Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

lunedì 25 luglio 2011

Per le strade /1

Ogni luogo sulla terra esiste fisicamente da millenni; e sicuramente fin dall'inizio della storia dell'umanità.
Certo, esiste nello spazio, come zona o punto identificabile mediante coordinate spaziali (distanza dall'Equatore, ecc.), ma non è stato necessariamente sempre come lo vediamo.



Esistevano forse le città nelle quali ora viviamo, poniamo, tremila anni fa?
No, la maggior parte di esse forse non c'era affatto, o era completamente diversa, più incerta e precaria nella fisionomia, e di sicuro - se ci riferiamo a città medie o grandi - era molto più piccola, un villaggio o poco più.





A volte ci può capitare di trovarci in quartieri cittadini oggi densamente popolati, e ricchi quindi di segni di vita civile, che però appena qualche decennio fa erano tutt'altra cosa: a me ad esempio è capitato di trovarmi in uno di questi posti, sorto da non più di cinquant'anni e “abitato” ormai da un continuo viavai di macchine, persone, cose, rumori meccanici, e mi sono ritrovato a immaginare come doveva apparire quello stesso posto due o tre secoli fa.

Già: qui, nello stesso punto in cui ora c'è un'ampia strada asfaltata a quattro corsie, afflitta da un traffico pressoché costante, e contornata di palazzi di sei o sette piani, tutti simboli di trafelata modernità, sul finire del 1700 (scelgo un periodo a caso, guidato dalla mia immaginazione) c'erano anonimi campi coltivati, sui quali forse si spaccavano la schiena contadini che sentivano rumori ben diversi da quelli dei motori, dei televisori, delle autoradio e dei clacson. Era questo stesso posto, ma duecentocinquanta anni fa; nessuno avrebbe potuto allora immaginare come e cosa sarebbe diventato nel XXI secolo, né oggi noi possiamo figurarci esattamente come fosse allora, se non per fantasiose e approssimative (benché non infondate) congetture.


E quei contadini, che potevano sostare all'ombra di alberi oggi scomparsi di qui e udire il canto di uccelli ancora non confinati in gabbiette, avevano però di certo giornate molto più faticose di quelle dei loro virtuali discendenti e si nutrivano molto peggio.
Non avevano il supermercato sotto casa, quello che facilmente ora noti, lì, con quell'insegna celebre e luminosa, e anzi persino il mercato era per loro un evento raro, che si svolgeva lontano e solo in particolari giorni. Per arrivarci bisognava organizzarsi, sellare il cavallo, vestirsi a dovere...

Erano prevalentemente vegetariani non per scelta, ma per necessità. Nella loro povertà potevano permettersi forse qualche gallina, soprattutto per avere uova, ma non i manzi, che in zona costavano troppo, e neppure i maiali, perché di solito non avevano spazio per tenerli; e comunque molto di rado avrebbero potuto sacrificare i loro compagni animali (gallinacei) per sfamarsi, giacché poi non avrebbero avuto denaro a sufficienza per rimpiazzarli tempestivamente.

La loro “pausa pranzo” non si svolgeva in qualcuno di questi bar che sorgono sempre più premurosi e invitanti, ma negli stessi campi ove lavoravano. Non dormivano al terzo o quarto piano di questi palazzi superaccessoriati, sbarcati nel futuro come da un'astronave di marziani, ma in baracche di stile spartano, che bastavano appena a ripararli dal freddo e dalle intemperie e che oggi nessuno può dire esattamente dove e come fossero, in questo panorama radicalmente differente, che a noi pare normale immaginare da sempre uguale.


Era un mondo che esisteva e viveva qui, nello stesso posto che oggi noi attraversiamo e calpestiamo, eppure non sapremmo ritrovarlo in nessun modo; è scomparso, nella sua semplice miseria, senza lasciare segni, ricordi o indizi.
D'altra parte nessuno ricorda volentieri il passato, se è intessuto di privazioni, sacrifici e indigenza. Quel passato scivola sempre via come acqua, e se lo beve la terra, finché non ne rimane goccia.

Dicono che, fino a qualche decennio fa, da queste parti si sentisse ancora di tanto in tanto il canto della civetta, ultimo residuo dei tempi lontani; oggi non solo non c'è più traccia del rapace notturno, ma sono perfino scomparse le rondini che si presentavano ancora in folti stormi sino a una quindicina di anni fa.

No, non sto rimpiangendo affatto un mondo che peraltro non ho conosciuto di persona; non ce ne sarebbe poi motivo, anche perché la miseria è “bella” o “eroica” forse solo per chi non l'ha vissuta e può permettersi il lusso di idealizzarla.

Mi interrogo piuttosto sul cambiamento sorprendente delle cose, e sull'aspetto insolito che queste possono assumere non appena smettiamo di darle per scontate e cominciamo a chiederci da dove siano saltate fuori, e come mai, e perché proprio così.

Forse avrebbe bisogno di porsi le stesse domande quel giovane che ora passa lungo lo stradone con la sua motocicletta esibizionisticamente strombazzante, e ignora che forse proprio nel punto preciso ove si stende l'asfalto che ora lui tormenta, qualche suo antenato sotto il sole (sempre uguale, quello), sperimentando ogni giorno di più il significato della “precarietà” (parola che forse mai ha pronunciato), tormentava la terra con la vanga o la zappa mentre combatteva con l'arsura e il sudore, per rifarsi disperatamente di un'annata magra.

Noi non conosciamo mai davvero e profondamente il posto nel quale ci troviamo a vivere; ci limitiamo a passargli sopra o accanto, o ad “abitarlo”, e questo, l'abitare appunto, ci sembra la forma massima di simbiosi con un luogo: ma con tutto ciò, non lo conosciamo.

Dobbiamo fare uno sforzo di volontà, per apprendere qualcosa di più del luogo che ci sembra tanto familiare; ma è qualcosa, non illudiamoci: non è mai tutto.


Già il buon poeta Villon si chiedeva, nel 1400: “Dove sono le nevi dell'anno scorso?”
Nella realtà non ci sono più, eppure la realtà è passata attraverso quell'esperienza delle nevicate, ed è ciò che ora è anche grazie ad esse.
Man mano che la memoria si allontanerà da quell'evento, di quelle nevi nessuno parlerà più, e sarà come se non fossero mai esistite; eppure, col loro comparire, col loro cadere, col loro esserci, avranno cambiato silenziosamente qualcosa nella realtà circostante.





2 commenti:

  1. Belle riflessioni.
    Proprio oggi ho pensato anche io a qualcosa di simile, in riferimento però agli eventi del passato invece che ai luoghi (anche se poi spazio e tempo sono sempre correlati): stavo rimettendo a posto delle vecchie casse contenenti dei vestiti ormai da buttare e sotto alcuni di essi c'erano dei fogli di giornali risalenti agli anni '80; ho letto con curiosità qualche riga, si parlava di fatti di politica minore e di cronaca che ormai nessuno ricorda più e così ho riflettuto su quanto un episodio, un evento, un fatto, sebbene possa essere stato di grande importanza in un determinato momento, possa aver scosso i cuori, alimentato discussioni e provocato emozioni, sia comunque destinato ad essere dimenticato, a sparire, come se non fosse mai avvenuto.
    La mia riflessione era sulla natura effimera delle cose, di tutte, ma anche dei sentimenti.

    Invece dei luoghi cerco sempre di tenere a mente l'aspetto che dovevano aver avuto in un altro tempo, probabilmente perché vivendo a Roma - così ricca ancora di tracce del passato - non mi risulta molto difficile immaginarlo.

    Ed è vero che se anche tutto passa e perisce, comunque sia, provocando dei cambiamenti che poi si perpetuano nel tempo, ai quali - stratificandosi - andranno ad aggiungersene altri ancora, è come se qualcosa restasse sempre. Quella neve che è caduta e poi si è sciolta in qualche modo un segno deve pur averlo lasciato.

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  2. Grazie. Penso anch'io che spazio e tempo siano strettamente intrecciati, al punto che i ricordi più importanti (dunque episodi della nostra memoria del passato) sono spesso legati all'immagine di luoghi precisi.
    Mi è capitato in questo periodo di riflettere sulla "persistenza dei luoghi", ovvero sul fatto che i luoghi di solito sono destinati a "durare" più delle vite delle singole persone, e quindi in qualche modo "accolgono" impercettibilmente varie tracce del vissuto di tanti: il più delle volte si tratta di passi o sguardi, che dunque non lasciano "impronte" visibili se non forse nel ricordo; ma in altri casi - nelle abitazioni ad esempio - restano a volte segni tangibili: un poster sul muro, una cartolina dimenticata in un cassetto, un vecchio giornale (mi collego a ciò che dicevi...) o magari soltanto l'alone lasciato da un quadro che per anni ha occupato una porzione di parete e che ora non c'è più.
    Anche a me, come avrai capito, piace immaginare l'aspetto che alcuni luoghi (strade, piazze...) dovevano avere un tempo; e certamente città come Roma, dal "lungo passato", offrono molti più spunti, sotto questo aspetto. Sarà anche per questo che mi piace contemplare quei posti, e anche le più piccole città d'arte, che in Italia non mancano: l'arte infatti è sempre anche una traccia che collega sottilmente il presente a un passato mai interamente conoscibile (se non attraverso i segni che lascia, appunto).

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