Il
dilemma del momento
Non
sembrano esserci dubbi: la disputa del momento è sull'euro.
L'idea
che “non avessimo alternative” migliori dell'ingresso nella
moneta unica non mi ha mai convinto: a mio parere ha rappresentato
fin dall'inizio la parte più debole del ragionamento dei sostenitori
dell'euro. Molti di loro infatti – si ricorderà – tra la fine
degli anni Novanta e i primi anni Duemila affermavano che al di fuori
dell'euro “sarebbe stata la catastrofe” per la lira e per
l'Italia. Non c'è, né mai ci sarà, la prova della fondatezza della
loro asserzione.
Soltanto
con un'operazione fantascientifica (nel senso letterale del termine)
avremmo potuto duplicare la storia italiana, magari creando un
“universo parallelo” e facendo sì che esistessero due Italie
che, nello stesso periodo e alle stesse condizioni (sociali,
economiche, politiche, ecc.), arrivate al bivio, prendessero ciascuna
una strada diversa. Due Italie uguali in tutto salvo che in un
dettaglio: una avrebbe aderito all'euro e l'altra no. Soltanto grazie
a questo esperimento fantascientifico di “duplicazione” avremmo
potuto appurare chi avesse ragione, confrontando giorno dopo giorno
lo “stato di salute” delle “due Italie”; in mancanza di
questa possibilità, i sostenitori dell'euro non possono fregiarsi
del titolo di “salvatori della patria”. Si appuntano da soli la
medaglia sul petto, si sa, ma questo, anche dal punto di vista dello
stile, non è serio...
E'
anche vero, però, che neppure i sostenitori a oltranza della lira
possono dire “senza ombra di ragionevole dubbio” cosa sarebbe
successo se non avessimo aderito alla moneta unica europea, per le
stesse ragioni di cui sopra.
In
casi come questo, è difficile, anzi impossibile, disporre di una
controprova decisiva. Dobbiamo regolarci “a fiducia”... o sulla
base delle impressioni: “oggi sto peggio di ieri; sicuramente con
la lira mi sarebbe andata meglio” (sicuramente? Forse, chissà...).
In
ogni caso, ripeto, non si può sostenere se non in maniera del tutto
arbitraria che “non ci fossero alternative”: la verità è che
abbiamo fatto una scelta, una tra quelle possibili, e l'abbiamo fatta
in condizioni che non sono state determinate dal “caso” o dalla
“natura delle cose”, ma dalla politica (ad es., il meccanismo di
conversione fra lira ed euro); quella scelta, come tutte le scelte,
era soggetta ad errori, abbagli, ecc., dunque non può ritenersi al
riparo da critiche, revisioni, ecc.
Detto
con maggiore chiarezza, abbiamo scommesso sull'euro, fidandoci
di alcuni modelli e di alcune previsioni, ma non disponendo di
elementi sicuri di giudizio (non disponiamo in effetti della “palla
di vetro”... o qualcuno sostiene il contrario?); e le scommesse,
com'è noto a chiunque, si possono anche perdere.
Qualcuno
può far notare, in proposito: “Ma molte scelte che prendiamo,
molte innovazioni sulle quali investiamo, molte riforme che
realizziamo sono in fondo scommesse; certo, prima di imbarcarci in
una nuova impresa, facciamo calcoli, previsioni, non ci muoviamo alla
cieca, ma se dovessimo evitare in modo assoluto il rischio, l'alea,
dovremmo rimanere immobili, come e dove ci troviamo.”
Questo
è senz'altro vero; però un conto è sapere in partenza che
stiamo scommettendo (sulla base di alcuni calcoli e previsioni) su un
percorso dall'esito incerto o comunque non del tutto sicuro; un altro
conto è credere – sulla base di enunciati retorici e
informazioni incomplete o fuorvianti – di essere davanti a una
scelta obbligata, il cui esito è scontato e positivo, e scoprire
soltanto a cose fatte che si trattava di una scommessa.
Il
dibattito politico (e qui la responsabilità è, com'è ovvio,
principalmente di politici e opinion makers “influenti”)
avrebbe dovuto a suo tempo sottolineare pro e contro (e
non soltanto in maniera entusiastica e lirica i “pro”) della
scelta che ci trovavamo ad affrontare (l'abbandono della lira e
l'ingresso nell'euro), mettendo in luce il carattere dilemmatico
della decisione. Lo so, così facendo l'opinione pubblica si sarebbe
potuta “spaventare” e la “festa” dell'adesione all'euro
avrebbe corso il rischio di non poter essere celebrata, con gran disappunto di
coloro che allora suonavano la grancassa a tutto spiano.
In
questi casi si comprende come le nostre classi dirigenti siano
convinte non solo che il popolo “non sa decidere” (il che a
volte può anche essere
confermato dai fatti), ma soprattutto – cosa a mio parere più
grave – che non bisogna dargli gli strumenti per “conoscere e
deliberare”. Non bisogna insomma, a detta di costoro, fornire al
popolo tutti i dati e gli elementi di un problema; non bisogna
presentarglielo come una questione aperta,
rispetto alla quale sono ammessi contributi, osservazioni e
riflessioni da parte di chiunque, bensì come un dilemma
già risolto (dagli “esperti”
e “sapienti” di fiducia dell'élite dirigente), ovvero come un
“non-problema”, sul quale è inutile che la “gente comune”
affatichi le meningi, perché c'è chi ci ha già pensato ed è
arrivato alla giusta conclusione. Dibattito chiuso, dunque; anzi, mai
aperto...
[E,
se ritorniamo un momento sulla questione del popolo che “non sa
decidere”, possiamo renderci conto che – se non vengono fornite
tutte le informazioni necessarie per decidere, se non si dà modo
all'opinione pubblica di aprire un dibattito serio e vasto su temi
importanti come questo – è quasi scontato che poi la cosiddetta
“gente comune” non possa decidere bene...]
Inoltre,
sarebbe buona norma evitare espressioni generiche come “l'euro”
(o qualsiasi altra cosa) “ha fatto bene all'Italia”,
oppure (il che è equivalente) “l'Italia (o il Paese)
ci ha guadagnato”.
Bisognerebbe
infatti essere più accurati e precisi, ovvero meno evasivi, nel
fornire dati e informazioni: quali settori (produttivi e sociali)
del Paese ci hanno guadagnato e quali ci hanno rimesso? Questa è
la domanda più appropriata.
Infatti
è ben difficile che da una riforma o da un'innovazione economica
come la sostituzione della moneta nazionale con l'euro, abbiano
tratto tutti indistintamente e soltanto benefici.
E
i guadagni degli uni hanno compensato le perdite degli altri? Se sì,
in che modo?
E'
stato un bene recare (eventualmente) svantaggi a determinate
categorie sociali o produttive? Se sì, per quale ragione?
Bisognerebbe
dare risposta a questi interrogativi con un'analisi puntuale, seria,
non approssimativa e non reticente. Farei attenzione soprattutto
all'ultima domanda, dato che non è mai una responsabilità da poco
quella di recare nocumento a intere categorie di persone, anche se
talora si ritiene di farlo in nome di “superiori interessi” e
“delle magnifiche sorti e progressive” eccetera. (Dietro le
cifre, le statistiche, di aziende che chiudono, o di disoccupati che
aumentano, ci sono infatti innanzitutto esseri umani: sarà banale
dirlo, ma è utile ad ogni modo ricordarlo in certe circostanze...)
Non
ci sono cambiamenti, riforme e rivoluzioni che portano solo vantaggi
e non danneggiano nessuno: posto che ci è ormai difficile,
smaliziati come siamo, dar credito a certe “meraviglie” simili
alla “chimera” del moto perpetuo, non è indifferente capire se i
vantaggi sono andati prevalentemente a settori già dominanti della
società e dell'economia (leggasi: la classica riforma imposta
dall'alto per salvaguardare determinati interessi elitari) o se
invece si sono distribuiti, per così dire, in maniera equa (è
questa la parola chiave: non basta una distribuzione qualsiasi, un
semplice “premio di consolazione” per gli sconfitti), sia pure in
un lungo lasso di tempo, nella popolazione e specialmente nelle
classi sociali più lontane dalle “cabine di regìa” del sistema.
Fra
i sostenitori dell'uscita dall'euro (alla quale alcuni hanno già trovato un nome pop, “euroexit”),
vi sono teorici ed economisti che elaborano analisi serie,
interessanti, che andrebbero prese in considerazione e non liquidate
con aria di sufficienza e scrollatine di spalle da parte di
chicchessia.
Mi
permetto però di distinguere i teorici ed accademici che riflettono
con scrupolo scientifico sulle opportunità e sulle ricadute positive
offerte dall'ipotesi di uscita dall'euro, nonché sulle conseguenze
che nel breve, medio e lungo periodo si determinerebbero
nell'economia nazionale, e in genere coloro che almeno si informano
con attenzione, da coloro che “a pelle” (in strada, sui social
network, sulla stampa, ma anche nei partiti) pensano che sia meglio
uscire dall'euro, senza tuttavia sottrarsi
alla tentazione ben poco razionale e ragionevole di attribuire a
questo evento auspicato una funzione genericamente salvifica e
psicologicamente “liberatoria”.
I
sostenitori avvezzi più alla tifoseria o alla fede nei “miracoli
terreni” che all'analisi attenta, infatti, non di rado si
avventurano in ragionamenti e discorsi dai quali si evince che
attribuiscono all'uscita dall'euro la capacità di dar vita a una
specie di “età dell'oro”.
Scambiando
qualche parola con alcuni di loro, ho percepito proprio una sorta
di fede incrollabile non in una semplice ripresa dell'Italia, bensì
in un ritorno all'Italia degli anni Ottanta o anche dei primi anni
Sessanta (il favoloso “boom”), e forse anche di più: ho sentito
parlare di piena occupazione, di ricostruzione del tessuto
industriale, di aumento demografico... e tutto questo solo in virtù
del ritorno alla lira. [Per certi versi, sembra riproporsi il gioco
Anche tu economista: mai
le teorie economiche sono state così pop...]
Ho
l'impressione insomma che qualcuno veda nella “riconversione”
alla lira un atto dai contorni favolosi, che agirebbe come una vera e
propria macchina del tempo, in grado di riportarci indietro
negli anni, ripristinando (come minimo!) esattamente le stesse
condizioni economiche e sociali dei periodi che hanno visto l'Italia
crescere, migliorare i livelli di “benessere diffuso”, ecc.
Forse
non conviene spingere i sogni fino a questo punto, a meno che non
vogliamo ricadere ogni volta nello stesso errore...
Lo
so, non è vietato sognare, può fare persino bene. Ma da svegli è
sensato credere sul serio alla macchina del tempo?
Ad
ogni modo non concentriamoci sugli eccessi dell'illusione e tentiamo
di approfondire il ragionamento.
Una
questione politica che viene da lontano
Non
molti anni fa – non molti, sì, anche se sembra passato un secolo –
ovvero all'incirca nel periodo in cui stavamo entrando nell'“universo
di Maastricht”, e ben prima dell'avvento dell'euro [c'era tuttavia
lo SME... e chi lo ricorda più? eppure è stato per anni,
insieme al suo immediato predecessore, il serpente monetario,
la “bestia nera” della politica italiana], la grande paura
dell'economia italiana era rappresentata dai “Cinesi”: ricordo
che all'epoca molti piccoli imprenditori ed esercenti si lamentavano
della concorrenza distruttiva degli Asiatici e invocavano interventi
del governo che non sono mai arrivati (“dovete abituarvi alla
libera concorrenza!” era la parola d'ordine che veniva “dall'alto”). I “competenti”
allora ci spiegavano che non c'era da aver paura “nel lungo
periodo”, perché il nostro know how
e soprattutto la nostra creatività
non avevano paragoni e sulla lunga distanza
avremmo vinto noi con la qualità dei prodotti e dei servizi.
Nel
frattempo in realtà c'è chi ha chiuso i battenti; in alcune zone
d'Italia già allora diverse attività sono state smantellate. La
lunga distanza si è
allungata sempre più... e oggi certi “competenti” fanno finta di
non ricordare quegli accenti trionfalistici.
Una
crisi già allora c'è stata, per alcuni (non pochissimi, però); non
ha fatto notizia, perché non si è estesa a tutti i settori né a
tutte le aree geografiche. (Se gli alberi cadono in zone troppo lontane
dai centri che contano, non fanno notizia, no? Eppure sono alberi caduti esattamente come quelli che vengono registrati dalle statistiche, perché magari crollano al suolo nel bel mezzo del traffico cittadino...)
Adesso
però i “Cinesi” sembrano “archiviati”, eppure sono ancora
là. C'erano prima dell'euro; se l'euro andrà via, andranno via
anche loro?
Questa
è una battuta ovviamente: quel che voglio dire è che l'Italia del
1992-1995 non era già più quella degli anni Ottanta, e men che meno
quella degli anni Sessanta: d'altra parte, chi non ricorda la
“manovrona” del I governo Amato, 1992 (con prelievo forzoso sui
conti correnti, introduzione dell'ISI poi divenuta ICI, ecc.), che
costò grandi amarezze ai contribuenti e alle famiglie italiane? Era
già un segno di crisi profonda dell'Italian way of life,
e soprattutto dei nostri “timonieri” politici e finanziari, che
sembravano navigare a vista... (Basti ricordare, sempre con
riferimento ad Amato e a quell'annus horribilis,
il tentativo da lui fatto di difendere la lira, rivelatosi
controproducente e rimpiazzato poco dopo quindi da una politica di
svalutazione, di segno nettamente opposto, peraltro non annunciata al
Paese nelle dovute forme: della serie “non so dove sto andando, ma
spero che mi vada bene”...).
Il
sistema economico stava già mutando rapidamente a livello mondiale,
e c'era chi a metà degli anni Novanta preconizzava la “fine dello Stato-nazione”,
che sarebbe stato sostituito – a detta di certi guru (come Kenichi
Ohmae) – da un “mix virtuoso” di governo locale e governo
globale, che avrebbe liberato e messo in risalto le energie e le
virtù del mercato, a tutto vantaggio del benessere generale.
Era
un grande affresco, una “narrazione” direbbe qualcuno, che mirava
a presentare nella maniera più accattivante possibile il progetto di
grande liberalizzazione dei mercati finanziari che in quegli anni già
si stava avviando. Come possiamo ora vedere, il declassamento degli
Stati-nazione medi e piccoli da protagonisti a caratteristi di lusso
della scena politica – medi e piccoli, sì, giacché la potenza dei
grandi è tuttora intatta – ha coinciso con la riduzione del
Welfare, ma non ci ha regalato tutte quelle gioie che i guru di cui
sopra ci promettevano: niente Paese dei Balocchi, ahimè...
(Ancora
una volta, vale l'avvertenza di poc'anzi: quando si propagandano
cambiamenti “favolosi”, sarebbe buona norma anche specificare chi
se ne avvantaggerà di più, chi di meno e chi ci rimetterà... anche
a costo di rendere la presunta “buona novella” molto meno
appetibile per i lettori.)
La
“questione dell'euro” non va impostata secondo parametri
economici; è infatti schiettamente politica. Va quindi
ribaltato il discorso circa la “convenienza” o “non
convenienza” dell'andarsene o del restare. Per meglio dire, non possiamo considerare l'autonomia e la libertà di decidere le politiche migliori per il nostro territorio come questioni marginali, che non toccano la convenienza intesa come parametro decisivo in ordine alla valutazione complessiva dell'ipotizzata defezione.
Nell'assetto attuale
dell'Unione Europea, la moneta unica è uno degli elementi che fanno
sì che gli Stati – determinati Stati, per la precisione – siano
“commissariati istituzionalmente” (uno degli invisibili ossimori
della costruzione europea): essi non hanno più una loro politica
economica, giacché devono costantemente chiedere il permesso ad
altri (il “visto”) per poterla attuare.
D'altra
parte, non vi è più una vera “legge finanziaria” intesa come
massimo atto di progettazione della politica economica nazionale,
rimpiazzata com'è da una “legge di stabilità” che non è nulla
senza il placet delle
autorità europee. L'introduzione del cosiddetto Semestre europeo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio
ha completato un'opera in più fasi, che ha avuto e ha come obiettivo
quello di sottoporre gli Stati che hanno sottoscritto i vari patti
legati all'unione monetaria (last, but also
least il Patto di bilancio, il
famigerato “Fiscal Compact”, conosciuto anche come Trattato sulla stabilità, che è stato preceduto dal non meno famigerato Patto di stabilità),
a controlli sempre più stretti circa le decisioni di politica
economica e di bilancio [basti pensare ai “pilastri” su cui
poggia il suddetto Semestre, ovvero il Programma di Stabilità e il
Programma Nazionale di Riforma, vagliati
minuziosamente in sede europea (fateci caso: ma quante volte ricorre il termine stabilità nella normativa e nel lessico politico europei di questi ultimi anni? E quanti “rospi” da ingoiare ci vengono elargiti in suo nome? Sembra ormai davvero una parola-passepartout, da utilizzare quando i policy makers realmente influenti del nostro continente, o le loro “task force” tecniche, ritengono urgente “responsabilizzare” l'opinione pubblica affinché, in nome di un sì nobile principio, accetti di sacrificare ancora un po' quel che resta dell'autonomia dei singoli Paesi...)].
Non
è certo un caso se le procedure connesse all'approvazione di questi
documenti comportano un aumento dei poteri dei governi e dei premier,
a scapito dei Parlamenti. Il modello decisionale ideale dell'Unione
Europea è il “controllo permanente” da parte di un Panopticon
minuziosamente disegnato in forma burocratica, che esige continue
pianificazioni, imperniate essenzialmente su impegni “a riformare”
che gli Stati devono incessantemente sfornare. I governi nazionali
assumono tali impegni e ne sono direttamente responsabili, sicché il
ruolo dei Parlamenti nazionali si riduce a quello di classi di
scolaretti continuamente minacciate di sanzioni disciplinari se “non
ottemperano”. I parlamentari sono messi fra il “martello” del
Panopticon europeo e l'“incudine” del governo nazionale, e non
possono far altro che ottemperare, ottemperare fino
allo sfinimento... Se si sottraggono a questo che è diventato il
loro principale, se non esclusivo, dovere, mettono “nei guai” il
loro Paese (contro il quale vengono avviate procedure che portano a
sanzioni) e “in difficoltà” il governo che “ha preso impegni”
con il Supremo Panopticon.
Che
gli Stati – certi Stati – siano costantemente costretti a
svolgere “compiti a casa” (metafora che sembra entrata ormai, non
a caso, nella retorica ufficiale dei consessi europei) è quantomeno
sconcertante.
Proprio
come in una scuola – di quelle rigide, vecchio stile – i vari
popoli europei si vedono assegnare un punteggio: a ciascuno la
propria “pagella”... I popoli-scolari che non fanno bene i propri compiti vengono costretti a sfilare in cortile indossando orecchie da
somaro, mentre gli altri, popoli-scolari diligenti, con le pagelle a
posto, facendo cerchio con visi minacciosi intorno ai reprobi,
attivano i loro megafoni (stampa, esperti, opinion leaders, ma anche
agenzie di rating all'occorrenza...) per indirizzare grida di
dileggio (i classici “Buuh...”) ai popoli-scolari negligenti.
E
dall'alto, presidi e professori sorridono compiaciuti mentre si
preparano a comminare “sanzioni esemplari” a quei popoli-scolari
che stanno dando “cattivo esempio” e rovinano la “reputazione
della scuola”.
Addirittura,
con una prosa volutamente ambigua, che sembra suggerire più che
imporre ma che di fatto sottintende un obbligo inderogabile [*]
(certo, lo “zelo” di certe maggioranze politiche nazionali, a
volte anche bipartisan, fa il resto...), come compiti a casa vengono
assegnate alcune riforme costituzionali: è il caso della riforma dell'art. 81 della nostra Costituzione (la controversa riforma
che introduce nella nostra Carta fondamentale il principio del pareggio di bilancio).
Se
un'autorità qualunque può imporre a uno Stato la riforma della sua
Costituzione, che è anche l'architrave del suo “patto
sociale”, il ruolo del Parlamento di quel determinato Stato viene
sostanzialmente eroso fino all'osso, giacché si riduce a puro
“contorno”, rappresentazione teatrale come certe
rievocazioni in costume: un puro “omaggio alla tradizione” senza
più alcuna rilevanza politica. E col Parlamento vengono privati di
sostanziale potere i suoi elettori, i cittadini, nel momento stesso
in cui le istituzioni europee formalmente li omaggiano e sembrano
metterli al centro delle proprie preoccupazioni (“Tutto questo lo
facciamo per il vostro bene: tagliamo le unghie e gli artigli di quei
cattivoni dei vostri Stati, accidenti! Dovreste esserci grati!”).
Un modello essenziale di riferimento per la UE sembra essere costituito
dagli USA – basti pensare al fatto che qui gli Stati Uniti vengono costantemente omaggiati e celebrati come “la più grande democrazia del mondo”, il che vorrà pur dire qualcosa, no?
Eppure – bella contraddizione costitutiva europea –
non si vuole procedere verso un concreto federalismo. E in effetti gli Stati sulla carta restano sovrani, e hanno un peso
notevole in alcune istituzioni importanti, come il Consiglio dell'Unione Europea [che ha tra
i suoi poteri quello di approvare la legislazione e il bilancio UE] o
una delle sue formazioni più influenti, il Consiglio “Economia e Finanza” (ECOFIN); dall'altro lato, però, gli
Stati non sono posti su un piano di parità, ma si creano egemonie
etnico-nazionali, non sancite in nessun documento specifico ma
operanti sul piano della prassi.
Per
quale motivo infatti, in una “Unione” che – qualunque sia la
sua natura (interstatale, federale, confederale, quasi-federale,
ecc.) – dovrebbe essere innanzitutto democratica e non imperiale,
alcuni Stati sembrano decidere anche per gli altri, dal momento che i
loro rappresentanti finiscono per incarnare il “centro che conta”
dell'intera Unione e diventano anzi sinonimo, oltre che
simbolo privilegiato, di Europa?
L'Unione
Europea nei fatti si avvia ad essere una riedizione dell'Impero
Austro-Ungarico, multietnico sì, ma egemonizzato da alcune etnie e
nazionalità “più uguali” delle altre...
Un
elemento decisivo e importante del federalismo statunitense è la
pari dignità degli Stati membri (i “favolosi cinquanta”
rappresentati nelle stelle della bandiera); questo principio si
traduce ad esempio nella norma che impone un eguale peso numerico
agli Stati membri all'interno del Senato, la Camera che rappresenta
appunto i singoli States
dell'Unione.
Nell'Unione
Europea il Parlamento è monocamerale; non è previsto alcun Senato
eletto in maniera simile a quello statunitense. Non credo sia un
caso. Il Parlamento europeo deve in teoria rappresentare i cittadini
europei a prescindere dalla loro nazionalità, deve cioè annullare
istituzionalmente le differenze nazionali e culturali. Se questo si
traducesse in una reale irrilevanza degli Stati, ci sarebbe almeno
una logica coerente (che si potrebbe comunque condividere o meno).
Invece, una volta annullata simbolicamente la rappresentanza degli
Stati, per fare spazio a quella dei “cittadini disincarnati”,
accade che gli Stati non scompaiono affatto dalla scena, ma il loro
peso risulta diseguale; gli Stati insomma, cacciati dalla porta,
“rientrano dalla finestra”, ma allineati secondo una gerarchia di
potenza.
Se
l'euro è uno strumento al servizio di questa logica “imperiale”,
che sancisce egemonie etnico-nazionali (benché “non scritte”...),
il suo ruolo (politico) è deleterio e tutt'altro che “democratico”.
Va
aggiunto però che – date le premesse – non è solo l'euro il
problema; è la stessa architettura politico-istituzionale della UE a
non funzionare. La prassi politica degli “assi” fra le presunte
“potenze europee” contraddice i “bei princìpi” dei Trattati.
Vogliamo
insomma una riedizione dell'Impero Austro-Ungarico travestita da
“non-federazione-larvatamente-democratica” oppure una Unione effettivamente
democratica e allergica a qualsiasi egemonia etnico-nazionalistica?
Che
senso ha subire “parametri” che impongono ai popoli mediterranei
di “essere tedeschi”? E' così difficile capire che in una gara
del genere – la gara a “chi è più tedesco” – ci sarà
sempre un solo vincitore, il “tedesco originale”, ovvero la
Germania, che – col sostegno di altri Paesi vicini al Mare del Nord, affezionati al modello socio-economico di quelle latitudini, ritenuto a priori insuperabile – ha imposto le regole del gioco agli altri, garantendosi
con ciò stesso la propria imperitura egemonia?
Prospettive?
E'
difficile concordare comunque con l'ottimismo di alcuni “sovranisti”,
poiché al momento non basta una moneta nazionale, e forse neppure l'eventuale “sganciamento” dalla UE, per ridare allo Stato
nazionale le “leve di comando” della sua politica economica.
Trovo arduo immaginare, infatti, che si possa metter mano seriamente
alle regole riguardanti i mercati finanziari, se non con “rivoluzioni
combinate” decise da un cospicuo numero di eventuali “Stati
dissidenti”. Ma di tutto questo si dovrebbe calcolare attentamente
la “convenienza”, perché è questo oggi il valore prioritario:
la ricerca della convenienza; libertà e autonomia (non parliamo poi
della giustizia e dell'equità sociale!) sono considerate soltanto in
subordine.
Temo
che in quest'epoca, se qualcuno ci dimostrasse che “è più
conveniente” (economicamente, finanziariamente, ecc.) essere
schiavi che liberi, rinunceremmo volentieri a qualsiasi ideale di
libertà e di emancipazione. Il Risorgimento, le lotte di liberazione
nazionale, le rivoluzioni, le barricate in nome del pane e della
dignità (il 1848, la Comune di Parigi...) oggi sarebbero
impensabili, alle nostre latitudini: anche se per assurdo ci
trovassimo sotto il più oppressivo dei domini imperiali o sotto una
dittatura che ci facesse pressoché tutti schiavi, un economista o
anche un opinion leader qualsiasi ci direbbero che impegnarsi in
certe lotte o credere in certi ideali “non conviene”, giacché
“rovinano il PIL” e la “reputazione sui mercati”; e quasi
tutti noi accoglieremmo con gioia un verdetto che in cuor nostro già
accarezzavamo. Il vecchio detto (o meglio principio di vita)
“Franza o Spagna purché se magna” ha fatto scuola ed ha esteso
la sua influenza ben oltre i confini dell'Italia, mi par di capire...
Se
vera sovrana d'oggi è la convenienza “dell'individuo”, le radici
stesse del discorso fatto fin qui sono dunque molto fragili. E' bene
saperlo, anche se questo non vuol dire rinunciare a esporre
determinate idee, analisi e convinzioni. E del resto, nel mondo non
si dà completa e disperante immobilità, e lavorando con passione e
tenacia, anche un terreno ingrato può produrre frutti.
_____
[*]
Dice il Patto di Bilancio, all'art. 3, paragrafo 2: “Le
regole enunciate al paragrafo 1 producono effetti nel diritto
nazionale delle parti contraenti al più tardi un anno dopo l'entrata
in vigore del presente trattato tramite disposizioni vincolanti e di
natura permanente – preferibilmente costituzionale – o il cui
rispetto fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto
il processo nazionale di bilancio”.
Preferibilmente
costituzionale, dunque, dice alla lettera il testo: non è
formalmente un'imposizione, ma talune “nazioni zelanti” come
l'Italia amano risultare prime della classe nello svolgimento dei
loro “compiti a casa”.
ti ringrazio per questa tua analisi, sopratutto per aver(ci) ricordato la situazione pre Euro.
RispondiEliminaMi hai fatto ridere quando dici" Mai le teorie economiche sono state così pop ..." sagace e lucido :)
Finalmente sono riuscita ad incastrare tanti tasselli.
bel post.ciao!
Ti ringrazio. Felice che ti sia stato utile questo mio post :-)
EliminaMi sembrava necessario ricordare la situazione pre-Euro, sia pure assai schematicamente, perché noto ogni giorno di più che la memoria del passato, anche di quello molto recente, latita nelle nostre analisi della realtà d'oggi; è come se il presente sommergesse tutto e ci impedisse di vedere altro, sia dietro che davanti a noi. Già se ci sforziamo di immaginare cosa è accaduto due anni fa in Italia (non dico nel mondo!) ci prende una strana angoscia: ma perché, davvero è successo qualcosa due anni fa?
purtroppo, hai pienamente ragione.
Eliminaciao...volevo augurarti una bella primavera...se può valere ancora,
RispondiEliminaSilvia, cioè Xtc aveva molta stima di te, ma penso che tu questo lo sappia...e le farebbe piacere sapere che continui a scrivere ed a divulgare le tue conoscenze per noi ignoranti :)
ciao!
Grazie :-)
EliminaPensieri, riflessioni e ricerche sono la materia prima del dialogo: non sono fatti per produrre soliloqui; sarebbe un triste spreco...
Condividere il sapere è importante e gratificante - è uno dei più bei doni che si possano fare e ricevere, secondo me. Non necessariamente porta onori e ricchezze; anzi...
Ci dà però la grande opportunità di incontrare (sia pure virtualmente, come qui sul Web) l'animo degli altri, le loro intelligenze, le loro speranze, le loro parole cariche di vita.
Ricordo "Xtc", certo che sì... Ogni volta che mi affaccio su "Blogger" ricordo i suoi post arguti, ironici, intelligenti. Forse proprio la tristezza di saperla andata via irrimediabilmente mi ha tolto per un po' la voglia di scrivere ancora qui; poi ad un certo punto mi è parso che in fondo le avrebbe fatto piacere sapere che insisto, e che seguo la stessa rotta nel leggere la realtà e nel presentarla (spero) senza trucchi e senza banalizzazioni, senza "categorie" prefabbricate (che lei giustamente non amava). E quindi torno, persisto...
Ti confesso che mi ha un po' commosso, ma mi ha anche fatto bene, questo tuo commento. Grazie.
Ciao!