Uno degli spettacoli più indecenti ai quali possa capitarci di assistere, in qualunque epoca, è l'arroganza dei privilegi.
Se ne parla molto in questo periodo, specialmente quando si fa riferimento alla cosiddetta “casta” (che, nonostante il nome, non ha molto a che vedere con la struttura sociale tradizionale indiana...).
Ma l'attuale crisi economica offre parecchi spunti di riflessione in proposito.
Un esempio lampante, di portata ormai internazionale?
Il bilancio di uno Stato è in sofferenza, e i privilegiati, i cittadini più ricchi e potenti, non pensano al contributo che possono dare al suo risanamento: no, rifiutano qualsiasi sacrificio, per principio, in nome dei loro stessi privilegi, la cui conservazione e conferma in perpetuo è evidentemente il valore più importante, per loro.
Se qualcuno, in una situazione di crisi generale, prova a ipotizzare un aumento della tassazione per i redditi e i patrimoni più alti [ovviamente, se l'individuazione dei redditi e patrimoni più alti è fatta a regola d'arte, senza confondere, come spesso è avvenuto in Italia, i redditi del ceto medio con quelli degli autentici “(super-)ricchi”], i privilegiati strepitano e si ribellano, avvalendosi di tutto il loro potere per impedire che l'ipotesi si trasformi in realtà.
Sembra che questo stia avvenendo ora nel Paese che per molti è l'esempio per eccellenza di Stato liberale, quello che – a detta di molti “saggi” – tutti dovrebbe ispirarci, ovvero gli Stati Uniti.
E lì davvero i privilegiati stanno dando un bell'esempio della loro tipica mentalità. Le banche, nei cui consigli di amministrazione siedono molti di quei privilegiati, si sono ricordate che esiste lo Stato, e quindi ne hanno riconosciuto l'importanza e l'autorità, quando per evitare la bancarotta hanno chiesto al governo federale di intervenire con un piano straordinario di salvataggio, che in effetti si presentava come un programma di emergenza nazionale.
Ora che, sempre per salvare l'economia e riaffermare il principio della coesione nazionale, toccherebbe a loro, ai privilegiati, “metter mano ai portafogli”, come si suol dire, ebbene loro cosa fanno? Non riconoscono più la legittimità e la necessità delle richieste dello Stato, che (ora non lo ricordano più?) non parla e non agisce in nome proprio, ma in nome della collettività; tendono a scaricare sullo Stato – lo stesso Stato al quale, umilmente imploranti, hanno prima chiesto aiuto, quando a essere in difficoltà erano loro! – tutte le “colpe” dell'economia, e sostengono che i problemi si possono risolvere solo “tagliando le spese”: ovvero, scaricando interamente sugli altri, sui cittadini non-privilegiati, il peso dei sacrifici e dei disagi.
Così infatti funziona un privilegio: separa chi ne è titolare dalla collettività nella quale è immerso, lo mette al sicuro, lo rende immune rispetto alle regole che valgono per gli altri, “comuni mortali”. E così quindi ragiona il privilegiato: “L'economia è in crisi? Ah sì? E' un problema vostro, non mio. I cittadini (alias comuni mortali) non riescono più ad arrivare a fine mese? Beh, riducano le spese (loro, non io!), si adattino a fare qualsiasi lavoro, anche saltuario, e anche se fino a ieri erano insegnanti o ingegneri... Loro devono tirare la carretta, arrangiarsi: è il loro destino, poiché non godono di privilegi che li mettano al riparo da questo dramma. Cosa posso farci io, che invece non sono come loro e non vedo perché dovrei rinunciare ai miei privilegi proprio adesso, che mi tornano utili?”
Il privilegiato pensa che tutto ciò che ha gli sia dovuto – e anche se non lo pensa nel profondo di sé, a via di ripeterselo ne ha fatto un motto, una giustificazione che sventola con fierezza ogni volta che se ne presenta la necessità.
“Questo è il mio patrimonio, me lo sono sudato io, e non vi devo niente!”
Così esclama il privilegiato-tipo, asserragliato nel fortino delle sue fortune.
Magari sorvola “elegantemente” sui favori dei potenti grazie ai quali ha potuto ottenere ciò che ha; dimentica per improvvisa amnesia le “entrature” nei giusti ambienti o le amicizie altolocate grazie alle quali ha ottenuto permessi difficili da ottenere, forniture, contratti esclusivi, trattamenti di favore o altro; o, in alcuni casi, trascura di ricordare tutte le volte in cui ha potuto aggirare (sempre grazie al suo potere, e quindi a stuoli di “esperti del settore”) la legge e il fisco per potersi garantire extraprofitti.
E anche il privilegiato “più limpido” che ci sia, non avrebbe potuto garantirsi una fortuna e una “posizione” in un'isola deserta, lontano dagli insegnamenti e dalle “comodità” del mondo civile, al quale quindi deve comunque qualcosa.
In realtà nessuno deve tutto soltanto a se stesso: affermare il contrario equivale a sostenere proprio l'ingannevole base “ideologica” del privilegio.
Riconoscere i debiti che si hanno nei confronti del mondo nel quale si vive, e quindi della collettività che contribuisce a renderci quel che siamo, è innanzitutto un atto di onestà intellettuale, dal quale non si può prescindere per costruire qualsiasi ragionamento, qualsiasi discorso, qualsiasi rivendicazione e giustificazione.
Rileggendo Sieyès
L'indifferenza dei privilegiati, il loro apparente cinismo, sembra riportarci agli anni che precedettero la Rivoluzione francese.
Anche allora si tentò di scaricare il peso ormai insostenibile delle difficoltà economiche nonché degli errori e delle scelte sbagliate di una classe dirigente interamente sulle spalle dei comuni cittadini (a quel tempo “sudditi”), perché i privilegiati strepitavano e si ribellavano, usando a piene mani le leve di potere di cui disponevano, ogni volta che si cercava di chiedere anche a loro qualche sacrificio.
E fu proprio in quel clima che qualcuno cominciò a interrogarsi sul concetto di privilegio, sui suoi contenuti e sulle sue implicazioni.
Di recente mi è capitato di rileggere alcuni testi di Emmanuel-Joseph Sieyès, importante pensatore politico della stagione “rivoluzionaria” francese, e ho constatato quanto certi temi, mutatis mutandis, siano ancora attuali, a distanza di più di duecento anni.
Certo, la società che lui studiava era basata su privilegi molto più evidenti di quelli che abbiamo oggi di fronte; c'erano intere categorie di persone, i nobili specialmente, che godevano di norme e garanzie speciali create appositamente per loro, come se fossero una “razza umana” diversa da quella dei “comuni mortali”. La legge, in sostanza, non era “uguale per tutti”; anzi, si basava essenzialmente sulla distinzione rigorosa dei ceti e delle loro prerogative.
Sieyès in qualche modo pensava che mettendo in crisi, e abolendo, il concetto di privilegio, che andando a tutto vantaggio di un insieme ristretto di persone danneggiava di converso la stragrande maggioranza della popolazione, si sarebbe affermato un modello sociale finalmente equo e giusto, basato sulla proprietà e sulla libertà, da intendere come diritti universali [Sieyès 1992b, pp. 96-97].
Non immaginava forse, almeno nella fase più “rivoluzionaria” del suo pensiero, che il privilegio si sarebbe ricostituito sotto altre forme più sofisticate, capaci di sfruttare a proprio favore persino le opportunità offerte da quei diritti fondamentali che lui poneva alla base del nuovo edificio sociale.
Tuttavia, per capire le radici del privilegio, è ancora ad autori come Sieyès che dobbiamo rifarci.
E tanto per cominciare, faccio mio un principio da lui enunciato:
«Tutti i privilegi sono [...], per la natura delle cose, ingiusti, odiosi, e contraddittori rispetto al fine ultimo di ogni società politica» [Sieyès 1992b, p. 98].
Ed è impressionante notare come, in un contesto completamente mutato rispetto a quello del quale parlava e scriveva Sieyès, balzi agli occhi l'attualità e la “modernità” di considerazioni come questa:
«Nell'esigua schiera delle persone illuminate la stima si ritrae in fondo al cuore, sdegnata per il ruolo avvilente che si pretende imporle. La vera stima non esiste più: il suo modo di essere e di esprimersi persiste nella società soltanto per rendere, prostituendo se stessa, falsi onori pubblici agli intriganti, ai protetti, e spesso agli uomini più riprovevoli. In un tale disordine del costume, mentre il talento viene perseguitato e la virtù ridicolizzata, uno stuolo, ed il più eterogeneo, di orpelli e simboli esteriori impone perentoriamente il rispetto verso la mediocrità, la viltà ed il crimine» [Sieyès 1992b, p. 102].
Tralasciando gli accenti più drammatici ed esasperati (che pure in qualche situazione odierna, in qualche parte del mondo, non sono fuori posto), è la descrizione di alcune delle conseguenze sociali del privilegio, ad ogni latitudine e in ogni epoca. Infatti sono i molteplici ingranaggi del privilegio a “falsare” le graduatorie di merito: se talora abbiamo l'impressione di vedere sui più alti gradini del governo e della società persone di dubbia competenza e capacità, alle quali siamo tuttavia costretti dalle circostanze a tributare formale omaggio, è perché in qualche modo quelle persone hanno potuto usufruire di corsie e carriere “privilegiate”, appunto.
Ma il privilegio, come suggerisce Sieyès, scardinando la fiducia nella “correttezza” dei meccanismi di promozione sociale, a lungo andare scoraggia il talento e fa sì che la società si rassegni ad essere governata, in tutti i suoi settori e ambiti, dai mediocri “protetti”, se non addirittura dagli incompetenti (ancor più “protetti” e non di rado persino arroganti...). Non è certo un buon risultato, e arriva prima o poi il momento di chiedersi se ne valga la pena, e soprattutto di elaborare rimedi a una situazione che rischia di diventare disperante.
La differenza principale fra i tempi di Sieyès e i nostri sta nel fatto che allora il privilegio era individuato esclusivamente in un modo di vita (quello dei nobili) improduttivo e parassitario: la maggior parte delle persone – appartenente al cosiddetto “terzo stato” (che anche nel nome era semplicemente e spregiativamente considerato il residuo degli altri due ordini, clero e nobiltà) – era attiva e laboriosa; i privilegiati, invece, in quanto tali non solo rifiutavano di svolgere le attività più faticose e/o impegnative, comprese quelle imprenditoriali [«Solo le cariche lucrative e onorifiche sono occupate da membri dell'ordine privilegiato», nota Sieyès: cariche dalle quali peraltro i “non privilegiati” erano rigorosamente esclusi: Sieyès 1992a, p. 5], ma addirittura in vari casi rivendicavano il diritto di non svolgere alcuna attività lavorativa (nemmeno nel campo delle libere professioni o delle funzioni pubbliche) e di vivere a carico della collettività. Con parole severe infatti il nostro autore sottolineava come i “privilegiati” dei suoi tempi costituissero un corpo intermedio frapposto arbitrariamente e artificiosamente fra lo Stato e il popolo, che tendeva a non svolgere neppure vere funzioni di classe dirigente, rivelandosi quindi nient'altro che «un corpo estraneo e nocivo che interferisce nei rapporti diretti tra governanti e governati e preme sul meccanismo della macchina pubblica, diventando quindi, per tutto ciò che lo distingue dal grande corpo dei cittadini, un peso ulteriore per la comunità» [Sieyès 1992b, pp. 116-117].
Il privilegiato tipico dell'epoca di Sieyès cercava di accaparrarsi vitalizi o prebende, oppure incarichi pubblici che gli procurassero entrate senza richiedere da parte sua un vero corrispettivo in termini di impegno lavorativo. Così descrive questa folla di personaggi altolocati, impegnata nella sua attività di “ricerca” basata su appoggi, “conoscenze” e intrighi l'autore:
«Affollano in massa la corte, assediano i ministeri, si accaparrano tutti i favori, tutte le rendite, tutti i benefici. L'intrigo lancia il suo sguardo usurpatore su tutto [...]. Esso scopre sostanziosi proventi, o una loro possibile fonte, in tutta una numerosa serie di cariche che ben presto finiscono col venire considerate come posti retribuiti, istituiti non per svolgere funzioni che esigano un certo talento, ma per assicurare una posizione decorosa a famiglie di privilegiati» [Sieyès 1992b, p. 118].
Sieyès criticava tale stato di cose in quanto esso contraddiceva i princìpi elementari dell'economia, non solo perché contribuiva a creare e a moltiplicare quelli che oggi definiremmo “posti inutili a carico del contribuente”, ma soprattutto perché mortificava il criterio del merito, ovvero ciò che oggi usiamo definire “criterio meritocratico” o semplicemente “meritocrazia” [sulla quale ci sarebbe anche da discutere: non è neppure questa la soluzione ad ogni problema, specie se non è connessa a pratiche realmente democratiche; ma non costituendo essa l'oggetto del post, non è il caso di dilungarsi].
Convinto seguace delle teorie degli economisti classici (a quel tempo ancora relativamente “nuovi”), Sieyès riteneva che lo Stato dovesse promuovere il principio della concorrenza, o della competizione aperta (il pubblico concorso, insomma), nell'accesso alle mansioni più importanti per la funzione pubblica. Il monopolio delle cariche pubbliche più importanti, riservato ai privilegiati, a suo parere infatti imponeva la scelta «dei meno capaci, in quanto [...] [aveva] come effetto risaputo quello di far venire meno ogni impegno in coloro che in una libera concorrenza avrebbero invece potuto mostrare un certo talento» [Sieyès 1992b, p. 119].
Se è vero che questo genere di privilegi e di privilegiati esiste qua e là tuttora, in forme simili a quelle descritte da Sieyès, è altrettanto vero che la “libera concorrenza” a lui cara non si è rivelata la panacea, buona a guarire ogni male dell'economia e della società, come quelle generazioni di economisti e liberali credevano o speravano (forse perché allo stato puro una libera concorrenza degna di tal nome, anche laddove viene incensata e riverita, non esiste, ed è solo un'ipotesi di scuola?).
(Solo di sfuggita, e in maniera piuttosto riluttante, Sieyès ammette che la proprietà possa, grazie al potere che essa garantisce, essere uno strumento per ottenere o rafforzare i privilegi [Sieyès 1992a, p. 19].)
I grandi capitali hanno infatti creato nuove forme di privilegio, che si sono aggiunte a quelle precedenti, e hanno prodotto a loro volta nuove sperequazioni e ingiustizie e un insieme di nuove barriere per limitare drasticamente l'accesso dei “non privilegiati” alle migliori opportunità (di vita, lavorative, sociali, ecc.).
Per rendersene conto, anche a livello superficiale, basta vedere come in molte grandi città, che sono lo specchio del nostro modello di vita, si è approfondito il solco ideale che divide il centro dalla periferia; molte persone appartenenti ai ceti bassi prima, e poi anche ai ceti medi, hanno dovuto progressivamente abbandonare le zone centrali delle città, nelle quali abitavano (avendoci abitato prima di loro i genitori, i nonni e gli avi), poiché le “ferree leggi del mercato” le hanno scacciate di lì, relegandole in periferie sempre più lontane e prive di una fisionomia in senso estetico (oltre che di servizi, in molti casi).
[Ma cosa sono le “ferree leggi del mercato”? Chi domina i mercati borsistici, ad esempio, se non coloro che sono in possesso di conoscenze e informazioni privilegiate?]
Il centro delle città è sempre più riservato “esclusivamente” allo spettacolo del potere, inteso in tutti i suoi sensi, e il privilegio dona solo ai suoi eletti l'opportunità di occupare quel luogo simbolico e di viverci da mattina a sera; gli altri sono al massimo pendolari, ammessi occasionalmente e temporaneamente al banchetto, per coglierne solo le briciole: poi via, devono tornare nei loro recinti urbani e suburbani, anche solo per rammentare costantemente la differenza che il privilegio ha tassativamente stabilito – e la fortuna che hanno, coloro che almeno possono cogliere le briciole del privilegio pur senza essere fra gli eletti.
(E a questo proposito suona attuale un'altra pagina di Sieyès, nella quale si descrivono le umiliazioni alle quali gli elementi più brillanti del “terzo stato”, o – leggendola in chiave attuale – del ceto sociale che oggi ne ha preso il posto, devono assoggettarsi per ottenere un minimo riconoscimento dei loro talenti da parte del “potente”, e il lungo percorso che compiono, come un vero e proprio “addestramento” militare, finisce per renderli completamente devoti alla causa del potente-privilegiato medesimo [Sieyès 1992a, pp. 18-19].)
In conclusione
Ma in sostanza quali caratteri tipici si possono attribuire al privilegiato? Credo che una definizione acuta si possa ricavare da un altro passo di Sieyès, nel quale dice che i privilegiati sono «ardenti difensori di ciò che a loro è superfluo» e al tempo stesso – pur di tenersi stretto il loro “superfluo” – sono anche disposti ad impedire agli altri di avere «lo stretto necessario» [Sieyès 1992a, p. 70].
Scopo del privilegio non è quello di garantire un semplice vantaggio materiale; no, la sua natura, la sua ragion d'essere va ben al di là: come faceva notare Sieyès, rivolgendosi idealmente ai privilegiati: «[...] voi non tanto chiedete da parte dei vostri concittadini un segno di distinzione, quanto cercate un segno di distinzione da loro» [Sieyès 1992b, p. 103].
Benché la differenza fra i due casi sia sottile, c'è ed è importante: se è la società, la collettività, a riconoscere i meriti di qualcuno, si tratta di un'investitura che viene “dal basso”, non può essere imposta, non risponde a criteri clientelari, corporativi o gerarchici, ed è in ogni momento revocabile; se invece il processo avviene in senso inverso, ed è la persona che pretende di venire riconosciuta come meritevole di distinzione a imporre – attraverso il suo potere relazionale, in un circuito “familistico”, corporativo o gerarchico, ecc. – il proprio riconoscimento, si tratta di un'autoinvestitura, o di un'investitura “pilotata”, proveniente dall'alto, e mirante ad attribuire vantaggi arbitrari a un soggetto che si trasforma in privilegiato, e soprattutto a garantire a quest'ultimo l'esenzione dalle regole comunemente valide per gli altri.
Non bisogna tuttavia nutrire l'illusione che definire i contorni del privilegio sia questione semplice: infatti, i confini che separano il privilegio vero e proprio, ad esempio, da posizioni sociali o benefìci derivanti dal riconoscimento di un merito (di qualunque genere questo sia) sono sempre molto sottili, e ogni epoca deve stabilire che cosa vada ritenuto ingiusto privilegio e che cosa, invece, sia da considerare giusta remunerazione (morale o materiale) per particolari doti o meriti utilizzati a beneficio della collettività o per servigi resi.
Certo, al limite una collettività può stabilire che nessun merito o servigio giustifichi una remunerazione tale da porre qualcuno/a in posizione di vantaggio rispetto ad altri; ma dev'essere appunto la collettività (la società, i cittadini...) a deciderlo.
Insomma, sebbene la riflessione sui criteri e sulle definizioni sia essenziale, non possiamo mai affidarci interamente a criteri posti a priori e una volta per tutte, come se questi potessero avere la proprietà della validità eterna, nonostante ogni mutamento intervenuto nella società e nella realtà, e come se potessero prefigurare a monte ogni dettaglio e ogni variabile della realtà stessa; dobbiamo invece sempre sottoporci all'onere di valutare, ponderare e infine esprimere un parere o una decisione – non tanto e non solo singolarmente, ma soprattutto confrontandoci pubblicamente.
Testi citati:
- [Sieyès 1992a]: E.-J. Sieyès, Che cosa è il terzo stato? (1788), ed. a cura di U. Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1992 (traduz. it. di Roberto Giannotti) // Tit. originale: Qu'est-ce que le tiers état?
- [Sieyès 1992b]: E.-J. Sieyès, Saggio sui privilegi (1789), in Che cosa è il terzo stato?, cit. // Tit. origin.: Essai sur les privilèges
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