Ci sono problemi che con la loro presenza “assillante” a tutti i livelli (dalla famiglia ai luoghi di lavoro, e su fino al mondo politico-istituzionale) possono caratterizzare un'epoca, una stagione o un Paese, rendendo una nitida fotografia dei loro difetti generali e limiti.
Credo che nell'Italia di oggi – e non soltanto nei “massimi sistemi”, ma soprattutto nella nostra vita quotidiana – un problema di questo genere sia rappresentato dalla potenziale assenza dei vincoli.
E' un problema che possiede diverse facce e sfaccettature, due delle quali – strettamente legate fra loro – possono essere definite come: deresponsabilizzazione e rivendicazione dell'alibi.
Infatti, nel momento in cui ci assumiamo (anche in forma solenne) un impegno, che in teoria dovrebbe vincolarci a una certa condotta, a una certa lealtà, a una certa solidarietà, ecc., in realtà riteniamo che contenga sempre una implicita “clausola di garanzia” a nostro favore, che di fatto rende nullo il nostro impegno: questa clausola non è altro che una nostra riserva mentale, che potrebbe essere espressa con queste parole: “Si intende che l'impegno che qui e ora sto prendendo vale e varrà per me soltanto finché io riterrò che sia valido, a mio insindacabile giudizio, non importa quale sarà l'argomentazione (per meglio dire: l'alibi) che ufficialmente userò per svincolarmi; e non mi faccio assolutamente carico delle conseguenze che il mio unilaterale venir meno all'impegno causerà sulla/e persona/e con la/e quale/i ho contratto l'impegno stesso”.
(Appunto, ci si ritiene sempre eternamente svincolati da qualsiasi obbligo, responsabilità, ecc., nonostante ogni apparenza contraria: per apparenza intendo promesse solenni, contratti, etica professionale, ecc. ecc.).
Voi direte: ma ci sono le norme giuridiche che tutelano le obbligazioni, gli impegni contrattuali, ecc.! Certo, questo è vero, ma cosa possono le norme, quando il sentire generale sotterraneo e il costume diffuso di una società vanno in maniera pressoché compatta, come una truppa, nella direzione che ho appena descritto?
E poi, non sempre le norme di diritto sono in grado di trovare rimedi adeguati per comportamenti e tendenze di così vasta portata.
Faccio solo qualche esempio fra tanti, ma si tratta appunto solo di situazioni scelte a caso, fra un mare sterminato di possibilità.
1. I parlamentari ormai, a quanto pare, si ritengono svincolati non solo dal mandato imperativo (fin qui, tutto bene: è la Costituzione a dirlo), ma anche da ogni impegno politico (informale, ma non ininfluente) preso con il loro elettorato, impegno che comporta anche il rispetto di un determinato programma politico, sicché si spostano con disinvoltura da uno schieramento all'altro (rinnegando quindi il programma politico che si erano impegnati a sostenere!), usando l'alibi della loro libertà di coscienza per non rendere conto del loro operato [il problema non sta nel caso singolo, che potrebbe essere “fisiologico”, ma nel moltiplicarsi all'infinito di questi “casi”, che quindi tali più non sono, e denotano invece una deresponsabilizzazione endemica]
2. Non mi sembra che – considerando la media statistica dei comportamenti (e fatti salvi ovviamente i singoli casi “felici” e “virtuosi”) – gli sposi, nel momento in cui contraggono in forma solenne il loro impegno matrimoniale, prendano molto sul serio i contenuti di quell'impegno; è uno dei campi in cui generalmente la forma sembra essersi svuotata della sostanza, visto che tanti rivendicano, pur all'interno del matrimonio, una libertà assoluta di azione (che comporta la libertà di tradire il coniuge quando e come si vuole [l'alibi adatto per giustificare l'eccezione alla regola “troppo rigorosa” lo si trova sempre, suvvia!], ma anche di lasciarlo di punto in bianco per “qualcosa di meglio” secondo il principio del Carpe diem [antitetico, se preso come “assoluto”, a quello che dovrebbe reggere l'impegno matrimoniale... ma tant'è!], e, peggio ancora, di sottrarsi all'obbligo di contribuire al sostentamento dei figli non con motivazioni serie [su quelle, quando ci sono, non si discute] ma con puri alibi dettati dall'interesse egoistico bieco...)
3. C'è una richiesta sempre più diffusa (come un contagio) di una “legalità-supermarket”, in base alla quale vogliamo avere il diritto di rispettare le norme che ci piacciono e ignorare (violandole!) quelle che non ci aggradano, difendendo le nostre scelte (il nostro “menù”, per così dire) con motivazioni che, se talvolta sono profonde, in molti casi si rivelano invece discutibili alibi; il problema si complica soprattutto quando poi si scontrano i sostenitori di diversi “menù”, e pretendono l'applicazione della legalità solo agli altri, ai sostenitori del “menù avversario” insomma: ma questa pretesa contraddittoria non può trovare soddisfazione, appunto, sul terreno di una rigorosa “legalità” (che è, alla lettera, ciò che le norme prescrivono, né più né meno, altrimenti non è legalità in senso proprio), e perciò, se volessimo essere credibili (chimera, ormai!), dovremmo o abbandonare del tutto l'appello alla legalità (visto che nella sua versione generica e quindi “integrale” non ci aggrada), facendo riferimento ad altri princìpi altrettanto “alti”, oppure rivalutare il contenuto “esigente” del principio di legalità (il che però vuol dire rinunciare al nostro “menù”, cioè alle nostre riserve di fatto sui contenuti della “legalità”)
4. Sembra sempre più “normale” che i colpevoli di reati e persino di gravi delitti, specie se sono “blasonati”, cerchino spazio sui mass media, concedendo anche ben pagate interviste, non per mettere pacatamente in discussione le norme e i procedimenti in base ai quali sono stati condannati (il che non sarebbe inaccettabile in via di principio), ma addirittura per attaccarli, delegittimarli e irriderli: e soprattutto ci sono sempre più persone che appellandosi al principio “non bisogna giudicare”, sembrano depotenziare la gravità di reati e delitti, come un indistinto “può capitare” che tutto giustifica, tutto parifica, e quindi concede a tutti amorevoli alibi, specie se – ripeto – il colpevole viene dalla “buona società”, dalle “persone perbene” (?), perché poi si è di fatto molto meno indulgenti verso i poveri e gli “ultimi” in genere. Per essere più chiari: un conto è dubitare della colpevolezza di un imputato prima della sentenza definitiva (e infatti non si dovrebbe mai fare il “colpevolista” a priori), e un altro conto è [fatti salvi i casi di processo iniquo o scorretto, o di errore giudiziario] concedere a tutti i costi alibi a chi è in modo ormai acclarato colpevole (insinuando che forse, se “tutto può capitare”, tutti siamo innocenti e/o tutti colpevoli – ipotesi, queste, fra loro equivalenti), perché ciò contribuisce a sminuire il valore e l'importanza della responsabilità (e quindi, forse, anche della maturità che tutti dovremmo avere in una società “avanzata”), come se già questa fra noi non fosse ormai ridotta ai suoi “minimi storici”.
Ripeto: si potrebbe continuare ancora a lungo con gli esempi, ma credo che il concetto sia abbastanza evidente.
Perché il principio di responsabilità svolge un ruolo cruciale, e il suo indebolimento (avvenendo su vasta scala) determina problemi seri? La ragione sta nel fatto che - come accennavo all'inizio - non far fronte alle proprie responsabilità significa non riconoscere alcun vincolo nei confronti del gruppo (vasto o ristretto) del quale si fa parte, dalla cerchia familiare allo Stato.
E' come se ciascuno/a di noi (o almeno molti di noi) ritenesse(ro) di non dovere nulla agli altri, e di dovere tutto invece esclusivamente a se stesso/a/i. Viviamo e ci comportiamo (in Italia particolarmente) come se i vantaggi che ci derivano dal patrimonio culturale accumulato nel corso di diverse generazioni, dall'educazione ricevuta, dal far parte di una determinata cerchia (ambientale, sociale, familiare), dalle conquiste dell'economia e della tecnologia, dalla stessa esistenza di un ordinamento giuridico e statale (con norme, diritti, garanzie, ecc.) non fossero dovuti in buona misura a ciò che abbiamo indubitabilmente "ricevuto" da questi ambiti e soggetti, e alla nostra "appartenenza" a determinate sfere sociali, "ambientali" e politico-giuridiche, ma fossero tutti prodotti da noi stessi/e, quasi per un processo di "creazione dal nulla".
Non riteniamo di dovere nulla a nessuno, o almeno ci piace poterlo pensare e dichiarare, in maniera che ci sentiamo autorizzati a non riconoscere vincoli di alcun genere col mondo circostante: o perlomeno, facciamo mostra di riconoscerli (con atto puramente esteriore) solo quando - e finché - riteniamo di poter ricavare un "compenso" immediato (di qualunque natura sia) da questo riconoscimento esteriore.
E' indubbio che questo "opportunismo" in qualche misura, se non è una regola generale dei rapporti umani, è comunque un rischio sempre in agguato; il fatto "patologico" è la sua ostentazione ormai aperta e generalizzata, in Italia, come se non dovessimo preoccuparci né vergognarci di esibire un tale "machiavellismo", e come se questa "generalità della deresponsabilizzazione" non portasse a nessuna conseguenza negativa sotto il profilo della qualità dei rapporti umani.
Altre società reagiscono al pericolo della "deresponsabilizzazione", e non civettano con la tentazione degli alibi (come invece noi facciamo): è molto più frequente, ad esempio, in società come quella anglosassone o tedesca (ma non solo), assistere all'ammissione di responsabilità in pubblico, senza ricerca di alibi e scappatoie morali, da parte di chi sbaglia. Un industriale che trucca il bilancio della propria azienda, per frodare gli azionisti, altrove magari (non in Italia, insomma), dopo che la giustizia lo ha "scovato", ammette in pubblico di meritare le conseguenze delle proprie colpe, senza sconti. Similmente, un ministro che si appropria indebitamente di fondi non suoi, approfittando della propria carica; eccetera. Dunque, altrove gli errori e le scorrettezze si fanno, esattamente come da noi; ciò che è diverso è l'atteggiamento generale nei confronti dell'idea di responsabilità, al quale nessuno si sente autorizzato a sottrarsi. Si deve rendere conto di ciò che si fa, si deve rispondere delle proprie azioni, quando ci si è sottratti a un impegno precedentemente assunto con qualcuno o con la collettività in genere. E le scusanti non possono cancellare in nessun modo l'esistenza della responsabilità né, di conseguenza, il dovere di pagare per i propri errori e le proprie scorrettezze.
Questi princìpi in Italia (specialmente) facciamo fatica, molta fatica, ad accettarli. Dobbiamo compiere, come direbbe qualche psicologo, anche un duro lavoro su noi stessi, per riuscire a recuperare la dimensione del vincolo, che a quanto pare abbiamo (volutamente?) smarrito.
Voglio dire: non è solo un problema di quelli o di quegli altri: dobbiamo affrontarlo anzitutto in noi stessi.
E' vero che sulla situazione italiana, sulla costruzione della nostra mentalità, ha influito non poco il dualismo Stato-Chiesa, però è anche vero che oggi, in epoca di "secolarizzazione di massa", questo dualismo si è ridotto anch'esso a un puro alibi di comodo, al quale molti di noi fanno appello per sottrarsi alle proprie responsabilità.
Intendo riferirmi al comportamento opportunistico, da "Arlecchino servitore di due padroni", che gli italiani tendono a mostrare (e che, apparentemente, è quasi una "seconda natura" per loro): spesso, quando una legge dello Stato non piace loro, per sottrarsi a ciò che questa prescrive, fanno appello ai "dettami della Chiesa" che in quella particolare circostanza appaiono più consoni ai loro interessi; viceversa, le stesse persone, quando non gradiscono un determinato precetto della Chiesa cattolica, si appellano alla legge "laica" dello Stato che in quella circostanza è più in sintonia col loro interesse. Quanti casi del genere possiamo constatare, anche nell'opinione pubblica?
Accade un po' come in quelle famiglie dove i bambini approfittano dei dissidi fra i genitori per fare il comodo loro, appellandosi alternativamente e con rara maestria ora alla benevolenza della madre, ora alla tolleranza del padre.
[Detto per inciso: sicuramente sul breve periodo, specie in passato, la Chiesa ha tratto vantaggio dal "giocare" contro lo Stato dipingendolo come "cattivo" e quindi indegno di obbedienza, ma alla lunga il "gioco" le è sfuggito di mano ed è andato al di là delle sue intenzioni, contribuendo a rafforzare proprio quell'"individualismo scettico e materialista" (io direi piuttosto: opportunista, carico dell'inaffidabilità vischiosa della "furbizia") del quale recentemente spesso si lamenta.]
Non è mia intenzione porre il principio di responsabilità in una teca, come un oggetto di culto, perché come tutti i princìpi merita di essere sottoposto a discussione, verifica, rettifica, e così via; però in quest'epoca pesa particolarmente la sua assenza, nella vita di tutti i giorni come nella politica delle "grandi decisioni", ed è di questo che secondo me oggi dobbiamo discutere. Non possiamo continuare a far finta che la cosa non ci riguardi, che il problema, guarda caso, sia "altrove", e che noi non abbiamo nulla da rimproverarci, sotto questo aspetto.
Io temo che ritenersi eternamente immuni da vincoli, e quindi da responsabilità, significhi anche diventare persone del tutto vuote nella loro assenza e inessenzialità. Proprio laddove, col nostro "galattico" e luccicante individualismo "che-a-nessuno-deve-niente", pretendiamo di essere "soggetti unici, favolosi e insostituibili", ci trasformiamo invece in fantocci vuoti e facilmente rimpiazzabili: mi è venuto da pensarlo ad esempio osservando qualche genitore che si ritiene esentato dalla responsabilità di educare i propri figli, limitando il proprio compito alla comoda (comodissima) funzione di dire sempre sì, dar sempre ragione a loro (e torto sempre agli altri, eh!), di trovare sempre alibi per gli errori e le "marachelle" dei pargoli, in modo da non doverli mai rendere e far sentire responsabili. Come si vede, è un compito standardizzato e ripetitivo che potrebbe essere svolto anche da un robot altamente specializzato. Basta che abbia le spalle larghe, per incutere timore nei "cattivoni" che osano dar torto ai diletti cuccioli; il resto non serve.
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