Per qualche
decennio la storia della musica del Novecento, o “musica
contemporanea”, è stata presentata, nei testi autorevoli dedicati
al tema, come storia di avanguardie “illuminate” che hanno
infranto le convenzioni e gli schemi del passato, e quindi è stata
riassunta in alcuni nomi noti soltanto ai cultori della materia, a
parte Stravinskij o Ravel (forse più noti al pubblico profano, ma
meno conformi al modello dell'“avanguardia dura e pura”):
Schönberg, Webern, Ives,
Hindemith, Messiaen, Dallapiccola, eccetera eccetera, fino ai più
“recenti” Nono, Berio, Cage... e così via (inutile allungare
l'elenco, bastano questi esempi per far comprendere cosa intendo).
In tal
modo, la musica ascoltata, conosciuta e amata da gran parte del
pubblico dei “non addetti ai lavori” non aveva cittadinanza nei
testi “ufficiali” di storia della musica, quelli che sono
destinati a conservare memoria delle “gesta musicali” del nostro
tempo a beneficio delle generazioni future.
Nel
frattempo – proprio mentre quei testi circolavano – qualcosa in
giro accadeva; e una cosa principalmente: sempre più musicisti di
non scarso talento si stavano dando da fare generosamente per colmare
il divario fra la musica “eletta”, votata alla ricerca e alla
“avanguardia”, e la musica “leggera” o “di consumo” (o
anche “di massa”, in quanto rivolta a un pubblico vasto e
indistinto).
A lungo il
fenomeno è stato ignorato dai repertori e dai luoghi autorevoli
(riviste, ecc.) che registrano gli avvenimenti memorabili della
Storia (con la “S” maiuscola) nel settore della musica; ma il
pubblico ha manifestato interesse crescente verso questo
atteggiamento nuovo di alcuni artisti, e la “goccia” un po' alla
volta è riuscita a scavare la “roccia”, convincendo finalmente i
“guardiani del Sapere” che anche lì,
in quella apertura “democratica” che voleva portare i frutti
della ricerca e della “rivolta” (verso i vecchi codici e
linguaggi, ecc.) al grande pubblico, bisognava cercare per trovare le
tracce del Cambiamento (con la “C” maiuscola) e dunque
dell'evolversi della Storia.
A
ben guardare, in effetti (o a ben ascoltare...), tutto il Novecento è
attraversato da artisti che hanno cercato di avvicinare “l'uomo
della strada” (o “le masse”) al piacere della musica, senza
svilirla a meccanica ripetizione del già detto: si tratta infatti di
musicisti provvisti di una loro originalità, che però non hanno
disdegnato il contatto con il vasto pubblico, anzi l'hanno
coscientemente cercato e perciò si sono anche serviti di forme
espressive universalmente note e di successo (il tango, la “canzonetta”, ma
anche le colonne sonore cinematografiche) per elaborare un proprio
personale e valido “discorso” artistico e una propria “poetica”.
Con
tutto il rispetto per i “ricercatori arcani” e la loro maestria
(e per i loro capolavori: chapeau!
Ci mancherebbe altro...), e con tutto il rispetto per Th. W. Adorno e
gli “adorniani”, a mio parere sono questi
autori il fenomeno più importante della musica del Novecento, forse
anzi il più caratteristico e interessante.
Faccio
qualche nome, senza pretese di completezza, soltanto per rendere più
chiaro quel che dico: Kurt Weill, che ha spaziato da Brecht a
Broadway, sempre però interessandosi alla “forma canzone”
considerata veicolo comunicativo “serio” e non più “prodotto
usa e getta”, per lo “svago degli incolti”, com'era inteso sino
al primo Novecento; George Gershwin, vero e proprio “ponte” fra
gli stilemi della musica di matrice afroamericana e le forme tipiche
della tradizione “colta” di matrice europea; autori di colonne
sonore come Morricone, Bernard Herrmann o Michel Legrand (per fare
solo tre esempi, tra loro diversi, ma ugualmente significativi);
Claude Bolling, con le sue miscele di barocco e jazz; Astor
Piazzolla, coi suoi “tanghi metafisici” (nei quali può capitare
di udire passaggi contrappuntistici e vere e proprie fughe); e così
via.
I
due musicisti di cui voglio parlare qui, Léo Ferré e Frank Zappa,
appartengono a questa schiera, anche se sono fra loro molto diversi
per vari aspetti. Ho scelto loro due, piuttosto che altri, per un
caso singolare che li accomuna, ovvero una ricorrenza non felice:
sono morti entrambi vent'anni fa, nel 1993.
Appartenevano
però non solo a due continenti ma anche a due generazioni diverse:
il monegasco e francofono Ferré aveva 77 anni, nel '93, e una lunga
vita artistica alle spalle (basti pensare che la sua prima incisione
discografica era un vinile a 78 giri/min. e l'ultima un Cd, in
quanto il vinile era ormai in estinzione); l'italoamericano Zappa
aveva invece all'epoca soltanto 53 anni ed era nel pieno della sua
maturità artistica.
Entrambi
vengono classificati di solito come autori di canzoni, o meglio come
autori di musica leggera (ma si dice ancora così, nel 2013?) o
“extracolta” (come la definiscono i “colti”), ed erano
ambedue anche cantanti (Zappa in verità in maniera più distaccata e
“riluttante”, Ferré in modo più convinto e “professionale”)
oltre che compositori. Ma tanto L. Ferré quanto F. Zappa non
sopportavano le etichette e le barriere (fra i generi, fra i tipi e
soprattutto fra i “livelli” di musica – “alto”, o presunto
tale, e “basso” o popolare –) e hanno fatto di tutto per
metterle in crisi e dimostrarle obsolete. Nonostante l'etichetta che
la stampa e i “classificatori di artisti” hanno tentato di
imporre loro, d'altronde, né Ferré né Zappa sono stati “soltanto”
autori di chansons e di songs – che peraltro hanno
scritto egregiamente – ma musicisti completi.
Eppure
sia lo statunitense che il monegasco hanno compiuto studi musicali
irregolari e/o discontinui, sicché hanno supplito col talento e con
la forza di volontà alle lacune nella formazione specifica.
Entrambi
hanno avuto un qualche legame con l'Italia: Zappa in virtù delle
origini (siciliane) della sua famiglia per parte di padre, e Ferré
in quanto (a parte le origini italiane della madre) ha vissuto e
studiato da ragazzino per ben otto anni in un collegio cattolico di
Bordighera, e ha deciso poi di vivere i suoi ultimi vent'anni a
Castellina in Chianti, in provincia di Siena, lasciandosi alle spalle
la Francia, nella quale aveva raccolto i primi applausi e successi.
Un
altro elemento che accomuna L. Ferré e F. Zappa è l'assenza, nella
loro opera, di riferimenti mistici, religiosi o di richiami in
qualsiasi forma al “trascendente”. Anzi, entrambi hanno
polemizzato aspramente con le religioni e i loro rappresentanti.
Erano in effetti atei, anche se forse in Ferré si può trovare
traccia di una certa “spiritualità umanistica”, legata al culto
della poesia e dell'arte, mentre F. Zappa è decisamente
antiromantico e incrollabilmente dissacrante. Pur non essendo
militanti politici “a tempo pieno” (giacché la musica occupava gran parte delle loro giornate), non hanno disdegnato
di interessarsi a cause sociali ritenute da loro importanti: per la
verità, L. Ferré si è “sbilanciato” un po' di più in questo
senso, dichiarandosi apertamente anarchiste (e
impegnandosi ad es. contro il franchismo), mentre F. Zappa,
libertario nei fatti (e tuttavia ancorato a un forte senso pratico
“all'americana”), ha sempre evitato qualsiasi “etichetta”
politica, compresa quella di anarchico.
Decisamente
differente è il ruolo che ciascuno dei due ha attribuito ai testi
utilizzati nelle canzoni. L. Ferré, lettore appassionato di poeti
come Baudelaire, Verlaine e Rimbaud (i cui testi ha anche messo in
musica, con felici risultati), riconosceva alla parola, e in
particolare alla parola poetica, la capacità di risvegliare in
chiunque il senso del bello oltre che la coscienza profonda spesso
assopita dalla banalità del quotidiano. Il connubio fra parole
(poetiche) e musica, che si realizzava nelle sue canzoni, era il
mezzo attraverso il quale, per l'autore, i traguardi più importanti
dell'arte, come i versi dei Fiori del male,
potevano raggiungere e conquistare anche coloro che non si erano mai
interessati alla poesia o alla musica “d'arte”.
Per
F. Zappa, invece, i testi non erano altro che “pre-testi” per il
discorso musicale, e infatti in essi abbondavano le provocazioni
goliardiche, i nonsense, gli sberleffi; tanto più che la melodia e
il ritmo zappiani tendevano a mimare con effetti caratteristici il
parlato quotidiano, unico orizzonte di riferimento testuale per
l'autore statunitense (difficile, veramente difficile immaginare
Frank Zappa intento a mettere in musica una poesia “seria”, anzi
una poesia punto e basta). Persino i titoli delle composizioni
zappiane erano assolutamente antiromantici e agli altisonanti
richiami a nobili sentimenti e struggimenti preferivano la goliardia
da tredicenne – si trattava però di una scelta deliberata, che
equivaleva a dire, tenendo a distanza i “seriosi” e gli
schizzinosi: “Meglio questo che la brodaglia retorica e melensa da
predicatori o da venditori di cioccolatini”.
Come
si è detto, entrambi i musicisti si sono impegnati, con la loro
opera, a superare le barriere che tradizionalmente separano la musica
“colta” da quella “leggera” e hanno per questo spiazzato gli
esperti e i critici musicali di professione, specialmente quelli
schierati a difesa del “sacro e inviolabile recinto” della musica
“seria”, i quali hanno considerato Ferré e Zappa (e altri come
loro) insopportabili “intrusi” in quanto “semplici” artisti
di varietà che si erano messi in testa, da “profani”, di entrare
in un tempio a loro precluso o, come Icaro, di spingersi a volare ad
altezze per loro impossibili.
Ma
a dispetto di qualsiasi critica preconcetta (basata cioè soltanto
sul principio: “Ognuno nel proprio recinto”), tanto L. Ferré
quanto F. Zappa hanno sviluppato uno stile compositivo tutt'altro che
anonimo o dozzinale: ciascuno di loro ha anzi saputo elaborare uno
stile personale, con caratteristiche proprie e per molti versi
inconfondibile, distinguendosi perciò senza alcun dubbio dai meri
“confezionatori” (più o meno talentuosi) di “musica di
consumo”.
I
loro punti di riferimento ideali e i loro orizzonti stilistici,
tuttavia, sono stati diversi, se non addirittura opposti: Frank Zappa
come si sa è stato influenzato dall'ascolto della musica di Edgard Varèse, che per lui è stata la “rivelazione” della vita, e si è
collocato poi nella schiera degli autori che considerano la musica
come gioco (play, dunque, prendendo alla lettera
l'espressione che usano gli anglofoni in riferimento al “far
musica”) che non esprime né ha bisogno di “significati” e
sensi collocati al di fuori di sé.
Léo
Ferré invece ha scoperto prima Ravel (la sua “rivelazione della
vita”) e poi si è accostato a una certa tradizione di matrice
ottocentesca, con Beethoven in testa. L'espressione degli stati
d'animo e l'accentuazione dei momenti di pathos restano
imprescindibili, per Ferré come compositore; molto meno importanti
sono per lui gli esperimenti sul linguaggio musicale e sulla
“sintassi” tonale.
Frank
Zappa si serve spesso e volentieri della tonalità, ma se ne prende
gioco – ad esempio utilizzando melodie costruite su ritmi inusuali
e funambolici o allontanando l'armonia dai suoi percorsi collaudati –
e ogni volta che può si lancia verso i territori selvaggiamente
atonali indicati dal “maestro” Varèse. Per Léo Ferré invece la
tonalità è l'unica “grammatica” possibile; egli può ammettere le
raffinatezze armoniche di Ravel, e infatti le richiama spesso, ma
oltre questo confine non intende spingersi.
Questa
diversità dei loro stili e dei loro “maestri” ideali ha fatto sì
che si determinasse una singolare e involontaria opposizione fra loro
rispetto all'opinione che avevano intorno a un celebre musicista
dell'avanguardia francese, Pierre Boulez: quest'ultimo aveva una
grande stima di Frank Zappa, e il musicista americano gli era amico
(i due hanno anche collaborato professionalmente in qualche
occasione). Léo Ferré invece vedeva in Boulez un tipico esponente
dell'accademia supponente, che si arroga il diritto esclusivo di
stabilire chi è “dentro” e chi è “fuori” del recinto
incantato della “musica autentica”. (Per avere un'idea di quel
che L. Ferré pensasse tanto di Boulez quanto, più in generale,
degli “esperti” musicali che pretendono di poter concedere o
negare a chicchessia, a loro insindacabile giudizio, il passaporto
per l'Olimpo dei Veri Musicisti, basta ascoltare la sua sarcastica e
caustica canzone Les spécialistes,
contenuta nell'album “Les loubards”,
del 1984 – per inciso, lo stesso anno nel quale Zappa e Boulez
realizzavano insieme “The Perfect Stranger”,
scandalizzando peraltro i
guardiani più severi della separatezza dei recinti “leggero” e
“serio”...).
In ogni caso, L. Ferré e F. Zappa
avevano in comune anche la prolificità creativa: il musicista
italoamericano ha realizzato, nel corso della sua vita, una
sessantina di album e più di 500 brani; il monegasco non gli è
stato da meno, componendo anch'egli all'incirca 500 brani e
pubblicando una cinquantina di album. E questo senza considerare la
mole di inediti che hanno lasciato...
Si tratta poi di una produzione
variegata, che come s'è detto non comprende solo canzoni: nel
catalogo delle opere di Ferré, ad esempio, troviamo anche un paio di
opere liriche, un oratorio per soli, coro e orchestra, qualche
sinfonia, concerti, colonne sonore originali per il cinema, un
radiodramma musicale “sui generis”, pezzi per orchestra, un
balletto, ecc.
Oltre alla prolificità, i due musicisti
condividevano l'abitudine di curare scrupolosamente la realizzazione
delle loro opere in ogni aspetto, nonché l'attitudine e l'attrazione
per la direzione d'orchestra – ed era forse anche questa loro
“passione” a scandalizzare i “guardiani del serio”: come
osavano – si chiedevano questi ultimi – uno chansonnier o un
“rockettaro” impugnare la “sacra” bacchetta da direttore di
un'orchestra sinfonica?
La direzione dell'orchestra era in
realtà, come si è accennato, l'approdo di un percorso di attenta
cura, tipico di entrambi, nei confronti delle loro opere musicali,
che non comprendeva solo la “semplice” composizione dei brani, ma
si estendeva anche al loro arrangiamento o alla loro orchestrazione:
si comprende come i loro produttori discografici – abituati a
suddividere quello che essi considerano nient'altro che un “processo
produttivo” in diverse fasi affidate a singoli specialisti:
l'arrangiatore, il direttore d'orchestra, ecc., oltre che a
suddividere nettamente i “prodotti” per destinarli a target
differenziati (da un lato il pubblico della “classica”,
dall'altro il pubblico del “pop”, ecc.) – si sentissero
spiazzati da questa tendenza dei due musicisti a rivendicare il ruolo
di autori totali delle loro opere.
Entrambi hanno infatti avuto diverse
difficoltà (e il termine è un eufemismo...) con le case
discografiche, sfociate talora in vere e proprie battaglie legali.
Se F. Zappa è però riuscito, nonostante
questi contrasti, a pubblicare fin da sùbito accanto alle
composizioni più “rock” (e perciò più “spendibili” sul
mercato e gradite ai produttori – in linea di massima, perché in
realtà anche il “rock” di Zappa è poco commerciale...) brani e
album più arditi dal punto di vista del linguaggio musicale, L.
Ferré dopo qualche iniziale spiraglio (risalente agli anni
Cinquanta) lasciatogli dai produttori per realizzare, accanto ai
dischi apparentemente più “leggeri”, incisioni che comportavano
incursioni inattese nel recinto del “serio”, ha dovuto per un
lungo periodo (sostanzialmente per un quindicennio, all'incirca dal
1957 al 1971) limitarsi a incidere canzoni, per di più rinunciando a
curarne l'arrangiamento (per non parlare della direzione
d'orchestra...). Il musicista monegasco, costretto allora dai vincoli
di un contratto con un'etichetta discografica “potente”, l'ha
considerato un periodo di “esilio creativo” (nel quale ha
comunque prodotto canzoni di ottimo livello), al cui termine ha
preteso, senza più arretrare di un millimetro, di essere autore e
artefice “totale” delle proprie composizioni, dall'ideazione alla
realizzazione.
Procedendo per strade differenti, che
probabilmente non si sono mai incrociate, questi due musicisti hanno
insomma avuto a cuore traguardi insospettabilmente affini: la
liberazione dai “codici” e dai “generi”, e dunque dalla
tirannia dell'Autorità che assegna a ciascuno una e una sola casella
da occupare e presidiare e non permette divagazioni e sconfinamenti.
Hanno forse contribuito – insieme ad
altri – a suscitare nel pubblico (quello vasto e generico, non
quello selezionato degli “addetti ai lavori”) più interrogativi,
persino maggiori esigenze; e hanno messo in crisi (in modo salutare)
le sue iniziali “certezze” sui tipi di musica “possibili”.
Per concludere e per completare questa
panoramica sulle “vite parallele” di due artisti diversissimi
eppure simili, ritengo opportuno fornire alcuni suggerimenti per
l'ascolto.
Dividendo la produzione di Zappa e Ferré,
sia pure in maniera approssimativa e inevitabilmente imprecisa, in
tre grandi filoni – canzoni (chansons o rock songs &
ballads), composizioni più complesse ed elaborate, composizioni
“di confine” (che mescolano “alto” e “basso” o creano
“generi” ibridi) –, non prendo in considerazione qui il primo
gruppo di opere (di solito le più conosciute o comunque “captate”
qua e là, in radio, al cinema, ecc.) e mi soffermo sugli ultimi due.
Per quanto riguarda Frank Zappa, ci si
può fare un'idea dello stile tipico delle sue composizioni più
complesse ascoltando, oltre il già citato album “The Perfect
Stranger” (1984), realizzato in collaborazione col
compositore francese Pierre Boulez (appartenente all'avanguardia
“colta”), anche “Jazz From Hell” (1986), “The
Yellow Shark” (1993), realizzato con l'Ensemble Modern, e
“London Symphony Orchestra” (ed. completa su CD,
1995).
Un'opera “di confine”, che mescola
diversi stili e registri, al punto da non potersi incasellare in
alcun “genere” precostituito, è senz'altro l'album “Lumpy
Gravy” (1968), che ha avuto un séguito col postumo
“Civilization Phase III” (1994); ma si possono
classificare come interessanti e originali “ibridi” anche “Burnt
Weeny Sandwich” (1970), nonché i mastodontici e
sorprendenti “Uncle Meat” (1969) e “Läther”
(completato nel 1977 ma pubblicato solo nel 1996). Una menzione in
questa categoria meritano anche alcuni esperimenti di fusione fra
rock e jazz (dagli esiti tuttavia discontinui), ovvero gli album “Hot
Rats” (1969), uno dei più noti di Zappa, “Waka/Jawaka”
(1972) e “The Grand Wazoo” (1972).
Circa Léo Ferré, di particolare
interesse fra le sue composizioni più complesse è “L'opéra
du pauvre” (1983), opera lirica frutto di una lunga
elaborazione, dedicata all'esaltazione della Notte come modalità
dell'essere; notevole anche l'oratorio “La chanson du
Mal-aimé”, su testo di Apollinaire (composto nel 1954 e
pubblicato in ben tre edizioni diverse: 1957 [etichetta Odeon], 1972
[Barclay] e 2006 [La Mémoire et la Mer] – quest'ultima incisione
riporta la registrazione dal vivo della “prima” del '54).
Fra le composizioni “di confine” di
Ferré si possono annoverare le canzoni da lui composte e orchestrate
per organico sinfonico, a partire dal momento della sua liberazione
dalle “catene” dell'industria discografica mainstream: da
allora in poi, infatti, l'autore prescinde da qualsiasi riferimento
alle mode “pop” del momento e realizza canzoni che sono veri e
propri poemi in musica, e che si collocano deliberatamente al di
fuori del “mercato” della “musica leggera”. Tra gli album che
si possono citare: “La solitude” (1971), “Il
n'y a plus rien” (1973), “Je te donne”
(1976), “La violence et l'ennui” (1980),
“Ludwig/L'imaginaire/Le bateau ivre” (album triplo,
1981), “Les loubards” (1984), “On n'est pas
sérieux quand on a dix-sept ans” (1986).
Nessun commento:
Posta un commento
Ogni confronto di idee è benvenuto. Saranno invece rigettati ed eliminati commenti ingiuriosi e/o privi di rispetto, perché non possono contribuire in alcun modo a migliorare il sapere di ciascuno né ad arricchire un dialogo basato su riflessioni argomentate.