La democrazia è un oggetto difficile di discussione.
"Ma come? - osserverà forse qualcuno - Proprio nell'epoca in cui l'idea democratica sembra imporsi come non mai ad ogni latitudine? E nonostante il fatto che noi godiamo dei benefici di un ordinamento democratico ininterrottamente da più di cinquant'anni?"
Ma proprio perché oggi tutto passa attraverso la democrazia, tutto si risolve con la democrazia, e ogni tema sociale, ogni problema economico devono essere vagliati e soppesati alla luce delle procedure e delle esigenze della democrazia, proprio per questo, insomma, la democrazia s'infila dappertutto e diventa il concetto che tutti devono utilizzare per giustificare le loro teorie, i loro programmi e i loro discorsi, e quindi rischia di trasformarsi in un “percorso obbligato” attraverso il quale ottenere il “marchio ufficiale” (una sorta di certificazione come quella relativa alla “d.o.c.”) che serve a dare legittimità alle più diverse pretese.
Questo però vuol dire che nell'agone politico ciascun contendente cerca di appropriarsi dell'esclusività del “marchio democratico”, perché il possesso - sia pure illusorio - di questa “esclusiva” serve a delegittimare gli avversari. E quindi, facilmente si assiste, nelle campagne elettorali e non solo, a dibattiti nei quali da destra e da sinistra si ripetono ossessivamente, affinché il “pubblico da casa” si suggestioni, affermazioni come: “Noi siamo i veri democratici, voi invece siete antidemocratici!”
(A volte in queste accuse possono esserci elementi di verità, non lo metto radicalmente in dubbio; ma a lungo andare l'uso di questo metodo della continua, reciproca “scomunica” con suono di campane a morto per le “sorti della democrazia”, non imponendosi rigorosamente di distinguere ciò che è davvero grave dalle imperfezioni contingenti e/o fisiologiche del sistema, produce saturazione e assuefazione nei cittadini, che sono sempre più tentati di reagire con una distratta scrollatina di spalle e un: “Ma sì, il solito ritornello! Che vuoi che sia...”).
E questo - l'uso mediatico-propagandistico del concetto di democrazia, che spesso diventa abuso - è solo un aspetto del problema.
Un altro aspetto classico, ma sempreverde, del “rebus democratico” è la polemica fra sostenitori della “democrazia rappresentativa” e sostenitori della “democrazia diretta”.
Ognuna delle due “fazioni” sostiene che la “propria” democrazia è la migliore, ovvero quella “autentica”.
Davanti ai limiti della democrazia rappresentativa, periodicamente tornano a farsi sentire coloro che sostengono la tesi della “superiorità” della democrazia diretta, che coinciderebbe a loro dire con la “democrazia reale”, che è stata sacrificata per dare spazio a un governo delle oligarchie definito “democrazia rappresentativa”.
Ma anche i sostenitori di quest'ultimo tipo di democrazia spesso accettano la tesi secondo la quale la forma rappresentativa sarebbe solo una “seconda scelta” o un ripiego, imposto dalla necessità di estendere l'ordinamento democratico a un territorio di vaste dimensioni, e ricco di popolazione: due requisiti (la dimensione spaziale e la densità di abitanti) che rendono inapplicabili o improponibili gli istituti e le procedure della democrazia diretta, se non come correttivi limitati e occasionali (sotto forma di consultazioni referendarie, ad es.).
Queste tesi sembrano ormai entrate a far parte del nostro modo di ragionare e di argomentare, e del nostro patrimonio comune di conoscenze; ma non è detto che siano (del tutto) fondate. Così come d'altronde non è detto che democrazia diretta e democrazia rappresentativa siano per forza di cose antitetiche e inconciliabili. Forse hanno anzi un terreno comune molto più esteso, e molto meno arido, di quanto di solito siamo disposti a immaginare.
Ad accrescere i nostri dubbi (opera sempre meritoria, a mio avviso) e ad offrire una nuova maniera di interpretare la storia e soprattutto il ruolo della democrazia nella modernità contribuiscono due libri di Nadia Urbinati.
La studiosa, che insegna presso la statunitense Columbia University, e che ha il pregio di unire una solida conoscenza della filosofia politica europea a un'altrettanto notevole competenza nel campo della letteratura politologica americana, è nota forse al pubblico italiano soprattutto attraverso i suoi editoriali o per qualche sua apparizione in talk show televisivi; invece merita interesse e considerazione principalmente in virtù dei suoi saggi accademici.
Dei due libri ai quali mi riferisco, il primo, Democrazia rappresentativa, è in realtà il più “accademico” nel senso rigoroso del termine, in quanto analizza con un linguaggio adeguato alla profondità dello studio (e quindi complesso) alcune concezioni di filosofi e pensatori politici di fine Settecento - periodo che è stato un “incubatore” di molte idee delle quali ancora oggi viviamo - intorno al tema che il titolo enuncia, e ai territori a quello “limitrofi”; il secondo, Lo scettro senza il re, analizza di fatto le stesse tematiche, ma in maniera più sintetica e adatta a una platea vasta di lettori non necessariamente “ferrati” in materia di filosofia politica - ma comunque interessati ad andare oltre la “superficie” delle retoriche banalizzanti e/o mass-mediali sull'argomento “democrazia moderna”, e a fare quindi un piccolo sforzo di comprensione che li porti a superare la “pappa pronta” delle semplificazioni correnti.
Sono due testi che rappresentano quindi il frutto di un unico progetto di ricerca, per così dire.
Una delle tesi centrali della studiosa è che la partecipazione (intesa come partecipazione diretta dei cittadini) e la rappresentanza non sono affatto «due forme nemiche o alternative (la prima democratica e la seconda no) ma [...] due forme correlate e complementari» che soltanto attraverso la loro azione combinata e congiunta dànno vita e sostanza alla deliberazione democratica e all'azione politica, «un'azione che collega e tiene insieme istituzioni e società» [Urbinati 2009, p. 12].
Nadia Urbinati sa bene però che questa tesi si scontra tanto con le concezioni tradizionali e sedimentate dei detrattori della democrazia diretta o “pura” quanto con quelle, altrettanto consolidate, dei detrattori della democrazia rappresentativa, poiché i due opposti “schieramenti”, sottolinea la studiosa, «convengono, diversi come sono, nel riconoscere che la “democrazia rappresentativa” è un ossimoro». La sua idea, invece, «va contro corrente. Essa afferma che non si debba pensare alla democrazia rappresentativa come a un ossimoro perché la rappresentanza politica non può esistere senza partecipazione» [Urbinati 2009, p. 13].
Secondo la studiosa, la democrazia rappresentativa si può definire come: «una forma originale di governo democratico, non identificabile con la democrazia elettoralistica ma nemmeno sminuita nel valore rispetto alla democrazia diretta» [Urbinati 2009, p. 14].
La convinzione della presunta incompatibilità fra democrazia e rappresentanza si è prodotta e poi consolidata, nel pensiero politico, non a causa del confronto con la democrazia “degli antichi” (quella delle polis greche, modello classico e perduto di “democrazia diretta pura”), bensì a partire da «una concezione volontaristica e decisionistica della sovranità» tipica della modernità [Urbinati 2009, p. 18]. E' stato insomma «l'innesto della democrazia sul tronco della sovranità moderna, che da Jean Bodin e Thomas Hobbes fino a Jean-Jacques Rousseau ha identificato il potere politico (o l'autonomia politica o la libertà) con l'atto della volontà» [Urbinati 2009, p. 19], che ha peraltro arbitrariamente identificato la democrazia con l'immediatezza e l'istantaneità delle decisioni del popolo nell'agorà [Urbinati 2009, p. 18], a generare l'idea secondo la quale non solo la rappresentanza è incompatibile con la democrazia, ma soprattutto il governo rappresentativo è un “ripiego onorevole” rispetto all'impossibilità “assoluta” costituita dalla democrazia diretta nelle società moderne.
Il fatto è che quelle concezioni moderne del governo rappresentativo non possono essere trasferite sic et simpliciter alla democrazia rappresentativa, che è altra cosa. Nadia Urbinati sottolinea opportunamente questa distinzione, e spiega che in democrazia «La rappresentanza mette in moto un processo politico complesso che attiva “il popolo sovrano” ben al di là dell'atto formale dell'autorizzazione elettorale, cioè della volontà o della presenza; che in effetti rende il luogo del sovrano vuoto o non occupato da nessun soggetto in particolare» [Urbinati 2009, pp. 16-17]; quindi, in democrazia, che - si badi - non è la democrazia puramente elettoralistica di Sieyès (modello al quale ancor oggi molti fanno erroneamente riferimento), il sovrano non risiede in nessun luogo, non ha un'identità fisica (il che di fatto rende inservibile la tradizionale teoria della sovranità, ricalcata, come sosteneva Carl Schmitt, sulle categorie della teologia, e quindi sulla presenza fisica e individuata del soggetto sovrano). Pur non avendo un'identità fisicamente definita, il sovrano però agisce, come costellazione di molteplici soggetti che comunicano fra loro, e la sua presenza non si manifesta più letteralmente e istantaneamente, con l'atto solenne della ratifica collettiva, o voto, immaginato da Rousseau, ma mediante un «processo politico di comunicazione e influenza che si protrae oltre l'attimo del voto stesso», processo che proprio attraverso il meccanismo della rappresentanza fa sì che il sovrano sia «perpetuamente in moto» [Urbinati 2009, p. 17].
Il rapporto fra elettori ed eletti, o meglio fra cittadini e governanti, nella moderna democrazia rappresentativa non si può ridurre al voto, perché altrimenti si afferma una concezione “puntinista” della sovranità (così la definisce N. Urbinati) [Urbinati 2009, p. 20], che poi è quella tipica di Sieyès, per la quale il “popolo”, per quanto formalmente sovrano, è chiamato a esprimere una volontà solo in momenti limitati e separati nel tempo, al di fuori dei quali non è più popolo, ma moltitudine di individui che non hanno “voce in capitolo” al di là del perimetro della loro vita privata.
Le elezioni invece non producono solo “eletti”, per così dire, ma contribuiscono a istituire un rapporto circolare fra «il dentro e il fuori delle istituzioni» [Urbinati 2009, p. 17] che crea un tessuto stabile di aspettative, di richieste, di opinioni (affinate attraverso un pubblico dibattito, e condivise pubblicamente), e di controllo, da parte dei cittadini, nient'affatto confinati alle “gioie della vita privata” (come avrebbero preferito liberali come Sieyès o Guizot), ma autorizzati a esprimere permanentemente una pubblica opinione, e il loro ruolo nel “circuito” della sovranità, facendoli pienamente valere.
Analizzando il pensiero di Rousseau, Nadia Urbinati mette in luce, tra l'altro, il ruolo cruciale che in esso assume la distinzione fra volontà e giudizio. Ai cittadini riuniti in assemblea - al “sovrano collettivo”, dunque - viene chiesto di esprimersi intorno alla conformità di una determinata proposta di legge rispetto alla volontà generale. In quella sede, agendo cioè come “sovrani”, i cittadini distinguono il loro interesse privato da quello pubblico, e nell'esprimere la loro volontà, tengono conto solo di quest'ultimo [Urbinati 2010, p. 40]. In quanto cittadino, ciascuno può contribuire alla determinazione della volontà generale, ma facendo ciò, si appella alla ragione e non alla sua singola opinione; la volontà si esprime quindi non mediante un atto di comparazione fra preferenze (che equivale alla comparazione fra interessi e opinioni dei singoli, in quanto privati), bensì attraverso una decisione in merito alla giustizia o all'ingiustizia in termini assoluti del provvedimento in discussione. In definitiva, per Rousseau l'assemblea dei cittadini-sovrani non decide semplicemente circa la “bontà” o l'“opportunità” (politica, sociale, economica) di un determinato provvedimento, ma fa molto di più: la sua decisione, basandosi su «un criterio di giustizia cognitivo e astratto», stabilisce se un provvedimento possiede o no l'attributo della verità. Quindi, per Rousseau, la decisione assunta dai cittadini in assemblea «è buona in quanto è vera» [Urbinati 2010, p. 41].
La volontà generale, che si manifesta attraverso il voto dei cittadini in assemblea, sancisce la verità: ciò che i cittadini in quella sede decidono corrisponde dunque alla verità e alla giustizia, il che di fatto significa che ogni altra opinione (non conforme a quella decisione e a quel voto) non può dirsi corrispondente al vero. A prima vista sembra quindi che nella teoria politica di Rousseau i cittadini, in veste di sovrani, posseggano un potere notevole e illimitato. In realtà però non è così, fa osservare Nadia Urbinati.
Infatti, in primo luogo la manifestazione della volontà è soggetta ad alcuni, pesanti vincoli; inoltre, essa è nettamente separata dal giudizio, che non riveste affatto un ruolo secondario nella “dinamica” dell'edificio politico immaginato da Rousseau (o di qualsiasi ordinamento politico).
Partendo dalla seconda questione, c'è da dire che la volontà e il giudizio costituiscono «due diversi tipi di razionalità, non soltanto due facoltà distinte» [Urbinati 2010, p. 29], e in particolare il secondo «è ragione dialogica, un mix di esperienza, precetti etici, eloquenza e prudenza, e necessita di “talenti e virtù”, ovvero di qualità che non tutti i cittadini possiedono o si richiede che abbiano», laddove la volontà, che è in possesso di chiunque, è invece «assertiva più che ipotetica, opera in base ai principi di identità e di non contraddizione e produce proposizioni del tipo vero/falso» [Urbinati 2010, p. 30].
In sostanza, quindi, se a tutti i cittadini indistintamente spetta il compito/dovere di partecipare alla determinazione della volontà generale (in quanto la volontà è prerogativa per sua natura universale), non altrettanto si può dire del giudizio, che è riservato solo a pochi competenti o sapienti. Ne deriva che «Rousseau attribuì al popolo sovrano una razionalità sostanzialmente impolitica (nel senso di formalistica), concedendo invece a pochi e saggi magistrati la facoltà di partecipare all'attività politica nel senso più ampio e pieno», e insomma «il suo sistema diretto può essere interpretato come una strategia volta a privare il sovrano del giudizio deliberativo per relegare quest'ultimo a chi esercita il potere delegato - che svolgeva un ruolo cruciale nella repubblica bene ordinata da lui concepita - più che per promuovere la partecipazione politica» [Urbinati 2010, p. 30].
Negando rilevanza politica al giudizio dei cittadini, Rousseau in effetti svaluta l'importanza della partecipazione, che è formazione pubblica di opinioni, dibattito, confronto e non può esaurirsi nell'espressione di un voto una tantum, e sottovaluta anche la capacità della rappresentanza (da lui criticata e rifiutata) di stabilire un nesso permanente e dinamico fra volontà e giudizio, nonché fra cittadini e istituzioni (anche sotto forma di controllo costante “dal basso” dell'operato di governi e rappresentanti) [Urbinati 2010, pp. 28-29].
In realtà il pensatore ginevrino non ha sufficiente fiducia nella generalità dei cittadini, e - in maniera solo apparentemente paradossale - è per questo che concede loro una forma di “democrazia diretta” qual è l'espressione collettiva e istantanea della volontà generale, nel momento stesso in cui nega loro decisamente la possibilità di avere organi rappresentativi (che sono cosa ben diversa rispetto ai delegati di cui si parlava prima).
La rappresentanza infatti porta alla luce la differenza di opinioni, reclama la necessità del dibattito pubblico, e in definitiva svela il costitutivo disaccordo fra i cittadini, e dunque il pluralismo delle idee [Urbinati 2010, pp. 31-32]. La deliberazione e la discussione sono per Rousseau una sorta di “male necessario”, e perciò non devono assolutamente svolgersi in pubblico, giacché non essendo tutti i cittadini “virtuosi” e “illuminati”, possono facilmente essere ingannati dalle insidie della retorica e - diremmo oggi - della propaganda; in più, lo spettacolo pubblico del confronto acceso fra opinioni discordi potrebbe persino infondere nelle loro “fragili teste” il dubbio che “l'interesse generale” non sia affatto una verità univoca ed evidente [Urbinati 2010, pp. 32-35].
La deliberazione è quindi un atto molto delicato, affidato ai delegati esercitanti il potere esecutivo, che deve svolgersi al riparo da “occhi ingenui”, per così dire, o non adeguatamente preparati [Urbinati 2010, p. 35]: è per questo che «nella repubblica di Rousseau le funzioni delegate erano l'ingranaggio nascosto della vita dello Stato, a patto però che la deliberazione che qui si svolgeva non fosse praticata da tutti i cittadini, non si svolgesse davanti a tutti indiscriminatamente e infine non fosse associata direttamente alle decisioni [...]» [Urbinati 2010, p. 32].
I “delegati” secondo Rousseau avrebbero dovuto quindi preparare le loro proposte di legge in sedute non aperte al pubblico (a differenza delle sedute parlamentari tipiche delle democrazie rappresentative), e riservare a sé la facoltà di deliberare e discutere liberamente, confrontando anche opinioni e ipotesi diverse; una volta raggiunto l'accordo fra loro sulla proposta di legge, avrebbero dovuto sottoporla al popolo, affinché questo esprimesse, come in un referendum, «soltanto un voto finale sì/no» [Urbinati 2010, p. 32].
I delegati - nel disegno istituzionale di Rousseau - avevano il non secondario potere di decidere l'ordine del giorno o “l'agenda” (per usare un termine attuale) delle decisioni popolari e ai cittadini era quindi riservato esclusivamente un potere di ratifica su proposte formulate da un organo ristretto al quale non avevano pubblico accesso.
In una democrazia “diretta” qualcuno deve pur elaborare materialmente proposte di legge, e benché la soluzione immaginata da Rousseau non sia l'unica possibile, e si possano ipotizzare soluzioni più “aperte”, è anche vero che i cittadini non possono essere riuniti, come i parlamentari, in seduta pressoché permanente a deliberare su ogni virgola e comma di una proposta di legge, cercando mediazioni e punti di accordo fra opinioni divergenti, e dunque la loro decisione sarà comunque sempre di tipo referendario, “sì/no”, sull'insieme della norma o delle norme sottoposte alla loro approvazione.
La via per incrementare e valorizzare politicamente e costituzionalmente la partecipazione dei cittadini - nonostante una diffusa opinione contraria - non passa dunque attraverso la sostituzione della democrazia rappresentativa con una democrazia diretta “pura”.
Questo punto lo si comprende ancor meglio esaminando l'altro aspetto che “vincola” la sovranità dei cittadini, ovvero la forma “obbligata”attraverso la quale si manifesta la volontà. La decisione che i cittadini in quanto sovrani esprimono è per Rousseau necessariamente istantanea, in quanto solo una decisione immediata, svincolata da qualsiasi processo di riflessione, è disinteressata - e dunque capace di ascoltare la “voce” interiore dell'interesse generale. Soltanto obbedendo alle impressioni immediate il cittadino ascolta la voce della ragione naturale, sottraendosi alle insidie della riflessione, che si basa sul calcolo delle convenienze e dei pro e i contro, ed è una ragione egoistica e strumentale [Urbinati 2010, pp. 45-49].
E' un argomento in più per negare all'assemblea dei cittadini-sovrani la possibilità di discutere e di confrontarsi, prima di decidere. Il cittadino ideale di Rousseau vota proprio come gli attuali cittadini in cabina elettorale, nel corso di un voto referendario: in silenzio, in solitudine, concentrato unicamente sulla propria decisione (e in più, ovviamente, gli è però anche sottratta ogni possibilità di fare eventualmente propaganda prima del voto...).
Sulla base dell'analisi di questi aspetti del pensiero rousseauiano, Nadia Urbinati sostiene che la democrazia rappresentativa e quella non-rappresentativa «possono essere distinte in termini di temporalità più che di presenza o assenza della volontà sovrana. L'immediatezza della volontà contrapposta al processo di formazione dell'opinione e del giudizio, e non alla partecipazione in sé, è il fattore strategico nell'assemblea di Rousseau» [Urbinati 2010, p. 45].
Attraverso la deliberazione, che solo la rappresentanza può “ritualizzare” rendendola pubblica e trasparente, la decisione sovrana diventa un processo che si svolge nel corso del tempo, e che dunque dà continuità ed effettività alla relazione circolare fra rappresentanti e rappresentati, cittadini e istituzioni [Urbinati 2010, p. 35], laddove invece, nella repubblica non-rappresentativa rousseauiana, quella relazione si fa discontinua e vaga, e il cittadino-sovrano, non partecipando ai processi di deliberazione e di formazione delle norme, è chiamato soltanto in alcuni istanti, fra loro distanziati nel tempo, a esprimere la sua volontà (si tratta quindi, come detto più sopra, di una forma di sovranità “puntinistica”, che si manifesta cioè a intervalli rapsodici, in maniera incoerente e incerta).
Non potendo addentrarci ulteriormente, in maniera particolareggiata, nell'insieme della vasta analisi compiuta da N. Urbinati, possiamo tuttavia accennare che, a suo parere, se Kant mette maggiormente in luce l'importanza del giudizio (come libertà di valutazione e di critica) rispetto alla “pura” volontà, anche attraverso l'analisi del ruolo dell'immaginazione e l'uso della finzione del “come se” [Urbinati 2010, pp. 61-111], Sieyès riafferma il valore unificante della volontà attraverso l'utilizzo del concetto di sovranità della nazione, ma si serve, a differenza di Rousseau, del libero mandato per raggiungere quell'unità “artificiale” con la quale di fatto riduce i cittadini a semplici “elettori” che trasferiscono la vera sovranità in capo ai loro rappresentanti: e per Nadia Urbinati si tratta di un modello di governo rappresentativo che difficilmente può considerarsi una democrazia [Urbinati 2010, p. 44 e pp. 113-147].
A sua volta Thomas Paine ha contribuito in maniera decisiva a dimostrare come la democrazia rappresentativa sia una forma più evoluta della democrazia semplice degli antichi, e non quindi una forma deteriore di democrazia o un semplice “ripiego”. Ragionando in maniera originale rispetto alle teorie del suo tempo, Paine sostiene che la democrazia ateniese si è rivelata fragile proprio a causa dell'assenza di forme di rappresentanza (che non è quindi un mero rimedio dovuto all'enorme estensione territoriale e alla popolosità degli Stati moderni), perché solo attraverso quest'ultima si può costituire un rapporto stabile fra le varie parti di una società o di uno Stato (di qualsiasi Stato, piccolo o grande che sia), e fra cittadini e istituzioni, creando anche una separazione netta fra chi ha responsabilità di governo e chi ha il diritto di esercitare, dal basso, un controllo democratico sull'operato dei pubblici poteri [Urbinati 2010, pp. 163-165]. Nella democrazia semplice di tipo ateniese, argomenta Paine, è fin troppo facile che, in assenza della mediazione costituita dagli organi rappresentativi, e grazie quindi al prevalere di maggioranze momentanee e contingenti che deliberano senza mai sentirsi vincolate a decisioni o dibattiti precedenti, un gruppo di interesse potente riesca a imporre la propria volontà particolare, trasformandola surrettiziamente in legge; e ciò - svelando la mancanza di qualsiasi garanzia o stabile punto di riferimento per i singoli o i gruppi sociali - contribuisce alla lunga a far degenerare le istituzioni e a far perdere loro credibilità [Urbinati 2010, pp. 165-168].
La rassegna, che N. Urbinati compie, di un settore del pensiero politico di fine Settecento, culmina con l'analisi del progetto costituzionale di Condorcet - storicamente sfortunato, ma ancora attuale sotto il profilo teorico - che in un certo senso si colloca agli antipodi rispetto alle “diffidenze” di Rousseau, in quanto attribuisce ai cittadini, pur in un quadro di democrazia rappresentativa, amplissimi poteri, che vanno dalla facoltà di proporre revisioni costituzionali alla revoca dei rappresentanti, passando per un vero e proprio potere di emendare le leggi attraverso “assemblee primarie” diffuse sul territorio e aperte a tutti i cittadini [Urbinati 2010, pp. 169-230].
Lo schema articolato proposto da Condorcet - sul quale potete leggere maggiori dettagli nel volume di N. Urbinati, al quale rinvio - punta quindi, moltiplicando gli spazi e i tempi delle deliberazioni [Urbinati 2010, pp. 204-208], a conciliare il “cuore” rappresentativo delle istituzioni con forme autentiche di “controllo dal basso” e di partecipazione nonché di democrazia diretta, secondo una “miscela” che persino allora, nel 1793, ossia nel pieno della Rivoluzione francese, fu considerata troppo avanzata, tanto da procurare a Condorcet nemici sia a destra (costituita all'epoca dai Girondini) e nel centro “moderato” (Sieyès) che a sinistra (Montagnardi).
Tuttavia l'analisi competente e attenta che ne fa Nadia Urbinati suscita un desiderio: sarebbe il caso di rileggere con cura quel progetto costituzionale e riprenderlo in considerazione; forse i tempi sono finalmente maturi...
Testi citati:
- [Urbinati 2009]: N. Urbinati, Lo scettro senza il re. Partecipazione e rappresentanza nelle democrazie moderne, Donzelli Editore, Roma // ediz. orig.: The University of Chicago Press (2006).
- [Urbinati 2010]: N. Urbinati, Democrazia rappresentativa. Sovranità e controllo dei poteri, Donzelli Editore, Roma // ediz. orig.: Representative Democracy: Principles and Genealogy, The Univ. of Chicago Press (2006).
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