Ci
raccontano le statistiche che l'Italia ha una pessima collocazione in
graduatorie “prestigiose” che valutano il grado di corruzione
presente nei vari Paesi, e di conseguenza non gode di un'ottima
reputazione.
Anche
nell'esperienza quotidiana ci sembra di percepire disfunzioni che
collochiamo “istintivamente” nella categoria della “corruzione”;
sappiamo dunque, da varie fonti (non esclusa la nostra diretta
percezione), che esiste un problema chiamato “corruzione”. Siamo
persino portati talvolta a indignarci per la presenza di un tale
problema e ci domandiamo cosa si possa fare per risolverlo – o ci
chiediamo spazientiti come mai i governi non si decidano ad
affrontarlo a viso aperto (a parte qualche provvedimento eclatante
che – temiamo – è destinato a rimanere perlopiù inattuato, una
volta spentisi i riflettori dell'opinione pubblica).
Eppure
forse questo fenomeno non lo conosciamo davvero. Voglio dire:
nonostante la nostra indignazione, non è detto che sapremmo
rispondere in maniera chiara se un “marziano”, ignaro di “cose
terrestri”, ci chiedesse, dopo aver ascoltato le nostre invettive:
ma insomma, che cosa è la corruzione?
Accade
per la corruzione ciò che accade anche in altri casi, per altri
fenomeni anche molto conosciuti e discussi: quel che a prima vista
sembra “semplice” e intuitivo, di fatto non si può comprendere a
fondo se non attraverso un'attenta riflessione, che “smontando”
un fenomeno complesso e portandone alla luce le sue componenti (come
si può fare col meccanismo di un orologio vecchio stile,
fatto di ingranaggi, molle, ecc., la cui esistenza di solito
ignoriamo, giacché “lavorano” internamente al riparo dai nostri
sguardi), ci permette di scoprirne la “meccanica”, che una volta
svelata può modificare l'idea che inizialmente ci siamo fatti del
fenomeno stesso, delle sue cause, delle sue “dinamiche”, ecc.
Innanzitutto
la corruzione si può analizzare sotto diversi profili, e non è
indifferente il punto di vista dal quale la si considera, poiché
esso ci induce a privilegiare un aspetto
del fenomeno complessivo
che chiamiamo corruzione, facendoci quasi automaticamente selezionare
alcune “risposte” o strategie piuttosto che (e a discapito di)
altre: ad esempio, possiamo analizzare la corruzione dal punto di
vista giuridico, e
affrontarla come una devianza da combattere, disegnando specifiche
figure di reato; oppure la possiamo analizzare sotto il profilo
economico, e così
facendo la classifichiamo come una distorsione dei mercati e/o del
rapporto fra autorità politiche (amministrazioni pubbliche, decision
makers, ecc.) e soggetti privati
(imprenditori, consumatori, ecc.) che genera diseconomie,
inefficienza, costi eccessivi per la comunità (derivanti da
tangenti, ecc.), nonché distorsioni nei meccanismi della
concorrenza; o ancora, la possiamo analizzare dal punto di vista
sociale e sociologico,
cercando di comprendere quali siano le condizioni (la “cultura
civica”, il tipo di relazioni, ecc.) che favoriscono, in un dato
sistema sociale, l'insorgere ed eventualmente il proliferare di
fenomeni corruttivi; inoltre, la corruzione si può analizzare sotto
il profilo etico; e
così via.
In
ogni caso, quale che sia il punto di vista dell'analisi, non possiamo
sottrarci alla domanda “del marziano”, se vogliamo fare qualche
decisivo passo avanti nella comprensione del fenomeno. Di cosa
stiamo parlando, insomma, quando parliamo di corruzione?
La
corruzione è un
concetto antico, che però inizialmente assumeva un significato
prevalentemente morale, laddove nel mondo contemporaneo è un
concetto prevalentemente socio-politico, o giuridico-economico. La
forte suggestione che derivava dalla sfera etico-morale della prima
accezione storica della corruzione
è rimasta tuttora, anche se il termine designa ormai qualcosa di più
“tecnico”, relativo a condotte e comportamenti (definiti e
codificati, o meglio “proceduralizzati”) della sfera
pratico-politica, e non si riferisce più (necessariamente) a
processi di “disfacimento” delle virtù “originarie ed
essenziali” di una collettività.
Platone,
Aristotele o Machiavelli, nel parlare di corruzione, facevano infatti
riferimento alla “dirittura morale” delle società nel loro
complesso, e non a comportamenti individuali o di gruppo [Trujillo
2002, p. 8]. Oggi, che le società non si possono più
considerare sistemi retti da valori morali coerenti e indiscussi, la
corruzione viene rappresentata perlopiù come un insieme di pratiche
messe in atto da specifici soggetti in vista di determinati scopi
[Trujillo 2002, p. 9].
In
realtà, su questa base, attualmente si elaborano molteplici
definizioni della corruzione: senza entrare qui nel merito di
ciascuna [poiché non si ha la pretesa qui, nel breve spazio di un
post, di parlare in modo esaustivo degli studi intorno alla
corruzione, per i quali si rimanda alla bibliografia riportata alla
fine], si cita, a titolo di esempio, una delle più diffuse, la quale
fa riferimento al rapporto che intercorre fra mandante,
mandatario e cliente,
per sostenere che, la funzione pubblica non essendo altro che
l'esecuzione da parte di un mandatario (il funzionario) di ordini
impartitigli da un mandante (il Parlamento o i politici), si ha
corruzione laddove il mandatario vien meno alla lealtà verso il
mandante per ricavarne beneficio (privato) per sé o per un terzo (il
“cliente”) [Trujillo
2002, p. 10; cfr. Becker e Stigler 1974, Banfield 1975, Rose-Ackerman
1978].
Rispetto
alla concezione antica, c'è stato, in sostanza, un mutamento di
prospettiva, che tuttavia ha conservato quanto di “apocalittico”
implica o richiama il termine “corruzione”. Esso infatti evoca la
disgregazione di un sistema: si è parlato in passato di corruzione
dei costumi o della
civiltà, ad esempio. La
corruzione in senso “tecnico”, contemporaneo, è qualcosa di più
preciso e al tempo stesso più sfuggente; si lega all'abuso di potere
e alla sottrazione di fondi pubblici per fini privati, ma il termine
stesso l'accomuna al “flagello disgregativo” che può portare
alla fine di un'intera civiltà, e non a caso probabilmente.
Infatti
tipico della corruzione, su piccola come su larga scala, è la
scissione tra i valori proclamati e quelli effettivamente perseguiti,
tra le regole pubblicamente riconosciute e sottoscritte (in apparenza
anche dal corrotto) e quelle che vengono in realtà applicate e fatte
valere. In effetti la corruzione ha bisogno di doppiezza: al corrotto
per primo è necessaria, come l'aria che respira, la divaricazione
fra apparenza (proclami pubblici, regole teoricamente vigenti) e
realtà. La corruzione “sistemica” si ha quando un sistema
sociale e politico si è trasformato in un guscio vuoto, nel quale le
leggi, le garanzie dei diritti, la Costituzione stessa sono diventati
paraventi o simulacri ai quali non crede più nessuno – ma che
tuttavia si è costretti a mantenere in vita (forse per darsi un
contegno? Ipocrisia ultimo rifugio contro la disperazione?).
C'è chi
distingue diversi tipi di corruzione e indica nella corruzione
“sistemica” la tipologia più preoccupante – e anche la più
difficile da sanzionare ed estirpare.
Di solito
si considera la corruzione un fenomeno deleterio, che ostacola lo
sviluppo economico, mina le basi della democrazia, svuota di senso le
istituzioni e le Costituzioni, diffonde la sfiducia fra i cittadini,
incrina la morale pubblica, spreca o dirotta illecitamente le risorse
pubbliche e danneggia il Welfare, ritorcendosi a danno dei più
bisognosi.
Ma se
qualcuno pensa che questa idea della corruzione sia stata sempre
universalmente condivisa, si sbaglia. Anche sotto questo profilo, la
reazione “istintiva” che nutriamo di fronte alla corruzione non
sempre è un buon punto di partenza per comprendere altri punti di
vista, specialmente se riferiti ai cosiddetti Paesi “in via di
sviluppo”.
Qualcuno ha
infatti indicato nella corruzione addirittura un'opportunità
strategica, in alcuni Paesi non sviluppati (e persino in Paesi come
gli Stati Uniti, all'epoca in cui la grande immigrazione europea
creava masse di persone escluse dai canali istituzionali riservati ai
cittadini, le quali non avevano altro sistema per ottenere servizi
che il “favore” clientelare [su questo si veda Merton 1957]).
Questa corrente di pensiero è stata attiva soprattutto negli anni
'60 del XX secolo. Secondo questi autori la corruzione, in condizioni
sociopolitiche non ideali (come quelle dei Paesi “in via di
sviluppo”), pone rimedio, sia pure in maniera non ortodossa e non
legale, a carenze del sistema sociale, come pesanti distorsioni della
libera concorrenza e inefficienza della burocrazia.
Polemizzando
con studiosi considerati “moralisti” [Friedrich 1963; 1972],
alcuni di questi “revisionisti” [Leys 1965] hanno
all'epoca sottolineato che la corruzione ha potuto, in Paesi come
l'URSS, alleviare le condizioni della popolazione, costretta dal
sistema politico-economico e dalle ferree leggi del regime a consumi
al limite della sussistenza. Altri [come Bayley 1966] hanno
sottolineato che a certe latitudini la corruzione contribuisce alla
stabilità e alla “governabilità” del sistema e consente di
“umanizzare” le relazioni economiche in sistemi incentrati sulle
relazioni personali e quindi non avvezzi alla macchina istituzionale
“impersonale” e razionale.
Il più
importante dei “revisionisti” è stato però forse Nye [si
veda Nye 1967], per il quale, considerati “costi e benefici”
della corruzione (e pur mettendo in dubbio che i secondi superino
effettivamente i primi), in Stati inefficienti e incapaci di
raccogliere risorse e riscuotere tributi, Stati afflitti per di più
dalla scarsezza di capitali privati, la corruzione consente di
drenare risorse e creare capitali, che in quelle particolari
disperate condizioni “sistemiche” diventano preziosi per lo
sviluppo economico (in certi casi e circostanze, insomma, la corruzione sarebbe una fonte vitale di “accumulazione
originaria”). Naturalmente si tratta di una “possibilità” che
non sempre si realizza, riconosce lo stesso Nye (talora i capitali
finiscono semplicemente in comodi forzieri esteri). Inoltre, a suo
parere, la corruzione in quei Paesi favorisce l'integrazione
nazionale e riduce i conflitti interni all'élite di potere, che
altrimenti potrebbero dar luogo a guerre civili.
C'è
chi mette in evidenza come da queste considerazioni si possano trarre
almeno due elementi condivisibili [Huber 2005, p. 12]: la
definizione di cosa si debba intendere per corruzione cambia nel
corso della storia, e dunque ciò che ieri sembrava pratica normale
nelle relazioni sociali, può oggi essere considerata pratica
corruttiva [si veda anche Mastropaolo 2011, p. 301]; inoltre,
la corruzione è un fenomeno negativo solo se e finché la
legislazione o l'ordinamento coi quali entra in contrasto sono
eticamente e socialmente preferibili [insomma, la corruzione che
aiuta ad alleviare l'indigenza e la fame indotte da sistemi politici
inefficienti, disumani e non democratici non è moralmente
condannabile (“corruzione di sopravvivenza” o “di resistenza”):
caso sollevato da Bayley].
In
ogni caso, uno dei problemi notevoli che la corruzione implica (o
accentua sino a livelli insostenibili) è la tendenza a far prevalere
le relazioni interpersonali sul merito e sulle capacità dei singoli.
Ogni volta che questa stortura si verifica, vuol dire che da qualche
parte (in qualche concorso, in qualche gara d'appalto, ecc.) qualcuno
ha fatto una partita a carte con un mazzo truccato: la posta in gioco
sono sì in primo luogo le risorse pubbliche (dilapidate dai “bari”),
ma anche il rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni (che ad
ogni “partita truccata” giocata s'incrina un po' di più), e di
conseguenza la credibilità di queste ultime; e infine – last
but not least, è il caso di dire – ciò che viene danneggiato
molto spesso da simili “partite” è l'efficienza della pubblica
amministrazione. Non sempre lo si sottolinea a dovere.
Per dirla in
parole povere, quando a un buon “giovane talento” viene
preferito, per qualche incarico pubblico, un “segnalato speciale”
da qualcuna delle infinite cordate del clientelismo, a rimetterci
saranno gli utenti del servizio, che dovranno vedersela con
funzionari incompetenti ma “ben protetti”. I “talenti
umiliati”, a lungo andare, emigreranno (quando non accetteranno di
svolgere lavori al di sotto delle loro capacità reali) e la
collettività s'impoverirà progressivamente in termini di saperi,
efficienza, ma anche di intraprendenza (non è irragionevole pensare
che l'eccesso di corruzione e clientelismo, o di “corruzione
clientelare”, generi prima o poi rassegnazione e “depressione
sociale”).
Una
delle sottospecie più diffuse di queste “partite truccate”,
ovvero il clientelismo, fanno notare alcuni studiosi, non
coincide esattamente con la corruzione propriamente detta,
però è certo che i due fenomeni spesso interagiscono fra loro, si
sovrappongono e si alimentano a vicenda (l'humus socio-culturale
grazie al quale si sviluppano e prosperano è il medesimo).
L'incapacità
di ridurre l'influenza di questi fenomeni costituisce, in alcuni
Paesi, una “promessa non mantenuta” della democrazia, in quanto
quest'ultima non dovrebbe, stando al proprio “DNA”
politico-valoriale, tollerare il riprodursi di ingiustificate
sperequazioni fra i gruppi e i ceti sociali. Il clientelismo è in
gran parte un residuo del potere dei cosiddetti notabili, e
dunque si serve del potere acquisito attraverso i canali democratici
(elezioni, ecc.) per attuare una politica (se così possiamo
definirla...) non-democratica.
[Mastropaolo
2011, pp. 293-295]
La
corruzione, tuttavia, non riesce di per sé a incrinare il rapporto
di fiducia fra elettori ed eletti. Sembra esserci anzi una
discrepanza significativa fra le aspettative di moralità dichiarate
dai cittadini e il loro comportamento elettorale. [Mastropaolo
2011, pp. 300-301]
In
sostanza i cittadini, anche in Paesi come l'Italia, sembrano
rassegnati alla corruzione dei detentori di cariche pubbliche, in
base al principio “per qualcuno bisogna pur votare”: la
corruzione risulta un “peccato veniale” se ad essa si
accompagna la “capacità di fare” (ovvero la capacità di
risolvere problemi economici e sociali e di impostare politiche: si
chiede insomma ai politici di essere davvero policy makers,
qualità che compenserebbe, a detta di parte dell'opinione
pubblica, qualche “vizio” o “vizietto”).
In
presenza di un orientamento del genere, si può avere l'impressione
che troppe persone non abbiano compreso di potersi sottrarre alla
condizione di sudditi per abbracciare finalmente quella di
cittadini (mutamento che porterebbe a capire come il potere
non sia un destino riservato a qualche notabile, ma una
funzione che in democrazia richiede un'interazione costante,
sempre attiva, vitale e vivace fra “governanti” e “governati”).
Tuttavia
dobbiamo anche capire che si tratta di un passaggio tormentato e non
facile, condizionato dalla “paura di impegnarsi” in prima
persona, elemento da non sottovalutare, giacché sta alla base stessa
della concezione più diffusa della delega (che non è però
l'unica possibile), intesa dai più come quella cosa che consente di
cedere ad altri la responsabilità di assumere decisioni (che come
ogni responsabilità comporta anche rischi), in cambio della
tranquillità della vita privata. Forse si potrebbero
immaginare ricerche su questa “propensione alla delega”, con veri
e propri “criteri di misurazione” dell'intensità della
propensione stessa. Quanto maggiore è l'intensità di tale
propensione in soggetti o gruppi, tanto minore è probabilmente la
volontà di “monitorare” effettivamente, con una partecipazione
“attiva”, l'operato dei detentori di cariche pubbliche – e di
conseguenza, tanto minore è la reattività nei confronti dei
fenomeni di corruzione (o tanto più alta è la “benevola
tolleranza” nei suoi confronti).
La
cultura civica [per un classico studio sulla tradizione
civica in Italia, si veda Putnam 1993], che forse
necessita di ulteriori analisi e approfondimenti, gioca probabilmente
un ruolo cruciale nell'atteggiamento che si ha nei confronti della
“delega” e della corruzione.
E'
anche la sua costitutiva invisibilità a garantire alla corruzione un
margine di incertezza nella pubblica opinione, una terra di
nessuno, nella quale non è sempre ben chiaro quale comportamento
sia grave e quale no, quale atto corruttivo sia scusabile e quale
inaccettabile. [Mastropaolo 2011, p. 301]
Laddove
la luce non arriva a illuminare i contorni delle cose,
l'immaginazione è sovrana e i resoconti sono interamente affidati
all'arbitrio dei testimoni.
L'esistenza
di una terra di nessuno, dove l'occhio della pubblica consapevolezza
non deve spingersi, sembra far comodo a tutti gli attori politici:
«La difficoltà a definire la corruzione
conviene peraltro ai corruttori e ai corrotti, agli attori economici
e a quelli politici, ai funzionari amministrativi, spessissimo
coinvolti anch'essi, e persino a chi svolge alla luce di criteri
politici azione di denuncia – forze politiche, media, ecc. – i
quali tutti concorrono a elaborare complesse strategie di
classificazione, banalizzazione, depistaggio, riscrittura di norme e
procedure e quant'altro. Come stupirsi allora se, interrogati
specificamente sul punto, gli elettori, pur disapprovando la
corruzione, dissocino moralità e capacità di governo?
Ovvero:
non solo gli elettori sono in disaccordo con se stessi, ma
l'intensità della critica verso le pratiche definite giuridicamente
corrotte varia sensibilmente dall'una all'altra.» [Mastropaolo
2011, pp. 301-302]
La
corruzione diventa spesso un'arma della lotta politica che ciascuno
adopera esclusivamente contro la parte avversa, e viene in sostanza
strumentalizzata (sicché l'indignazione “moralista” è
piegata alle esigenze della propaganda di parte), in base al
principio: “vedo il corrotto nel campo avversario e non lo
giustifico a nessun costo, anzi lo segnalo affinché sia
squalificato; i corrotti presenti nel mio campo politico non li vedo,
e se anche talvolta fossero talmente evidenti da non poterli
ignorare, giustificherei le loro azioni in qualche modo, giovandomi
dei confini incerti fra illecito, indegno e indecoroso (e mirando
perciò a trovare pezze d'appoggio retoriche per tutto quel che non è
illecito oltre ogni ragionevole dubbio)”.
E'
un atteggiamento riconducibile allo “spirito di fazione” o allo
“spirito di corpo” (o anche di “corporazione”), in qualche
misura fisiologico nella vita associata. Infatti non vale solo per la
competizione politica, ma anche per il mondo delle professioni, per
le “questioni di campanile” o di condominio, eccetera.
A
volte diventa però l'unico parametro col quale si è disposti a
valutare la realtà, e qui comincia il problema.
Quando
in noi scatta il meccanismo del “ragionamento corporativo” o
“fazioso”, dovremmo cercare di bloccare i motori e fermarci a
riflettere, ripetendoci una frase come: “Ecco, ci sto cascando
anch'io. Ma devo proprio farlo?”.
Se
riuscissimo a fare questa sosta dei pensieri (e delle
recriminazioni), ci accorgeremmo perlomeno che il “meccanismo”
avvolge e coinvolge anche noi e ha plasmato almeno in parte le nostre
abitudini.
Non
è però soltanto la nostra visione selettiva dei
comportamenti scorretti altrui, e in primis della corruzione e
del clientelismo, a favorire in qualche modo il perpetuarsi dei
comportamenti stessi. Riprendiamo le considerazioni su accennate
sulla corruzione (e sul clientelismo) “di sopravvivenza”: quando
combattiamo o deprechiamo la corruzione, dobbiamo stare attenti a
concentrare realmente su quella le sanzioni e gli strali,
affinché questi non finiscano per colpire di fatto il bisogno di
sopravvivere (quando questo è effettivamente coinvolto nella
faccenda).
Se
e quando la corruzione o il clientelismo sono un rimedio
necessario a un'ingiustizia sociale, è l'ingiustizia che dobbiamo
combattere, affinché il rimedio cessi di essere necessario. Sembra
semplice da comprendere, perfino scontato, eppure nella realtà dei
fatti il nodo viene perlopiù eluso, ignorato o mistificato. Infatti
a volte si preferisce tollerare benevolmente tali forme di corruzione
con un apparentemente comprensivo e umanitario “Poverini, devono
pur campare”, che – pur prendendo atto del problema e della
necessità di porvi rimedio – di fatto lascia che il rimedio
continui a essere la “via traversa”, e dunque non risolve
assolutamente nulla. Oppure, al contrario, si solleva il
sopracciglio, indignati, ignorando il bisogno a cui quella
pratica corruttiva risponde, e – ancor prima di conoscere fatti,
circostanze, traversie – si pronuncia una condanna morale
onnicomprensiva, che censura tanto l'atto corruttivo quanto lo stato
di bisogno che l'ha generato, considerati entrambi rami di una stessa
“cattiva pianta” (come se la virtù potesse sempre e in
ogni caso vantare diritti di precedenza sul bisogno). In
entrambi i casi, si rimane al di qua della vera questione e si
esprimono giudizi “all'ingrosso”, sia pure per moventi e motivi
differenti.
Da
parte degli studiosi si mira di solito a trovare rimedi “da
laboratorio” a un problema complesso, che può trovare soluzione
solo “sul campo”, tenendo cioè conto delle peculiarità dei
singoli Paesi e aree geografiche e culturali: come si è accennato,
forse bisogna tener presente soprattutto la cultura civica radicata
nelle singole realtà nazionali o locali per comprendere le ragioni
della diffusione e le peculiarità della corruzione in quelle aree.
Qualcuno,
partendo da un punto di vista classicamente liberale, accusa lo Stato
sociale generato dalla democrazia contemporanea e i suoi poteri
“ipertrofici” di essere la causa prima della corruzione [Cubeddu
1994]: secondo questa tesi, insomma, non c'è Stato
“ipertrofico-burocratico” che non sia corrotto; l'unico rimedio
consisterebbe nel ritorno a uno “Stato minimo” che rinunci a
regolare in modo invasivo la vita della collettività e dei singoli e
a gestire ingenti risorse pubbliche. Altri, invece, partendo da un
punto di vista marxista-leninista, vedono la causa della corruzione
nello “Stato borghese”, e anzi ritengono che la corruzione sia un
falso problema (enfatizzato da un'impostazione moralistica e
“perbenista”, tipica della falsa coscienza borghese), poiché il
vero, gigantesco problema è il classismo dello Stato, che genera
mostri. Sono due concezioni per qualche aspetto opposte, anche se per
entrambe il problema è altrove: per la prima lo Stato sociale
è la “deviazione” che genera corruzione e lo “Stato minimo”
liberale è il bene da perseguire (o almeno è il “male minimo”,
che in quanto tale riduce sensibilmente i rischi connessi
all'esercizio del potere); per la seconda lo Stato liberale è in sé
un male (anche nella sua versione più accattivante e ingannevole, lo
Stato sociale) e la corruzione tutt'al più non ne è che uno dei
sintomi.
Sta
di fatto che anche nei regimi “liberali puri” e nei regimi del
cosiddetto “socialismo reale” si sono registrati (e/o si
registrano ancora) fenomeni più o meno vasti di corruzione. Non
sembra esserci dunque, a dispetto delle derive agiografiche di certe
tesi, un regime costitutivamente immune dalla corruzione “per sua
intrinseca virtù”. In poche parole, possiamo dire che la
corruzione è “trasversale” agli ordinamenti politici e si
ritrova ovunque vi sia una struttura verticale di potere.
[Bisogna
precisare comunque che non tutti i liberali e non tutti i marxisti
sostengono certe tesi; almeno, non coloro che fanno dell'analisi dei
fatti e delle evidenze un compito prioritario rispetto a quella che
definirei l'“utopia polemica”.]
La
corruzione può essere interpretata secondo una prospettiva
moralistico-apocalittica, di “decadimento dei costumi” o della
“civiltà” o dei “valori universali” (ecc.), oppure secondo
una prospettiva pratico-politica, che si interroga sulle effettive
manifestazioni della corruzione (o meglio: di ciò che in un dato
momento percepiamo come corruzione), per risalire alle cause e
individuare rimedi, e in definitiva per circoscrivere il significato
stesso del termine corruzione evitando che “esondi” e si
trasformi di fatto, oltre che in una (illusoria e “non
falsificabile” [nell'accezione popperiana]) chiave di lettura delle
catastrofi epocali, in un concetto evanescente e “disincarnato” –
che può contenere tutto e niente (e a tutto e niente riferirsi e
rinviare).
Nonostante
le apparenze, l'accezione pratico-politica del termine “corruzione”
è quella che ci consente di analizzare il fenomeno per come
effettivamente si manifesta, e farne una “fotografia” più o meno
nitida; quella moralistico-apocalittica ci consente forse di lanciare
invettive retoricamente più suggestive, facendo dell'oggetto
dell'indignazione il Male per antonomasia, ma cessati i furori
oratori e le filippiche d'occasione, non riuscendo a mettere a fuoco
il bersaglio dei suoi nobili strali, consegna prima o poi tutta la
faccenda alla fatalità della “natura umana” (o a fatalismi di
seconda mano, come “tutto il mondo è paese”, “l'occasione fa
l'uomo ladro”, “sii sincero, tu al suo posto cosa faresti”,
ecc.).
E
forse, prima di immaginare come estirpare per via amministrativa o
giudiziaria la corruzione (attraverso un'accurata “radiografia
giuridica” delle fattispecie di reato ad essa connesse), bisogna
comprenderne – come qualche studioso recentemente suggerisce – le
radici antropologiche [Huber 2005], delle quali ben pochi si
occupano e preoccupano. In un fenomeno del genere non sono coinvolti
soltanto gli individui e le istituzioni, ma soprattutto le reti
sociali. E si può per caso sanzionare efficacemente, attraverso gli
ordinari mezzi “tecnici” del diritto o dell'economia
(disincentivi, ecc.), il reticolo di legami sociali che costituisce
un labirinto impenetrabile per chi non conosca il senso che ogni
specifica cultura, in maniere originali e non replicabili, gli
attribuisce?
Piuttosto,
come si diceva un tempo, il lavoro da compiere – quello decisivo e
incisivo – è politico e culturale e non può essere tanto
impaziente da fermarsi a una sola generazione.
E
a proposito di “culture” (a mo' di riflessione conclusiva)
L'obiezione
che a volte viene posta a chi critica i fenomeni di corruzione –
obiezione che si può riassumere nella formula: “Perché, tu
cosa faresti?” (ribadita in questa forma o in qualcuna delle sue infinite varianti, ad es., in certi commenti su vari forum del Web o su social network) – dimostra in fondo l'esistenza di una cultura
diffusa. Chi pone quella domanda retorico-provocatoria ribadisce,
nell'atto stesso di enunciarla, l'adesione acritica a una
particolare visione del mondo; dà per scontato, in sostanza, che si
dia solo una possibilità: l'accettazione dell'esistente stato
di cose. La domanda sottintende: “Tu non potresti far altro che
agire nello stesso modo”. E così facendo (o meglio, sostenendo
surrettiziamente), dà per dimostrato proprio ciò che in realtà
avrebbe l'onere di dimostrare.
[Succede
qualcosa di analogo a ciò che avviene nell'utilizzo retorico
dell'accusa di invidia: si attribuisce all'interlocutore
un'intenzione tutta da dimostrare, e che anzi l'interlocutore è
nell'impossibilità di smentire efficacemente, e si svia così
l'attenzione dell'uditorio dal tema dell'iniquità a quello, più
materiale (in senso grossolano), anche perché “epidermico” e
“mediaticamente gestibile” (attraverso i codici del gossip o
della denigrazione sommaria), dell'invidia.]
Ma
dire “Tu non potresti far altro che agire nello stesso modo”
equivale a sostenere che esiste una sola cultura, un solo codice di
comportamento possibile, e quindi equivale ad escludere ogni
possibilità di modificare l'ordine delle cose esistente. E' il
tipico codice retorico pseudo-realista, che, ostentando
polemicamente l'adesione al “reale stato delle cose”, di
fatto sostiene che la realtà (ammesso che si possa ricondurre a
un'unica entità coerente) è unica, eterna e immutabile, e così
facendo mira, nell'atto stesso in cui mitizza “il Reale” (come
unico Bene, contrapposto al Male degli “idealismi”), a
monopolizzare il suo uso simbolico-retorico (“solo io conosco la
realtà e posso definirla, parlarne e delimitarne i confini, in
quanto realista”) e a riprodurre quindi all'infinito
questa e questa sola immagine della realtà.
Ma
chi può dimostrare che non c'è in assoluto altra scelta? Chi può
dire che l'interlocutore della domanda di cui sopra non agirebbe in
modo diverso, posto davanti al bivio?
Probabilmente
la domanda in questione sottintende un altro, ancor più sottile
significato: chi la pone o la ripropone pescandola dal bagaglio delle
“frasi fatte”, vuol riservarsi la possibilità di ripetere a
proprio vantaggio il comportamento stigmatizzato dall'interlocutore:
il “fatalismo” apparente del “così fan tutti” serve a
crearsi un alibi.
Proprio
facendo implicitamente riferimento a un (vero o presunto) sentire
diffuso, e quindi a una cultura (o sub-cultura), quella domanda –
“Perché, tu cosa faresti?” ovvero “Ma andiamo, in
quella situazione tu non avresti fatto la stessa cosa?” –
consente a chi la pone di lasciarsi uno spiraglio per poter poi dire,
in modo implicito o esplicito (a seconda delle situazioni o dei
contesti): “Io per esempio farei lo stesso”. In tal modo
non si nega completamente che il comportamento criticato – la
corruzione, il clientelismo, ecc. – sia in sé un male, se ne può
perfino ammettere la gravità; e tuttavia, nelle circostanze
reali (cioè di questa Realtà Unica e Immodificabile,
ecc. ecc.), non si può fare a meno di ripeterlo e riprodurlo,
perché così fan tutti o così si è sempre fatto o
tanto le cose non cambieranno mai, ecc. ecc. (a piacere...).
Questo
sdoppiamento continuo fra il si dovrebbe fare X e il però
si fa Y, con le sottili e quotidiane strategie retoriche
(peraltro collaudate da lunga abitudine) che lo sorreggono e lo
rendono in effetti possibile, dimostra – già alla superficie dei
comportamenti diffusi, prima ancora di scavare “sotto la crosta”
con raffinate ricerche – l'influenza decisiva delle (apparentemente
impalpabili e sfuggenti) culture e mentalità (spesso
tramandate attraverso le generazioni e le reti sociali) nel
riproporsi e riprodursi di certi fenomeni deleteri, che
coscientemente sacrificano l'etica pubblica e il senso civico,
ma anche il benessere della collettività, ecc.. Ovvero, chi pone la
domanda di cui sopra sa che l'etica pubblica e il senso civico
richiederebbero un altro comportamento: dunque non è una domanda che
denota ingenuità o ignoranza (di ciò che è bene): tutt'altro. Il
riferimento implicito, equivalente a una strizzata d'occhio, a un
terreno di conoscenze comune che sta dietro la domanda esplicita –
“Suvvia, sappiamo bene come vanno certe cose, in realtà”
– mira a ribadire la liceità (di solito, non in senso giuridico,
ma sotto forma di accettabilità sociale “informale”) e
l'inevitabilità della doppiezza (“sì, certo, in
astratto si dovrebbe fare X, ma nella Realtà è inevitabile fare
Y”), che è l'alimento primario, benché posto al riparo da
occhi “indiscreti” (o disattenti, per accidente o per
“strategia”), della corruzione nelle sue varie forme.
E
se “sappiamo come vanno certe cose”, e ci scambiamo tutti
strizzatine d'occhi senza neppure accennare a una reazione diversa,
ribadiamo all'infinito che siamo tutti “amichevolmente complici”:
dunque, nessun colpevole. Le cose possono restare come sono, e
lo pseudo-realismo riesce ad avverare le proprie profezie. O no? Non
è così che “funziona” (si fa per dire...)?
Testi
citati:
-
[Banfield 1975]: E. Banfield, Corruption As Feature of
Government Organization, in
«Journal
of Law and Economics», 18, pp. 587-605.
-
[Bayley 1966]: D.H. Bayley, The Effects of
Corruption in a Developing Nation (1966),
in A.J. Heidenheimer – M. Johnston – V.T. Levine (a cura di),
Political Corruption. A Handbook,
Transaction Publishers, London – New Brunswick 1997.
-
[Becker e Stigler 1974]: G. Becker – G.J. Stigler, Law
Enforcement, Malfeance and the Compensation of Enforces,
in «Journal
of Legal Studies», 3, pp. 1-19.
-
[Cubeddu 1994]: R. Cubeddu, Democrazia,
liberalismo, corruzione,
in «Ragion Pratica», II, n. 3, pp. 12-25.
-
[Friedrich 1963]: C.J. Friedrich, Man and His
Government: An Empirical Theory of Politics,
McGraw-Hill, New York.
-
[Friedrich 1972]: C.J.
Friedrich, The Pathology of Politics: Violence,
Betrayal, Corruption, Secrecy, and Propaganda,
Harper & Row, New York.
-
[Huber 2005]: L. Huber, Una interpretación antropológica
de la corrupción, ricerca
svolta per il “Consorcio de Investigación Económica y Social”
del Perù,
http://cies.org.pe/investigaciones/otros-sectores/interpretacion-antropologica-corrupccion/en-el-peru
-
[Leys 1965]: C. Leys, What
is the Problem About Corruption?,
in «The Journal of Modern African Studies», 3, n. 2, pp. 215-230.
-
[Mastropaolo 2011]: A. Mastropaolo, La
democrazia è una causa persa? Paradossi di un'invenzione imperfetta,
Bollati Boringhieri, Torino.
-
[Merton 1957]: R.K. Merton, Social
Theory and Social Structure,
Free Press, Glencoe (Ill.) // ediz. it.: Teoria
e struttura sociale,
Il Mulino, Bologna 1959.
[Nye
1967]: J.S. Nye, Corruption
and Political Development: A Cost-Benefit Analysis,
in «American Political Science Review», 5, n. 1, pp. 417-427.
-
[Putnam 1993]: R.D. Putnam, Making
Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy,
Princeton University Press, Princeton (N.J.) // ediz. it.: La
tradizione civica nelle regioni italiane,
Mondadori, Milano 1993.
-
[Rose-Ackermann 1978]: S. Rose-Ackermann, Corruption:
A Study On Political Economy,
Academic Press, New York.
-
[Trujillo 2002]: A.M. Arjona Trujillo, La
corrupción política: una revisión de la literatura,
Documentos de Trabajo, 02-14, Universidad Carlos III de Madrid –
Departamento de Economía,
http://e-archivo.uc3m.es/bitstream/handle/10016/38/de021404.pdf?sequence=1
.
Nota
bibliografica finale
Abbastanza
recente è l'interesse degli studiosi italiani in merito al tema
della corruzione. Relativamente pochi specialisti vi si sono
dedicati, ma esistono alcune pubblicazioni importanti sull'argomento,
che ormai costituiscono un punto di riferimento anche all'estero.
Senza
pretese di esaustività e di completezza, si segnalano qui di séguito
alcuni saggi pubblicati in Italia, frutto di progetti di ricerca
nostrani (si tratta prevalentemente di ricerche in àmbito
politologico; sono esclusi i saggi di carattere strettamente
giuridico, poiché – trattando di specifiche norme – non sono
direttamente connessi alle questioni discusse nel post):
- Luciano
Barca e Sandro Trento (a cura di), L'economia
della corruzione,
Laterza, Roma-Bari 1994.
- Marco
D'Alberti e Renato Finocchi (a cura di), Corruzione
e sistema istituzionale,
Il Mulino, Bologna 1994.
- Donatella
Della Porta – Alberto Vannucci, Corruzione
politica e amministrazione pubblica. Risorse, meccanismi, attori,
Il Mulino, Bologna 1994.
- D.
Della Porta e Yves Mény (a cura di), Corruzione
e democrazia. Sette Paesi a confronto,
Liguori, Napoli 1995.
- Mauro
Magatti, Corruzione
politica e società italiana,
Il Mulino, Bologna 1996.
- A.
Vannucci, Il mercato
della corruzione. I meccanismi dello scambio occulto in Italia,
Società Aperta, Milano 1997 (pref. di A. Pizzorno).
- Raffaella
Coppier, Corruzione e
crescita economica. Teorie ed evidenze di una relazione complessa,
Carocci, Roma 2005.
- D.
Della Porta – A. Vannucci, Mani
impunite. Vecchia e nuova corruzione in Italia,
Editori Laterza, Roma-Bari 2007.
- Maurizio
Bortoletti, Corruzione.
Le verità nascoste tra rischio oggettivo e percezione soggettiva,
Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.
- A.
Vannucci, Atlante della
corruzione,
Gruppo Abele, Torino 2012.
- Nadia
Fiorino – Emma Galli, La
corruzione in Italia. Un'analisi economica,
Il Mulino, Bologna 2013.
- Luciano
Hinna – Mauro Marcantoni, Corruzione.
La tassa più iniqua,
Donzelli, Roma 2013.
Mi avresti dovuto corrompere per farmi leggere l'intero post... ma non m'hai chiesto neanche l'IBAN...
RispondiEliminaVolendo si può leggere a puntate o a tappe... Dovrebbero fornire segnalibri "virtuali" ai lettori di blog :-)
EliminaSono più portato al ragionamento e all'analisi che alla sintesi, specialmente se un tema cattura il mio interesse.
Infatti non sono attratto da Twitter, non è quello lo "spazio" a me congeniale; molto meglio, per me, navigare tra i blog (e ogni tanto mettere qui qualche contributo mio).
Lo so, i tempi che viviamo, e lo stesso Web, prediligono la sintesi estrema; ma purtroppo varie volte la sintesi portata all'eccesso favorisce gli slogan e i luoghi comuni - e io, piuttosto che esserne il milionesimo ripetitore, preferisco smontarli.
Leggo dei consiglieri torinesi che giustificano le loro malefatte con estrema naturalezza ("nella realtà è inevitabile fare Y").
RispondiEliminaPerdona la sintesi, ma è questi che smonterei.