Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

sabato 10 marzo 2012

Le icone vengono da lontano. Un saggio di Francesca L. Viano sulla statua della libertà e la sua storia

Esistono libri che sono talmente ricchi di suggestioni e soprattutto di nozioni, da essere quasi lo specchio di interi mondi. Era questo il genere di libri che probabilmente piaceva in particolare a Jorge Luis Borges.
Non si tratta necessariamente di libri di narrativa, romanzi o racconti: anche un buon libro di storia, per esempio, può far parte di questa "schiera".

E il volume di cui voglio parlare stavolta è appunto un libro di storia.
La statua della libertà. Una storia globale, scritto da Francesca Lidia Viano, e pubblicato da Editori Laterza nel 2010, non è però un qualsiasi saggio di storia, di quelli rigorosi riservati agli specialisti della materia, e neppure un testo di divulgazione tendente a sminuzzare la materia storica in coloriti aneddoti che siano accettabili da parte di un pubblico eterogeneo e non particolarmente "paziente" nei confronti dei complicati gerghi specialistici e accademici.


Eppure è senz'altro un testo rigoroso e fitto, dal punto di vista della ricostruzione storica e della mole di dati esaminati ed esposti, e allo stesso tempo è fatto per essere piacevolmente letto, persino avvincente nel suo saper raccontare una vera e propria "trama" complessa di vicende.
E' dotato di un'arguzia raffinata e "anglosassone", pur essendo l'autrice una studiosa torinese, che però lavora e vive ormai all'estero, trattandosi di uno di quei (tanti) "cervelli" che forse il nostro Paese non ha saputo apprezzare e valorizzare a dovere.

Dicevo che, come del resto il sottotitolo fa benissimo intendere, La statua della libertà. Una storia globale è un libro di storia; ma può mettere in imbarazzo gli "specialisti" della materia, votati alla precisa classificazione settoriale degli studi, giacché è un saggio di storia delle idee, ma non solo; è anche un raffinato studio dell'iconografia moderna e contemporanea, ma non solo; contiene preziosi riferimenti alla storia degli Stati Uniti, da noi poco nota in realtà, ma rivela anche "scorci" non troppo conosciuti della storia europea e francese in particolare, ed è anche un affresco delle élite di potere tra il XIX secolo e gli albori del XX.

In questo testo, che è costato anni di studio, Francesca L. Viano adotta, per così dire, la tecnica del flashback, poiché partendo dalla "scena" dell'inaugurazione della celebre statua che è ormai l'icona di New York, avvenuta il 25 ottobre 1886 - scena che viene ricostruita finemente con buon sense of humour - accompagna i lettori in un ideale viaggio a ritroso nel tempo, per cercare di mostrare come una "semplice" statua, che ormai, proprio perché fa parte dell'immaginario popolare dell'intero pianeta (ed essendo quindi in apparenza una "vecchia conoscenza" di noi tutti), nessuno analizza con la dovuta attenzione, sia ben più di quello che sembra: essa riflette tutto un mondo di ideali, valori, speranze e anche delusioni collettive, che si è andato costruendo lungo l'arco di un intero secolo.

Perché la Libertà viene rappresentata in quel modo? E' un caso o vi è una scelta, una precisa ragione che spiega quella specifica simbologia?
Può sembrare una domanda da poco e invece il volume dimostra come uno storico valido e capace (anzi, in questo caso una storica) possa riuscire attraverso questa domanda, attraverso questa curiosità, che fa da filo conduttore, a portare alla luce le tensioni ideali, le aspirazioni e anche le "trame" di un secolo particolarmente complesso e tutt'altro che omogeneo e schematizzabile, come l'Ottocento.

L'autrice si mette principalmente sulle tracce di Frédéric-Auguste Bartholdi, l'ideatore e artefice della statua della Libertà; ma "pedinando" lui, e immergendosi nella sua biografia, giunge a svelare le influenze culturali e politiche, e dunque il "clima" ideale, che hanno portato a quella peculiare raffigurazione dell'idea di libertà e alla realizzazione di quel monumento.

Leggendo il testo di Francesca Viano, risulta spontaneo osservare che - per quanto banale possa suonare una simile affermazione - la statua viene da molto lontano, e non tanto in senso spaziale, ma soprattutto sotto il profilo temporale.

Accennavo in apertura a libri che sanno rispecchiare interi mondi; e infatti, questo volume è una vera miniera di informazioni, al punto che a tratti ci si può dimenticare del protagonista principale (o dei protagonisti, Bartholdi e la sua statua), ma la studiosa sa come ricondurre sempre tutti i numerosi e apparentemente aggrovigliati fili del discorso al tema centrale.

Non potendo qui enumerare tutti gli snodi e i dettagli della pregevole e vasta ricostruzione storica di Francesca Viano, mi limito a condividere in ordine sparso alcune suggestioni dalle quali sono stato "catturato".

Non posso dimenticare, ad esempio, l'acuta raffigurazione dell'utopia di Saint-Simon e dei suoi seguaci. Anzi, Saint-Simon viene appropriatamente descritto nel testo come un fertile produttore di utopie. Intellettuali, artisti e industriali, alleati in qualche modo fra loro, sarebbero stati secondo lui gli apostoli di un mondo nuovo, e come ricorda l'autrice, egli pensò a un certo punto «di attribuire il potere politico agli industriali, affinché questi pianificassero lo sviluppo economico del paese [la Francia] attraverso un piano di lavori pubblici» mentre gli intellettuali «sarebbero stati incaricati di interpretare il corso della storia per ricavarne le leggi di sfruttamento del mondo» e gli artisti impegnati a indicare «il cammino futuro, servendosi dell'immaginazione e dell'intuizione» [Viano 2010, p. 87].

Come si può vedere - sia detto per inciso - è il cuore della "divisione dei compiti" e del lavoro che è stata portata a termine negli ultimi due secoli, con l'alleanza di ferro fra industriali, tecnologia ed "esperti".

I saint-simoniani accentuarono gli aspetti visionari e mistici dell'insegnamento del loro "maestro", senza perdere di vista però il senso pratico. Uno dei successori del maestro alla guida della sua "scuola", anzi della sua "chiesa", Enfantin, «credeva nella metempsicosi e, non diversamente dai neoplatonici tardi, immaginava che la reincarnazione delle anime in sedi via via più nobili dipendesse dal superamento di certe prove» e inoltre «si presentava come successore di Mosè (che nella tradizione ermetica era spesso identificato con Ermete), Orfeo, Gesù e persino Napoleone [...]» [Viano 2010, p. 89].

La modernità "razionalistica", coi saint-simoniani, si confonde e si mescola col misticismo, apparentemente antitetico; ma questo rapporto contraddittorio sembra contrassegnare tutto l'ambiente culturale che ha dato origine alla simbologia della statua della Libertà.
Alla base del mondo contemporaneo, negli "interstizi" profondi della sua cultura e della sua visione del mondo, c'è questo dualismo irrisolto, come il testo suggerisce sommessamente.

I progetti di costruzione della modernità, attraverso imponenti opere che raffigurassero la "potenza" della scienza applicata, e dunque dell'industria, nascevano nella "scuola" saint-simoniana da visioni mistiche e apocalittiche, come ricorda Francesca Viano. E fra questi sogni mistici e grandiosi, ma da realizzare servendosi creativamente della tecnologia, vi era la trasformazione di Parigi in un'enorme «metropoli 'marittima'» pensata come un immenso uomo che si protendesse verso i porti del Nord, Calais e Le Havre [cfr. Viano 2010, pp. 90 e segg.].

Enfantin, poi, era favorevole all'emancipazione femminile e, pur non potendo definirsi un vero e proprio proto-femminista, considerava necessaria la liberazione delle donne dal giogo dell'oppressione domestica, e le riteneva «le alleate naturali dell'industria» in quanto questa «le strappava a famiglie oppressive e a mariti tirannici e, costringendole a lavorare in ambienti prevalentemente maschili, le aiutava a mettere in discussione i parametri della propria educazione religiosa» [Viano 2010, p. 92].

In sostanza, «Enfantin aveva visto nella donna il simbolo della rivoluzione industriale contro la società dei privilegi e dei pregiudizi religiosi. Emancipare la donna significava fare decollare l'industria e rigenerare il mondo» [Viano 2010, p. 92].

Da queste concezioni di Enfantin e dalle visioni "apocalittiche" dei saint-simoniani, ci spiega Francesca Viano, scaturisce il progetto di costruire un tempio colossale a forma di donna.
La descrizione che il testo fa di questo "colosso femminile" è suggestiva, e soprattutto è suggestiva la lettura che la studiosa dà della simbologia alla quale associare questa ambiziosa e visionaria "fantasia" dei saint-simoniani.
«La statua-tempio dei sansimoniani - scrive F. Viano - esibiva più di una semplice somiglianza con le statue rivoluzionarie della libertà: colossale, essa innalzava la luce al cielo, una luce che [...] segnalava al mondo intero che la rigenerazione era avvenuta, ed era avvenuta a Parigi; come le statue rivoluzionarie, inoltre, anche il colosso sansimoniano era un simbolo di libertà, perché Enfantin riteneva che l'industria (sostenuta dalle donne) fosse lo strumento principe di emancipazione» [Viano 2010, pp. 93-94].

Questa statua, dunque, sebbene non identica alla celebre Statua della Libertà né a questa perfettamente assimilabile, ne è per alcuni aspetti la prefigurazione, come l'autrice spiega: «Anche se la statua della libertà non indossa gioielli, né porta sotto il peplo una veste a balze, come quello della donna-faro sansimoniana, né, infine, è un colosso musicale, essa condivide con l'omologa sansimoniana tutte le altre caratteristiche: è un colosso femminile, è un faro, è associata al fuoco (per via della fiaccola), indossa una corona e, sopra la corona, sette raggi solari (ricordiamo che il colosso sansimoniano sorgeva sul plesso solare della città)» [Viano 2010, p. 95].

Naturalmente bisogna poi leggere il libro (non posso anticipare tutto...) per comprendere se, o in che termini, vi sia un legame accertato fra i saint-simoniani e le concezioni ideali e artistiche di Bartholdi.

Fra gli altri, innumerevoli spunti che il volume offre alla riflessione del lettore, c'è qualche annotazione riguardo al celebre studio sulla Democrazia in America di Alexis de Tocqueville. Secondo Francesca Viano, contrariamente a quanto di solito si ritiene, in quel ponderoso saggio c'è poco della reale America del XIX secolo - o meglio, nello studio tocquevilliano non c'è tutta l'America, ma solo il punto di vista delle grandi città del New England e della East Coast (e in particolare dei loro "salotti buoni").

Infatti, ci fa notare F. Viano, era dai «salotti politici di New York e Philadelphia» che Tocqueville «si era fatto raccontare l'America che non aveva avuto né tempo né voglia di vedere»; e non vide dunque né poté realmente descrivere quell'America "interna", popolare, «aspra e rude», del West, di Chicago o delle stesse strade «sporche e dissestate di New York», che invece Bartholdi percorse fisicamente e conobbe [Viano 2010, p. X].

Nella Democrazia in America di Tocqueville - insiste la studiosa - l'America del suo tempo, quella del 1831 (anno nel quale il pensatore francese si era recato negli Stati Uniti in missione), «emergeva in modo parziale, se pensiamo che, fatta eccezione per una lunga escursione nelle regioni ancora selvagge al di là del Michigan e due mesi di viaggio attraverso il Sud (durante il quale raramente aveva lasciato la diligenza o il battello), Tocqueville aveva trascorso la maggior parte del tempo nei salotti di Philadelphia, New York e Boston. In questi ambienti di avvocati, uomini politici e banchieri si guardava con sospetto alla solidarietà che l'allora presidente Jackson ostentava per l'uomo comune, a quel suo voler difendere a tutti i costi il 'popolo' dalle élites del Nord» [Viano 2010, pp. 133-134].

Tocqueville fece proprio quindi in larga parte il punto di vista dei suoi amici americani altolocati e sottolineò di conseguenza come fatto positivo «la tendenza delle minoranze ad associarsi per resistere alla forza schiacciante delle maggioranze» (il "popolo" temuto da banchieri e imprenditori del Nord) [Viano 2010, p. 134].

Tuttavia, rispetto al comune sentire dei salotti statunitensi, l'avversione per le maggioranze (oggi diremmo forse: per le masse) era presente nelle parole e nei pensieri dell'autore francese in misura maggiore, tanto che con toni profetici egli aveva preannunciato un'era nella quale le maggioranze - nonostante tutti i "pesi e contrappesi" (checks and balances) previsti da Costituzioni come quella americana - avrebbero travolto i singoli e le minoranze, troppo occupati a condurre i loro affari privati per accorgersi del cataclisma [cfr. Viano 2010, p. 134].

[Nota: oggi in effetti alcuni importanti studiosi statunitensi e anglosassoni tendono a mettere in discussione, almeno in parte, la validità delle descrizioni e delle analisi riguardanti la società americana dell'Ottocento, contenute nel saggio di Tocqueville. Ad esempio, si contesta come errata la valutazione che Tocqueville fa delle associazioni volontarie americane e del loro ruolo sociale e politico; queste, diversamente da quanto riteneva il pensatore francese, contribuirono ad alimentare particolarismi all'interno della società americana, e a segmentarla, e quindi furono fattori che, anziché favorire l'integrazione dei gruppi sociali - specialmente (ma non solo) di quelli emarginati - nel circuito della democrazia, la ostacolarono attivamente. (Va aggiunto che, a quanto riferiscono studiosi come Kaufman e Tilly, il tipo di associazionismo conosciuto e studiato da Tocqueville è tramontato inesorabilmente dopo la prima guerra mondiale, e, nell'ottica della moderna integrazione democratica, non è particolarmente rimpianto): cfr. Tilly 2009, pp. 124-125].

Comunque, come osserva Francesca Viano, una delle idee centrali nel saggio di Tocqueville, ovvero la convinzione che il destino dell'umanità si sarebbe compiuto in America [cfr. Viano 2010, p. 134], rappresenta una costante, un "motivo conduttore" che si ritrova anche in altri autori francesi che all'incirca in quella stessa epoca hanno descritto - per averli visitati in lungo e in largo di persona - gli Stati Uniti, con il loro peculiare way of life, il loro modello economico, sociale e politico.
Anche Michel Chevalier ad esempio, ingegnere saint-simoniano nonché braccio destro di Enfantin, descrivendo in seguito a un viaggio compiuto nel 1834 l'America dei porti, delle ferrovie, delle filande, delle miniere - ovvero un'America ben diversa da quella che Tocqueville volle conoscere appena tre anni prima - e mettendo tra l'altro in evidenza il ruolo che lo Stato, in quanto «potenza regolatrice», aveva nell'economia di quella nazione (rilievo che ridimensionava il mito dell'America come luogo della "libera concorrenza" tra le forze economiche imprenditoriali) [cfr. Viano 2010, pp. 134-135], arrivò a concludere, come Tocqueville ma in toni più mistici, che «tutto ciò che aveva visto in America [era] la manifestazione di qualche destino superiore» [Viano 2010, p. 135].

Una convinzione simile avrebbe avuto anche il primo americanista francese "ufficiale" (sotto il profilo del ruolo accademico), ovvero Édouard Laboulaye, un personaggio pieno di contraddizioni, sul quale la studiosa si sofferma a più riprese nel testo, dato che ebbe un ruolo cruciale nella genesi della Statua della Libertà. Era «uno dei tanti cattolici che aveva bevuto al calice del misticismo ottocentesco. Ma il suo misticismo, come quello di Cousin [suo maestro, nonché influente filosofo e docente dell'epoca] [...] era curiosamente compatibile con la certezza che la Chiesa non avesse nessun diritto di interferire nelle decisioni statali» [Viano 2010, p. 124].

Laboulaye credeva nell'incessante progresso dell'umanità, e anche nel ruolo e nell'importanza della ragione, tuttavia, al tempo stesso, negava «alla volontà umana ogni influenza sugli eventi» giacché descriveva «progresso e libertà come la capacità dell'uomo di allineare o riallineare la propria volontà a quella di Dio» [Viano 2010, p. 124].
Ancora una volta troviamo strettamente legati, da un lato, la ragione e il progresso (e di conseguenza l'industria e lo sviluppo tecnologico ed economico) e, dall'altro, credenze mistiche (quando non addirittura visionarie) sui destini del mondo e dell'umanità.

Incaricato dal 1849 di tenere lezioni di storia costituzionale americana presso il Collège de France, Laboulaye «spiegò la storia delle colonie americane e della loro fortuna alla luce di un grande disegno divino», non fornendo quindi in sostanza «nessun contributo originale alla storia delle idee, né alla storia dell'americanistica in particolare» [Viano 2010, p. 135], però alimentò nel tempo l'attenzione verso la realtà americana e influenzò alcuni ambienti culturali francesi. Per il suo corso, Laboulaye si servì di fonti eterogenee (puntualmente enumerate dalla studiosa), tutte comunque tendenti in qualche modo a dimostrare che «l'America era il luogo nel quale la sapienza originaria (la sapienza custodita dai sacerdoti dei primi misteri, Orfeo o Hermes, ma anche la sapienza comunicata da Gesù agli apostoli) era diventata accessibile alla gente comune» [Viano 2010, p. 136]: questi insomma il vero fulcro e il vero significato della vocazione "democratica" degli Stati Uniti, secondo questa interpretazione.

«L'America - scrive F. Viano - era [...] un'inizianda tutta particolare per Laboulaye: essa non si era limitata a ricevere le leggi della terra e della proprietà da Orfeo [...] ma aveva incorporato le verità apostoliche nel diritto. Erano Orfeo e Gesù a parlare attraverso la Costituzione americana e il diritto - spiegava Laboulaye - era "una fiaccola" con la quale "si rianima la polvere dei secoli" e "ogni epoca si presenta davanti a noi come una persona viva, che possiamo giudicare"» [Viano 2010, p. 138, con citazioni di É. Laboulaye, Histoire politique des États Units, vol. I, Durand, Paris 1855-66].

La Statua della Libertà - a giudizio di Francesca Viano - è l'icona, o il concentrato, la summa immediatamente visibile e percepibile, di una dottrina che prese forma nelle lezioni tenute da Laboulaye presso il Collège de France [cfr. Viano 2010, p. 136]. Ma la Statua è anche molto di più, e la sua genesi non si può comprendere se non studiando, come fa l'autrice, le vicende biografiche e la carriera artistica di Bartholdi, oltre ai numerosi ambienti che questi frequentò: su questo punto però non aggiungo altro, rinvio al libro.

Altre nozioni e specificazioni importanti contenute nel testo riguardano la storia degli Stati Uniti del XIX secolo, della quale in genere abbiamo scarse (e talora errate) cognizioni.
Da noi, ad esempio, Abraham Lincoln è ricordato come il paladino dell'abolizionismo, il presidente che si spese per l'abolizione della schiavitù dei neri, e che per questo dovette fronteggiare anche una guerra civile.

In realtà, come ricorda Francesca Viano, la posizione tenuta da Lincoln sulla questione fu oscillante e per un lungo tratto incerta: inizialmente «era tra i repubblicani più morbidi nei confronti della schiavitù: si era dichiarato più volte contro di essa e desiderava che non si estendesse al di fuori delle piantagioni, ma sul destino degli schiavi del Sud preferiva non pronunciarsi» e quando, dopo il suo discorso inaugurale da Presidente (4 marzo 1861), il Sud cominciò ad armarsi, egli «si trovò in serio imbarazzo» [Viano 2010, p. 202], dovendo scegliere finalmente con chiarezza quale posizione prendere nei confronti della schiavitù, in una situazione nella quale tra l'altro - al contrario di quanto comunemente si crede - «non tutti gli Stati schiavisti erano a favore della secessione: se si fosse schierato ufficialmente con gli abolizionisti, Lincoln avrebbe corso il rischio di scontentare gli Stati schiavisti rimasti sotto il governo federale» [Viano 2010, pp. 202-203].

F. Viano fa notare che fu paradossalmente l'intervento di alcuni Paesi europei - che preoccupati per i loro commerci con gli Stati del Sud, cominciarono a sostenerne la causa con toni accesi, mettendo sotto accusa l'operato della presidenza americana - a costringere Lincoln ad assumere una posizione più decisa, «ma per difendere il principio dell'unione tra gli Stati, non per attaccare la schiavitù. Con la 'U' maiuscola, l'Unione divenne una sorta di concetto sacro, mistico, nel nome del quale si poteva anche scatenare la guerra» [Viano 2010, p. 203].

(Leggendo il testo, si scopre fra l'altro che Laboulaye, come altri francesi, fu un "abolizionista" ben più convinto di Lincoln e dei suoi sostenitori [cfr. Viano 2010, pp. 206 e segg.], anche se non si può negare che «I francesi erano noti per sdegnarsi di fronte alle ingiustizie commesse da altri Paesi. Di fatto, loro stessi avevano abolito la schiavitù solo nel 1848 (assai in ritardo rispetto agli inglesi) e dopo una campagna dai toni piuttosto morbidi, che non sembrava troppo scossa dai tratti sanguinari della dominazione francese in Algeria» [Viano 2010, p. 164].)

Il saggio di Francesca Viano ricostruisce poi altri aspetti della storia americana dell'Ottocento, soprattutto della storia culturale ed economica - e dei rapporti fra Stati Uniti e Francia - che non sono generalmente noti da noi: il solo venirne a conoscenza sia pure di sfuggita (in questo caso attraverso la lettura di queste pagine) ci fa capire quanto poco in realtà sappiamo di una nazione, le cui vicende hanno però influenzato negli ultimi due secoli anche la nostra storia.

In definitiva, La statua della libertà. Una storia globale è un libro talmente ricco di nomi, vicende, approfondimenti, digressioni dotte e allettanti, che è impossibile tentare di "riassumerlo": qui mi sono limitato a coglierne alcuni spunti che m'ispiravano particolarmente e a commentarli.

Dunque, questo volume - il titolo non inganni - non riporta e non racconta semplicemente la "storia di una statua", perché riesce a dimostrare come, dietro un simbolo ormai abusato e inflazionato, dietro un'icona planetaria, ci sia ben più di quel che sembra: c'è un segmento essenziale della storia di un'epoca, forse non quello ufficiale e più conosciuto, ma senz'altro uno di quelli che concorrono a formare, a determinare e a spiegare il "tessuto" della Storia senza aggettivi e con la maiuscola ("Storia" che però si può svelare non direttamente nella sua sterminata generalità, ma pazientemente e faticosamente, un pezzo alla volta, e solo attraversando o portando alla luce qualcuno dei suoi innumerevoli canali e cunicoli, come questo bel saggio insegna).


Testi citati:

- [Viano 2010]: F.L. Viano, La statua della libertà. Una storia globale, Editori Laterza, Roma-Bari.

- [Tilly 2009]: Ch. Tilly, La democrazia, Il Mulino, Bologna // ed. origin.: Democracy (2007), Cambridge University Press.

2 commenti:

  1. Effettivamente l'iconografia può portare molto lontano e consentire, a partire da una immagine, di ricomporre un contesto. Ti ringrazio per l'interessante lettura. Buona giornata!

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    1. Grazie a te per essere passata di qui.
      Trovo che libri come quello di cui ho parlato nel post siano molto istruttivi, proprio perché mostrano come i fatti e i "segni" della realtà rivelino una serie di connessioni delle quali, distratti dal rumore di fondo di una vita sempre più "rapida" e carica di eventi, non siamo sufficientemente coscienti.
      Ed è vero che dietro un'immagine spesso c'è una storia affascinante nella sua ricchezza e complessità. E d'altronde un'immagine può essere letta e decodificata in modi molto diversi, a seconda dell'esperienza personale e dell'epoca in cui vive chi la osserva.
      A volte i significati originari di un'icona - come quella che il testo descrive - possono andare smarriti, col passare del tempo (e dei secoli!) nella memoria "collettiva"; in questi casi mi chiedo: quei lontani significati possono ancora incidere nel nostro immaginario, a nostra insaputa? E se sì, fino a che punto?

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