Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

mercoledì 21 novembre 2012

Dittatura, o perfida illusion


1. Premessa: un problema di classificazione...

Può sembrare facile parlare di un tema come la dittatura. Ciascuno di noi forse intuitivamente “sa” di cosa parliamo quando parliamo di dittatura (come concetto) o di dittature (come fenomeno storico e politico). Ma, come spesso càpita, quando si tenta di passare dalla conoscenza “intuitiva” alle definizioni, sorge qualche problema. Le definizioni infatti non riescono mai a “catturare” in maniera perfetta i fenomeni della realtà, giacché dovendoli classificare secondo categorie, e dovendosi quindi in questo processo confrontare con i problemi connessi all'uso del linguaggio, i dilemmi che esse producono e sollevano sono forse molti di più di quelli che riescono a sciogliere in maniera convincente.



Da un lato è vero che con le definizioni ci si deve confrontare, perché servono a farci riflettere sul senso che diamo ai concetti, e talora riescono anche a correggere determinati errori e luoghi comuni relativi al nostro rapporto con la realtà e alla nostra maniera di leggerla; ma, dall'altro, a volte dare troppa rilevanza alle definizioni e alle categorie, che necessariamente sono costruzioni intellettuali, può farci perdere il contatto con i fenomeni che quelle categorie e definizioni originariamente avevano intenzione di spiegare. Mettere in questione le “categorie” consolidate nel discorso pubblico e anche nelle discipline scientifiche e accademiche può essere un atto “virtuoso”, perché consente un nuovo “sguardo sulle cose”, che prelude a un nuovo modo di leggerle e interpretarle, magari più convincente di quello comunemente “accreditato”, o almeno alternativo (e non per questo necessariamente arbitrario). Quindi, proprio per amore della conoscenza, può risultare necessario e/o vitale porre in dubbio (in maniera parziale o radicale) le “categorie consolidate”.

Qui – per tornare al tema – non è mia intenzione soffermarmi sulle “definizioni” relative alla dittatura, ma non posso neppure eluderle del tutto, anche perché il discorso che voglio fare affronta in parte la percezione che si ha del “fenomeno” dittatura; e in quella percezione la “battaglia sulle definizioni” ha un ruolo particolare, forse non determinante ma tuttavia importante.

Innanzitutto, dittatura non è un termine sufficientemente preciso, quando ci si riferisce a ordinamenti politici moderni e contemporanei: è però un termine di uso comune, e quindi lo si adopera anche in riflessioni “serie” per far comprendere a tutti/e con chiarezza di cosa si sta parlando.

Se con “dittatura” intendiamo indicare genericamente tutti i regimi politici che non sono democratici, il termine più corretto da usare è autocrazia. Ma anche precisando questo, non abbiamo ancora detto granché: difatti, come gli studiosi ci insegnano, esistono diversi tipi (o anche “gradazioni”) di autocrazia. E qui comincia a presentarsi qualche problema, in termini di categorie e definizioni, poiché non tutti gli studi e gli studiosi (di scienza politica, ma anche di filosofia politica, di storia del pensiero politico, ecc.) concordano sulla classificazione delle autocrazie. Non è il caso di addentrarsi in questo “labirinto delle classificazioni” (non è in sé l'oggetto principale di queste riflessioni), ma citiamo solo quelle che per consenso pressoché generale sono considerate le due principali tipologie di autocrazia, ovvero i regimi autoritari e i regimi totalitari [altra categoria di un certo interesse, che rientra nella “famiglia” delle autocrazie non essendo tuttavia tecnicamente una “dittatura” in senso proprio, e che si può trovare denominata in modi differenti a seconda delle trattazioni e degli autori che se ne sono occupati, è quella dei regimi dinastici o tradizionali, che perlopiù fa riferimento alla specie più “antica” (e tuttavia ancora esistente in alcune parti del mondo) di autocrazia, quella delle cosiddette monarchie assolute. Questa categoria, però, in quanto “residuo” di epoche passate e talora anche remote, si colloca su un piano differente rispetto alle altre due prima citate, tipiche invece della “modernità”].

Forse proprio da questa “bipartizione” derivano i maggiori problemi, non soltanto nella classificazione delle dittature, ma soprattutto nell'interpretazione e nella definizione della dittatura come “tipologia di regime” (insomma, nella risposta da dare alla domanda: “Ma cos'è la dittatura e in cosa consiste la sua specifica natura?”).

In realtà, la “specie” di dittatura o autocrazia più difficile da definire – benché sia quella sulla quale si sono concentrati gli studi più voluminosi e accurati – è il totalitarismo. C'è chi addirittura nega che esista o sia mai esistito un regime politico reale riconducibile a questa categoria: per comodità di discorso, possiamo definire questi critici come contestatori della “categoria totalitarismo”.

2. Una categoria specifica: totalitarismo

Da dove deriva la difficoltà della definizione, e di conseguenza la “contestazione radicale” della categoria-totalitarismo? Innanzitutto – come sottolineano i “critici” suddetti – il concetto di totalitarismo è stato elaborato “a tavolino” da alcuni studiosi per cercare di evidenziare la specificità e la novità “deleteria” costituita da alcuni regimi autocratici del Novecento, in particolare il regime nazista e la fase stalinista del regime comunista sovietico, che rappresenterebbero dunque non solo i due grandi “modelli storici” di totalitarismo, ma anche, al tempo stesso, i paradigmi del totalitarismo medesimo: ovvero, normalmente gli studiosi traggono dalle pratiche poste in atto dal nazismo e dallo stalinismo gli elementi utili a definire in senso teorico che cosa il totalitarismo sia.

Certamente un punto di riferimento imprescindibile per lo studio del totalitarismo è il voluminoso testo di Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, pubblicato nel 1951; e il cuore della analisi di H. Arendt era lo studio di determinati caratteri del regime nazista (e in misura minore, a causa della scarsità di informazioni disponibili all'epoca, del regime stalinista), a partire dai quali l'autrice s'interroga sulle cause che possono determinare culturalmente (prima ancora che politicamente) il sorgere del “flagello totalitario”.

Altri autori sono stati parimenti determinanti nella definizione del totalitarismo, in particolare Carl J. Friedrich e Franz Neumann. I loro studi, e anche quelli più recenti sul tema, non sono stati sempre in accordo con l'analisi di H. Arendt, ma hanno comunque confermato (rafforzandone se possibile la “forza teorica”) l'esistenza di una specifica categoria di autocrazie definibile come totalitarismo.

La rilevanza specifica di questa categoria – e le polemiche che essa ha suscitato e suscita – si comprende se si pensa che il concetto di totalitarismo cerca di isolare alcuni specifici tipi di autocrazia che rappresentano un potenziale pericolo non solo per i diritti fondamentali dei cittadini dei paesi retti da quei regimi (diritti che a ben guardare sono minacciati in qualunque autocrazia) ma anche per la pace nel mondo. Infatti, una delle caratteristiche unanimemente attribuite ai totalitarismi è la loro volontà di creare una “umanità nuova” attraverso l'imposizione di una specifica ideologia (non importa se “di destra” o “di sinistra”) che faccia tabula rasa di tutta la cultura precedente, di tutto il pensiero accumulato e prodotto sino al momento dell'avvento del regime (ove il “pensiero” include anche i princìpi del diritto, le categorie politiche correnti, di solito anche le tradizioni religiose, ecc.); e la creazione di questa “umanità nuova” non può conoscere frontiere, ma deve potenzialmente avere come obiettivo anche le altre nazioni e gli altri popoli, sia per garantire sicurezza al regime che per ragioni “ideali” (la necessità di “convertire” il mondo con ogni mezzo ai princìpi nuovi e irresistibili imposti dall'ideologia di regime).

Con tutte le cautele possibili (perché, come si diceva all'inizio, le definizioni hanno in sé sempre una dose di approssimazione), possiamo quindi ritenere i regimi totalitari come una sorta di forma moderna, e completamente “mondana”, di teocrazia, che comporta anche una non trascurabile dimensione “messianica” (il “rinnovamento” e la “conversione universale” dell'umanità). Oserei aggiungere che tali forme di governo si spingono anche oltre le teocrazie, giacché non collocano alcun ente al di sopra del “supremo leader” del regime, il quale rappresenta quindi una sorta di “divinità in terra”, dotata di infallibilità, onniveggenza, forza sovrumana, ecc. [Interessante, in proposito, anche per distinguere i caratteri della “teocrazia” propriamente detta da quelli dei regimi totalitari, lo studio che Emilio Gentile fa delle ideologie totalitarie come “religioni politiche” (v. bibliografia, in fondo al post), che, come lo studioso precisa, non debbono comunque essere confuse con la nozione di “religione civile”].

Torniamo però alle critiche dei contestatori della “categoria-totalitarismo”. Un aspetto perlomeno problematico della teoria del totalitarismo, che alcuni di loro mettono in luce, è l'individuazione degli specifici regimi politici che si possono o si devono ricondurre a tale categoria. Anche ammesso che ci sia accordo sui paradigmi di partenza (nazismo e stalinismo), in quanto “sicuramente” totalitari, non è detto che sia poi semplice stabilire se altri specifici regimi autocratici del presente o del recente passato siano totalitari oppure “semplicemente” autoritari. E difatti gli studiosi sulla classificazione di altri regimi autocratici (che non siano i due “paradigmi storici” del totalitarismo) non sono sempre concordi.

Un'altra critica che viene sollevata da alcuni contestatori della “categoria-totalitarismo” (i quali non fanno mistero di voler “riabilitare”, in tutto o in parte, lo stalinismo) è che quest'ultima tenderebbe ad “appiattire” in un'unica indistinta “specie” due regimi che sarebbero in realtà profondamente diversi tra loro, come il nazismo e lo stalinismo. Tali critici quindi denunciano il carattere a sua volta “ideologico” del concetto stesso di totalitarismo, che a loro giudizio ha una funzione soprattutto anticomunista, poiché mira a criminalizzare l'azione di Stalin, stravolgendola sino a individuare in essa forzate analogie con l'ideologia e la pratica politica naziste, contro le quali il regime stalinista pure ha combattuto, contribuendo alla loro sconfitta storica. Secondo questi critici, insomma, il totalitarismo è uno strumento concettuale con l'ausilio del quale (in concomitanza con altri strumenti) gli Stati Uniti mirano a costruire un'agiografia della propria missione politica nel mondo, agiografia nella quale rientra la strategia di criminalizzazione sistematica di tutto ciò che risulta “antiamericano”, dipinto come “male assoluto”, espressione della quale “totalitarismo” è solo uno dei sinonimi più sofisticati e insidiosi.

Potrò forse a questo punto scandalizzare qualcuno, ma a me non interessa disquisire di totalitarismo, e neppure m'interessa stabilire se e fino a che punto uno specifico regime sia autoritario oppure totalitario. Molti ad es. si accapigliano sulla qualificazione da attribuire a regimi come il fascismo o il franchismo: sono totalitari oppure autoritari? Io non sono particolarmente interessato a queste diatribe; non è la “categorizzazione” che m'interessa in quanto tale; trovo che le autocrazie o dittature – nonostante le loro specificità e differenze (nessuna dittatura è perfettamente uguale a un'altra, nemmeno all'interno di “grandi famiglie ideologiche/tipologiche” di riferimento, come ad es. le “dittature comuniste” o le “dittature militari”) – abbiano determinati caratteri “somatici” che le contraddistinguono. Non possiamo forse sempre elencarli con precisione, ma possiamo comunque percepirli. Soprattutto (ciò che più conta) possono percepirli coloro che sulla loro pelle e nella loro carne li hanno vissuti e subiti.

Posso perciò anche dare parzialmente ragione ai contestatori “filostaliniani” della “categoria-totalitarismo” (cioè, affinché non si fraintenda, posso convenire sul fatto che fra una dittatura e l'altra ci siano differenze anche importanti, che dal punto di vista dell'analisi storica è doveroso rilevare), ma ciò non toglie che io mi ponga in termini critici contro la dittatura come sistema di governo, a prescindere dal contenuto ideologico della sua dottrina (che può essere solo abbozzata, o “minimale”, come nei regimi definiti autoritari, oppure corposa e articolata, come nei regimi totalitari propriamente detti). Nessun fine, per quanto in astratto possa essere o apparire buono, giustifica simili mezzi. La sproporzione è eccessiva.

Critico cioè il sistema istituzionale, il modo di intendere il rapporto fra governanti e governati (la struttura ferocemente verticistica e “settaria” delle dittature moderne, basate comunque sul principio di autorità), prima ancora che la dottrina ideologica che regge questo o quel regime. E' l'offesa all'intelligenza e all'autonomia del cittadino (trattato sempre dalle oligarchie di regime come “corrigendo”, come “potenziale reprobo” ed “eterno minorenne”) che io innanzitutto contesto, prima ancora di considerare nel merito l'ideologia che il regime propugna.

E nel far questo – si badi – io non addito un particolare modello istituzionale (ad es., la democrazia americana) come il “traguardo perfetto” da raggiungere, e come il “bene assoluto”, il “paradiso in terra”; criticando le patologie gravi di un sistema istituzionale (quello relativo alle dittature) e della sua “logica specifica”, non annullo né dimentico i problemi che si possono riscontrare in altri sistemi; tuttavia non posso nemmeno concordare col (difettosissimo) ragionamento di certi contestatori della “categoria-totalitarismo” o di certi “nostalgici” delle dittature novecentesche, che recita più o meno così: “Siccome non si può negare che la democrazia sia piena di difetti e di storture, non possiamo criticare più di tanto i difetti presunti delle dittature”. A un tendenzioso ragionamento del genere posso solo rispondere: A ciascuno il suo.
[Ovvero, per chi proprio non capisca: anche alla democrazia, quando occorre, vanno mosse delle critiche; ma nonostante ogni possibile critica, non può esserci dubbio sull'opzione di fondo, giacché in democrazia una discussione intorno ai fondamenti del sistema politico si può perlomeno abbozzare, nella dittatura invece la critica è in sé un'eresia, e si può soltanto piegare il capo davanti alle “direttive supreme” e far finta che “tutto vada bene, madama la marchesa”, se il Capo, illuminato per definizione in maniera sovrannaturale, vuole così...].

3. Dittature: segni particolari

Non mi pongo qui il problema di classificare le dittature, ma voglio far emergere, sia pure in termini schematici, le ragioni della loro inaccettabilità.

Essendo le dittature (per chi le subisce, almeno) un problema serio, non mi rifugerò dietro giri di parole. A mio parere, esiste qualcosa che possiamo definire crimine politico e le dittature rappresentano proprio un crimine di tale specie.

Non è necessario fare molti passi indietro, nella storia, per riflettere sul tema. Infatti, c'è chi ancora oggi ci viene a dire (da posizioni “terzomondiste”, ad es.) che le dittature (quelle tuttora esistenti ed operanti, in Africa, Medio Oriente, ecc.; ma lo stesso discorso vien fatto da altri per quelle “trapassate”) sono legittime, in quanto avrebbero il “consenso” dei cittadini.

Ma un consenso che non si può misurare precisamente e concretamente, che consenso è? Come si fa a parlare di consenso laddove è impedita la manifestazione esplicita e libera del dissenso?

Immaginiamo, per fare un paragone, gli spettatori di una rappresentazione teatrale – ad es. nell'auditorium di una severa scuola “all'antica” o di un collegio – ai quali sia consentito soltanto di applaudire ma non di fischiare lo spettacolo cui assistono: gli scolari-spettatori possono anche rimanere in silenzio, senza applaudire, certo, ma in quel caso il loro atteggiamento viene considerato a priori sospetto, in quanto possibile “dissenso mascherato” o, appunto, dissenso silenzioso – e solerti guardiani possono prenderne nota in appositi registri, che influiranno sulla valutazione finale degli scolari.

E allora, molti/e che non vorrebbero applaudire, pur di non passare guai, applaudono, ma questo non vuol dire che siano convinti della bontà dello spettacolo; se poi qualcuno registra quegli applausi, li può utilizzare surrettiziamente come “prova” di un presunto “consenso generale” o di un “grandioso successo” della scuola, dei suoi spettacoli e dei suoi programmi: si tratta però di una mossa evidentemente in malafede.

Soltanto laddove c'è piena facoltà tanto di applaudire quanto di fischiare lo “spettacolo”, si possono misurare – sempre con una certa approssimazione – il “consenso” e il “gradimento” nei confronti dello “spettacolo” medesimo e di coloro che l'hanno allestito.
L'applauso obbligato non si può considerare un vero applauso: è una falsificazione bell'e buona, una mistificazione alla quale – non a caso – sono affezionati proprio i regimi autoritari, che si reggono e reggono la società nell'equilibrio fra terrore e (continua, incessante) simulazione.

Considero l'unanimità e l'unanimismo sempre sospetti: anche solo per ragioni statistiche (se non per motivi più profondi), non è possibile che in una collettività di migliaia o milioni (ma anche solo di centinaia...) di persone, tutti/e la pensino allo stesso modo, in maniera compatta, disciplinata, granitica e perfin monotona.

L'umanità non è una truppa di reclute, e il mondo non è né può essere una caserma.

In fondo è anche qui la stortura dell'autoritarismo e dei regimi autocratici: immaginano di poter (e anzi, di dover) irreggimentare intere nazioni, facendo dei cittadini una folla di coscritti, soggetti a un colossale “servizio di leva” che non ha mai fine.
E, come il consenso si può misurare solo in presenza di una libera manifestazione del dissenso, così un servizio di leva può avere un senso ed essere compreso e tollerato solo se limitato nel tempo e solo se prevede poi un congedo illimitato che riconsegni il “militare temporaneo” alla sua “vita civile”, altrimenti cessa di essere un mero “servizio” e diventa oppressione.

C'è poi un altro problema, in quei regimi: la mancanza di ricambio dei governanti.
Ci sono dittatori e/o regimi che restano al potere per quaranta, cinquanta anni: è ben strano che in un tempo così lungo, nessun cittadino senta il desiderio di un ricambio, di un rinnovamento. I fautori della dittatura come “regime consensuale” ignorano questo dato, sostenendo bellamente che il tale o tal altro autocrate o dittatore governino o abbiano governato ininterrottamente per decenni, con l'ininterrotto consenso dei cittadini.
Ma se c'è desiderio legittimo di ricambio della classe dirigente fra i cittadini dei Paesi democratici, perché non deve o non può esserci un analogo desiderio nei Paesi soggetti a regimi autocratici? Sono, questi ultimi, davvero così “paradisiaci” che nessun cittadino desidera cambiare neppure una virgola di quei “paradisiaci” governi? E' mai possibile credere in queste favole?

Inoltre, in molti (o nella quasi totalità...) dei regimi autocratici (anche in molti regimi comunisti, in teoria razionalisti e dunque lontani dal culto del “carisma”) vige il “culto del capo”, che è una vera e propria forma di “idolatria laica”.

Ora, se è problematico postulare l'esistenza di Entità Divine onnipotenti e onniscienti, e soprattutto infallibili (si discute da millenni circa la loro esistenza/inesistenza, e migliaia di pagine sono state scritte in proposito – sostenendo una tesi o l'altra – da autorevoli pensatori...), ancor più problematico – sino ai limiti del grottesco – è sostenere la tesi dell'infallibilità di comuni mortali, quali sono, fino a prova contraria, gli autocrati e i dittatori vari & assortiti.

[Un discorso analogo si può fare in merito ai re dell'ancien régime, ovvero delle “monarchie assolute” (ne esistono ancora, del resto, qua e là nel mondo), poiché anch'essi si pretendevano (o si pretendono tuttora) “indiscutibili”, “infallibili”, perfetti, ecc.]

Dunque, per quanto i sostenitori di questa o quella dittatura possano venirci a sciorinare le “benemerenze” del loro “regime del cuore”, non possono tuttavia cancellare il macroscopico falso sul quale si reggono tutti indistintamente tali regimi: il postulato dell'infallibilità e/o onnipotenza e/o indispensabilità pressoché “divina” del “capo”/dittatore di turno.

Per quanto “bravi”, “sapienti”, “illuminati”, “competenti”, ecc., possano essere – a giudizio dei loro seguaci e fanatici “adoratori”, beninteso – questi “gloriosi” personaggi nell'esercizio delle loro funzioni, non sono certamente infallibili e onniscienti, né insostituibili; dunque non si comprende a quale titolo pretendano un culto incondizionato nei confronti della loro persona, e soprattutto a quale titolo pretendano obbedienza “cieca”, quasi fossero davvero divinità in terra.

In sostanza, per quanti (discutibilissimi) “meriti” un regime autocratico possa vantarsi di avere (i treni che arrivano in orario? la costruzione di una presunta “società felice” e senza conflitti?...), si regge su una serie inaccettabile di falsificazioni e di mistificazioni; e un regime politico che si regge costitutivamente (non occasionalmente o accidentalmente) sul falso, dal momento che costringe un'intera società a simulare e dissimulare, di fatto le usa violenza in ogni istante e perciò la soffoca e l'opprime, la costringe a essere ciò che non è, a stare in un vestito non suo, anche se il regime di turno dice di “farlo a fin di bene” (di qualunque genere e tipo sia questo presunto “bene”...).

Il crimine politico cui accennavo prima è a mio parere la “piena licenza” che il potere concede a se stesso nelle dittature (licenza di torturare, uccidere, degradare moralmente e fisicamente i cittadini, ecc.), e si traduce nel fatto che qualsiasi crimine può essere commesso dai pubblici funzionari, all'ombra di una struttura dittatoriale di potere, giacché non c'è modo per l'opinione pubblica non solo di contestare il crimine medesimo, ma anche di venirne a conoscenza, dal momento che l'informazione è gestita in maniera monopolistica dai detentori del potere politico e che gli organi dello Stato non sono tenuti a seguire procedure “legali” nell'esercizio delle loro funzioni (si pensi, per capirci, al problema dei desaparecidos in certi regimi...).

Qualcuno (nostalgici & c.) può obiettare: “ma anche nelle democrazie succede che...” (che l'informazione non è completa; che non sempre i rappresentanti delle istituzioni fanno il loro dovere; ecc.). Certo. Però ciò che nelle dittature è per definizione pubblicamente indicibile, nelle democrazie può invece diventare tema di dibattito, di discussione, di critica, di contestazione, ecc.; qualche nostalgico particolarmente “determinato” ribatte ancora: “E questo cosa importa, cosa cambia?”. Porre questa domanda significa non rendersi conto che, laddove la sfera della critica politica ha assunto rilevanza e autorevolezza, la discussione pubblica non è quasi mai fine a se stessa; specialmente quando una questione è profondamente sentita nell'opinione pubblica (o da una parte importante di essa), la “controparte” istituzionale non può ignorare a lungo le critiche che le vengono rivolte dai cittadini, e qualsiasi risposta che le istituzioni dànno in questi casi (anche in senso contrario alle aspettative dell'opinione pubblica) assume una rilevanza, e le cose non sono comunque più “come prima”. Il fatto che le istituzioni in democrazia siano obbligate a dialogare con i “rappresentati” (e quindi a riconoscere l'interlocutore, anzi gli interlocutori, come legittimamente titolati a porre questioni) non è senza importanza né senza conseguenze. Il “re” scende dal piedistallo e si desacralizza, acquisendo fattezze pienamente umane.

Parlando di dittatura e di dittature, bisogna poi forse riflettere sul fatto che in ogni società, anche in quelle che, dopo una passata esperienza dittatoriale, sembrano essersi assuefatte da decenni alla democrazia, emerge qua e là la tentazione di sperimentare di nuovo un qualche sistema di governo autocratico. A parte le tradizionali “appartenenze ideologiche”, che in certi Paesi si tramandano di padre in figlio (compresi certi rancori ancestrali, simili a faide temporaneamente ibernate ma pronte a riesplodere all'occasione), ci sono altri elementi da considerare, forse, per capire il fenomeno: in vari casi, il desiderio o la “nostalgia” di dittatura nasce da un personale desiderio di rivalsa e/o vendetta nei confronti della società o del “sistema”, ma il “desiderante” solitamente pensa di far pagare agli altri gli inconvenienti della dittatura (repressione, carcere, torture, ecc.) e di ritagliare per sé solo i vantaggi (promozione sociale, brillante carriera per “fedeltà al regime”, ecc.). Si tratta di una posizione evidentemente cinica e opportunistica, il più delle volte velleitaria, ma certo la storia delle dittature è piena di personaggi che sono arrivati ai vertici di comando in base a simili “sentimenti” e li hanno poi atrocemente manifestati nell'esercizio del potere. Un altro “elemento scatenante” per certi desideri (di... ritorno al “mondo vecchio”) è il richiamo del “branco”: linciaggi, pogrom e “spedizioni punitive” contro minoranze etniche e “nemici politici” o “del popolo” sono i naturali compagni di viaggio delle autocrazie, che se ne servono infatti sapientemente per attuare le proprie politiche o per consentire ai “governati” di dare sfogo alle loro rabbie represse (affinché queste non si rivolgano contro le strutture stesse del regime, che deve rimanere sempre “al di sopra di ogni sospetto”).

Inoltre, in certe posizioni di sostegno alle autocrazie e agli autoritarismi colgo un atteggiamento infantile-adolescenziale per ciò che riguarda le aspettative nei confronti del potere politico: proprio come talora un ragazzino (poniamo) di dieci anni, posto di fronte a un problema sociale, del quale magari si parla in televisione, sogna l'intervento di un “supereroe” che con la sua sola forza spazzi via il “male” (ingiustizie, difficoltà, prepotenze, ecc.), allo stesso modo qualcuno, pur adulto, “sogna” che un “supereroe”, nelle sembianze di un qualche “capo mirabolante”, con la sola forza delle sue irresistibili capacità, faccia fronte ai problemi del mondo o della nazione, risolvendoli d'incanto.

Ma è il “vissuto” delle dittature che concretamente esistono o sono esistite nel mondo a smentire le fantasticherie intorno alle dittature sognate o solo immaginate, o anche “imbellettate” grazie al maquillage di una memoria non veritiera e/o volutamente parziale“mercenaria”Ed è questo “vissuto” orrido e raccapricciante che mi interessa e che non voglio né vorrei mai, per nessuna contingente “convenienza”, dimenticare.
Dopo aver ascoltato varie testimonianze di perseguitati politici di varia provenienza, e quindi il “monotono” ripetersi di determinati metodi che evidentemente accomunano le dittature, le autocrazie e le democrazie solo apparenti (o “solo elettorali”) di vario colore e di varie latitudini [e en passant chiedo ironicamente ai fans delle dittature, che sono anche tendenzialmente negazionisti: sono tutti mentitori, quei perseguitati? Si sono segretamente messi d'accordo in tutto il mondo, dalla Siberia a Guernica, dalle Ande al Fiume Giallo, da Phnom Penh ad Auschwitz, per calunniare le “meravigliose, innocenti” dittature del vostro cuore?], mi è capitato più volte di chiedermi: come mi esprimerei io, al loro posto? In che termini riassumerei il mio desiderio legittimo, sacrosanto di riappropriarmi della mia pubblica facoltà di giudicare (e dunque anche di criticare e dissezionare con un ideale “bisturi” discorsivo implacabilmente, senza alcun timore reverenziale) l'operato dei “miei” governanti-aguzzini, mettendoli davanti alle loro responsabilità, giacché non sono e non saranno mai dèi intoccabili e neppure semidei?

Ho pensato che mi esprimerei più o meno così... Un regime politico che incute terrore o paura ai propri cittadini, e che anzi si mantiene in vita proprio grazie alla paura che suscita, non può ottenere nessuna legittimazione, perché questa – a meno che uno Stato non voglia degradarsi sino a somigliare a una banda di malfattori e di gangster (sia pure legalizzati) – non si può estorcere con la forza. Un governo che terrorizza i cittadini e viene a cercarli nelle loro case, nel cuore della notte, comportandosi come un assassino qualunque, senza un'accusa precisa nei loro confronti, senza nessuna garanzia di legge, permettendosi di abusare a proprio piacimento dei loro corpi e delle loro vite, non può chiamarsi “governo”, anche se si è appropriato del “volto” e del sigillo dello Stato per fare ciò che fa; ma Stato, ripeto, non è, perché non posso riconoscere come Stato un gruppo di soggetti che non mi riconosce come persona e che sbandierando una propria presunta infallibilità, non accetta alcuna critica da parte mia o di altri. E non essendo civilmente riconoscibile, poiché non offre nessuna garanzia, non può invocare nessuna “ragione di Stato” per dare una parvenza di necessità politica ai propri atti.

Un'ultima considerazione. La dittatura, o autocrazia, non è che la forma politica e dunque l'oggettivazione in termini istituzionali di un principio che struttura anche la mentalità e i comportamenti di varie persone o gruppi sociali: l'autoritarismo inteso qui non come regime politico ma come tendenza o atteggiamento mentale e/o culturale. Il problema più rilevante risiede proprio qui, in questo “sottofondo collettivo”, sociale e psicologico, che si cela (o si svela, a seconda delle occasioni) tra le pieghe della convivenza e dei comportamenti più o meno diffusi. Troppe volte la dittatura può reggersi e vantare (un minimo di) consenso proprio in quanto fa l'occhiolino a questo atteggiamento mentale/psicologico/culturale, e conta sulla sua “complicità” fattiva, esplicita o implicita che sia.
Va da sé, quindi, che essere contrari alla dittatura, come forma politica, significa essere radicalmente critici e motivatamente, consapevolmente ostili nei confronti dell'autoritarismo come “paradigma culturale” e come “forma mentis” o atteggiamento di singoli o di gruppi.


POSTILLA N. 1
Come ho accennato più sopra, la condanna delle dittature non implica che le democrazie siano, o si debbano considerare, esenti da difetti e da critiche; non esclude nemmeno che le democrazie possano degenerare. La “manutenzione” delle democrazie è affidata ai cittadini, che devono imparare a prendersene cura. D'altra parte, bisognerebbe anche imparare a distinguere le varie esperienze democratiche, o che si presentano come tali, giacché al di sotto delle apparenti somiglianze, i vari ordinamenti democratici possono essere anche molto differenti fra loro; alcuni possono essere semplici “democrazie in via di costruzione” o “quasi-democrazie”. Inoltre, non tutti i regimi che si presentano a un'analisi superficiale come democratici lo sono poi veramente. Oggigiorno le forme più sofisticate di dittatura possono perfino nascondersi sotto la comoda apparenza di “democrazie (solo) elettorali”, regimi nei quali, al di là del “rito” elettorale, svolto peraltro con disinvoltura (rito che serve a tenere pulita la “facciata” esterna e “presentabile” del regime), non c'è quasi nient'altro di realmente “democratico” (a cominciare dalla libertà di stampa e di pensiero).

POSTILLA N. 2
Forse è opportuno non dimenticare che in molti casi la democrazia è frutto di lotte di liberazione e, anche solo per questo motivo, e nonostante tutte le critiche che possono esserle rivolte, merita rispetto (che è cosa diversa dalla venerazione acritica).

POSTILLA N. 3
Non escludo che, in virtù dei suoi difetti e limiti, si possa superare l'attuale forma di democrazia, per approdare a un ordinamento politico che rispecchi e rispetti ancor meglio le aspettative e gli “spazi” dei cittadini; un “superamento” di questo tipo non dovrebbe suscitare scandalo né preoccupazione, neppure se il “nuovo” regime, per qualche buona ragione, perdesse del tutto il nome di democrazia. Non è tanto al “nome” che dobbiamo tenere, quanto ai contenuti. Quello che invece non si può accettare, a mio parere, è che i difetti e i limiti dell'attuale forma di democrazia vengano usati come pretesto per riproporre, e per “rifilarci” un giorno, una qualche forma di dittatura. Riassumendo, quindi: i mutamenti in sé non devono spaventare, se si tratta di andare dal “meno” verso il “più”; non sono invece ammissibili se, sotto la veste generica del “cambiamento” o del “rinnovamento”, si nasconde in realtà un “ritorno al vecchio”, i cui difetti inemendabili abbiamo già abbondantemente sperimentato...

POSTILLA N. 4
Non bisogna credere che la democrazia (nella sua forma attuale) sia la panacea per ogni “male” politico. Ad es., la convinzione secondo la quale le democrazie sarebbero portate “per natura” alla pace si è rivelata infondata [e comunque, ancora una volta, la dittatura non è la soluzione: se le democrazie sono a volte aggressive, le dittature lo sono mediamente per loro intrinseca natura, e lo sono quotidianamente anche nei confronti dei loro stessi cittadini]. A mio personalissimo parere, la democrazia, come oggi la conosciamo, è solo la tappa di un percorso: la mia convinzione in merito l'ho in fondo espressa già nella “postilla” precedente. Forse, per arrivare a un sistema internazionale più equo e accettabile, bisognerà superare gli “Stati-nazione” attuali, ancora basati su “microcosmi” etnici e nazionali chiusi su se stessi, quasi del tutto incapaci di cooperare coi propri “vicini” nella gestione dei territori e delle risorse; quando la dimensione statuale-egoistico-nazionale attuale sarà stata eventualmente superata, si imporranno nuove “forme” politiche e probabilmente la “democrazia” dovrà acquistare un nuovo significato o, per designare un assetto di governo nuovo e inedito, dovrà assumere un nome differente. E' un discorso che non si può sviluppare qui, in una semplice “postilla”; in ogni caso, ritengo che per lavorare fin d'ora a questa auspicabile trasformazione, si possano ad esempio istituire serie forme di democrazia partecipativa.



Riferimenti bibliografici essenziali:
[La bibliografia che segue vuol essere “minimale” e non ha nessuna pretesa di completezza; d'altra parte, su temi come “dittatura” o “totalitarismo” esiste una letteratura vastissima, e questo anche a prescindere dalla letteratura su regimi specifici, come il nazismo o il fascismo, che è immensa e che non viene considerata qui nel dettaglio]


I. Scritti sulla dittatura (o autocrazia) in genere e sull'autoritarismo

- C. Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell'idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria, Laterza, Bari 1975 // ed. orig.: Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf, Duncker & Humblot, München 1921.

- B. Moore, Le origini sociali della dittatura e della democrazia, Einaudi, Torino 1969 // ed. orig.: The Social Origins of Dictatorship and Democracy, Beacon Press, Boston 1966.

- S.P. Huntington e C.H. Moore (a cura di), Authoritarian Politics in Modern Societies: The Dynamics of Established One-Party Systems, Basic Books, New York-London 1970.

- J. J. Linz, Autoritarismo, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991, vol. I, pp. 444-459.

- J.J. Linz, Democrazia e autoritarismo. Problemi e sfide tra XX e XXI secolo, Il Mulino, Bologna 2006.

- G. Sartori, Dittatura, in Id., Elementi di teoria politica, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 57-93.


II. Scritti sul totalitarismo (a sostegno o a sfavore della categoria concettuale “totalitarismo”)

- H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Ed. di Comunità, Milano 1967; 1996; Einaudi, Torino 2004 // ed. orig.: The Origins of Totalitarianism, Harcourt, Brace & Co., New York 1951.

- F. Neumann, Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, Il Mulino, Bologna 1973 // ed. orig.: The Democratic and the Authoritarian State, Free Press, Glencoe (Ill.) 1957.

- C.J. Friedrich (a cura di), Totalitarianism, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1954.

- C.J. Friedrich, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1965 (ed. riveduta di un volume scritto dall'autore nel 1956 in collab. con Z. Brzezinski).

- H.J. Spiro, Totalitarianism, in International Encyclopedia of the Social Sciences, Macmillan & Free Press, London-New York 1968, vol. XVI, pp. 106-113.

- C.J. Friedrich / M. Curtis / B.R. Barber, Totalitarianism in Perspective: Three Views, Praeger, New York 1969.

- R. Aron, Démocratie et totalitarisme, Gallimard, Paris 1965; 1987.

- G. Sartori, Totalitarianism. Model Mania and Learning from Error, in «Journal of Theoretical Politics», 1993, vol. 5, n. 1, pp. 5-22.

- E. Gentile, Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi, Laterza, Roma-Bari 2001.

- D. Fisichella, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, Carocci, Roma 2002.

- D. Losurdo, Per una critica alla categoria di totalitarismo, in «Hermeneutica», 2002, pp. 131-166.

- M. Tarchi, Il totalitarismo nel dibattito politologico, in «Filosofia Politica», 1997, n. 1, pp. 63-79.

- S. Forti (a cura di), La filosofia di fronte all'estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Einaudi, Torino 2004.

- J.J. Linz, Sistemi totalitari e regimi autoritari. Un'analisi storico-comparativa, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006 // ed. orig.: Totalitarian and Authoritarian Regimes, Lynne Rienne, Boulder-London 2000.


III. Scritti su casi particolari di regimi autocratici (bibliograf. relativa a testi di qualche interesse per la teoria politica; per la letteratura strettamente storiografica si rimanda a bibliografie di settore)

- F. Neumann, Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Feltrinelli, Milano 1977; B. Mondadori, Milano 1999 // ed. orig.: Behemoth: The Structure and Practice of National Socialism, Oxford University Press, 1942.

- E. Fraenkel, Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura, Einaudi, Torino 1983 // ed. orig.: The Dual State: A Contribution to the Theory of Dictatorship, Oxford University Press, 1941.

- G. Germani, Autoritarismo, fascismo e classi sociali, Il Mulino, Bologna 1975.

- E. Gentile, Le origini dell'ideologia fascista (1918-1925), Laterza, Bari 1975; Il Mulino, Bologna 1996.

- E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci, Roma 2001.

- A. Aquarone, La costruzione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino 1965.

- P. Pombeni, Demagogia e tirannide. Studio sulla forma partito nel fascismo, Il Mulino, Bologna 1984.

- G. Pasquino, Militari e potere in America latina, Il Mulino, Bologna 1974.

- D. Collier (a cura di), The New Authoritarianism in Latin America, Princeton University Press, Princeton 1979.

- E. Nordlinger, I nuovi pretoriani. L'intervento dei militari in politica, Etas Libri, Milano 1978 // ed. orig.: Soldiers in Politics: Military Coups and Governments, Prentice Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1977.

8 commenti:

  1. Le generazioni attuali pensano che ci siano cose che non possono tornare sotto forma di ciò che è stato. Ecco perché molti giovani rimpiangono il fascismo, l'uomo forte, quello che non faceva pensare e agiva anche per il popolo. Coi risultati che sappiamo. Di mussolini non si ricorda l'atto estremo, quello vigliacco ma se ne ricordano le gesta "epiche" anche grazie ad un revisionismo che in questi ultimi anni ha raggiunto livelli insopportabili. E questo è un paese senza memoria. Ai giovani oggi nessuno insegna che la libertà è parlare, amare, pensare, scrivere, suonare, cantare, lavorare, esistere, studiare, ognuno a modo suo e nel rispetto dell’altro. Non gli atti di forza coi quali impedire che si possa amare, studiare, esistere eccetera.
    Non si può educare una nuova generazione con chi nega, rivisita, cancella dalle celebrazioni ufficiali e dai programmi scolastici una Storia che tutti conoscono, anche quelli che la rinnegano. Ancora oggi si cerca di confondere le idee, di far credere che il fascismo sia ad esempio una legittima espressione di un pensiero invece che il crimine, la follia che è stato e che purtroppo in molti paesi ancora è.

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    1. Uno dei problemi del "discorso pubblico" in Italia è questo sotterraneo "flirtare" con le nostalgie. Alcuni lo fanno per intima convinzione, altri solo per calcolo politico (ragionando così: Siccome so che certi elettori sono sensibili alla "nostalgia d'altri tempi", faccio loro credere che "ci sto" anch'io; poi, una volta al potere, è chiaro che devo rispettare l'aria dei tempi, ma intanto strizzando l'occhiolino a certe tendenze, mi sono conquistato un po' di voti, e mica posso sputarci sopra...).
      Qualcuno, per perorare la causa del "ventennio", cerca di dimostrare - visto che altri argomenti sono ormai improponibili - che si è trattato "in fondo" di una "dittatura buona" o "alla buona". Ma "dittatura buona" (o anche "alla buona") secondo me è un ossimoro: non si dànno, in nessun modo e in nessun luogo, "dittature buone". D'altra parte, come i documenti dell'epoca attestano, il fascismo voleva fare del popolo italiano un popolo di "guerrieri", meno accomodanti e "umanitari" di quanto la loro indole (e una secolare abitudine) non li inducesse a essere. Un generale fascista dell'epoca si lamentava ad es. del comportamento degli "italiani in armi" sul fronte sloveno, dicendo che "non si ammazzava abbastanza" [lo ricorda fin dal titolo un agile testo di G. Oliva, "Si ammazza troppo poco". I crimini di guerra italiani, 1940-1943, Mondadori, Milano 2006]... Dittatura "buona"??
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    2. Il fascismo, come altre dittature (totalitarie o "quasi-totalitarie": come ho detto nel post, non è l'etichetta che, in queste cose, fa la "sostanza"), tendeva in effetti a "irreggimentare" i cittadini, come se fossero una massa di "reclute". E come ho detto nel post, trattare una nazione come se fosse una caserma è, a dir poco, delirante... Addirittura il regime (come altri regimi dittatoriali basati su ideologie, ribadisco) imponeva una "divisa" politica anche ai bambini in età scolare, dunque arruolava i cittadini fin da piccoli, facendone dei piccoli soldati al servizio della "causa" (e la "causa" era la glorificazione del regime medesimo). E non è già violenza questa, indegna di un ordinamento civile? Non è già violenza pretendere di "convertire" a un credo politico una persona che è ancora nell'età dello sviluppo e che deve dunque essere lasciata libera di formarsi, prima che possa decidere a quale ideologia eventualmente aderire? Nessun ordinamento politico ha il diritto di considerare i bambini "cosa propria", ovvero una tabula rasa da "programmare" mediante sistematico lavaggio del cervello "di regime".
      D'altra parte, il regime identificava il "buon italiano" con il "fascista": chi non era fascista, secondo l'ideologia allora al potere, era ipso facto un nemico della patria, non era un "vero" italiano. Ecco, il regime fascista si arrogava anche il diritto monopolistico di stabilire chi doveva essere considerato un "vero" italiano per distinguerlo (con puro atto arbitrario) da chi invece non poteva essere considerato "autentico" nella sua "italianità". Come se qualcuno (e chi?) avesse investito il fascismo, i suoi organismi e il suo "capo" della facoltà esclusiva di dare la patente di "italiano" agli italiani (e di negarla a proprio piacimento ad alcuni fra quegli stessi italiani)! E se questa non è violenza...!
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    3. Quando qualche nostalgico magnifica ancora questa o quella realizzazione o benemerenza del regime, dimentica sistematicamente di tener conto della voce delle vittime della violenza del regime medesimo. Eppure, quando critica ad es. quello che è avvenuto in regimi considerati da lui cattivi (ad es. i "titini", autori delle foibe, ecc.), la prima cosa che fa è mettere in primo piano la testimonianza o la dolorosa sorte delle vittime di quei "regimi cattivi". Tipica retorica del "doppio standard" (detto anche "due pesi e due misure"). Invece io ritengo che in ogni caso e sempre, come regola generale e senza eccezioni, nel giudicare un ordinamento politico "discutibile" (anche per esser coerenti e credibili, suvvia!), si debba innanzitutto ascoltare la voce delle vittime di quell'ordinamento o regime (si deve valutare la sorte dei perseguitati politici e dei "dissidenti", il comportamento del "potere" nei loro confronti, ecc.), e poi, solo in subordine e in un secondo momento, si possono valutare i pareri e le testimonianze di coloro che da quel regime hanno ottenuto benefici, vantaggi o addirittura benemerenze. Anche per capire a quale prezzo realmente quei vantaggi o benefici sono stati ottenuti o realizzati.
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    4. Bisogna poi considerare che movimenti politici come il fascismo o il nazismo - che hanno fra i loro "miti" il manganello, il pugnale, l'annientamento fisico del "nemico politico" - nascono da un humus "culturale" (basato anche su un certo Nietzsche mal letto e mal digerito) fatto di odio e disprezzo per l'"uomo comune", che - secondo tale impostazione - deve sottomettersi all'eroe, presunto "individuo superiore". E in un humus del genere sono nate pagine veramente raccapriccianti, come l'elogio della guerra scritto da Giovanni Papini nel 1913, di cui cito alcuni passi: «Il sangue è il vino dei popoli forti, il sangue è l'olio di cui hanno bisogno le ruote di questa macchina enorme che vola dal passato al futuro - perché il futuro diventi più presto passato. [...] Abbiamo bisogno di cadaveri per lastricare le strade di tutti i trionfi. [...] In verità siamo troppi nel mondo. A dispetto del malthusianismo la marmaglia trabocca e gli imbecilli si moltiplicano. [...] Per diminuire il numero di codeste bocche dannose qualunque cosa è buona: eruzioni, convulsioni di terra, pestilenze. E siccome tali fortune son rare e non bastano ben venga l'assassinio generale collettivo» [G. Papini, La vita non è sacra, in «Lacerba», 1913, n. 20, pp. 223 e sgg.; cit. anche in A. Predieri, La guerra, il nemico, l'amico, il partigiano, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 200, studioso il quale non senza ragione qualifica lapidariamente simili affermazioni di Papini come «i vaneggiamenti di un degenerato»].
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    5. Ebbene, secondo me un testo come quello di Papini (a partire dall'affermazione contenuta nel titolo) è una specie di "cartina di tornasole": se ti disgusta o se quelle parole ti sembrano lontane anni luce dal tuo pensiero e/o dal tuo modo di essere e di sentire, non puoi condividere i fondamenti ideologici (e le conseguenti pratiche di dominio nonché la cinica "aristocratica" [?] noncuranza verso il valore della persona) di regimi come il nazismo o il fascismo.
      Il discorso, in fondo, non è così difficile... Non lo capisce, il più delle volte, chi ha interesse a non capirlo. Concludevo il mio post sottolineando l'importanza di combattere l'atteggiamento autoritario che ancora si annida in noi, nel nostro quotidiano, nelle nostre pratiche, perché il vero problema si trova lì. E' da certe mentalità (sociali, culturali, ecc.) che poi possono nascere certi "mostri" storici e istituzionali.

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  2. Una analisi davvero interessante.
    Più rifletto su questo tema e più mi convinco che la realizzabilità della democrazia, e per converso l'esistenza di autocrazie, dipenda fondamentalmente da questioni connesse con la comunicazione, e più nello specifico con il linguaggio.
    Forse mi sono addentrata troppo in questa visione, e non riesco più a uscirne (ne parlo anche oggi da me), tuttavia è proprio attraverso la comunicazione che si possono "fare passare" per democratiche delle soluzioni che non lo sono affatto.
    Preziosa anche la bibliografia a corredo del tuo scritto.

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    1. Grazie.
      In effetti la questione del linguaggio e della comunicazione è importantissima, e per molti aspetti.
      Tanto per cominciare, è difficile mettersi d'accordo sui "valori iniziali" da condividere, ovvero sui "pilastri costituzionali", e in questo la comunicazione ha un peso notevole (l'incapacità di arrivare a capire in certi casi, mediante il dialogo, possibili "territori d'intesa", ad es.).
      Probabilmente i pochi "momenti felici" nei quali si è riusciti a creare un'intesa "costituente" sono dovuti a traumi collettivi condivisi che hanno creato di necessità una convergenza e una disponibilità all'intesa (è il caso italiano del 1947-48, ma non solo).
      Tuttavia, anche in questi casi "felici", col tempo emergono divergenze nell'interpretazione dei contenuti di quell'intesa (la Costituzione), e ancora una volta il linguaggio e l'uso che se ne fa sono (gran) parte del problema.
      Rousseau già individuava problemi legati alla comunicazione, e infatti, nell'ottica che gli era tipica, diffidava dell'uso della retorica pubblica, in quanto "artificio" che sviava dalla conoscenza "naturale" delle questioni sulle quali il popolo doveva essere chiamato a pronunciarsi.
      Rousseau non aveva gli strumenti più "raffinati" che abbiamo oggi - in primo luogo gli studi della filosofia del linguaggio, Wittgenstein, ecc. - però ha ingaggiato una lotta "corpo a corpo" proprio contro questo "nemico" (le distorsioni e i "rumori di fondo" dovuti alla comunicazione) che lui aveva individuato nascosto "nell'ombra", per così dire, e che lo costringeva a costruire rimedi in qualche modo "paradossali" onde giungere alla "deliberazione perfetta" del popolo (perfetta in quanto scevra da condizionamenti "impropri").
      Ci combattiamo da secoli, quindi, contro questo problema, e la soluzione, mi sa, non dev'essere tanto semplice :-)

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