoltre «Se il Parlamento approva la
ratifica di un accordo che comporta un trasferimento di poteri dello
Stato, la decisione è sottoposta ad un referendum per l'approvazione
o il rifiuto. I risultati di tale referendum sono vincolanti»:
in una materia così delicata i cittadini devono dire la loro e le
pubbliche autorità non possono “paternalisticamente” ignorare o
scavalcare le loro decisioni. Se lo Stato trasferisce i suoi poteri a
organismi sovranazionali, è solo quando e perché i cittadini lo
vogliono. Su questo tema, nessun'altra autorità, neppure il
Parlamento, può decidere alcunché, ma solo proporre.
Infine,
l'art. 112 impone a ogni autorità pubblica di «rispettare
le norme in materia di diritti umani ritenute vincolanti per lo Stato
dal diritto internazionale e garantire la loro attuazione ed
efficacia, coerentemente con il proprio ruolo, in base alle legge e
nei limiti delle proprie competenze».
Tirando
le somme, sicuramente per molti aspetti il progetto costituzionale
islandese appare molto coraggioso e avanzato, poiché recepisce le
richieste provenienti da vari movimenti e rafforza il ruolo dei
cittadini-elettori nel processo decisionale, al tempo stesso
sottoponendo l'azione dei pubblici poteri a maggiori vincoli e
controlli rispetto al passato, dato che coloro che esercitano
funzioni pubbliche, specie nei ruoli politici apicali, sono qui
considerati pienamente responsabili
delle decisioni che prendono nell'esercizio dei loro poteri.
Qualcuno
ha osservato che però alcune ambiziose enunciazioni di principio di
questo testo di riforma costituzionale rischiano di rimanere lettera
morta, non essendo facilmente attuabili, almeno nel breve periodo.
(Si
vedano poi d'altronde le caute riflessioni che esprimo nelle
conclusioni di questo post, più in basso.)
Questo
può essere almeno in parte vero; ma il tentativo è comunque
promettente e, se la riforma va effettivamente in porto, può aprire
la strada a una nuova “stagione costituente” almeno in Europa e
forse anche altrove.
2.
Qualche proposta di riforma costituzionale per altre latitudini
E
prendendo spunto da un progetto di riforma costituzionale così
all'avanguardia, si possono senz'altro ipotizzare alcuni correttivi
che si potrebbero apportare al nostro ordinamento.
Senza
alcuna pretesa di completezza, passo a enumerare quelli che
personalmente ho immaginato e che porrei in discussione volentieri in
un'ipotetica assemblea costituente.
Si
tratta magari soltanto di un “sogno ad occhi aperti”, ma talvolta
conviene – anche per respirare per un momento un'aria più
tollerabile di quella che abitualmente ci circonda – affidarsi a
questo genere di sogni.
Innanzitutto,
se il mio “sogno” fosse determinante, i caratteri fondamentali
del nuovo sistema politico sarebbero: la centralità (vera, concreta)
del Parlamento e un ruolo non marginale e non meramente simbolico
degli istituti di democrazia diretta.
E
così, per tutelare davvero la centralità del Parlamento, il governo
(che dovrebbe tornare ad essere realmente un “esecutivo” e
smetterla di essere un “deus ex machina” del nulla) non potrebbe
più porre “ad libitum” la questione di fiducia: come avviene in
altri Paesi, il governo avrebbe a disposizione solo due o al massimo
tre occasioni ogni anno per “giocarsi” il jolly della questione
di fiducia, e dovrebbe imparare seriamente a giocarselo bene.
[A
mio parere, in questi anni si è insistito anche troppo sul mito
della governabilità, e l'enfasi eccessiva che è stata data a
questo termine è servita quasi esclusivamente a svilire il ruolo del
Parlamento, in qualche caso arrivando ai limiti del vilipendio:
demitizzare il ruolo del governo, togliendolo dal cielo e
riconducendolo sulla terra, dov'è il suo reale posto, servirebbe
forse a persuaderci – consegnandoci finalmente a una salutare
lucidità, dopo secoli di ibride e vischiose “teologie politiche”
– che nel campo della politica non ci sono dei ex machina e
che è inutile delegare a un Gatto o a una Volpe la moltiplicazione
dei nostri “zecchini” (da intendere non solo e non
necessariamente in senso letterale, come “soldi”), sapendo
peraltro benissimo, “in cuor nostro”, che quel potere non lo
hanno e non lo avranno mai. Si può obiettare che si tratta di un
percorso di risveglio arduo e accidentato, ma, affrontandolo un passo
alla volta, sono convinto che ormai si possa intraprenderlo, con
tutte le cautele del caso... D'altra parte non si deve neppure far
l'errore di credere che della funzione di governo – sia pure
“ristrutturata” e depurata da aloni mitico-sacrali ormai
sorpassati (decisamente non è più tempo di Re taumaturghi [cit.])
– si possa tranquillamente fare a meno.]
Inoltre,
dovrebbe essere tassativamente vietato l'abuso della decretazione
d'urgenza: il governo potrebbe sì presentare decreti legge basati
sui requisiti di necessità e urgenza, ma questi requisiti dovrebbero
essere severamente vagliati dal Parlamento, o da una sua commissione
specifica, che deciderebbe a scrutinio segreto e inappellabilmente in
merito a tale questione preliminare.
Ove
il Parlamento, o una sua commissione, rilevasse che tali requisiti di
“necessità e urgenza” non sussistono, il decreto legge
perderebbe efficacia e non potrebbe essere presentato poi dal governo
neppure un nuovo decreto legge sulla stessa materia, se non nella
legislatura successiva (ovviamente, se non vuole aspettare tanto, il
governo può decidere di “declassare” il decreto legge a
“semplice” disegno di legge, il quale seguirebbe l'ordinario iter
di approvazione alle Camere).
Sempre al fine di tutelare la centralità del Parlamento, si dovrebbe tornare al
sistema elettorale proporzionale – l'unico che rispecchi i reali
orientamenti del Paese – e si dovrebbe vietare l'apposizione dei
nomi sui simboli di lista e di partito, seguiti dall'indicazione:
“presidente” o simili, in quanto i cittadini non sarebbero
chiamati a votare per un qualche leader ma per i loro rappresentanti,
vincolati al rispetto di un determinato programma politico.
Insomma,
il Parlamento sarebbe il vero centro del sistema (fatti salvi gli
istituti di democrazia diretta, di cui si parla dopo) e il governo
sarebbe un puro comitato esecutivo, eletto dal Parlamento in seduta
comune, presieduto a rotazione da ciascuno dei ministri e soggetto
alle direttive del Parlamento medesimo, a sua volta posto sotto la
stretta supervisione del corpo elettorale.
Il
governo potrebbe essere sfiduciato su iniziativa del Parlamento in
qualsiasi momento, a patto però che fosse pronta una soluzione
alternativa (una nuova maggioranza parlamentare, ad esempio, ma non
solo).
Nel
rispetto del divieto del mandato imperativo [si veda il ragionamento
già fatto poc'anzi], il parlamentare non sarebbe costretto a subire
diktat dalle segreterie di partito, ma d'altra parte – siccome ogni
libertà deve essere legata a una corrispettiva responsabilità –
sarebbe tenuto a rispettare gli impegni assunti con gli elettori; nel
caso in cui, nel corso del suo mandato, cambiasse parere,
orientamento, schieramento, ecc., dovrebbe sottoporsi a un nuovo
voto, questa volta “ad personam”: gli elettori – o meglio,
soltanto quelli del collegio nel quale è stato originariamente
candidato – sarebbero cioè chiamati a pronunciarsi circa
l'opportunità della sua permanenza in Parlamento. La “libertà di
coscienza” è un principio nobile e non deve perciò trasformarsi
in un pretesto per svincolarsi dagli impegni assunti in campagna
elettorale, come troppe volte è avvenuto.
Circa
il secondo punto – gli istituti di democrazia diretta – nel nuovo
sistema politico le proposte di legge di iniziativa popolare non
sarebbero le “cenerentole” della legislazione, come oggi
purtroppo avviene: infatti, il Parlamento avrebbe non solo il dovere
di metterle nell'ordine del giorno dei suoi lavori, ma anche quello
di discuterle – con la facoltà di emendarle – e successivamente
di metterle ai voti.
Nel
caso in cui respingesse la proposta di legge di iniziativa popolare,
il Parlamento avrebbe l'obbligo di accompagnare il suo parere
negativo con una motivazione scritta, articolata, chiara ed esaustiva
(fatti salvi i rilievi di incostituzionalità, che dovrebbero essere
deferiti alla Corte Costituzionale). La fondatezza di tale
motivazione dovrebbe poi passare obbligatoriamente al vaglio degli
elettori mediante un referendum; qualora gli elettori “bocciassero”
a loro volta il parere negativo del Parlamento, la legge di
iniziativa popolare entrerebbe in vigore nel testo originariamente
voluto dai firmatari della proposta.
3.
In conclusione, qualche riflessione che raffreddi entusiasmi
eccessivi
Dopo
avere illustrato questi “sogni” di riforma mi sembra importante
sottolineare tuttavia che nessuna proposta di legge, e a maggior
ragione nessuna proposta di riforma costituzionale, può nascere
perfetta nel chiuso di un “laboratorio”, o nella mente di una
singola persona (a prescindere dalla sua preparazione, dalla sua
cultura, dalla sua serietà, ecc.): le norme – e a maggior ragione
le Costituzioni – in una democrazia si formano e si perfezionano
all'interno di un pubblico dibattito, e grazie ad esso, perché non
possono che essere un traguardo raggiunto collettivamente,
condividendo i saperi e raggiungendo accordi intorno a decisioni
che non marginalizzino pregiudizialmente nessuno, e anche perché –
banalmente – una testa, da sola, non può cogliere con precisione
tutti gli aspetti di un problema o tutte le soluzioni che ad esso si
possono dare né è probabile che sia in grado di stabilire in
maniera ottimale la scala di priorità dell'agenda politica.
Inoltre,
nessun principio generale di “ingegneria costituzionale” – per
quanto ragionevole – può in sé riassumere, racchiudere ed
esaurire le istanze sociali e politiche più giuste, le soluzioni più
adeguate ai problemi della società, ecc.: e così, ad es., per
quanto la “centralità del Parlamento” possa in astratto essere
preferibile all'invadenza sistematica dell'esecutivo, vi possono
essere situazioni, circostanze, materie nelle quali una decisione
presa tempestivamente da un organo di vertice, che si assuma la
responsabilità politica delle proprie scelte, sia preferibile a un
dibattito prolungato ed estenuante, nel quale nessuno si assume la
responsabilità di riconoscere l'urgenza di dare soluzione a un
problema, per quanto pressante esso sia.
D'altra
parte, le norme di legge e le Costituzioni si misurano
necessariamente con la prassi; e se le “dure repliche”
provenienti da quest'ultima mettono ripetutamente in difficoltà
l'architettura ideale di un ordinamento politico – ad es. perché
alcune norme cruciali si rivelano inapplicabili o troppo ambigue per
dar adito a un'interpretazione condivisa, ecc. – a lungo andare la
“prassi” rischia di prendere interamente il posto della “lettera”
della norma e la Costituzione si trasforma in un guscio vuoto.
Di
tutti questi aspetti bisogna tenere conto quando si progettano
riforme costituzionali; e non bisogna poi dimenticare che non sempre
le soluzioni ai problemi sociali o economici si possono rintracciare
nella “ristrutturazione” dei pilastri costituzionali di un
ordinamento. Le Costituzioni, insomma, sono importanti, anzi
importantissime (io stesso, come si può ben capire leggendo questo
post, mi interrogo con una certa passione sul modo per migliorarle),
ma sono solo uno degli “ingredienti” della politica. Mai cadere
nell'illusione che, risolto il problema dell'architettura
costituzionale di un Paese (ammesso che lo si risolva in modo
ottimale...), siano d'un colpo risolti tutti
i problemi cruciali e spinosi che la politica e la società pongono.
E'
importante a mio avviso esserne coscienti, perché è un errore di
prospettiva che può rendere miopi anche i migliori “decisori
politici” e i cittadini più “appassionati” della cosa
pubblica, non consentendo loro di vedere le crepe che pian piano si
insinuano anche nel più solido edificio istituzionale e lo rendono
inesorabilmente inviso a tutti coloro che da quelle crepe (da
intendersi anche come discrepanze e iati fra le “parole” e le
“cose”) sono direttamente minacciati.
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