In
questo post partirò dalla descrizione di impressioni, con tutti i
limiti che una descrizione del genere può avere (la necessità di
approfondire i dati, ecc.); a mio avviso si tratta però di
impressioni significative.
Dirò
quindi che l'impressione più forte che si ricava in questo periodo
dalle notizie della cronaca politica è quella di una sedia vuota.
Sì,
direte voi, “loro” stanno lì, occupano “le poltrone”,
prendono stipendi, ecc.; eppure – ribadisco – la sedia della
politica, il suo posto simbolico nella nostra società, è vuota.
Non fermatevi alle apparenze.
Qual
è lo spettacolo al quale si assiste in certe interviste televisive
in presa diretta agli “esponenti politici medi”?
Incalzati
dai giornalisti, quando ricevono domande scomode, fuggono dando la
schiena alle telecamere. La fuga sembra anzi essere diventata l'unico
loro rifugio, l'unico rimedio, l'unica risposta possibile; non si
tratta nemmeno più di arroganza del potere,
ma di puro arrembaggio
sorretto dall'improvvisazione.
Ma l'improvvisazione – chi si interessa di musica lo sa – è una
cosa seria; nonostante ciò che il nome evoca, l'improvvisazione è
terreno per professionisti: soltanto chi davvero conosce il
linguaggio sonoro e le potenzialità degli strumenti musicali può
permettersi di improvvisare
senza strafare e senza incappare ad ogni pie' sospinto in penosi
strafalcioni.
La
politica in Italia oggi questo sembra non saperlo o averlo
colpevolmente dimenticato. Anche qui parlo di un'impressione, però
persistente, e dunque non certo generata dalla fantasia: sembra un
paesaggio popolato da “improvvisatori della domenica”, e si
sente, si nota; non sembrano più in grado di barare, il loro gioco è
scoperto, ma neppure se ne preoccupano: come ultima risorsa scappano
davanti alle domande e – cosa particolarmente interessante nella
sua stravaganza, dal punto di vista socio-psicologico – scappano
con alterigia.
Mai
come adesso il “Re” è nudo.
Quest'anno,
dal punto di vista politico e istituzionale, in Italia sono accadute
cose senza precedenti, dopo oltre sessant'anni di vita della
Costituzione repubblicana sono stati stravolti alcuni punti fermi e
si sono introdotti precedenti che fino a pochissimo tempo fa
sarebbero stati ritenuti “fantascientifici”, improbabili: per la
prima volta un Presidente è stato confermato in carica per un
secondo settennato, per la prima volta una legge elettorale è stata
dichiarata incostituzionale...
Si
aggiunga, per completare il quadro, il caos inaudito e sconcertante
al quale si assiste ormai da più di un anno in tema di tasse e
fisco: fino all'ultimo istante, ovvero a pochi giorni dalla scadenza,
non si sa quali tasse si dovranno pagare, come andranno calcolate, e
persino quale nome avranno.
Sono
segnali di un cambiamento traumatico, che passa tutto attraverso
questa “politica della (sprovveduta) improvvisazione”. Musicisti
che suonano senza uno “spartito” predeterminato, ma che sono
disperatamente in cerca di un foglio pentagrammato al quale
aggrapparsi e non lo trovano... O, se si preferisce (il paragone è
equivalente), attori che recitano a soggetto senza avere la verve
e la prontezza di spirito necessarie per farlo; e quindi arrancano,
balbettano, s'inceppano, sbagliano i tempi e la misura degli
interventi... E quando i fischi arrivano, non li accettano; quando il
vociare in sala si fa intenso e spazientito, si ritirano e volgono le
spalle al pubblico indignati.
Si
possono certamente escludere da questa analisi gli ultimi arrivati
sulla scena, ovvero essenzialmente il “M5S”; avranno altri
difetti, ma non quello di aver occupato “recitando a soggetto” la
scena del potere in questi vent'anni.
Il
sistema politico italiano in questo momento è debole,
debolissimo: ma questo
non è un bene.
Tuttavia
il problema, anche se da noi è particolarmente amplificato a causa
delle nostre storiche debolezze “strutturali”, non è solo italiano, è anzi abbastanza diffuso, perlomeno nella parte del mondo che chiamiamo “Occidente”.
L'autorevolezza
e la chiarezza di idee in questo momento sono una vera chimera; a
tratti sembra che – delusi e stanchi – i decisori politici ne
vogliano persino fare a meno.
Per
quanto riguarda l'Italia, comunque, il momento della svolta
(drammatica), ovvero l'inizio del vortice nel quale siamo immersi, si
può far risalire all'agosto del 2011: in quel momento, con la BCE
che bussava alle porte con la sua famosa “lettera segreta”,
chiedendoci di “pagare i conti”, i gerenti pro tempore del
governo italiano sono entrati in fibrillazione e poi in crisi: non si
poteva più dilazionare, “mettere una toppa”, fare qualche
“mandrakata” [cit.]; no, il tempo delle scappatoie era finito, e
il bluff è venuto a
galla in tutta la sua estensione. Il governo allora – questo va
ricordato, a imperitura memoria – in poche settimane fece e disfece
freneticamente la bozza di manovra finanziaria, dando letteralmente
l'impressione di non sapere “che pesci prendere” [se ne parla tra
l'altro qui e
qui;
altre fonti: 1,
2].
Il Re, in quel preciso momento, era totalmente messo a nudo.
[I
nodi venivano però da lontano, e se le responsabilità del duo
Berlusconi-Tremonti erano in quel momento evidenti, non si può
dimenticare che una quota di responsabilità c'è anche
altrove, per ciò che non
si è fatto – o si è fatto in maniera discutibile o inefficace –
perlomeno in tutto questo ultimo ventennio. E infatti il “Re” che
è “nudo” non è solo questo o quel governo: non rappresenta
infatti – nonostante la personalizzazione delle battaglie
politiche, che è servita in questi anni, come un sapiente
accorgimento di regìa, a “movimentare la scena” del potere –
una persona singola, ma un ruolo
esercitato collettivamente.]
I
“musicisti” hanno cominciato a cedere, fino ad allora se l'erano
cavata col repertorio da balera imparato un po' a orecchio; note
fuori posto ne avevano messe già parecchie, spesso non riuscivano ad
andare a tempo, ma il pubblico era indulgente, sembrava non farci
caso. Quando però hanno esaurito i pezzi che conoscevano, e
avrebbero dovuto riempire il vuoto dello “spettacolo” con una jam
session (leggasi: non c'erano più fondi da distribuire per
“comprare” la pace sociale e dovevano finalmente vedersela con un
problema serio), hanno dimostrato disastrosamente i loro limiti
tecnici: letteralmente non sapevano che fare.
Altri
gerenti si sono avvicendati, di colori diversi, anche misto fantasia,
ma i balbettii del potere non sono cessati (anzi...). Ogni nuovo
musicista che si presentava sul palco, anche quando aveva l'aspetto
di uno navigato, una volta finito il suo repertorio abituale,
eseguito peraltro senza infamia né lode, e spintosi quindi in
territori nuovi, immancabilmente dimostrava spaventosi limiti nella
preparazione, nella fantasia, nella creatività.
E'
tutto il sistema che sta cedendo, non questo o quel partito soltanto:
qui è il vero problema. E “salvatori della patria” non ce ne
sono (non ce ne sono mai stati, questo è solo il momento
della verità): solo pochi “fideisti politici” sono disposti
ancora a dar credito a questa leggenda. Anzi, i presunti “grandi
uomini” del recentissimo passato hanno contribuito in larga misura
a quella politica della “recita a soggetto” (e delle dilazioni,
dei pressapochismi, delle “mandrakate”) i cui risultati stiamo
vivendo ora in presa diretta.
L'assenza
di spazio politico si avverte ora tanto “in alto” che “in
basso”: anche la protesta della “società civile” rischia di
rappresentare una socializzazione caotica di idiosincrasie
private – quanto di meno politico, nel senso profondo del
termine, possa esserci.
Basta
ascoltare le voci che si sovrappongono. Uno addossa la colpa di tutto
ai “politici che mangiano troppo, con i rimborsi e le auto blu”,
l'altro accusa gli immigrati della “rovina in cui siamo”; un
terzo sbraita contro “interessi stranieri” dei quali siamo
succubi, ma si trova in disaccordo con un quarto che specifica il
bersaglio, indicando il “nemico” negli “americani”. Un quinto
fa segno di no e spiega che la colpa è solo ed esclusivamente
“dell'Europa” (con la variante “dell'euro” o “della
Germania”). “Macché” spiega un sesto, “dovete prendervela
con i Cinesi! Da loro deriva tutto”. “Non avete capito niente”
interviene un settimo, “sono le banche che ci derubano e ci
rovinano”. “E i sindacati, allora? Tutta colpa loro!”
puntualizza un ottavo, sicuro di sé. “E' colpa della stampa
asservita se siamo in questa situazione. I giornalisti non fanno il
loro dovere” si fa sentire un altro.
E
poi, e poi:
“Non
potremo mai risolvere nulla se non apriamo gli occhi ribellandoci ai
poteri occulti che tramano nell'ombra”. “In questi anni siamo
vissuti al di sopra delle nostre possibilità. Volevamo troppo, e
questo ora è il risultato”. “La verità è che nessuno ha più
voglia di lavorare”. “Che dici? Sono le tasse che ci strozzano.
Togli quelle e tutto si risolve”. “Certo, si risolve tutto, ma
solo se torniamo alla lira”. “Nossignore: solo se licenziamo gli
statali”...
Si
vuole trovare un'unica causa dei problemi, ovvero un colpevole certo
e identificabile – esattamente grazie allo stesso meccanismo
mentale che porta a cercare un unico “salvatore della patria” –
ma dato l'errore dell'analisi (che così impostata, essendo ancorata
a suggestioni soggettive, non può che farsi influenzare appunto da
personali idiosincrasie), risulta impossibile pervenire a conclusioni
condivise.
Sembra
quasi che davanti ai disegni confusi dei detentori del potere,
rinserrati in slogan che si ripetono all'infinito, si risponda con
altrettanta confusione; per riprendere il parallelo musicale, la
“piazza” sembra comportarsi come i protagonisti di Prova
d'orchestra di Federico Fellini. Ognuno, scendendo in strada (o
scatenandosi coi commenti sui social network), porta il proprio
strumento e lo suona in “fortissimo” senza badare però a ciò
che stanno suonando gli altri. Non ci sono né ritmo né tonalità
percepibili, in questo impasto sonoro, che sembra perciò una
sommatoria scoordinata di note, un pastone sempre uguale a se stesso.
Tutti vogliono farsi ascoltare ma trascurano di ascoltare gli altri.
E quanto più aumenta l'impossibilità di ascoltarsi reciprocamente,
tanto più rischia di aumentare la rabbia della massa di inascoltati.
E' un meccanismo che si autoalimenta e che non si può correggere se
non fermandosi finalmente a riflettere.
E
si torna al punto di partenza: il vuoto della politica non si può
riempire con l'improvvisazione, per giunta bizzosa e piena di sé.
Non si può nemmeno ragionare, se non c'è tra gli interlocutori un
“minimo comune denominatore”, che un tempo il lavoro politico
(inteso qui come lo specifico compito della politica,
esercitato a vari livelli, nelle sezioni di partito, nelle
istituzioni, nei giornali, ecc.) individuava.
Ora
se la politica ufficiale è una schiena che fugge, vuol dire che
nessun “direttore” ci indicherà qual è il tempo a cui dobbiamo
attenerci per non trasformare il ritmo comune in un trambusto
informe, né ci dirà in quale tonalità suonare per creare un
abbozzo di armonia in collaborazione con gli altri “musicisti”, a
quale sezione di “strumenti” dare momentaneamente risalto, e così
via. Anche in questo caso (come per il “Re” di cui sopra), si
parla di ruolo e non di persone specifiche: il direttore, fuor
di metafora, non è un “Capo” (lo si è detto poc'anzi: il
“Capo”, passato il tempo degli stregoni, non ha nessuna formula
segreta per salvare la propria tribù-popolazione), ma un criterio
comune, è il riconoscimento della necessità di condividere scelte e
valori, di ascoltarsi mentre “si suona insieme”,
altrimenti non c'è alcun “insieme”.
Abbiamo
pensato alla libertà come assenza di necessità (della
necessità dei vincoli sociali, anzitutto) e qui ci siamo fatalmente
arenati. L'individuo opportunista, che tira sempre la coperta dalla
propria parte, ovvero pensa di potere sfruttare a proprio vantaggio
le risorse e le rendite di posizione senza mai “pagar dazio” (“le
regole esistono solo per gli altri, e le uso contro di loro: io
invece valgo sempre come eccezione”), è una figura sterile,
destinata a passare presto dall'illusione di onnipotenza alla
scoperta dell'impotenza (come singola monade apparentemente
autosufficiente).
In
fondo, sia i programmi sempre più sfumati e timidi dei partiti che i
“colpevoli” individuati di volta in volta dal caos molecolare
della società civile (la “prova d'orchestra” descritta sopra)
sono i sintomi di un'illusione: ossia si pensa che si potrà
riaggiustare il “vaso rotto” di questo modello socio-economico
(che alcuni definiscono globalizzazione, altri liberismo, ecc.) con
un po' di colla o di mastice e che tutto poi tornerà come prima (la
crescita, l'industrializzazione, l'occupazione, ecc.).
Non
c'è nessuna politica competente e autorevole a suggerirci visioni
nuove (utopie operative, possiamo definirle in estrema
sintesi), con la consapevolezza che l'attuale “modello” ha
mostrato crepe insanabili, ovvero limiti drammatici: per il momento
siamo fermi a contemplare una sedia (sostanzialmente) vuota.
Un auspicio vagamente anarchico?
RispondiEliminaEh, anche l'anarchia non è sempre ciò che pensiamo che sia...
EliminaIn Italia è piuttosto diffusa, ad esempio, una forma particolare di anarchia pratica (o praticona?) - conosco anche persone, che votano per questo o quel partito (di centrosinistra ma anche di centrodestra), pur dichiarandosi "anarchici nello spirito". E sono insofferenti alle regole, solo quando non le possono piegare a proprio favore; altrimenti ricordano di essere "istituzionali" e invocano proprio quelle stesse regole che in varie occasioni gioiosamente non rispettano...
C'è anche chi - alle nostre latitudini - intende l'anarchia come possibilità di non essere responsabili: oggi prendo un impegno e domani lo rinnego, senza nemmeno immaginare uno straccio di giustificazione: embé, sono libertario, cosa vuoi da me? (mi è capitato purtroppo di imbattermici: certo saranno eccezioni, ma per dovere di cronaca vanno registrate...).
Se poi dalle "pratiche" passiamo alle teorie, anche là c'è modo e modo di intendere l'anarchia: non ci sono solo gli "anarco-socialisti" come Bakunin o Kropotkin, ma - passando per Stirner - ci sono anche gli "anarco-capitalisti" come M. Rothbard...
Quale versione è preferibile? Ce n'è una che ha "più ragione" delle altre? [E qui si potrebbe aprire una discussione infinita, ma indubbiamente anche interessante.]
Comunque resto convinto che il governo della cosa pubblica - chiamiamolo così - non tollera vuoti: se la sedia del governo resta vuota a lungo, questa non sarà buttata via, ma qualcuno andrà a occuparla prima o poi (magari cambierà la sedia "che conta", ma una sedia purchessia ci sarà...). Per quanto la critica anarchica dica cose interessanti, sulle quali riflettere, l'assenza di istituzioni "di riferimento" non mi sembra concepibile, a tutt'oggi.
Questo non vuol dire però che dobbiamo essere sudditi: verso chi occupa quella sedia dobbiamo essere critici, anche irriverenti all'occorrenza; credo insomma che dobbiamo fare in modo di ridimensionare le "aspettative messianiche" nei confronti di quella che è solo una funzione, per quanto importante - quella di governo - e non una "investitura per volere divino". Solo così forse potremo disfarci un giorno di quella "sedia".
Non avendo il potere di prevedere il futuro, sono possibilista, quanto a questo, anche se non "visionariamente ottimista".
si è perso il senso di "cosa" e "casa comune", si è persa la volontà di fare parte di una società civile in cui è vitale partecipare e rispettare le regole per essere rispettati
RispondiEliminaE' drammaticamente vero.
EliminaSembra che ci sia stata un'ubriacatura collettiva (simile a quella che viene descritta nel film di Fellini che citavo) e che poi, man mano che usciamo dalla "sbornia", scopriamo attoniti di non avere a disposizione uscite di sicurezza: siamo lì, in una stanza fatta a pezzi, e non possiamo far altro che scervellarci per capire come rimettere insieme i cocci, se vogliamo riprenderci. Il guaio è che da un bel po' siamo fermi a questo punto: qualcuno pensa di cavarsela ancora con lazzi e scomposti schiamazzi, senza nulla comprendere e nulla concludere, ma molti altri si rigirano i cocci fra le mani, perplessi e angosciati.