Una
“diaspora” e possibili ritorni
A
quanto pare, in Irlanda hanno deciso di incentivare i loro emigrati a
tornare [vedere qui]; hanno ritenuto opportuno e necessario,
anzi prioritario, investire su questa politica.
Una
vera rivoluzione da noi si avrà quando sulla stampa potremo leggere
di un governo italiano che abbia preso misure simili. (Non discuto sui contenuti specifici di quella decisione dell'Irlanda, che andranno valutati: è la decisione in sé ad avere importanza, come fatto politico.)
Certo
– si dirà – il caso irlandese è diverso, lì la percentuale di
emigrati sul totale della popolazione è particolarmente elevata, lì
hanno risolto alcuni problemi a monte, e ora possono permettersi di
spalancare le porte a chi è andato via. Sì, sì, certo, eppure
questo non basta a spiegare la differenza radicale del nostro
atteggiamento.
Fatto
sta che dall'Italia si continua ad emigrare, nell'indifferenza
pressoché generale delle istituzioni.
[Ma
c'è il programma sul “rientro dei cervelli”, direte!... Beh, a
parte che questa espressione, nella sua bruttezza, già dice molto
sul modo con cui vengono pensate e progettate certe politiche, con un
occhio più alla propaganda giornalistico-mediatica che alla
sostanza, c'è da dire che, se parliamo del quadro complessivo e non
di singoli casi, i risultati ottenuti – tra complicazioni
burocratiche, limitazioni di budget e quant'altro – non mi sembrano
eclatanti. Non è, tutto sommato, a tutt'oggi una politica che il
governo considera davvero cruciale o prioritaria. Non quanto il “Jobs
Act”, in ogni caso...]
“Emigri?
Problemi tuoi... Anzi, meglio così: un problema in meno da
risolvere, per me” sembrano ragionare i nostri decision makers.
Che in questo – nonostante tutta la loro patina di “modernità”
– appaiono fermi al 1800-primo Novecento e al “cinismo sociale”
delle classi dirigenti di quell'epoca (l'emigrazione era vissuta con
sollievo dai governanti dell'Italia di allora; nemmeno ci si poneva
il dubbio che si dovesse cercare piuttosto di costruire un'economia
votata all'inclusione).
Per
parte mia, ho sempre pensato che un Paese che – nei suoi massimi
rappresentanti – ragiona in questo modo (anche se non in maniera
esplicita [il che è anche peggio: c'è l'aggravante dell'ipocrisia])
non ha uno Stato degno di tale qualifica: uno Stato infatti deve
preoccuparsi dei propri cittadini e non fare in modo (con azioni
oppure con colpevoli omissioni) che questi, per vivere
dignitosamente, siano costretti ad andar via.
Tuttavia
non si possono attribuire tutte le colpe allo Stato, o meglio alle
politiche dei suoi istituzionali rappresentanti: talvolta (il più
delle volte?) si emigra perché ci si sente estranei, o tagliati
fuori, rispetto alle logiche prevalenti nella società nella quale si
è nati o cresciuti.
So
che alcuni obiettano che l'emigrazione “è una scelta”: in fondo
– essi sostengono – un posto, se uno è “volenteroso”, qui da
noi lo può sempre trovare; chi emigra vuole insomma “di più” di
quello che “già ha” o potrebbe avere, non si “accontenta”;
ma il volere di più – dicono questi “critici” – non è
un problema del quale dovrebbero farsi carico lo Stato o la società
nel suo complesso.
In
realtà, questa obiezione risulta, a ben guardare, una banalizzazione
del problema.
Tanto
per cominciare, in Italia il tema dell'emigrazione si intreccia con
la questione del divario fra Nord e Sud (nella quale, come si
comprenderà, è inutile addentrarsi per l'ennesima volta. Per chi è
interessato ad approfondimenti, esiste una vastissima letteratura in
merito, che è pressoché costantemente aggiornata.)
Va
notato poi che c'è qualcosa di strano – perlomeno! – nel fatto
che i giovani italiani (anche meridionali...) raggiungono un livello
di conoscenze e competenze non inferiore a quello di altri (bagaglio
culturale, know how, ecc.),
eppure non trovano
collocazione adeguata all'interno del “mercato del lavoro” del
loro Paese.
Per
l'Italia tutti quei giovani sono, come minimo, altrettante occasioni
sprecate. Possiamo permetterci
uno sperpero così grande di energie, competenze, risorse?
Il
problema si accentua se consideriamo il caso dei giovani meridionali:
al Sud le occasioni sprecate sono quasi all'ordine del giorno, paesi
e talora anche grandi città si vanno svuotando, perché i giovani
emigrano in gran parte, non sperando di poter “guadagnarsi il pane”
decentemente nei loro luoghi natii.
Non
è una questione urgente da risolvere, questa?
Se
si ascoltano le ragioni di quei giovani, anziché bollarli a priori
come “schizzinosi” che non si vogliono davvero “rimboccare le
maniche”, e dei quali non è quindi il caso di occuparsi, si
capisce la loro rabbia o la loro frustrazione nell'essere relegati
sempre nella corsia dell'attesa, nel non veder riconosciuti il
loro lavoro, le loro capacità, la loro fatica.
Se
li si ascolta davvero, ti raccontano della realtà che vedono e
vivono qui, e che è tutta a loro svantaggio; ti raccontano di un
Paese dove predominano furbi e furbetti, nel quale chi furbo o
furbetto non è, o non conosce potenti o clan che gli spianino la
strada, e ciononostante non intende fare lo schiavo sottopagato a
vita (per giunta in troppi casi alle dipendenze di un datore di
lavoro o di un “capo” palesemente non all'altezza della
situazione e tuttavia favorito o sponsorizzato da una “cerchia che
conta”), non ha altra scelta che emigrare, se vuole valorizzare i
propri talenti e dunque (le due cose sono strettamente
collegate) vedersi rispettato nella propria dignità.
Non
è questione di “pubblico” o “privato”, non prendiamoci in
giro. Le logiche clientelari (o amicali, di clan, ecc.) si infiltrano
dappertutto, quando una società ne è impregnata fino alla radice.
Se
li ascolti davvero, ti raccontano che quando vedi qualcuno intascare
stipendi indebitamente, oppure condurre una vita dispendiosa senza
aver mai lavorato in vita propria (il trucco sta nel nascere nel
“clan” giusto) – N.B.: nel primo caso si può trattare anche di
dipendente pubblico, nel secondo no – e rifletti contemporaneamente
su quanto hai studiato senza mai ottenere soddisfazione e
riconoscimenti qui, non puoi che provare rabbia. E come evitarlo, se
vuoi essere sincero con te stesso/a?
Chi
emigra quindi non vuole “di più”, non è uno schizzinoso
incontentabile: chi emigra, in molti casi, vorrebbe una società che
non fosse costretta a curvare la schiena sotto il peso di
consorterie, clan & corporativismi.
Se
la gente che emigra è una specie di sollievo per un Paese (“un
problema in meno...”), è inutile interrogarsi sulle “cause della
crisi”. La crisi ce la portiamo addosso, e potremmo vederla – se
solo volessimo – ogni volta che voltiamo la testa da un'altra
parte, specialmente quando siamo in presenza di uno specchio; e
nessun tribuno (abituato d'altra parte ad accarezzare amorevolmente i
nostri vizi e tic sociali per diventare “popolare”) ce ne tirerà
fuori.
Puoi
uscire dall'euro, uscire dal tunnel, o uscire da Maastricht, e poi
entrare nella Santa Alleanza o nella Lega Delio-Attica o in quella
Anseatica se preferisci, ma nonostante tutto rischi di rimanere
quello che sei.
Riflettendo
spassionatamente: “meritocrazia”, contraddizioni e “capitalismo
inefficiente”
Dopo
l'onda di considerazioni “a caldo”, derivanti, per quanto mi
riguarda, da vari colloqui e conversazioni avuti con “giovani
emigranti” di oggi, conviene tuttavia soffermarsi a mente fredda su
alcuni aspetti della questione.
La
riflessione sugli emigrati si intreccia con quella sul concetto di
merito, oggi molto usato,
anzi abusato.
Trovo
quindi necessario fare alcune precisazioni. L'idea di “meritocrazia”,
a parte la bruttezza del termine (ancora una volta significativa...),
funziona ahimè come il classico specchietto per le allodole. Chi si
batte sinceramente ovvero ingenuamente (dunque senza secondi fini)
per l'avvento di una società basata sul merito, è destinato a
scoprire presto o tardi che si tratta di un disegno dal significato
volutamente ambiguo in
un sistema che per sua stessa natura si muove secondo logiche del
tutto estranee a un'idea ottimale di promozione sociale dei più
preparati e competenti (indipendentemente dalla loro provenienza di
ceto, di classe, di clan, ecc.), che pur talora proclama
strumentalmente di volere; inoltre, il “merito” è cosa diversa
dalla capacità,
concetto che utilizzo di preferenza.
Il
“merito” è infatti un concetto che richiama l'idea di selezione
dei migliori, eco di un
“darwinismo sociale” piuttosto duro a morire, nella teoria come
nella pratica.
L'idea
del “merito” non sfugge quindi alla suggestione visiva di una
società articolata nella forma di una piramide, anzi va a
giustificare il perpetuarsi di una subordinazione fondata su presunti
dati oggettivi o “naturali”.
“Meritocrazia”
vuol dire infatti che chi “merita” deve stare in cima alla
piramide; e coloro che “non meritano” devono semplicemente
accettare decisioni e scelte prese dai “meritevoli” e soprattutto
essere da questi giudicati e sanzionati.
Il
concetto di merito implica insomma l'esistenza di un demerito,
che è il suo opposto speculare. La funzione della meritocrazia,
ancor prima di preoccuparsi dei meriti, è quella di selezionare i
“non meritevoli” da sanzionare e da punire; ma non
necessariamente li sanziona o li punisce attivamente – il più
delle volte non lo fa, in realtà – giacché l'apparato
“meritocratico” è lo strumento politico-sociale adatto per
giustificare la loro marginalizzazione o discriminazione, specie
quando queste sono già in atto.
Qualsiasi
gruppo o soggetto discriminato o marginalizzato può essere
presentato come “non meritevole”, e quindi può vedersi
“attribuire” la sua condizione di esclusione come un giusto
destino, una giusta conseguenza per il suo demerito: tutto sta a
scegliere oculatamente i criteri in base ai quali misurare i meriti.
Infatti,
chi merita? Ossia, in sostanza: chi decide sui criteri
coi quali il merito va misurato, se non coloro che già sono nella
posizione di decidere (ovvero in cima alla piramide immaginaria)?
Per
definizione, chi è ammesso a determinate funzioni-chiave merita
considerazione: il suo “posto” dunque gli/le spetta
indiscutibilmente. Ma di fatto, se sono salvate le forme (la
“correttezza della procedura”), indipendentemente dalla bontà o
dalla correttezza del giudizio dei “già-meritevoli-giudicanti”
(sempre opinabile), anche la sostanza è salva: chi ottiene la
patente di meritevole, lo è a tutti gli effetti per il solo fatto
che gli/le è stata data. E' in quella patente
infatti che consiste il merito, e non in altro – al contrario di
quanto pensano gli adepti più ingenui della “meritocrazia”.
Ecco
perché presto o tardi chi affronta le “prove” previste dal
sistema si accorge della vuotezza dell'idea di merito intesa
erroneamente come riscatto rispetto all'ingiustizia derivante dagli
“arbitri dei singoli”.
La
società “piramidale” o gerarchica, in qualsiasi sua forma (di
ceto, classista, razzista, ecc.), per riprodurre se stessa, non può
sfuggire alla logica della cooptazione, per quanto riveduta e
corretta.
La
capacità si lega
invece alle attitudini che ciascuno/a, in una società complessa, può
coltivare e sviluppare [non tutti sanno “fare tutto” con lo
stesso livello di competenza, questo è innegabile: c'è chi realizza
meglio di altri nella propria città oggetti di terracotta, chi
meglio di altri sa eseguire al piano una sonata di Beethoven, chi
fabbrica scarpe comode e resistenti, ecc.]; le capacità di ciascuno,
in una società strutturata secondo giustizia, dovrebbero essere
messe a frutto senza preclusioni o veti (i peggiori sono quelli
ufficialmente non dichiarati e tuttavia applicati nei fatti)
nell'interesse generale, e inoltre armonizzarsi, cooperare, anziché
sovrapporsi secondo un rigido ordine gerarchico.
Ma
tornando al tema, a parte i casi di coloro che desiderano trasferirsi
comunque altrove per una propria propensione a staccarsi dal luogo
natio (e a sperimentare la vita in altre aree del mondo), gli
emigrati odierni (e non solo loro...) vivono sulla loro pelle il
divario fra le promesse dei governi e delle istituzioni, da un lato,
e i “fatti”, dall'altro.
Se
lo studio e i buoni risultati conseguiti nel percorso formativo e
scolastico da parte dei giovani corrispondono ad un'apertura di
credito da parte delle istituzioni – “Ti offro la possibilità di
apprendere, in modo che tu, se ti applichi, possa poi svolgere il
lavoro o esercitare la professione che hai scelto e che meriti”
– nel momento in cui il percorso giunge al termine e il giovane si
affaccia nel mondo del lavoro, il credito improvvisamente viene
rinnegato e la promessa implicita in quel “Ti offro (ecc.)” non
viene mantenuta.
Gli
emigrati sono coloro che non si sono arresi, e hanno preteso di
riscuotere altrove – presso contraenti meno infidi – quanto era
stato loro promesso; il loro valore sul mercato altrove viene
compreso e apprezzato; e così semplicemente – i liberisti di
stretta osservanza possono specialmente comprenderlo – cercano di
piegare in qualche modo a loro vantaggio la “legge”
del miglior offerente.
E
perché altrove ci sono migliori opportunità? Cosa manca a un Paese
come l'Italia? Forse uno dei “pezzi mancanti” più vistosi è la
capacità di perseguire l'efficienza, che è invece assillo
imprescindibile per i sistemi economici che vogliano essere
“competitivi” secondo le schiette “leggi” del capitalismo.
Il
“sistema Italia” vuole collocarsi nel capitalismo, ma senza
prendere realmente sul serio l'obiettivo dell'efficienza. Non ci si
preoccupa della contraddizione e, confidando nella “buona stella”
che del resto campeggia sullo stemma nazionale, ci si ingegna a fare
il minimo indispensabile affinché il meccanismo non collassi nel
breve periodo (sembra quasi che le energie migliori di esperti e
burocrati vengano impiegate per escogitare sistemi che consentano di
rinviare sine die il rendiconto). E questo soprattutto perché
qui la ricchezza, per quanto attiene al suo scopo prioritario, è
ancora intesa principalmente – se si considera la mentalità
diffusa che influenza poi orientamenti e comportamenti – come
rendita, piuttosto che come capitale da investire: in certi
ambienti sociali e in certe zone sembra che quest'ultimo sia solo un
ripiego, un surrogato rispetto all'obiettivo principale, che è
ereditato dalla società signorile, mai in effetti del tutto morta in
Italia.
Solo
un sistema che snobba (noblesse oblige) l'utilizzo ottimale
delle sue energie (competenze, ecc.) e risorse può concedersi il
lusso di “sprecare” le sue potenziali capacità (i giovani in
possesso di conoscenze teoriche e tecniche, ecc.).
Tuttavia
non bisognerebbe dimenticare che le promesse non mantenute dei
governi, più che la pura e semplice “molla del bisogno”,
sono la causa principale di rivolte e anche di rivoluzioni.
In
altre epoche, con questi dati – lo dico con una punta di
provocazione e “ironia paradossal-passionale” – si sarebbe
potuto sottolineare che gli emigrati, se volessero, ovvero se
avessero piena coscienza del loro ruolo e della loro condizione
sociale, potrebbero costituire l'asse portante di un movimento
rivoluzionario. Chi meglio di loro potrebbe inchiodare il sistema
alle sue contraddizioni e “responsabilità”?
Ovviamente
ci vorrebbe una “internazionale degli emigrati”...
P.S.:
Giusto
a mo' di annotazione finale... Per quanto riguarda in particolare il
Sud, proposte come quella formulata da Saviano qualche tempo fa
[vedere qui] andrebbero incrementate, discusse, ulteriormente
articolate, tradotte in azioni... ma, ripeto, non mi sembra che
immaginare e costruire percorsi e opportunità per il ritorno degli
emigrati sia seriamente considerato parte dell'agenda delle nostre
priorità.
Sarà
perché per accingersi a una tale impresa non basta annunciare
trionfi su Twitter, ma bisogna arrecare un “salutare disturbo”
(politicamente troppo rischioso per... chi vuole “vincere facile”
nell'immediato) ad abitudini, mentalità ed equilibri consolidati
della nostra società?
Meritocrazia è davvero un termine orrendo. Dietro io vedo solo l’affermazione di quello che tu chiami giustamente “darwinismo sociale”. Il concetto di merito è troppo aleatorio. Chi decide il merito? Coloro che detengono il potere, che stanno in cima alla piramide, scrivi tu. In fondo il merito di un individuo in una società di schiavi è solo quello di obbedire. Chi china il capo merita, gli altri vanno eliminati. Esagero?
RispondiEliminaNo, non credo che tu esageri. Un sistema che proclama di premiare il merito e i meritevoli, prima di dare questo "premio", allestisce i modelli da additare. E' "meritevole" chi segue il modello. Però poi nessuno può essere sicuro di essersi avvicinato al modello al punto tale da meritare il "premio" per la sua fatica.
EliminaChi decide sul merito? - è questa la domanda chiave, che si traduce immediatamente nell'altra: chi rintraccia i "segni" del merito nella realtà? - Ovvero: chi indica concretamente chi merita e chi no? Dovrebbe trattarsi di un gruppo di persone, o anche di un meccanismo, a prova di errore e di parzialità (di qualunque genere quest'ultima sia), ma nella realtà difficilmente è così. E anche laddove i meccanismi di selezione del merito sembrano "meno parziali", resta il problema dell'esclusione dei "non meritevoli".
Se - per fare un esempio - in un Paese X gli studi universitari hanno costi molto elevati, sicché solo i figli di famiglie benestanti possono permettersi di pagare iscrizione, college, ecc., l'eventuale "benevola concessione" di ammettere i non abbienti "meritevoli" grazie al supporto di borse di studio cospicue non basta a cancellare l'elitarismo insito nella "concessione su base meritocratica" delle borse di studio: infatti i giovani appartenenti a famiglie benestanti possono in ogni caso, anche se "negati" per lo studio (ipotesi estrema), accedere agli studi universitari, a differenza degli altri, che debbono invece sottoporsi a una selezione, dall'esito sempre aleatorio. I non abbienti sono quindi in sostanza, nell'esempio in questione, "non meritevoli fino a prova contraria", devono dimostrare - secondo criteri predisposti dai "già meritevoli" - di essere all'altezza del "modello"; i benestanti invece possono pagare il costo che consente loro di evitare l'esame sulle loro attitudini, ovvero pagando confermano di far parte dell'élite a priori, senza bisogno di ulteriori prove: sono "meritevoli fino a prova contraria". E da questo esempio (non lontano da certe realtà...) credo si comprenda abbastanza bene come possa essere "disegnato sapientemente" il merito di un sistema "meritocratico"...
In tal modo, tra l'altro, chi non fa parte dell'élite (sociale, professionale, ecc.) ma aspira a entrare nel suo "cerchio magico", diventa il sostenitore più zelante del sistema: gli/le sembra di essere sempre a un passo dal sogno; gli/le sembrerà sempre più, man mano che si addentrerà nella "carriera", che siano giusti i meccanismi di esclusione, avrà sempre meno legami con la terra dalla quale si allontana (i non fortunati, i non meritevoli che si lascia alle spalle), alla fine non comprenderà più la lingua del suo luogo natio (fuor di metafora, la sua condizione sociale precedente, la solidarietà con i ragazzi o ex ragazzi dei quali è stato compagno di studi, o di quartiere, o di speranze, ecc.). Sarà salito un po' su nella piramide, il suo "sguardo dall'alto" non potrà più essere quello di una volta; non ci sarà più niente da contestare per lui/lei; sarà convinto/a ormai di meritare completamente quel che ha ottenuto, e guai a chi sostiene il contrario.
Sarà quindi perfettamente convertito alla causa. Il concetto chiave è: Non c'è posto per tutti, mi dispiace. Se volessi far entrare anche voi, in che cosa mi distinguerei? E da chi?