Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

domenica 28 agosto 2011

La trappola del possesso, ovvero un equivoco dei sentimenti

Il primo errore consiste nella scelta del verbo. Perché "avere"? Diciamo: ho una moglie, ho figli (ma anche - per quanto riguarda le donne - ho un marito...), eccetera.
No, nessuno appartiene a nessuno; usare la nozione di "possesso" (implicita nel verbo "avere") per riferirsi ai rapporti personali più stretti (familiari, di coppia) è un clamoroso errore - oppure è un abbaglio strategico, voluto da chi per primo ha cominciato a costruirlo così, il castello dei rapporti affettivi. Distorsione voluta per addomesticare ciò che più difficilmente, nella vita umana, si può ricondurre a linee razionali controllabili, programmabili o comunque prevedibili.

Così, anche lo scontato e apparentemente innocente uso degli aggettivi possessivi contribuisce a fuorviarci: diciamo tranquillamente "Ecco mia moglie", "la mia donna", oppure "mio marito", ecc.; quindi pensiamo che quel "mia" o quel "mio", che il linguaggio corrente ci fa passare senza metterci in allarme, corrispondano a una realtà effettiva, coerente con le parole che pronunciamo e pensiamo.

Ma noi non "possediamo" affatto gli altri, in nessun senso, nemmeno se si tratta della nostra fidanzata (o del fidanzato), nemmeno se si tratta del nostro coniuge. In che senso infatti possiamo pensare e pretendere che lei/lui ci appartenga? In senso metaforico, forse? Tuttavia, nel campo degli affetti, le "metafore" sono rischiose, potendo facilmente scivolare verso le illusioni (prive di senso della realtà).

Ricordo che apprezzai la saggezza manifestata dal poeta (e fine critico letterario) Franco Fortini, quando in un'intervista radiofonica dichiarò all'incirca (le parole esatte non le rammento) che lui non riteneva corretto o giusto definire la donna che amava e che condivideva la sua vita come "sua" donna o "sua" compagna; pensava insomma che ci fosse qualcosa di sbagliato o di insano in questo modo di esprimersi attraverso i possessivi - nulla togliendo tuttavia all'amore che provava per la donna amata.

Certo, la decisione di "condividere" la vita di qualcun altro, molto spesso concretizzata attraverso la convivenza "sotto lo stesso tetto", impegna completamente la persona, che dovrebbe rinunciare a qualcosa di sé per dare attenzione, riconoscimento e buona parte del proprio tempo alla compagna (o al compagno) che ha scelto. Probabilmente è anche da qui, da questo sacrificio della propria "libertà" (di disporre a piacimento di sé, del proprio tempo, dei propri spazi, ecc.) che scatta l'idea del compenso: "in cambio di quel che ti do, tu devi essere mia e mia soltanto". 
Insomma si finisce sempre nel mercato, in un modo o nell'altro, anche quando sono in gioco rapporti di tipo sentimentale. Ci si dice - o si sottintende - che "poiché la vita che ho è la mia risorsa più importante, in quanto unica e non rimpiazzabile, la devo impiegare nella maniera più proficua per me: dunque se il tempo della mia vita lo spendo [dopo averlo magari quantificato in moneta sonante?] prevalentemente accanto a te, devi darmi in cambio la garanzia che mi appartieni, come una delle tante cose che sono a mia disposizione".

Eh sì, nella "grammatica" del possesso persone e cose finiscono per diventare un'unica categoria. Forse le cose - se fossero dotate di vita - ci guadagnerebbero, nell'essere accomunate alle persone; queste ultime, nella "comunione" logica che il possesso crea, hanno invece tutto da perderci. E soprattutto, non sono al loro posto, non possono essere realmente comprese attraverso le lenti deformanti del possesso.

Se nella relazione sentimentale "semplice" (che con termine antiquato qualcuno potrebbe definire, per capirci, "fidanzamento") questi meccanismi scaturenti dalla "grammatica del possesso" scattano in maniera alquanto variabile e aleatoria (e tuttavia già abbastanza costante da risultare condizionante come un "imprinting" sociale e intergenerazionale), nel matrimonio c'è il "patto" iniziale che ha il valore di un impegno contrattuale. E in quel patto lo "scambio" mutuo cui si accennava ha un ruolo da protagonista.

Purtroppo quello scambio non è quasi mai stato paritario, e nella relazione matrimoniale (ma non solo) l'equilibrio instabile del "dare e avere" regge spesso soltanto finché i due soggetti sono quasi perfettamente complementari (che è cosa diversa dall'essere uguali e "alla pari") - nel senso che uno/a dei due accetta di non ricevere proprio alla lettera ciò che l'altro/a gli/le dovrebbe, o addirittura di ricevere molto meno di ciò che in teoria (stando al patto iniziale) le/gli spetterebbe, perché dei due è la persona più propensa a sacrificarsi per "il bene della causa" (che in questo caso coincide con la tenuta del matrimonio, o anche della relazione).

Da tempo però abbiamo messo in discussione il valore dell'idea stessa di sacrificio, e non senza ragione, dal momento che spesso funziona come riproduttore di sperequazioni e ingiustizie, insomma agisce sempre in un solo senso: per fare un esempio chiarificatore, un tempo si riteneva che la moglie fosse tenuta a sopportare "per il bene del matrimonio e della famiglia" gli adulteri del marito, considerati penalmente meno gravi e pressoché non punibili; al contrario, il marito aveva il diritto (non esplicitamente dichiarato, ma socialmente sancito) di condannare a morte la moglie adultera e di eseguire con le sue stesse mani la sentenza (retaggio tragico quanto stupido della figura dell'onnipotente "pater familias" romano!) - e infatti tale omicidio veniva punito con poca severità, quasi come se la società desse una comprensiva pacca sulle spalle al marito uxoricida.

Nella situazione culturale di oggi, bandita la necessità "sociale" del sacrificio "per il bene di..." (della famiglia, delle convenzioni, ecc.), ci si accorge della fragilità di vecchie forme di rapporti umani e sentimentali basati sullo schema del possesso "contrattualizzato", giacché nessuno in realtà può essere considerato "a disposizione" di qualcun altro, come se fosse un oggetto di proprietà (neanche se questo "altro" è il suo coniuge); certi doveri, come ad esempio quello della fedeltà, non si possono imporre in alcun modo; non c'è legge, non c'è sanzione che possa fare ad es. di un dongiovanni un marito fedele (e non c'è neppure legge che possa fare di una donna portata a multiple e parallele relazioni una moglie effettivamente "monogama"). 
Si è fedeli se si vuole esserlo, e la volontarietà esclude, in quanto non compatibile, il concetto di appartenenza: ossia, non si può dire a una donna (o a un uomo), per esempio, "Tu mi appartieni e perciò devi amare solo me" (ecc.), dal momento che la sua fedeltà dipende solo dal suo volere, dal suo accettare la regola stessa della fedeltà. Ed è una regola che va confermata giorno dopo giorno; non basta davvero pronunciare un "Sì" indossando a supporto l'abito delle buone occasioni.

Insomma, il concetto di appartenenza, se applicato alle relazioni umane, e a maggior ragione sentimentali, è fuorviante, e genera una serie di equivoci e malintesi, che rovinano le stesse relazioni. Ad esempio, quando l'amante dice alla donna che ama: "Tu sei mia!", secondo il sentire comune, se pronunzia la frase in un momento di massima passione, esprime legittimamente il fuoco della medesima (e insomma la sua frase è un'iperbole che compendia i momenti di massima intimità e intesa fra gli amanti); se però esclama la stessa frase con rabbia in conseguenza di una scelta della donna da lui non condivisa (e dalla quale si sente minacciato), l'effetto che quella frase produce in chi la ascolta è ben diverso.
Chi esclama con rabbia o atteggiamento imperioso quella frase, potrà essere compreso da coloro che stanno vivendo il suo stesso conflitto interiore (avendo scoperto ad es. che la donna amata è una persona comunque diversa da ciò che la loro immaginazione e la loro volontà desideravano fosse, e cercando di reagire, in mancanza di altri appigli, invocando il possesso: "Torna in te, torna ad essere quella che io voglio, tu sei mia!"); gli altri invece prenderanno istintivamente le distanze da quell'atteggiamento "iperbolico": lo compatiranno (come si compatisce chi perde il senno...), oppure lo biasimeranno e lo condanneranno giustamente come l'atto e il comportamento di un irragionevole o - nei casi più drammatici - di un prevaricatore e di un prepotente.

A questo punto certamente qualcuno dirà: ma se le cose stanno davvero così, che ne è dei sentimenti?
A mio modesto parere, li dobbiamo ancora educare, i nostri sentimenti, e coltivare realmente, perché finora ci siamo aggrappati soprattutto a ruoli e comportamenti stereotipati, che non hanno fatto altro che solleticare e confermare una certa e diffusa immaturità. Ma per rendere maturi i rapporti umani dobbiamo innanzitutto renderci conto che non possiamo modellarli e declinarli secondo l'idea di possesso.

Credo che abbiamo sempre più il dovere di riflettere sulla vera natura e sulle implicazioni complessive delle relazioni affettive e di coppia - perché abbiamo il dovere di trasformare ciò che non va più, di abbandonare i "gusci vuoti", i residui del passato, e di arricchire il livello di empatia reciproca nei rapporti interpersonali (e a maggior ragione in quelli sentimentali) - cosa che potrà accadere solo dopo aver accantonato come ormai obsoleti e inservibili quei "gusci".

Molte maschere, da tutte le parti, devono cadere lungo questa strada.
(E, detto tra parentesi, non è una strada facile da percorrere, dato che ci costringe ad abbandonare le provvisorie e caduche certezze lasciateci in eredità dalle epoche passate, però è l'unica che meritiamo davvero, se siamo esseri che pretendono maturità e consapevolezza, con un mondo che abbia finalmente spazio per ogni singolarità che ci portiamo dentro, libero dai "ragionamenti all'ingrosso" costruiti su luoghi comuni che non sono e non saranno mai capaci di contenere le categorie del nostro vivere e sentire.
Sì, strada difficile, difficilissima forse, ma secondo me necessaria.)

16 commenti:

  1. Condivido l'intero post.

    Io tempo fa scrissi qualcosa di simile applicandolo però alle relazioni che stabiliamo con gli animali ;-) (sì, sempre loro, i nostri amici così tanto disprezzati e maltrattati dalla specie umana).

    Usiamo dire "il mio gatto", "il mio cane" ecc. dando così l'impressione di averne il possesso; il tutto poi viene amplificato dal fatto che spesso effettivamente l'uomo "compra" il proprio animale pagandolo in moneta sonante e questo probabilmente lo autorizza ancor più ad instaurare un vero e proprio rapporto di possesso anziché di relazione di reciproca amicizia ed affetto.

    Tornando comunque all'oggetto del tuo post, ossia le relazioni sentimentali, credo che la difficoltà nell'abbandonare il concetto di possesso - consuetudine del linguaggio a parte - venga invece amplificata dal problema della gelosia (che può essere patologica o anche solo un prodotto culturale).
    E la gelosia a sua volta è il sintomo di altre condizioni (patologiche o meno anch'esse): come la mancanza di autostima, la paura dell'abbandono ecc..
    Si ha sempre paura di perdere chi si ama e allora si attribuisce l'aggettivo possessivo "mio" nell'illusoria convinzione che questo possa impedire a qualcuno di lasciarci. E' come se mettendo l'etichetta "mio" potessimo sentirci al sicuro.

    Per come la vedo io, invece, ogni relazione con l'altro è sempre tanto talmente unica e peculiare da non avere nessun bisogno di essere decretata di "esclusivo possesso" di qualcuno.
    (continua)

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  2. Arrivando ad un esempio estremo, me la sento persino di affermare che seppure il "mio" (virgoletto, che è meglio) uomo avesse una relazione con un'altra persona, a me, cioè alla nostra specifica e peculiare relazione, non toglierebbe nulla, in quanto io + lui diamo un risultato che può essere solo il frutto di me + lui. Sto dicendo che da ogni incontro tra due persone è come se si venisse a creare una terza "entità", la quale rende unica (ed in questo esiste una gratificazione che è simile al possesso pur senza aver bisogno di legittimare alcunché , nel senso che se un qualcosa è unico, allora è anche solo "nostro")
    Ovviamente non sono una fautrice del libertinaggio assoluto perchè, evidentemente, qualche retaggio del passato continua ancora ad agire su di me (più l'educazione ricevuta, la cultura in cui sono cresciuta, timori e paure ecc.), sto però asserendo che un serio discorso di maturità sentimentale non può prescindere dall'affrontare anche argomenti di questo tipo.
    Insomma, chiedersi perché si ha così bisogno di legare in maniera incondizionata a noi qualcuno, di sentirlo solo "nostro", perché ci si sente gelosi ecc. è, a mio avviso, un buon punto di partenza.
    E ancora, tutto dovrebbe essere messo in discussione, anche il concetto di coppia stesso. Altrimenti non si va da nessuna parte, si resta sempre lì dove si sta.

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  3. errata corrige:

    Sto dicendo che da ogni incontro tra due persone è come se si venisse a creare una terza "entità", la quale rende unica (ed in questo esiste una gratificazione che è simile al possesso pur senza aver bisogno di legittimare alcunché , nel senso che se un qualcosa è unico, allora è anche solo "nostro") LA RELAZIONE IN SE'.
    (ecco, avevo saltato l'ultima parte della frase).

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  4. Grazie Biancaneve, le tue riflessioni sono anche stavolta molto interessanti e pertinenti.
    E' vero quel che dici a proposito della gelosia. Forse è un sentimento ancestrale, che tutti (o quasi), prima o poi, abbiamo provato, anche se non in egual misura: ci sono, come sappiamo, i gelosi "maniaco-patologici", che rendono la vita infelice a se stessi e ai loro partner e familiari.
    Ma anche in "misura moderata" la gelosia rischia di far danni. Mi sono reso conto però, per esperienza personale, che se ci si impone un percorso di maturazione, la si può superare; voglio dire: sicuramente, quand'ero ventenne mi capitava di cascarci più facilmente, nella gelosia, poi ho imparato a capire che è un sentimento potenzialmente velenoso (nel senso che avvelena l'animo di chi lo vive e di chi lo subisce, come partner "preso di mira" da sospetti e accuse).
    Non tutti riescono a "crescere", in questo senso, e restano legati a questo modo di interpretare i rapporti di coppia, che secondo me è fondamentalmente immaturo.
    Non condivido poi quel luogo comune secondo il quale "se uno ama veramente, *deve* essere geloso". Ma dove sta scritto? Ricordo che una mia ex era una convinta sostenitrice di questo principio, e *pretendeva* che io mi mostrassi geloso nei suoi confronti, altrimenti "voleva dire che non ci tenevo a lei" (ecc.). Si creano così situazioni persino paradossali, per le quali uno, per far contento il partner o le convenzioni sociali, deve sforzarsi di trovare in sé quel sentimento di possesso potenzialmente velenoso, che invece sarebbe utile (per il bene di tutti) attenuare o scacciare. Insomma, è come se qualcuno ci costringesse ogni volta a tirar fuori dal nostro animo il "Mister Hyde" del quale invece vorremmo tanto liberarci - e del quale, fosse per noi, faremmo pure volentieri a meno (almeno, nel mio caso era ed è così!). Ecco uno dei casi in cui "il sonno della ragione genera mostri", anche nei rapporti quotidiani, di coppia.
    Poi, certo, nella vita di ogni giorno, non sempre si riescono a evitare i sentimenti "negativi" e velenosi, ma almeno tenersi all'erta conoscendo il pericolo (invece di minimizzarlo compiacenti, o esaltarlo in base a sciocchi luoghi comuni), secondo me, fa la differenza.

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  5. Non voglio dire che scoprire che la donna a cui ci lega una passione o un sentimento d'amore, si è invaghita di un altro, o ci ha "tradito", ci debba o ci possa lasciare indifferenti. Certo che in quei casi ci càpita di soffrire. Però l'esperienza mi ha portato a comprendere che - come giustamente dici - non serve a nulla "marcare il possesso", dicendo a ogni pie' sospinto "la mia donna", "tu sei mia", "mi appartieni", eccetera. Non serve a nulla, perché l'animo umano è fondamentalmente portato a vagare liberamente tra le cose del mondo: è una verità di fatto che dobbiamo accettare con maturità e consapevolezza. Non serve a niente quindi mistificare questa realtà, parlando di "possessi" che non stanno né in cielo né in terra; anche perché sono dell'idea che sia meglio, sempre, cercare di capire e accettare le cose, e a maggior ragione i rapporti umani, per quelli che sono, senza mistificazioni.
    Mi ritrovo con quello che dici anche quando affermi che non sei "una fautrice del libertinaggio assoluto"; non lo sono nemmeno io, e infatti non credo neppure all'idea della "coppia aperta" di stile sessantottino, che rischia di essere un'altra struttura "obbligatoria e obbligante" (cioè un'altra "gabbia" sia pure più adatta ai tempi), che in quanto tale può ugualmente calpestare il modo di sentire dei componenti della coppia. Anche perché, dalle esperienze fatte sul campo dalle generazioni un po' più "anziane" della nostra, si ricava che anche nelle "coppie aperte" alla fine uno dei partner doveva sacrificarsi più dell'altro "per il bene della coppia", proprio come nel "vecchio" matrimonio (hanno raccontato queste vicende con "realistica ironia", ad es., Dario Fo e Franca Rame in alcune loro commedie).
    In ogni caso, penso che si debba sempre fare in modo di conciliare la libertà - che, ripeto, è insopprimibile in ciascuno di noi - con il senso di responsabilità (ovviamente, specie se si hanno figli); l'amore secondo me non può perdere il rispetto dell'altra/o, perché altrimenti non è più amore, anche se per pigrizia o convenzione continuiamo a chiamarlo così. E francamente non capisco il senso di certi matrimoni "di carta" (perché esistono solo formalmente), nei quali oltre alle forme esteriori non c'è più nulla, e i coniugi si mentono e s'ingannano a vicenda con accanito impegno.
    E in sostanza, come giustamente dici, "tutto dovrebbe essere messo in discussione, anche il concetto di coppia stesso".
    Sì, secondo me è proprio così!
    Dobbiamo avere il coraggio di dire e di indicare ciò che non va più, anche se si tratta dell'architettura più intima dei rapporti umani, perché è necessario ricostruire tutto su nuove fondamenta.

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  6. Quando passo di qui, mi aspetto di trovare un'analisi, la scomposizione nei suoi elementi costitutivi di qualcosa... Sono stata accontentata anche stavolta. Il campo delle relazioni affettive è minato, anche perchè, come osservi anche tu, a bisogni effettivi si sovrappongono consuetudini, fardelli culturali che oggi più che mai sono "gusci vuoti ". Mi sono venuti in mente i corsi di etnologia ed antropologia seguiti all'università e ciò che ho appreso a proposito della coppia, o meglio, del matrimonio, del perchè nella società preindustriale si rendeva "necessario". Necessario, appunto, in un contesto molto diverso dal nostro. Oggi si parla di coppia...

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  7. Ti ringrazio, giacy.nta! Anch'io penso che il matrimonio sia stato "forgiato" su convenzioni e bisogni di altre epoche, e che oggi più che mai si riveli roso dall'usura del tempo, con vistose crepe in superficie e anche in profondità...
    Secondo me, non dobbiamo mai "adagiarci" sulle convenzioni del passato - anche se certo non tutto ciò che è di altre epoche va disfatto, sarebbe un eccesso - ma abbiamo la necessità di ripensare sempre le "forme" della nostra convivenza, interrogarle, non darle mai per scontate, rilevarne i difetti, metterli in discussione; e quando è il caso di ridiscutere l'intera struttura (e il matrimonio a mio parere rientra in questo caso), non bisogna avere timori "reverenziali", ma al contrario bisogna portare i nostri dubbi sino in fondo, per essere sinceri col proprio vissuto, con ciò che la ragione e l'esperienza ci dicono, senza temere gli strali di coloro che temono ogni cambiamento sol perché li spaventa la navigazione in mare aperto, lontano dalle luci del porto a loro familiari.

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  8. La fedeltà è per la vita sentimentale ciò che la coerenza è per la vita intellettuale: semplicemente un'ammissione di fallimento. (Oscar Wilde)
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    Per me la teoria dell'occhio che non vede è sempre valida, molto più di certe regole insulse perché inapplicabili create probabilmente da persone infelici; quello che non conosci e che non sai non ti può fare né bene né male. Ecco perché penso, sono sicura anzi, che fedeltà e monogamia siano venute in mente a gente brutta dentro, fuori e anche tutta intorno.
    La fedeltà imposta da una regola, non solo di ordine religioso ma anche civico: col matrimonio in chiesa si promette e col rito civile si giura - è una forzatura; in tempi molto antichi non essendoci altri metodi scientifici era l'unico sistema per garantire che i bambini nati da una coppia fossero proprio figli di quell'uomo e di quella donna che formavano il nucleo familiare. Oggi abbiamo l'analisi del dna e la possibilità concreta di non sfornare un figlio ad ogni rapporto sessuale, per dire. Bisognerebbe mettersi in testa che tutto quello che ci è stato tramandato nei secoli dei secoli poteva forse andare bene per il periodo nel quale c'era l'esigenza di "assicurarsi" per mezzo di leggi, delle religioni, ma in epoche diverse, attuali, moderne bisognerebbe avere il coraggio di liberarsi di certi retaggi culturali dannosi, che hanno provocato solo un mucchio di guai e sviluppato sentimenti negativi che si sono radicati nell'umanità. Pensiamo a quanta violenza si sarebbe potuta evitare se la cultura avesse accompagnato l'evoluzione dell'umanità nel corso della storia, se il tradimento, anziché essere inserito nelle cose da non fare mai fosse stato semplicemente considerato un evento della vita come mille altri. Solo l'anno appena passato in Italia sono state ammazzate più di cento donne da ex mariti, ex fidanzati o comunque uomini che non sono mai riusciti a rassegnarsi all'idea che quelle donne non fossero più una cosa loro. La media di donne uccise per motivi di gelosia in questo paese è terrificante, tre o quattro al giorno perdono la vita così dopo essere state molestate, maltrattate, minacciate per anni. E la fedeltà è quanto di più contrario alla natura dell'umanità sia stato mai pensato e realizzato proprio dagli esseri umani. Questo non significa certamente che il tradimento debba diventare il leit motiv all'interno della coppia, a quel punto è meglio se ognuno resta per conto suo e vive la sua vita come più gli o le piace, ma veramente, c'è di peggio nella vita che sapere di aver "diviso la merenda" con qualcuno.
    Le regole sociali diventano tali perché qualcuno ha interesse che lo siano: ecco perché in questo paese leggi in materia di diritto è difficilissimo averne, una su tutte la regolarizzazione delle coppie omosessuali che, sebbene non metta a rischio gli altri tipi di rapporti, quelli "normalmente eterosessuali" in questo paese non si riesce ad avere perché qualcuno, non solo al vaticano o a destra, pensa che non verrebbe accettata dalla gente comune. Le regole sono belle quando rispettarle non costa sacrificio, quando non è così significa che bisogna rivederle, e a me l'idea che centinaia di donne continuino a morire ammazzate per motivi legati alla gelosia non affascina particolarmente. Il tradimento, come la fedeltà sono due faccende che vanno affrontate dal punto di vista culturale non con imposizioni perché la maggioranza vuole che sia così, altrimenti non se ne esce.
    Ci sono cose che non vanno estorte né pretese ma si dovrebbero fare perché si sentono, togliere naturalezza ai rapporti umani perché ci sono cose che non si fanno secondo un sentire comune sviluppatosi nel tempo per altre ragioni ma che non per tutti sono sbagliate e irricevibili è quanto di meno umano si possa fare.

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    1. Estrella, sono d'accordo in linea generale con quello che dici.
      Nel dettaglio, circa questa tua riflessione: - Per me la teoria dell'occhio che non vede è sempre valida, molto più di certe regole insulse perché inapplicabili create probabilmente da persone infelici; quello che non conosci e che non sai non ti può fare né bene né male - penso che sia una massima, o un orientamento, dettato dal buon senso e dall'esperienza; generalmente, all'inizio del percorso sentimentale di ciascuno, quando si è ancora "acerbi", si tende a ragionare per valori astratti, e si vorrebbe la "perfetta trasparenza" dei comportamenti propri e dell'altra/o, o la "assoluta sincerità". Col tempo, invece, si impara che la "assoluta sincerità" o "assoluta schiettezza" può rivelarsi un'arma per ferire l'altra/o (la/il partner), e non uno strumento per rendere migliore il rapporto sentimentale/affettivo/ecc.
      Le migliori "intenzioni", coi loro valori "inflessibili e intransigenti", tante volte nascondono l'egoismo di chi vuol semplicemente sentirsi a posto con la *propria* coscienza, senza però preoccuparsi minimamente delle ferite che causa intorno a sé - e questo è *amore*?

      [continuo]

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    2. Ma la vera *coscienza* comporta anche il senso di responsabilità, il farsi carico dei sentimenti dell'altra/o, *se* è vero che nutriamo a nostra volta un sentimento nei suoi confronti. E allora, può essere più *coscienzioso* rispettare il principio "occhio che non vede" piuttosto che il principio "ti dico sempre tutto, costi quel che costi".
      Certo, in astratto - qualcuno obietterà - è ancora più "coscienzioso" e responsabile l'atteggiamento di chi non tradisce affatto: ma in astratto, appunto, cioè in un mondo privo di qualsiasi variabile imprevista, in cui il tempo scorre senza cambiare mai nulla, nelle nostre aspirazioni, nei nostri pensieri, ecc.
      Siccome però siamo soggetti al mutamento, e non basta - come scrivevo nel post - una promessa fatta con l'abito solenne a renderci immuni in modo assoluto e perfetto dai cambiamenti che si determinano in noi, e siccome, e soprattutto - ribadisco - promettere di "appartenere" a qualcuno è un impegno che contraddice la nostra costitutiva "non-appartenenza" (non essendo noi "oggetti"), è più *efficace*, dal punto di vista della responsabilità che abbiamo verso l'altra/o (come partner, compagna/o, ecc.) il principio che citavi, occhio non vede....

      [continuo]

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    3. In realtà, ritengo che certe istituzioni, come il matrimonio, siano un tentativo di sottoporre al dominio della razionalità (la Legge) ciò che scaturisce e si basa soprattutto sui sentimenti (e sull'istinto: ma non solo su questo).
      Razionalizzare il sentimento (e l'istinto) è un compito al limite dell'impossibile, è quasi un'impresa disperata, a mio parere. E' vero, per tenere in piedi un minimo di "società" abbiamo anche bisogno di rendere certi gli obblighi derivanti da determinati impegni (e l'impegno di mettere al mondo figli, ad es., è nella nostra era più "razionale", consapevole, che istintivo); però questa "razionalizzazione" avrà sempre un margine (più o meno grande) di forzatura, e quindi non potrà mai riuscire a "contenere" tutto il "microcosmo" delle nostre "motivazioni sentimentali", pulsioni, ecc.: l'imperfezione di questa "razionalizzazione", per le stesse ambizioni che quest'ultima si pone, è costitutiva e ineliminabile, bisogna esserne coscienti. Dobbiamo rassegnarci a questo, limitare le nostre pretese.
      In ultimo, circa quel che dici qui: - a me l'idea che centinaia di donne continuino a morire ammazzate per motivi legati alla gelosia non affascina particolarmente - posso rinviarti a un post che ho scritto sul tema.

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  9. Ne parlavo proprio oggi con un mio amico professore a proposito dell'apertura di Obama ai matrimoni omosessuali. In nessuna specie animale esiste una sorta di struttura somigliante al matrimonio. Dunque potremmo pensare che sia innaturale, a parte qualche eccezione che, proprio perché naturale non necessita di nessun ordine sociale imposto. Ad esempio l'incesto è dominante in natura. Nella specie umana no perché appunto gli umani sono dotati della capacità di decidere quello che è eticamente corretto e quello che non lo è. Finché è la natura a orientare va bene, ma quando si indirizzano le scelte delle persone per un ordine sociale, legiferando in tal senso è un'altra cosa, perché allora può valere qualsiasi tipo di ordine. Non solo quelli pensati per fare, appunto ordine. Le persone scelgono in base a quello che vogliono, non sempre in base a ciò che è giusto. Ovviamente assumendosi la responsabilità delle loro azioni.

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    1. E' solo per la specie umana, in effetti, che il problema si pone; nella nostra specie c'è una "sovrastruttura" (se così vogliamo chiamarla) razionale, che rende lo stesso concetto di "natura" un'astrazione, una costruzione "culturale".
      Quando, in riferimento ai rapporti umani (affettivi, sociali, ecc.), qualcuno afferma: è naturale comportarsi nel modo X anziché nel modo Y sta già esprimento un concetto di natura, cioè sta dandole un contenuto che è sempre tutto da verificare. Un'altra persona potrà, al contrario, affermare, su altre basi, che è naturale comportarsi nel modo Y anziché nel modo X, perché starà attribuendo al concetto di natura un altro senso e un altro contenuto. Quindi, se gli esseri umani pensano di risolvere ogni loro problema affidandosi a ciò che è o sarebbe naturale fare, non risolvono un bel nulla, perché poi sono costretti a risolvere le inevitabili controversie che sorgono su ciò che deve intendersi per natura e per naturale.

      [continuo]

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    2. Come dici nel tuo commento, si legifera tenendo presente un'idea di ordine sociale (anche questa non "assoluta", e valida solo fino a prova contraria).
      Tuttavia l'ordine è sempre soltanto un orizzonte ideale di riferimento; un "ordine assoluto e totale" non esiste, l'ordine può essere solo tendenziale, perché poggia tutto sulle fragili spalle delle persone.

      [continuo]

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    3. Ovviamente, per rendere l'esistenza meno caotica e non consegnare interamente gli scambi fra le persone all'incertezza, le società si dànno alcuni punti di riferimento sui quali concordare, alcune norme di comportamento, leggi fondamentali, ecc.; però, quando si verifica che queste "norme generali" diventano sempre meno rispondenti al mutare della realtà, delle aspirazioni collettive, alle maggiori libertà che oggi le popolazioni si sono conquistate (non senza fatica!), ecc., bisogna cominciare a rendersi conto che i punti di riferimento che valevano fino a ieri - anche se sono durati secoli - rischiano di diventare gusci vuoti, privi dei loro vecchi significati e non più adatti a orientare, come "bussole" ideali, i comportamenti e le aspirazioni di oggi (e una di queste "bussole" è appunto, a mio parere, il matrimonio - ma anche la coppia, se forgiata sullo stesso "stampo" ideale del matrimonio: non è la "cerimonia" che fa la differenza, ma l'abito mentale).
      Tanto più questo discorso vale nei nostri tempi, nei quali i mutamenti sono rapidi e più numerosi che in passato.

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    4. Dove scrivo una di queste "bussole" è appunto, a mio parere, il matrimonio - ma anche la coppia, intendo dire ovviamente: una di queste "bussole" ora in crisi, che bisogna sottoporre a profonda "revisione".

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