Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

venerdì 13 marzo 2015

Ancora emigrazione per i giovani italiani: ora come allora è opera imperscrutabile del Fato?

Una “diaspora” e possibili ritorni

A quanto pare, in Irlanda hanno deciso di incentivare i loro emigrati a tornare [vedere qui]; hanno ritenuto opportuno e necessario, anzi prioritario, investire su questa politica.

Una vera rivoluzione da noi si avrà quando sulla stampa potremo leggere di un governo italiano che abbia preso misure simili. (Non discuto sui contenuti specifici di quella decisione dell'Irlanda, che andranno valutati: è la decisione in sé ad avere importanza, come fatto politico.)

Certo – si dirà – il caso irlandese è diverso, lì la percentuale di emigrati sul totale della popolazione è particolarmente elevata, lì hanno risolto alcuni problemi a monte, e ora possono permettersi di spalancare le porte a chi è andato via. Sì, sì, certo, eppure questo non basta a spiegare la differenza radicale del nostro atteggiamento.

Fatto sta che dall'Italia si continua ad emigrare, nell'indifferenza pressoché generale delle istituzioni.




[Ma c'è il programma sul “rientro dei cervelli”, direte!... Beh, a parte che questa espressione, nella sua bruttezza, già dice molto sul modo con cui vengono pensate e progettate certe politiche, con un occhio più alla propaganda giornalistico-mediatica che alla sostanza, c'è da dire che, se parliamo del quadro complessivo e non di singoli casi, i risultati ottenuti – tra complicazioni burocratiche, limitazioni di budget e quant'altro – non mi sembrano eclatanti. Non è, tutto sommato, a tutt'oggi una politica che il governo considera davvero cruciale o prioritaria. Non quanto il “Jobs Act”, in ogni caso...]

Emigri? Problemi tuoi... Anzi, meglio così: un problema in meno da risolvere, per me” sembrano ragionare i nostri decision makers. Che in questo – nonostante tutta la loro patina di “modernità” – appaiono fermi al 1800-primo Novecento e al “cinismo sociale” delle classi dirigenti di quell'epoca (l'emigrazione era vissuta con sollievo dai governanti dell'Italia di allora; nemmeno ci si poneva il dubbio che si dovesse cercare piuttosto di costruire un'economia votata all'inclusione).

Per parte mia, ho sempre pensato che un Paese che – nei suoi massimi rappresentanti – ragiona in questo modo (anche se non in maniera esplicita [il che è anche peggio: c'è l'aggravante dell'ipocrisia]) non ha uno Stato degno di tale qualifica: uno Stato infatti deve preoccuparsi dei propri cittadini e non fare in modo (con azioni oppure con colpevoli omissioni) che questi, per vivere dignitosamente, siano costretti ad andar via.

Tuttavia non si possono attribuire tutte le colpe allo Stato, o meglio alle politiche dei suoi istituzionali rappresentanti: talvolta (il più delle volte?) si emigra perché ci si sente estranei, o tagliati fuori, rispetto alle logiche prevalenti nella società nella quale si è nati o cresciuti.

So che alcuni obiettano che l'emigrazione “è una scelta”: in fondo – essi sostengono – un posto, se uno è “volenteroso”, qui da noi lo può sempre trovare; chi emigra vuole insomma “di più” di quello che “già ha” o potrebbe avere, non si “accontenta”; ma il volere di più – dicono questi “critici” – non è un problema del quale dovrebbero farsi carico lo Stato o la società nel suo complesso.

In realtà, questa obiezione risulta, a ben guardare, una banalizzazione del problema.

Tanto per cominciare, in Italia il tema dell'emigrazione si intreccia con la questione del divario fra Nord e Sud (nella quale, come si comprenderà, è inutile addentrarsi per l'ennesima volta. Per chi è interessato ad approfondimenti, esiste una vastissima letteratura in merito, che è pressoché costantemente aggiornata.)

Va notato poi che c'è qualcosa di strano – perlomeno! – nel fatto che i giovani italiani (anche meridionali...) raggiungono un livello di conoscenze e competenze non inferiore a quello di altri (bagaglio culturale, know how, ecc.), eppure non trovano collocazione adeguata all'interno del “mercato del lavoro” del loro Paese.

Per l'Italia tutti quei giovani sono, come minimo, altrettante occasioni sprecate. Possiamo permetterci uno sperpero così grande di energie, competenze, risorse?

Il problema si accentua se consideriamo il caso dei giovani meridionali: al Sud le occasioni sprecate sono quasi all'ordine del giorno, paesi e talora anche grandi città si vanno svuotando, perché i giovani emigrano in gran parte, non sperando di poter “guadagnarsi il pane” decentemente nei loro luoghi natii.
Non è una questione urgente da risolvere, questa?

Se si ascoltano le ragioni di quei giovani, anziché bollarli a priori come “schizzinosi” che non si vogliono davvero “rimboccare le maniche”, e dei quali non è quindi il caso di occuparsi, si capisce la loro rabbia o la loro frustrazione nell'essere relegati sempre nella corsia dell'attesa, nel non veder riconosciuti il loro lavoro, le loro capacità, la loro fatica.

Se li si ascolta davvero, ti raccontano della realtà che vedono e vivono qui, e che è tutta a loro svantaggio; ti raccontano di un Paese dove predominano furbi e furbetti, nel quale chi furbo o furbetto non è, o non conosce potenti o clan che gli spianino la strada, e ciononostante non intende fare lo schiavo sottopagato a vita (per giunta in troppi casi alle dipendenze di un datore di lavoro o di un “capo” palesemente non all'altezza della situazione e tuttavia favorito o sponsorizzato da una “cerchia che conta”), non ha altra scelta che emigrare, se vuole valorizzare i propri talenti e dunque (le due cose sono strettamente collegate) vedersi rispettato nella propria dignità.

Non è questione di “pubblico” o “privato”, non prendiamoci in giro. Le logiche clientelari (o amicali, di clan, ecc.) si infiltrano dappertutto, quando una società ne è impregnata fino alla radice.

Se li ascolti davvero, ti raccontano che quando vedi qualcuno intascare stipendi indebitamente, oppure condurre una vita dispendiosa senza aver mai lavorato in vita propria (il trucco sta nel nascere nel “clan” giusto) – N.B.: nel primo caso si può trattare anche di dipendente pubblico, nel secondo no – e rifletti contemporaneamente su quanto hai studiato senza mai ottenere soddisfazione e riconoscimenti qui, non puoi che provare rabbia. E come evitarlo, se vuoi essere sincero con te stesso/a?

Chi emigra quindi non vuole “di più”, non è uno schizzinoso incontentabile: chi emigra, in molti casi, vorrebbe una società che non fosse costretta a curvare la schiena sotto il peso di consorterie, clan & corporativismi.

Se la gente che emigra è una specie di sollievo per un Paese (“un problema in meno...”), è inutile interrogarsi sulle “cause della crisi”. La crisi ce la portiamo addosso, e potremmo vederla – se solo volessimo – ogni volta che voltiamo la testa da un'altra parte, specialmente quando siamo in presenza di uno specchio; e nessun tribuno (abituato d'altra parte ad accarezzare amorevolmente i nostri vizi e tic sociali per diventare “popolare”) ce ne tirerà fuori.

Puoi uscire dall'euro, uscire dal tunnel, o uscire da Maastricht, e poi entrare nella Santa Alleanza o nella Lega Delio-Attica o in quella Anseatica se preferisci, ma nonostante tutto rischi di rimanere quello che sei.


Riflettendo spassionatamente: “meritocrazia”, contraddizioni e “capitalismo inefficiente”

Dopo l'onda di considerazioni “a caldo”, derivanti, per quanto mi riguarda, da vari colloqui e conversazioni avuti con “giovani emigranti” di oggi, conviene tuttavia soffermarsi a mente fredda su alcuni aspetti della questione.

La riflessione sugli emigrati si intreccia con quella sul concetto di merito, oggi molto usato, anzi abusato.
Trovo quindi necessario fare alcune precisazioni. L'idea di “meritocrazia”, a parte la bruttezza del termine (ancora una volta significativa...), funziona ahimè come il classico specchietto per le allodole. Chi si batte sinceramente ovvero ingenuamente (dunque senza secondi fini) per l'avvento di una società basata sul merito, è destinato a scoprire presto o tardi che si tratta di un disegno dal significato volutamente ambiguo in un sistema che per sua stessa natura si muove secondo logiche del tutto estranee a un'idea ottimale di promozione sociale dei più preparati e competenti (indipendentemente dalla loro provenienza di ceto, di classe, di clan, ecc.), che pur talora proclama strumentalmente di volere; inoltre, il “merito” è cosa diversa dalla capacità, concetto che utilizzo di preferenza.

Il “merito” è infatti un concetto che richiama l'idea di selezione dei migliori, eco di un “darwinismo sociale” piuttosto duro a morire, nella teoria come nella pratica.
L'idea del “merito” non sfugge quindi alla suggestione visiva di una società articolata nella forma di una piramide, anzi va a giustificare il perpetuarsi di una subordinazione fondata su presunti dati oggettivi o “naturali”.

Meritocrazia” vuol dire infatti che chi “merita” deve stare in cima alla piramide; e coloro che “non meritano” devono semplicemente accettare decisioni e scelte prese dai “meritevoli” e soprattutto essere da questi giudicati e sanzionati.

Il concetto di merito implica insomma l'esistenza di un demerito, che è il suo opposto speculare. La funzione della meritocrazia, ancor prima di preoccuparsi dei meriti, è quella di selezionare i “non meritevoli” da sanzionare e da punire; ma non necessariamente li sanziona o li punisce attivamente – il più delle volte non lo fa, in realtà – giacché l'apparato “meritocratico” è lo strumento politico-sociale adatto per giustificare la loro marginalizzazione o discriminazione, specie quando queste sono già in atto.

Qualsiasi gruppo o soggetto discriminato o marginalizzato può essere presentato come “non meritevole”, e quindi può vedersi “attribuire” la sua condizione di esclusione come un giusto destino, una giusta conseguenza per il suo demerito: tutto sta a scegliere oculatamente i criteri in base ai quali misurare i meriti.

Infatti, chi merita? Ossia, in sostanza: chi decide sui criteri coi quali il merito va misurato, se non coloro che già sono nella posizione di decidere (ovvero in cima alla piramide immaginaria)?

Per definizione, chi è ammesso a determinate funzioni-chiave merita considerazione: il suo “posto” dunque gli/le spetta indiscutibilmente. Ma di fatto, se sono salvate le forme (la “correttezza della procedura”), indipendentemente dalla bontà o dalla correttezza del giudizio dei “già-meritevoli-giudicanti” (sempre opinabile), anche la sostanza è salva: chi ottiene la patente di meritevole, lo è a tutti gli effetti per il solo fatto che gli/le è stata data. E' in quella patente infatti che consiste il merito, e non in altro – al contrario di quanto pensano gli adepti più ingenui della “meritocrazia”.

Ecco perché presto o tardi chi affronta le “prove” previste dal sistema si accorge della vuotezza dell'idea di merito intesa erroneamente come riscatto rispetto all'ingiustizia derivante dagli “arbitri dei singoli”.

La società “piramidale” o gerarchica, in qualsiasi sua forma (di ceto, classista, razzista, ecc.), per riprodurre se stessa, non può sfuggire alla logica della cooptazione, per quanto riveduta e corretta.

La capacità si lega invece alle attitudini che ciascuno/a, in una società complessa, può coltivare e sviluppare [non tutti sanno “fare tutto” con lo stesso livello di competenza, questo è innegabile: c'è chi realizza meglio di altri nella propria città oggetti di terracotta, chi meglio di altri sa eseguire al piano una sonata di Beethoven, chi fabbrica scarpe comode e resistenti, ecc.]; le capacità di ciascuno, in una società strutturata secondo giustizia, dovrebbero essere messe a frutto senza preclusioni o veti (i peggiori sono quelli ufficialmente non dichiarati e tuttavia applicati nei fatti) nell'interesse generale, e inoltre armonizzarsi, cooperare, anziché sovrapporsi secondo un rigido ordine gerarchico.

Ma tornando al tema, a parte i casi di coloro che desiderano trasferirsi comunque altrove per una propria propensione a staccarsi dal luogo natio (e a sperimentare la vita in altre aree del mondo), gli emigrati odierni (e non solo loro...) vivono sulla loro pelle il divario fra le promesse dei governi e delle istituzioni, da un lato, e i “fatti”, dall'altro.

Se lo studio e i buoni risultati conseguiti nel percorso formativo e scolastico da parte dei giovani corrispondono ad un'apertura di credito da parte delle istituzioni – “Ti offro la possibilità di apprendere, in modo che tu, se ti applichi, possa poi svolgere il lavoro o esercitare la professione che hai scelto e che meriti” – nel momento in cui il percorso giunge al termine e il giovane si affaccia nel mondo del lavoro, il credito improvvisamente viene rinnegato e la promessa implicita in quel “Ti offro (ecc.)” non viene mantenuta.

Gli emigrati sono coloro che non si sono arresi, e hanno preteso di riscuotere altrove – presso contraenti meno infidi – quanto era stato loro promesso; il loro valore sul mercato altrove viene compreso e apprezzato; e così semplicemente – i liberisti di stretta osservanza possono specialmente comprenderlo – cercano di piegare in qualche modo a loro vantaggio la “legge” del miglior offerente.

E perché altrove ci sono migliori opportunità? Cosa manca a un Paese come l'Italia? Forse uno dei “pezzi mancanti” più vistosi è la capacità di perseguire l'efficienza, che è invece assillo imprescindibile per i sistemi economici che vogliano essere “competitivi” secondo le schiette “leggi” del capitalismo.

Il “sistema Italia” vuole collocarsi nel capitalismo, ma senza prendere realmente sul serio l'obiettivo dell'efficienza. Non ci si preoccupa della contraddizione e, confidando nella “buona stella” che del resto campeggia sullo stemma nazionale, ci si ingegna a fare il minimo indispensabile affinché il meccanismo non collassi nel breve periodo (sembra quasi che le energie migliori di esperti e burocrati vengano impiegate per escogitare sistemi che consentano di rinviare sine die il rendiconto). E questo soprattutto perché qui la ricchezza, per quanto attiene al suo scopo prioritario, è ancora intesa principalmente – se si considera la mentalità diffusa che influenza poi orientamenti e comportamenti – come rendita, piuttosto che come capitale da investire: in certi ambienti sociali e in certe zone sembra che quest'ultimo sia solo un ripiego, un surrogato rispetto all'obiettivo principale, che è ereditato dalla società signorile, mai in effetti del tutto morta in Italia.

Solo un sistema che snobba (noblesse oblige) l'utilizzo ottimale delle sue energie (competenze, ecc.) e risorse può concedersi il lusso di “sprecare” le sue potenziali capacità (i giovani in possesso di conoscenze teoriche e tecniche, ecc.).

Tuttavia non bisognerebbe dimenticare che le promesse non mantenute dei governi, più che la pura e semplice “molla del bisogno”, sono la causa principale di rivolte e anche di rivoluzioni.

In altre epoche, con questi dati – lo dico con una punta di provocazione e “ironia paradossal-passionale” – si sarebbe potuto sottolineare che gli emigrati, se volessero, ovvero se avessero piena coscienza del loro ruolo e della loro condizione sociale, potrebbero costituire l'asse portante di un movimento rivoluzionario. Chi meglio di loro potrebbe inchiodare il sistema alle sue contraddizioni e “responsabilità”?

Ovviamente ci vorrebbe una “internazionale degli emigrati”...


P.S.:
Giusto a mo' di annotazione finale... Per quanto riguarda in particolare il Sud, proposte come quella formulata da Saviano qualche tempo fa [vedere qui] andrebbero incrementate, discusse, ulteriormente articolate, tradotte in azioni... ma, ripeto, non mi sembra che immaginare e costruire percorsi e opportunità per il ritorno degli emigrati sia seriamente considerato parte dell'agenda delle nostre priorità.

Sarà perché per accingersi a una tale impresa non basta annunciare trionfi su Twitter, ma bisogna arrecare un “salutare disturbo” (politicamente troppo rischioso per... chi vuole “vincere facile” nell'immediato) ad abitudini, mentalità ed equilibri consolidati della nostra società?

2 commenti:

  1. Meritocrazia è davvero un termine orrendo. Dietro io vedo solo l’affermazione di quello che tu chiami giustamente “darwinismo sociale”. Il concetto di merito è troppo aleatorio. Chi decide il merito? Coloro che detengono il potere, che stanno in cima alla piramide, scrivi tu. In fondo il merito di un individuo in una società di schiavi è solo quello di obbedire. Chi china il capo merita, gli altri vanno eliminati. Esagero?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. No, non credo che tu esageri. Un sistema che proclama di premiare il merito e i meritevoli, prima di dare questo "premio", allestisce i modelli da additare. E' "meritevole" chi segue il modello. Però poi nessuno può essere sicuro di essersi avvicinato al modello al punto tale da meritare il "premio" per la sua fatica.
      Chi decide sul merito? - è questa la domanda chiave, che si traduce immediatamente nell'altra: chi rintraccia i "segni" del merito nella realtà? - Ovvero: chi indica concretamente chi merita e chi no? Dovrebbe trattarsi di un gruppo di persone, o anche di un meccanismo, a prova di errore e di parzialità (di qualunque genere quest'ultima sia), ma nella realtà difficilmente è così. E anche laddove i meccanismi di selezione del merito sembrano "meno parziali", resta il problema dell'esclusione dei "non meritevoli".
      Se - per fare un esempio - in un Paese X gli studi universitari hanno costi molto elevati, sicché solo i figli di famiglie benestanti possono permettersi di pagare iscrizione, college, ecc., l'eventuale "benevola concessione" di ammettere i non abbienti "meritevoli" grazie al supporto di borse di studio cospicue non basta a cancellare l'elitarismo insito nella "concessione su base meritocratica" delle borse di studio: infatti i giovani appartenenti a famiglie benestanti possono in ogni caso, anche se "negati" per lo studio (ipotesi estrema), accedere agli studi universitari, a differenza degli altri, che debbono invece sottoporsi a una selezione, dall'esito sempre aleatorio. I non abbienti sono quindi in sostanza, nell'esempio in questione, "non meritevoli fino a prova contraria", devono dimostrare - secondo criteri predisposti dai "già meritevoli" - di essere all'altezza del "modello"; i benestanti invece possono pagare il costo che consente loro di evitare l'esame sulle loro attitudini, ovvero pagando confermano di far parte dell'élite a priori, senza bisogno di ulteriori prove: sono "meritevoli fino a prova contraria". E da questo esempio (non lontano da certe realtà...) credo si comprenda abbastanza bene come possa essere "disegnato sapientemente" il merito di un sistema "meritocratico"...
      In tal modo, tra l'altro, chi non fa parte dell'élite (sociale, professionale, ecc.) ma aspira a entrare nel suo "cerchio magico", diventa il sostenitore più zelante del sistema: gli/le sembra di essere sempre a un passo dal sogno; gli/le sembrerà sempre più, man mano che si addentrerà nella "carriera", che siano giusti i meccanismi di esclusione, avrà sempre meno legami con la terra dalla quale si allontana (i non fortunati, i non meritevoli che si lascia alle spalle), alla fine non comprenderà più la lingua del suo luogo natio (fuor di metafora, la sua condizione sociale precedente, la solidarietà con i ragazzi o ex ragazzi dei quali è stato compagno di studi, o di quartiere, o di speranze, ecc.). Sarà salito un po' su nella piramide, il suo "sguardo dall'alto" non potrà più essere quello di una volta; non ci sarà più niente da contestare per lui/lei; sarà convinto/a ormai di meritare completamente quel che ha ottenuto, e guai a chi sostiene il contrario.
      Sarà quindi perfettamente convertito alla causa. Il concetto chiave è: Non c'è posto per tutti, mi dispiace. Se volessi far entrare anche voi, in che cosa mi distinguerei? E da chi?

      Elimina

Ogni confronto di idee è benvenuto. Saranno invece rigettati ed eliminati commenti ingiuriosi e/o privi di rispetto, perché non possono contribuire in alcun modo a migliorare il sapere di ciascuno né ad arricchire un dialogo basato su riflessioni argomentate.

Licenza Creative Commons
Questa opera è distribuita con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 3.0 Unported.