Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

mercoledì 28 agosto 2013

Di alberi e di stelle. Se il nostro sguardo non sa vedere (ovvero: Per le strade / 3)

Vediamo i luoghi che ci sono familiari e crediamo di conoscerli, forse soltanto perché sappiamo nominare le strade e le cose intorno a noi. Eppure nemmeno questo è vero, il nostro sguardo non è abituato a distinguere davvero ciò che vede e quindi sbagliamo già nel nominare le cose.

In quel poco verde che compare qua e là nella città non sappiamo vedere che alberi, piante e fiori.
Pochi di noi – di noi “cittadini” – sanno realmente andare oltre la generalizzazione.
Per noi – per tanti di noi – è albero tanto un leccio quanto un platano, sono ugualmente e soltanto alberi un'acacia e un ailanto; non sappiamo nulla della loro vita, del loro crescere e morire, del loro bisogno d'acqua e dei frutti che dovranno creare altre generazioni di quelle specie.


E anche se conosciamo qualche particolare tipo d'albero, non sempre ci rendiamo conto delle differenze; per noi di solito conta molto più la funzione che l'essenza: “quello lì è un albero, in quanto svolge la sua funzione, che è quella di fare ombra, di contribuire al verde nel giardino, alla fotosintesi, ecc.”.

Vedo quei rari alberi dei nostri giardini urbani – quasi tutti recintati, riservati a pochi fortunati possidenti (nei nostri tempi si pensa ancora che le vite possano essere oggetti da possedere al pari delle “cose” inanimate, perché nel mercato non si fanno differenze sotto questo aspetto, conta solo la brama di chi ha e di chi può) – e quasi mai conosco il loro nome, le loro caratteristiche distintive, ovvero la loro cifra segreta.

Alberi dalle foglie sottili, alberi dalle foglie finemente disegnate, alberi dalle foglie rosse, alberi dai tronchi bianchi ed esili, alberi dai tronchi poderosi e scuri... Non conoscendoli davvero, do loro un unico generico nome eppure vedo che sono esseri differenti l'uno dall'altro.

Per noi umani il nome è un segno decisivo: non dare un nome specifico a una cosa e a maggior ragione a un essere vivente significa non ritenerlo/a abbastanza importante. Magari passiamo tutti i giorni per una strada fiancheggiata da alberi, a volte ci riposiamo alla loro ombra, eppure non ci prendiamo la briga di conoscerli davvero: non ci poniamo neppure la curiosità di sapere qualcosa di più di loro, li releghiamo al ruolo di alberi generici, messi (chissà da chi? dal comune?) lungo la strada per darci ristoro e ossigeno; altro non dobbiamo sapere e non ci riguarda – così riteniamo... Forse perché anche noi, nonostante tutta la nostra baldanza di “individui-a-cui-tutto-è-dovuto”, siamo ridotti a una funzione e da quella non sappiamo schiodarci. Andare al lavoro (se c'è), passare dal bar, al supermercato, poi a casa, poi a divertirsi, secondo orari precisi. 

Tutto il resto è contorno, è come il fondale di un palcoscenico durante una recita: è là per fare scena, ma non va preso sul serio. E se è così, immagino che molti preferirebbero giardini di alberi finti – e se qualche Comune facesse sul serio una proposta simile, si sentirebbe qualche voce entusiasta commentare: “Almeno quelli non sporcano...”.

§

Di solito poi per noi il cielo non è molto diverso dalla terra: se alziamo gli occhi, a malapena notiamo quei puntini luminosi chiamati “stelle”, giacché le luci della città riescono ormai a farli scomparire – e possiamo pensare perciò che le “nostre” luci siano infinitamente più potenti: mai illusione è stata più ridicola...

E cosa sono per noi le stelle, se non ornamenti perfettamente uguali l'uno all'altro, che appaiono a capriccio su quella cupola nero-bluastra per renderla meno monotona?
E chi ha il tempo di guardarle, anzi di cercarle, le stelle, con tante cose essenziali che abbiamo da fare, quaggiù? Alzare gli occhi – in questo nostro tempo da indaffarati (veri o immaginari) che ci cattura – può servire al massimo per osservare le nuvole e domandarci se pioverà.

Le stelle però... C'erano prima di tutti noi, e probabilmente ci saranno anche dopo, molto dopo, quando forse non saremo nemmeno un ricordo (chi dovrebbe ricordarci, dopo? a chi faremmo mai nostalgia, a quali specie inimmaginabili?) ma non ci badiamo quasi per nulla – come se questo richiamo dell'immensità nella quale siamo spersi non ci riguardasse minimamente. Già, siamo indaffarati...

O forse abbiamo timore di fermarci a considerare... che astri, corpi di quella grandezza non devono nulla a noi, sprigionano energia e continueranno a farlo anche in nostra assenza – come del resto hanno fatto molte ere fa, persino prima che esistesse la nostra terra.

E fin là d'altra parte non può arrivare la nostra brama di dominio: alberi, fiori e animali li governiamo a nostro capriccio e piacimento, persino nelle nostre leggi li rendiamo pari a cose, a oggetti di cui disporre – pari a un divano, a un tavolo, a un televisore...
Le stelle però no, quelle ci sfuggono... simbolicamente ci deridono, lassù. Quale denaro potrà mai accaparrarsi una stella? Chi potrà mai dire, tronfio del suo potere: “Vedi lassù Vega? E' mia, l'ho comprata io, mi appartiene, e guai a chi me la tocca! Anzi, ci metto il filo spinato attorno e se qualche straccione si azzarda a entrarci senza il mio permesso, peggio per lui!”.

Uno che dicesse così lo compatireste per la sua follia e forse lo affidereste alle cure di un buon medico... Eppure non farebbe che recitare la stessa commedia che ogni giorno si mette in scena quaggiù, negli infiniti angoli del mondo.

E perché allora rideremmo di lui? Forse perché mostrerebbe di ignorare che il denaro non sarebbe nulla lassù, dove il fuoco lo dissolverebbe insieme al suo possessore.

Non valgono le nostre leggi, non valgono le nostre strategie, dalle parti delle stelle... anzi se guardiamo lassù abbiamo la sensazione che le nostre regole e certezze sociali ci ritornino addosso trasformate in un boomerang di assurdità.

E così, alziamo gli occhi il meno possibile. Siamo troppo occupati... a rinsaldare l'assoluto delle nostre convinzioni di terrestri, provinciali sperduti nelle galassie.

2 commenti:

  1. E' uno di quei problemi che attraversa l'intera storia della filosofia: la corrispondenza fra nome o idea e realtà. Il linguaggio, una convenzione umana tra l'utile e il disgragante. E' un circolo dal quale non ne usciremo mai, in quanto esseri finiti e imperfetti che necessitano di piccoli espedienti per apparir diversi.

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    1. ...esseri finiti e imperfetti che necessitano di piccoli espedienti per apparir diversi... Mi piace questa definizione.
      Il linguaggio è al tempo stesso una risorsa e una condanna, è proprio così; non possiamo farne a meno - se vogliamo rimanere "esseri sociali" - ma, se gli diamo troppo credito, rischiamo di sovrapporre le categorie che (inevitabilmente) produce alla "incommensurabile molteplicità" delle cose, che così finisce per essere messa in ombra. Ma l'equilibrio è difficile, forse al limite dell'impossibile...

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