Un
semplice raccontino sui problemi causati da un certo tipo di
mentalità.
Che
succede in una monarchia assoluta (e – si badi bene – possono
assomigliare a monarchie assolute anche alcune “sette”, o alcune
organizzazioni [o gruppi ristretti di persone] che pendono dalle
labbra di un qualche Capo che tutto-sa-tutto-decide-tutto-dispone,
ecc.); cosa succede, dicevo, in una monarchia assoluta, quando il Re
– per così dire – perde la lucidità?
In una
monarchia assoluta è difficile dichiarare – sic
et simpliciter – che il sovrano, fino a ieri infallibile,
oggi di colpo non lo è più. Già: come si fa? L'infallibilità
(e quindi il diritto di comandare e disporre senza venir mai
contraddetti) per definizione non si può perdere, perché non è mai
nei fatti, ma nella testa di chi la proclama.
Abbiamo
un bell'aggrapparci alla convinzione che il sovrano sia onnisciente,
essere sovrumano, o cose del genere, se i fatti ci sfidano; se
intanto il Re, magari anche perché ubriacato dal suo potere, ha
perso il lume della ragione (o addirittura non l'ha mai avuto), come
se ne esce?
§
Da qualche
tempo il Re non era più lo stesso.
Nel corso
dei lunghi anni del suo regno, si era fatto conoscere per la
brillantezza dei suoi motti e per l'atteggiamento sprezzante che
riservava a tutti coloro che non suscitavano la sua simpatia o il suo
interesse. Col potere che aveva, poteva permettersi una certa
arroganza, e non ne faceva un uso parco e moderato.
I suoi
discorsi, le sue intenzioni, i suoi disegni, avevano però sempre
avuto il pregio di esser chiari. Nessuno un tempo avrebbe potuto
accusare il Re di nascondere i propri pensieri o di usare giri di
parole incomprensibili per occultare le proprie strategie.
Ma adesso
non sembrava più la stessa persona. Ogni volta che compariva in
pubblico, sembrava a disagio come chi si sia appena risvegliato e
faccia fatica per qualche attimo a capire dove si trovi e perché; e
per superare il suo stato di evidente confusione, andava sì
all'attacco come un tempo contro nemici veri e soprattutto
immaginari, ma pareva sferrare colpi a casaccio, entrando sovente
perfino in contraddizione con se stesso.
La
sfrontatezza di tutta una vita, ormai divenuta per lui una seconda
pelle, gli consentiva di non farsi condizionare da alcun senso di
impaccio nel parlare, sicché l'espressione attonita del viso era
singolarmente in contrasto con la sicumera delle parole che gli
uscivano di bocca.
I suoi
ministri fidati, i collaboratori più stretti nonché i cortigiani
addetti alla cura della sua agenda e della sua persona, le prime
volte che il Re si era comportato in questo modo insolito, non
avevano dato troppo peso alla cosa, pensando che si trattasse di un
suo ghiribizzo del momento o tutt'al più di un malessere passeggero.
Tuttavia,
man mano che i giorni e le settimane passavano, e che il
comportamento del Re denotava un cambiamento pressoché stabile della
sua personalità e quasi senz'altro un peggioramento del suo stato di
salute, ministri, cortigiani e collaboratori cominciarono a
domandarsi perplessi che cosa convenisse fare: bisognava far finta di
nulla e lasciare che il Re continuasse a contraddirsi continuamente
in pubblico, finendo per gettare il Paese nella costernazione e la
corte nel ridicolo, oppure bisognava prendere gravi provvedimenti per
impedire al Re di nuocere ancora a se stesso e alla nazione?
A dire il
vero le ultime apparizioni pubbliche del sovrano erano state
decisamente imbarazzanti, se non addirittura scandalose: al
ricevimento solenne con gli ambasciatori dei Paesi di mezzo mondo si
era presentato non solo indossando la camicia di Arlecchino – e non
si era neppure in periodo di carnevale! – ma anche recando in
tasca, in bella vista, una raganella, che aveva poi agitato a
sorpresa in aria prima di prendere la parola.
Già nel
vederlo agitare come un forsennato quello strumento di legno adatto a
far rumore nelle feste, cortigiani e collaboratori si erano guardati
in faccia smarriti e sbiancati; quando poi il Re aveva cominciato a
parlare, dopo un attimo di sollievo (giacché il sovrano aveva
esordito con un gentile e rituale saluto a tutti i presenti), avevano
dovuto a stento trattenersi dal mettersi le mani tra i capelli per la
vergogna e la disperazione.
Infatti il
Re si era lanciato in affermazioni del tutto gratuite ed offensive su
questo o quel Capo di Stato, non concordate con i vertici della
diplomazia, affermazioni che non erano affatto legate a comportamenti
politici dei personaggi insultati, ma alla loro presunta “antipatia”,
al loro modo di vestire e persino al loro segno zodiacale («I segni
di fuoco sono infidi e traditori!» aveva esclamato tra l'altro il
Re, «e con gente di quei segni non firmerei neppure una petizione...
figuriamoci un trattato!»).
Subito
dopo, il Re aveva insistito per declamare in modo orrendo un brano
dell'Amleto di Shakespeare e
aveva detto che il teatro inglese è sopravvalutato.
«Un
giorno scriverò un'opera sul teatro mondiale... anzi lo sto già
facendo. Da noi si fa troppo poco per il teatro, sapete?» si era
lanciato a dire il sovrano. «Fossi stato quello Shakespeare, alcuni
monologhi li avrei scritti diversamente, e so già come... ma qui nel
mio Paese forze oscure me lo impediscono. Qualcosa di loro ho già
scoperto, la polizia politica lavora bene, per merito dei miei
consigli... A volte ricevo bigliettini con strane cifre gialle,
quelli sono tutti segnali che vanno decifrati, dietro certi numeri ci
sono le tracce di un complotto per detronizzarmi; per questo la sera,
prima di addormentarmi, mi ripeto a mente tutti quei numeri, perché
se li ricordo alla perfezione non possono fregarmi».
Andò
avanti così per circa mezz'ora, e i suoi collaboratori e i
cortigiani non sapevano più dove nascondere la faccia; non era loro
consentito interrompere il loro sovrano nell'esercizio delle sue
funzioni, e dovettero quindi farlo parlare a ruota libera.
La
stampa mondiale si divertì moltissimo a stilare resoconti sarcastici
e pungenti di quel discorso; invece la stampa nazionale si scervellò
rispettosamente per capire il senso recondito delle affermazioni del
Re.
Il
più importante dei Ministri del Re si assunse la responsabilità di
emanare una “dichiarazione ufficiale” con lo scopo di «fornire
la vera interpretazione del discorso dell'Amatissimo Sovrano».
«Le
parole del Re» dichiarò dunque l'Autorevole Ministro «vanno
interpretate in senso metaforico. E' chiaro e lampante – e solo chi
è in malafede lo nega – che le sue affermazioni non vanno prese
alla lettera... sono immagini, metafore che il Re ha graziosamente
voluto offrirci per illuminarci sulla realtà della situazione
mondiale attuale. Non sta a noi giudicare la bontà di quelle
metafore: se il Re le ha scelte, evidentemente sono giuste, lui è
fin troppo intelligente, fin troppo al di sopra dei suoi critici, e
non fa mai niente a caso».
Bene,
ma se erano “metafore”, cosa stavano a significare? -
continuavano a chiedersi i comuni mortali. Ma le risposte ufficiali
di questo o quel ministro erano vaghe e confuse.
Tuttavia
in realtà, prima ancora che si avesse la possibilità di
scandagliare i presunti “significati nascosti” del discorso
regale, il sovrano ne aveva – per così dire – già “combinata
un'altra” (anche se mai un'espressione simile sarebbe stata
pronunciata in pubblico, in riferimento al monarca).
Nonostante
le preoccupazioni di collaboratori e cortigiani, il Re, soltanto tre
giorni dopo il “memorabile” ricevimento, aveva voluto a tutti i
costi tenere un discorso solenne in occasione di una festività
nazionale. Avevano provato a dissuaderlo, ma il sovrano era
particolarmente cocciuto (sempre più col passare degli anni...) e
d'altronde la sua volontà era Legge, e così...
Comodamente
e regalmente seduto sull'enorme poltrona rossa del proprio studio, il
Re diede un'occhiata ai propri appunti, poi, come colpito da
un'ispirazione improvvisa, li mise da parte e guardò dritto nella
telecamera con espressione seria, anzi apparentemente irosa, come se
ce l'avesse con qualcuno. E in effetti, puntando il dito verso gli
spettatori, esclamò con aria feroce:
«Il
nostro problema sono i maniscalchi! Fanno di tutto per rovinare la
mia politica, non riescono a vedere ciò che c'è di buono nel
mondo... no, loro sono pieni di livore, fanno fallire ogni cosa che
faccio! E' perché io li ho scoperti che se la prendono così! Ma
adesso ho preso una grave decisione e spero che tutti voi, miei amati
sudditi, sarete dalla mia parte: abolirò la corporazione dei
maniscalchi. Eh sì, non vedo altra soluzione... Bisogna spazzare via
questi corporativismi infami che non ci permettono di migliorare le
condizioni della nazione. E' tutta colpa loro. Sempre. Anche quando
sembra che non c'entrino niente... anzi, è proprio in quei casi che
le loro macchinazioni si fanno più subdole».
Nell'udire
queste affermazioni, alcuni cortigiani lì presenti si scambiarono
occhiate interrogative; uno di loro borbottò impercettibilmente:
«Maniscalchi? Ma di che fischio sta parlando?».
«Abbi
pazienza, è una delle sue più recenti fissazioni» gli replicò un
altro.
Nel
frattempo il Re continuava:
«Per
non parlare dei postiglioni! Gente pericolosissima, che non vuol
mollare i suoi privilegi e che v'imbottisce il cervello di frottole,
vi esalta, vi illude... Ho letto uno dei loro libretti di
propaganda... e ho capito che sono loro a mandarmi i bigliettini con
le scritte gialle. Nemmeno la polizia politica se n'è accorta, ma io
sì! Per questo sono il migliore di tutti!».
I
volti dei cortigiani erano diventati rossi e blu e i loro sguardi
vagavano impacciati da un angolo all'altro della stanza.
E
il sovrano non si fermava più, anzi sembrava che il suo accanimento
oratorio gli raddoppiasse le energie, come se si fosse innescato un
“moto perpetuo”:
«Volevo
annunciarvi» proseguì con occhi da invasato «che darò sovvenzioni
a coloro che abitano nei portoni ad angolo, che da un sondaggio
risultano tantissimi, perché il loro problema sociale mi sta
talmente a cuore che la notte li penso e mi vien da piangere...».
Il
labbro superiore a questo punto gli tremò, come se davvero egli
fosse sul punto di lasciarsi andare al pianto; ma la sua attenzione
fu catturata da un cortigiano che dietro le quinte si sbracciava
disperatamente per comunicargli qualcosa.
«Ma
cosa c'è?» fece allora stizzito il sovrano, senza curarsi della
diretta televisiva.
Il
cortigiano, premuroso ma impacciato, gli sussurrò:
«Maestà,
ma proprio ieri avete dichiarato alla stampa che la gente che abita
nei portoni ad angolo si lamenta ad arte per spillare quattrini allo
Stato... avete detto che sono soltanto lazzaroni e infidi... e oggi
invece...».
Il
Re, in risposta, fece un gesto nervoso e sbrigativo che comunicava
sovrana noncuranza, ma in quella un altro cortigiano si fece coraggio
e sussurrò a sua volta:
«Senza
contare poi che avantieri all'inaugurazione dell'ultima fiera,
davanti a decine di inviati, avete dichiarato di non aver mai parlato
di maniscalchi, Maestà, e avete detto anche che per voi neppure
esistono... smentendo peraltro una vostra precedente conferenza
stampa».
Il
volto del Re si fece insofferente e paonazzo; per qualche secondo
egli diede l'impressione di essere una pentola a cui stesse per
saltare il coperchio, poi diede una rumorosa manata sulla propria
scrivania e quasi ringhiando di furore disse, senza neppure guardare
la telecamera:
«Ho
avuto adesso l'ennesima prova che in questo Paese va cambiato tutto,
proprio tutto! E soltanto io posso farlo, soltanto io! Voi, voi
tutti» fece indicando i collaboratori lì presenti «siete i primi a
sabotare i miei progetti, lo so da un pezzo... e adesso è bene che
lo sappia tutta la nazione! Io vi ho tirati su dal nulla e proprio
quando ho più bisogno del vostro appoggio, vi rivelate per quello
che siete: un branco di iene e di smidollati!».
«Maestà,
ma cosa dite?...» provò a discolparsi uno di loro, ma il Re gli
ingiunse di tacere.
«Sono
circondato di ingrati!» esclamò gettando in aria i fogli del
proprio discorso. «Mentre i postiglioni si stanno impadronendo del
sapone e della candeggina, per portare a termine il loro complotto, e
li fanno sparire dai supermercati, voi state qui a sottilizzare sulle
mie virgole, come se fossimo ancora a scuola! Vergognatevi! Sono io
che vi rimando a scuola, tutti! Sapete?».
Il
cameraman, sentendosi un pesce fuor d'acqua, si guardò attorno per
cercare di capire cosa dovesse fare; ma nessuno badava a lui, sicché
a gesti comunicò al sovrano la propria intenzione di interrompere le
riprese.
«No,
no, tu continua il tuo lavoro!» disse il Re. «La nazione deve
sapere certe cose... E sappiate tutti che ho il potere di rimandarvi
a scuola, sto parlando sul serio... Se mi gira, faccio un decreto col
quale vi dichiaro analfabeti e vi costringo a tornare alle
elementari. Così dovrete andarvene all'istante di qui, perché non
è un lavoro per analfabeti, questo».
Dopo
queste frasi ci fu un lungo silenzio; il Re sembrava improvvisamente
spossato e guardava le proprie ginocchia, senza muovere un muscolo.
Il
cameraman interrogò con lo sguardo i cortigiani e sembrava dir loro:
“Che faccio? Interrompo qui il collegamento?”; ma nessuno voleva
prendersi la responsabilità di decidere.
Di
colpo il Re si rianimò e con un sorriso sornione, come se nulla
fosse, guardò nella telecamera e civettando coi suoi
sudditi-spettatori fece suadente:
«Non
preoccupatevi, conosco il grave problema delle pompe da
giardinaggio... sto mettendo sotto pressione tutti i miei
collaboratori per risolverlo... Alla fine ne verremo a capo, lo
giuro. Fidatevi, fidatevi di me come sempre, non ve ne pentirete! Il
vostro Re è una garanzia, è il migliore che ci sia al mondo... C'è
solo una penuria momentanea di quelle benedette pompe, ma ho
approntato un piano di importazioni straordinarie, tutto elaborato da
me ovviamente... il problema si risolverà in trentadue giorni
considerando i bisestili e i quartili. D'altra parte il giardinaggio
è la principale attività economica del nostro Paese e mi impegno a
trovare i fondi per rilanciarlo. Ho già deciso che detasserò i
viaggi al di sopra del Circolo Polare Artico, così l'indotto delle
pompe da giardino ne avrà beneficio e salverò moltissimi posti di
lavoro. Le scuole resteranno chiuse a tempo indeterminato per
rilanciare il settore della derattizzazione, che attualmente è in
sofferenza... del resto, come tutti sappiamo, nel nostro Paese grazie
ai miei sforzi l'analfabetismo non è più una minaccia per la
salute».
Questo
discorso del Re si candidò a entrare nella storia, anche se non per
i motivi che il sovrano immaginava; ripensando alle parole che aveva
pronunciato davanti a milioni di telespettatori, egli si sentiva
soddisfatto, convinto di aver dato il meglio di sé, e anzi di
essersi superato.
Non
poteva sapere che moltissimi sudditi, nell'ascoltarlo, si erano
sbellicati dalle risate – e non c'è niente di più funesto, per un
monarca assoluto, che suscitare ilarità senza volerlo; altri
sudditi, i più affezionati alla causa della monarchia, avevano
assistito rabbrividendo alla performance del Re e avevano
provato un senso di smarrimento, come se improvvisamente nelle loro
vite si fosse spalancata una spaventosa voragine, che volevano
istintivamente ricacciare indietro, senza però sapere come.
Nella
notte i Ministri si riunirono a consulto ed esaminarono con
franchezza i termini del problema.
«Parliamoci
chiaramente» disse il Più Autorevole fra loro, «a questa cosa non
c'è rimedio... I migliori medici del Regno me l'hanno spiegato:
quella del nostro Amato Sovrano è una condizione irreversibile...
andrà sempre peggio, col passare del tempo».
«Ma
come? Non c'è nessuna cura? nessuna medicina?» domandò un altro
Ministro.
«Purtroppo
no, cari colleghi» rispose il Più Autorevole.
«Ma
questa è una vera tragedia per la nostra monarchia!» esclamò il
Ministro della Corona, il più anziano dei presenti, con in viso
un'espressione autenticamente affranta. «Come si fa? Come si fa?»
ripeté più volte.
«Già»
riprese la parola il Più Autorevole, il cui piglio pragmatico
contrastava con il tono melodrammatico dell'anziano collega: «come
facciamo a dire che il nostro Amato Re, che da sempre è proclamato
negli atti ufficiali e nelle cerimonie solenni Stella Polare della
Nazione, Luce del Nostro Cammino, Guida Sicura della Legislazione...
come facciamo a dire ai sudditi che un uomo del genere adesso è solo
un povero demente come tanti?».
«Assolutamente
non si può! Sarebbe inaudito! Inverecondo! Inammissibile!» protestò
il Ministro della Corona, tutto scandalizzato.
«La
monarchia non potrebbe sopportare un simile vulnus! Ne
morirebbe!» proclamò il Ministro della Giustizia, che era anche un
acclamato e fine giurista.
«La
monarchia è sacra... e sacra deve rimanere: è un imperativo!»
sentenziò con occhi di fuoco il Generale Supremo Comandante della
Guardia Reale, e qualcuno, a quelle parole, immaginò perfino di
veder roteare nell'aria la sua sciabola. «La monarchia è il
Re e nient'altro che il Re, signori... E voi tutti sapete bene che
chi si azzardasse a mancar di rispetto al Re, dovrebbe poi vedersela
con me e coi miei uomini» aggiunse, come per mettere in chiaro il
suo pensiero, fissando gli altri Ministri con aria truce.
«Ma
questo vuol dire, colleghi», fece il Più Autorevole con un sorriso
appena accennato, «che siete d'accordo con me: ci tocca sostenere il
Re fino in fondo, è questo il nostro compito adesso... un compito
difficile ma necessario».
«Sì...
ma cosa raccontiamo alla gente?» ragionò ad alta voce il Ministro
del Tesoro, che sino a quel momento aveva taciuto pensieroso.
«Da
questo momento in poi le parole del sovrano devono essere
costantemente interpretate...
interpretate in maniera da fornire loro un significato, quando questo
sia oscuro. Signori, dobbiamo intervenire ogni volta che sia
necessario, sulla stampa, in televisione, dovunque, per dare un
senso, un senso qualsiasi alle parole del Re, anche a quelle che
sembrano più strampalate» affermò il Più Autorevole.
«Le
parole del Re per definizione non
possono mai essere
strampalate: chi dice il contrario bestemmia, signori miei!» esclamò
prossimo all'indignazione il Generale Supremo Comandante della
Guardia Reale.
«Allora,
caro collega, lasciami bestemmiare!» replicò il Ministro del
Tesoro, visibilmente spazientito. «Io capisco tutto, ma arrivare a
negare la realtà fino a questo punto no! Se non te ne sei accorto,
te lo dico io: il Re ormai non ci sta più con la testa. E' inutile
che sbuffi e fai segno di “no”: almeno fra noi non prendiamoci in
giro, per cortesia! Se continuiamo a far finta di niente, questo
Paese va a rotoli: lo capite, tutti quanti? Credete di cavarvela con
qualche sotterfugio da baraccone? Le frottole ormai lasciano il tempo
che trovano, la gente non ci crede più, non si lascia più
incantare... Ma dico, pensate davvero che i nostri concittadini usino
ancora portare la sveglia appesa al collo?».
«Ma
allora tu che cosa proponi?» s'inalberò a sua volta il Ministro
della Giustizia. «Dobbiamo rinnegare tutto? tutti i princìpi della
monarchia? l'infallibilità mistica del sovrano, il suo potere
indiscutibile e perfetto, la sua assoluta insostituibilità? Ti rendi
conto che se cominciamo a rinnegare il Re, a sminuire le sue parole o
– peggio! – se ci mettiamo in testa di mandarlo in pensione,
tutto il nostro edificio sociale e politico crolla un istante dopo?
Se l'infallibile per
definizione si rivela un
comune mortale come tanti, capace come tutti di dire scempiaggini,
nessun altro Re potrà essere al sicuro dopo di lui! Ogni suddito, da
questo momento in poi, si sentirà autorizzato a criticare i voleri
del sovrano o addirittura a sbeffeggiarlo nella pubblica piazza!».
«Questo
mai! Nella pubblica piazza giammai!» tuonò con scandalizzato
disgusto il Generale Supremo Comandante (eccetera). «Sua Maestà
degradato al rango di guitto! Questo non accadrà mai, perché io non
lo permetterò, ve lo giuro sul mio onore!».
«E
io vi dico invece che se continuiamo così, andiamo alla rovina! e
anche in fretta!» insisté il Ministro del Tesoro. «Una delle cose
peggiori di questa situazione è che Sua Maestà ormai rinnega ogni
giorno quello che ha detto il giorno precedente... si sta creando un
vero caos amministrativo e contabile, non c'è più nessuna certezza
delle norme e delle decisioni, i miei sottoposti stanno letteralmente
impazzendo per star dietro a queste continue giravolte... In pratica
non esiste più un vero bilancio dello Stato, perché un giorno il Re
decide di finanziare il giardinaggio, una settimana dopo si rimangia
tutto e allora bisogna disfare quello che si è già fatto per
seguire il nuovo capriccio del sovrano e dirottare in fretta e furia
i soldi assegnati in un primo momento al giardinaggio verso i nuovi
destinatari, i produttori di vino analcolico, ma non si fa in tempo a
farli arrivare a costoro perché il Re improvvisamente cambia ancora
idea... E poi ci sono le spese straordinarie e folli, che di colpo
prosciugano interi settori del bilancio. Per non parlare poi delle
entrate, le tasse che vanno e vengono a mesi alterni, i privilegi
concessi e poi improvvisamente rinnegati... Ma vi sembra che si possa
andare avanti ancora per molto in queste condizioni?».
«Io
so soltanto una cosa, signori, e la so per certo», si accanì il
Generale Supremo Comandante (eccetera), gonfiando il petto con
atteggiamento solenne, «l'infallibilità del nostro Sovrano non può
essere messa in discussione. Dimenticate forse che egli è la Stella
Polare della Nazione, la Luce del Nostro Cammino, la Guida Sicura
della Legislazione? Dimenticate che egli è la Giustizia e solo da
lui può venire l'ispirazione per le sentenze giuste emesse dai
nostri tribunali? Devo forse ricordarvelo io?».
Ancora
una volta i ministri ebbero l'impressione di veder roteare minacciosa
nell'aria la sciabola del Generale Supremo Comandante...; tutti forse
con l'eccezione del Ministro del Tesoro, il quale infatti sghignazzò,
per poi esclamare:
«Benissimo,
benissimo, continuiamo pure così, se ci fa piacere!».
Rivolgendosi
quindi al Generale Supremo Comandante (eccetera), proseguì:
«Visto
che la sai lunga, vieni tu a sbrogliare i pasticci che
“l'infallibile” sta causando nei conti pubblici! E' comodo
snocciolare dogmi standosene seduti in poltrona, senza confrontarsi
poi coi fatti, vero?».
«E
tu» intervenne a quel punto il Ministro degli Esteri, «a chi devi
la tua brillante carriera politica, se non al Re?».
«Per
caso stai parlando con me?» fece il Ministro del Tesoro.
«Certamente»
replicò l'altro. «Io ero già nobile e ricco di famiglia, avevo
tutto quel che volevo, senza bisogno dei favori del Re... Mi pare
invece che una certa persona fosse solo un miserabile avvocaticchio
di provincia, prima che il Re lo trasformasse in un uomo di Stato.
Allora però a quella certa persona le scelte del Re andavano bene,
specialmente se erano a suo vantaggio; o sbaglio?».
«Mi
duole constatare che il nostro Ministro degli Esteri è
particolarmente disinformato: grave, gravissima pecca, per un celebre
diplomatico... Si dà il caso che, ben prima che il Re si accorgesse
di lui, quell'avvocaticchio di provincia avesse pubblicato studi
molto importanti, citati sulla stampa specializzata. Io non ero
raccomandato e se il Re mi ha nominato Ministro, lo ha fatto perché
ha riconosciuto i miei meriti. Non si può dire la stessa cosa
dell'esimio Ministro degli Esteri, che d'altronde ha appena ammesso
con candore di appartenere a una famiglia potente e influente, oltre
che ricca...».
A
questo punto gli sguardi infiammati dei due contendenti si
incontrarono e si sarebbe forse arrivati perfino allo scontro fisico,
se non fosse intervenuto il Più Autorevole dei Ministri a calmare
gli animi.
«Signori,
signori, per cortesia!» esortò. «Non mi sembra il momento di dare
sfogo a ripicche personali! Dobbiamo prendere gravi decisioni,
stasera... Certamente, e in questo do ragione al collega Ministro del
Tesoro, non possiamo far finta che non stia succedendo niente.
Cerchiamo di conservare la lucidità per fare la scelta giusta».
«Ecco,
appunto, e per questo non possiamo mandare in malora i sacri princìpi
del Regno!» proclamò con solennità, ancora una volta gonfiando il
marziale petto, il Generale Supremo Comandante (eccetera eccetera).
«Colleghi,
ve lo dico con sincerità... io non potrei mai rinnegare il mio Re,
dopo tutti questi anni... Piuttosto mi dimetto» disse con sofferta
dignità l'anziano Ministro della Corona.
«Si
tratta soltanto di prendere atto della realtà» ribatté il Ministro
del Tesoro. «Non possiamo pensare solo a noi, alle nostre abitudini,
ai nostri privilegi e ai nostri tarli mentali... il regno, il
prestigio, i sacri princìpi... macché, quando la casa sta bruciando
bisogna semplicemente fare di tutto per spegnere l'incendio, per
salvare le persone e le cose. Tutto il resto conta relativamente... E
poi, diamine! cosa c'è di più salutare della verità? Cosa
c'è di male nel dire che un signore di una certa età, foss'anche il
Re, ora non sta più bene e ha bisogno di cure, e per questo va
sostituito? Non capite che i sudditi ci apprezzerebbero anche di più,
se dicessimo come stanno realmente le cose?».
«Traditore»
mormorò con disprezzo il Generale Supremo Comandante (eccetera) e la
sua sciabola parve tintinnare.
«Opportunista»
sussurrò disgustato il Ministro degli Esteri con un digrignar di
denti.
Il
Ministro del Tesoro si lasciò sfuggire una risata.
«Ma
sì, divertitevi pure a mettere le vostre solite etichette, voi! E'
l'unico sport che vi riesce bene da una vita» disse, e poi
rivolgendosi al Generale Supremo Comandante aggiunse: «Oh quante
volte hai dato del “traditore” a chi osava contraddire i tuoi
dogmi! Ne ho perso il conto... Hai mandato in rovina tanta brava
gente, con quella semplice infamante parolina; anche gente che ha
cercato di servire il Paese ma che non si piegava a dar sempre
ragione a te e agli amici del Re. Ne hai sulla coscienza, tu, con la
tua sciabola, sempre al servizio della tua “ortodossa fedeltà”...
diciamo pure ottusa, e anche molto comoda. Ma sappi che quella tua
parolina ormai non ti servirà più a niente, la sua carica magica si
è esaurita».
Non
si arrivò alle vie di fatto solo perché ancora una volta il Più
Autorevole fu pronto a intervenire.
«Signori,
vi prego...» disse. «Voi dimenticate che una soluzione d'emergenza
in questi casi c'è sempre. La via ce l'ha indicata nell'ultimo
discorso, magari senza volerlo, proprio il nostro amato sovrano:
trovare dei nemici sui quali scaricare tutti i disagi, i problemi, le
colpe...».
«Roba
vecchia: non funziona più» scosse la testa il Ministro del Tesoro.
«Stavolta
sono d'accordo col collega» soggiunse il Ministro della Giustizia.
«Ma
come?» insisté il Più Autorevole. «Quando si è alle strette, si
svela l'esistenza di un bel complotto, con tutti i crismi, e si dà
così all'indignazione del popolo un bersaglio perfetto sul quale
sfogarsi. “I nemici tramano contro di noi”... Chi resiste
al fascino arcano di questa sensazione? E' come il richiamo della
foresta, signori miei! Vi assicuro che anche il più compassato degli
intellettuali si fa catturare da questa suggestione e comincia a
scrivere su questo tema, moltiplicando a sua volta la suggestione...
Da un giorno all'altro tutti i giornali cantano all'unisono,
esercitandosi a scavare nelle trame imbastite dal “Nemico”, e
fior di scrittori e saggisti si mettono a pubblicare libri e libelli
per proclamare al mondo: “Anch'io, anch'io so tutto del Maledetto
Nemico col suo Complotto! Anch'io me ne sono accorto e ve lo
racconto!”».
«Vedo
che non ci capiamo proprio» sospirò con aria preoccupata il
Ministro del Tesoro. «I nostri conti sono in rosso! Una pagliacciata
del genere non risolve un bel niente, anzi rischia di darci il colpo
di grazia!».
«Disfattista»
commentò, quasi sputando, il Generale Supremo Comandante (eccetera).
«Caro
collega medagliato» replicò sottovoce il Ministro del Tesoro, «a
quanto vedo, il tuo vocabolario e il tuo sguardo sono sempre fermi al
1600 e dintorni... ma che noia!».
«In
casi estremi, caro collega, ti ricordo che c'è sempre la guerra»
mormorò il Più Autorevole, improvvisamente fattosi scostante,
rivolto al Ministro del Tesoro. «Quella ci darebbe almeno un po' di
respiro e, come sai benissimo, risolleverebbe anche il bilancio. Che
dite? Parliamo al Re di questa ipotesi? Sono convinto che
approverebbe entusiasta».
«Oh,
in questo modo il popolo dimenticherebbe finalmente contrasti e
divisioni e si compatterebbe come un sol uomo! Perché il popolo è
un sol uomo, ma i nostri nemici l'hanno traviato! Orsù, riportiamolo
sulla retta via!» esclamò con sguardo mistico il Generale Supremo
Comandante (eccetera).
«Ma
che guerre volete fare, scusate?» saltò su il Ministro della
Giustizia, in un soprassalto di realismo. «Lasciamo stare i paroloni
e guardiamoci negli occhi! Noi non siamo di certo una superpotenza;
se soltanto ci affacciamo fuori dei nostri confini armati di tutto
punto, gli Stati che veramente contano si coalizzano contro di noi e
ci impiegano appena due giorni a metterci in ginocchio. E vi sembra
seriamente un rimedio ai nostri mali, questo?».
«Disfattista
anche tu» sillabò sentenzioso il solito Generale Supremo
(eccetera).
«Ma
non c'è mica bisogno di una guerra di quelle classiche, esercito
contro esercito!» scosse la testa il Più Autorevole dei Ministri.
«Quel che veramente conta è che i nostri amati sudditi abbiano modo
e occasione di sfogarsi menando le mani, agguantando numerosi
esemplari del mitico “Nemico-che-trama-nell-ombra” in maniera da
poterli conciare poi per le feste. La guerra la si può fare in casa
nostra, strada per strada, ovviamente tenendola opportunamente sotto
controllo».
«E
come si mette in piedi questa specie di... carnevale?» domandò un
giovane Ministro senza Portafoglio.
«L'importante,
amico mio, è scegliere bene il tipo di
“Nemico-che-trama-nell-ombra”: ma in questo il nostro Re è
impareggiabile ancora adesso, possiamo tranquillamente lasciar fare a
lui; una volta scelto il Nemico, vedrai quanti nostri sudditi
sfogheranno su quel Nemico i loro livori personali, le loro paure più
profonde, le loro frustrazioni, scateneranno la loro fame di
giustizia inappagata... se la faranno con le loro mani, e noi li
lasceremo fare, perché per la nazione un carnevale del genere –
hai proprio usato il termine giusto! – è tutta salute. Il
prestigio del Re e della monarchia in questo modo tornano a
splendere: semel in anno licet insanire, dicevano gli antichi,
e il sovrano che consente al suo popolo questo genere di “insania”
liberatoria si garantisce imperitura gratitudine, stanne sicuro».
Come
ubriachi, i Ministri si levarono in piedi esclamando: «Dal Re! Dal
Re! Si vada sùbito dal Re!».
«À
la guerre comme à la guerre! Et vive le Roi!» gridò una voce,
e a quelle parole una risata collettiva oscena e sguaiata proruppe
nell'ampia stanza.
«E
tutto questo per non dover dire semplicemente: Signore e signori,
il Re che avevamo sta dando i numeri, è ora di mandarlo in pensione»
mormorò basito il Ministro del Tesoro, allontanandosi dalla sala e
rinunciando ormai ad ogni ragionamento. Le voci dei colleghi in
tripudio lo accompagnarono fino all'uscita del Palazzo; giunto in
fondo alle scale gli parve anzi di sentire perfino un tintinnio di
bicchieri. Si brindava, dunque, come se ogni problema fosse ormai
risolto e il Paese si avviasse verso un'era di sconfinata
prosperità...
§
[Trattandosi
di un'opera di fantasia, ogni eventuale riferimento ad avvenimenti,
vicende, persone e personaggi della realtà è da considerarsi
puramente casuale.]
Invito - italiano
RispondiEliminaIo sono brasiliano.
Dedicato alla lettura di qui, e visitare il suo blog.
ho anche uno, soltanto molto più semplice.
'm vi invita a farmi visita, e, se possibile seguire insieme per loro e con loro. Mi è sempre piaciuto scrivere, esporre e condividere le mie idee con le persone, a prescindere dalla classe sociale, credo religioso, l'orientamento sessuale, o, di Razza.
Per me, ciò che il nostro interesse è lo scambio di idee, e, pensieri.
'm lì nel mio Grullo spazio, in attesa per voi.
E sto già seguendo il tuo blog.
Forza, pace, amicizia e felicità
Per te, un abbraccio dal Brasile.
www.josemariacosta.com