Prima parte
Alcuni
libri, particolarmente acuti – per il tema che propongono e per la
maniera in cui lo svolgono – si prestano a generare un “arcipelago”
di riflessioni che vanno ben al di là dello specifico argomento che
essi affrontano. Diventano dunque fertili occasioni di analisi del
clima sociale e culturale e della mentalità propri di un determinato
tempo (che è poi il nostro...).
E'
il caso di un volume scritto da Valeria Ottonelli,
studiosa e docente di Filosofia Politica ed Etica Pubblica presso
l'Università di Genova: s'intitola La
libertà delle donne. Contro il femminismo moralista,
ed è stato pubblicato nel 2011 dall'editrice Il Melangolo. E' un
libro piccolo, quanto a numero di pagine, ma schietto nei toni e
sorretto da una prosa chiara e da una rigorosa e limpida capacità
argomentativa – e, pur possedendo tale qualità, è un libro che sa
schivare egregiamente il rischio della pedanteria o anche solo della
“pignoleria” accademica, rivolgendosi quindi idealmente a un
pubblico vasto.
Qualche
dibattito sembra già essersi acceso intorno a questo volumetto, però
non sempre nella direzione giusta: alcuni conservatori – di quelli
che, dediti a raccattar nell'aria luoghi comuni come altri raccattano
farfalle, non si sforzano troppo ad argomentare, e solo ripetono in
automatico, come certi anziani brontoloni nelle sale d'attesa, che “a
noi ci
ha rovinato il '68” – attratti dal sottotitolo, che sembra
promettere una polemica “contro le femministe” (le quali essendo
associate o assimilabili “al '68” di cui sopra, sarebbero da
esecrare in blocco, senza nemmeno preoccuparsi di capire bene cosa
dicono e cosa vogliono in
realtà),
hanno sogghignato, pensando di poter utilizzare questa pubblicazione
come grimaldello per scardinare le presunte “contraddizioni” del
femminismo in
quanto tale e nel suo insieme.
Ovviamente
il libro di V. Ottonelli dice tutt'altro: non è sul sostantivo
presente nel sottotitolo che bisogna concentrarsi infatti, ma
sull'aggettivo che lo affianca: è la variante moralista
del femminismo che la studiosa critica (e severamente), non
il femminismo preso nel suo insieme. Anche perché “il femminismo”
è una sorta di cantiere perenne, che aggrega e sviluppa analisi e
visioni del mondo e della società che non sono univoche e anzi
spesso dialogano fra loro in maniera anche critica.
Parlavo
all'inizio di “arcipelago” di riflessioni, e non senza ragione:
infatti le considerazioni e le osservazioni che si susseguono nel
testo non riguardano soltanto le femministe, e neppure soltanto le
donne. E principalmente per due motivi: anzitutto, la struttura
“moralista” della retorica pubblica italiana è una faccenda che
riguarda e tocca tutti/e noi, e quindi qualsiasi analisi che ne metta
in luce la vacuità e le contraddizioni è benemerita; inoltre –
questo credo che molti/e facciano fatica a comprenderlo fino in fondo
– la critica costante, rigorosa e puntuale dei residui dell'ancien
régime
culturale che ci portiamo dietro e dentro (giacché quei “residui”
emergono continuamente nelle nostre abitudini quotidiane, nei nostri
luoghi comuni, nella nostra mentalità), critica alla quale buona
parte del pensiero femminista dà un valido contributo, è un
percorso che porta tutti
i soggetti, e cioè tutti
noi,
indipendentemente dal “genere” di appartenenza, a liberarsi
(liberarci) dai condizionamenti che questi non ancora sopiti
“fantasmi” (modelli di vita oppressivi, discriminatori e
autoritari tramandati da generazioni precedenti) continuano ad
esercitare, talvolta inopinatamente, sulle nostre vite.
Questo
libro di Valeria Ottonelli, in sostanza, è una critica serrata,
addirittura quasi una lotta corpo a corpo contro una retorica
pubblica, che, dominante in Italia (e dell'Italia l'autrice parla in
effetti), si serve a piene mani di un “immaginario moralista” per
ostacolare in maniera sotterranea e talora subdola i tentativi di
mettere in discussione modelli e rapporti di forza consolidati,
riconducendo abilmente ogni cambiamento nell'alveo dei vecchi schemi
(di pensiero e di convivenza).
Così,
grazie a questa retorica, è difficile che un movimento che richiede
cambiamenti anche radicali possa realmente spiazzare l'assetto
sociale esistente; è più facile che sia il cambiamento a essere
spiazzato, e a rimanere disorientato e imbrigliato dentro la retorica
moralista. Infatti, questa riesce talvolta a insinuarsi nei movimenti
di cambiamento, e a colonizzarli, lavorandoli dall'interno sino a
plasmarli secondo le proprie necessità.
Forse
siamo talmente assuefatti a questo processo da non accorgercene più.
Naturalmente
non è “la retorica moralista”, in quanto soggetto astratto e
anzi immaginario, a “lavorare”, ma è la nostra tendenza ad un
tradizionalismo “pigro” (in quanto pervicacemente votato
all'immobilismo sociale e culturale, anche a costo di perdere ogni
appuntamento con le “sfide” provenienti dall'esterno, da altre
culture e realtà influenti), compiaciuto di sé oltre ogni ragione
(e sino al cinismo), a lavorare per assimilare e addomesticare –
anche tramite il “grimaldello” del moralismo – quasi ogni
movimento di trasformazione.
E,
dovendo definire il suo tema, scrive la studiosa:
«Che
cos'è il “femminismo moralista”? E' una posizione culturale e
politica che, nel nome della libertà delle donne e della loro
“dignità”, assume un atteggiamento sostanzialmente censorio, nei
confronti degli uomini ma anche e soprattutto delle donne stesse.
Secondo questo tipo di femminismo la liberazione delle donne deve
avvenire attraverso una trasformazione intima di tutti i membri della
società, che possa condurre ciascuno a capire quali sono i veri
valori, il vero bene, il vero uso del proprio corpo, della propria
sessualità e dei propri talenti. Nel fare questo si appella a un
orizzonte simbolico e valoriale sostanzialmente conservatore e impone
modelli di vita e di società che altro non sono se non rivisitazioni
in chiave laica di vecchi miti familisti, religiosi e
tradizionalisti» [Ottonelli 2011, p. 10].
Difficile
essere più chiari ed incisivi di così.
Aderendo
a questo orizzonte di pensiero, che V. Ottonelli definisce
“femminismo moralista”, in realtà – nonostante ogni diversa
intenzione – si porta acqua al mulino del tradizionalismo pigro e
cinico (al quale prima si accennava), che pesa come un insopportabile
fardello sulla nostra società.
Questa
variante moralista del femminismo, infatti, esattamente come gli
alfieri dichiarati o “in pectore” dell'eterno e trasversale
tradizionalismo italiano, pretende addirittura di svelarci quali sono
i “veri valori” per i quali val la pena vivere (bollando tutti
gli altri, tutte le alternative, come “falsi”, “indegni”,
inaccettabili, ecc.), e non solo di svelarceli, ma anche di
imporceli, per il nostro stesso bene!
Per definizione, secondo questa corrente di pensiero, chi non
aderisce a tali “veri valori” e non conforma ad essi la propria
condotta di vita, non è “se stessa/o”, è manipolata/o in
qualche modo, ha perso la propria “autenticità” e dunque non va
presa/o sul serio (non vanno prese sul serio le sue scelte, in quanto
per assioma non libere), anzi va ricondotta/o (pazientemente?) “sulla
retta via”.
Ciò
che cambia, rispetto alla retorica “tradizionalista” classica, è
solo la forma apparente del discorso, che si avvale di
giustificazioni differenti, le quali fanno appello alla “libertà
delle donne” anziché – come i tradizionalisti “doc”
preferirebbero – ai loro presunti “doveri” individuali e
sociali, dettati dalla “natura” (?). Ma – come Valeria
Ottonelli dimostra – non sono assenti, nel discorso del “femminismo
moralista”, neppure accenni, sia pure fugaci o contraddittori, a
questo secondo tipo di argomentazione. A fare da “trait d'union”
fra i due tipi di discorso – facendo cadere la barriera sottile che
li separa – è il concetto di “autenticità”, come si vedrà.
Questa
variante del femminismo, poi, ignora o non tiene conto della natura
eminentemente politica
della questione femminile, giacché, come rileva V. Ottonelli, sembra
ritenere che la liberazione delle donne possa realizzarsi soltanto
“convertendo” le persone, una per una, ossia modificando i loro
valori etici e “intimi” di riferimento – e non invece la
struttura generale dei rapporti intersoggettivi (e quindi anche il
paradigma sociale, il “modello”, nel quale questi si collocano),
come una liberazione “politica” richiederebbe di fare, in realtà.
Certo,
la definizione del moralismo è di per sé una questione “scivolosa”;
esistono diverse opinioni su cosa si debba intendere per “moralismo”,
e su quali caratteristiche distinguano quest'ultimo dalla “morale”.
Pur
senza avere qui la pretesa di esaurire l'argomento in poche battute,
alcuni punti fermi si possono comunque stabilire – e anzi è
necessario farlo.
Possiamo
quindi dire che per “moralismo” intendiamo un atteggiamento
e una retorica, più
che una vera e propria corrente di pensiero o una branca
dell'attività umana. Il moralismo infatti non ragiona sui contenuti
della morale, non dimostra la fondatezza dei valori che propone o che
presenta come irrinunciabili; il moralismo in sostanza dichiara
e non dimostra, afferma e non argomenta.
Il
moralista dà per scontato che i valori “morali” che egli
sostiene siano gli unici veri
e gli unici possibili,
salta alle conclusioni senza passare per le premesse e senza
occuparsi di fornire serie “pezze d'appoggio” per ciò che
sostiene con tanto vigore. Si aggrappa alla retorica
senza occuparsi umilmente di puntellare le proprie argomentazioni e
le proprie tesi, come se esse fossero autoevidenti e già dimostrate.
E' anche per questo che il moralismo è tendenzialmente conservatore:
strizza sempre l'occhio a un'ideale platea che condivide “certi
valori” dati ormai per assodati o acquisiti, senza bisogno di
troppe spiegazioni.
In
più – e si tratta di un elemento non secondario nell'atteggiamento
tipico del moralismo – il
moralista è sempre pronto ad alzare il dito accusatore contro gli
altri (intesi come singoli o
come entità collettive o generali, la “società”, la
“modernità”, ecc.); istituisce un tribunale ideale “della vera
morale” nel quale egli è, al tempo stesso, pubblico ministero e
giudice. Che per giunta emette sentenze inappellabili...
L'individuazione
del “reprobo” (o del “nemico” dei “veri valori”) è anzi
una delle preoccupazioni principali del moralista; la definizione del
“peccato” non è importante in sé, ma solo in quanto serve al
moralista per snidare il “peccatore”, meglio se “esemplare”
perché particolarmente in vista (o perché particolarmente inviso
alla platea di riferimento del moralista), ed esporlo alla pubblica
riprovazione.
Il
moralista, scarsamente disposto a mettere in discussione se stesso, è
invece sempre attivo nel condannare il prossimo. Non vede le proprie
contraddizioni e incoerenze (rispetto agli stessi princìpi che
proclama), o trova sempre alibi per giustificarle e autoassolversi; è
invece implacabile nel cogliere e nel fustigare le (presunte) pecche
altrui, e non concede ai “condannati” alcuna attenuante o
scusante. Perché sui valori è intransigente; li considera come
assoluti e intoccabili, oltre che imprescindibili e inderogabili
(salvo quando giudica se stesso, come si è detto...).
Ne
consegue che nelle società in cui prevale, nel discorso pubblico,
l'atteggiamento moralista, vi è anche generalmente una tendenza
diffusa all'ipocrisia e al “double standard” (il cosiddetto
“doppiopesismo” che è l'esatto contrario di un'etica e di una
morale rigorose, e tuttavia è figlio legittimo proprio del
moralismo).
Inoltre,
il moralismo tende a valutare ogni atto umano e ogni vicenda
utilizzando il metro della morale; ma – per quel che si è detto –
non intesa, quest'ultima, come argomentazione (sottoponibile, come
tale, a controargomentazione e a contraddittorio, o, come avrebbe
detto Popper, a “falsificazione”), bensì come asserzione
dogmatica, che dà per acquisito proprio ciò che dovrebbe
dimostrare. E tra l'altro rischia di essere asserzione dogmatica
anche la riduzione di ogni questione a “questione morale”,
riduzione che è il cuore della mentalità tipica del moralista.
Ora,
non è detto che il “femminismo moralista” del quale parla V.
Ottonelli possieda tutte le caratteristiche appena elencate – e del
resto, per verificarlo, bisognerebbe fare un'analisi attenta, che
richiederebbe un discorso a parte.
Tuttavia
alcune di esse emergono in virtù della critica che la studiosa
enuncia nel testo: innanzitutto l'insistenza sui “veri valori”
(considerati a priori come gli unici possibili e accettabili o gli
unici “autentici”) e poi la tendenza ad additare alla pubblica
riprovazione i “nemici emblematici” di quei “veri valori” (i
“peccatori esemplari” da snidare) e a ridurre ogni questione a
questione morale.
E,
se si confonde l'esigenza di modificare i rapporti sociali per
giungere a una forma di convivenza più equa con una “questione
morale”, si rischia – come nota Valeria Ottonelli – di
inchiodare le donne ad una condizione di eterna dipendenza e
sudditanza rispetto al giudizio e allo sguardo dell'altro:
«E'
vero che le donne sono marginalizzate e oppresse nella nostra
società, e che queste forme di ingiustizia passano anche per le
micro-regole delle interazioni quotidiane. Ma chiedere che il
passaggio a una società più giusta e più eguale avvenga in
primis attraverso la modificazione morale dell'universo
intimo degli uomini, o del modo in cui gli uomini – o la società
tutta – vedono le
donne significa rinsaldare l'idea che la nostra libertà o il nostro
potere dipendano dagli occhi e dalla benevolenza degli altri;
significa, in altre parole, rinsaldare un'immagine di dipendenza
asimmetrica che non può far altro che mortificare ulteriormente il
nostro spirito e perpetuare la nostra subordinazione. Le donne hanno
bisogno di più libertà e di più potere, non di più stima,
apprezzamento e simpatia da parte degli uomini» [Ottonelli
2011, p. 17].
La
dipendenza “paralizzante” dallo sguardo dell'altro equivale ad
una condizione di subordinazione che si autoriproduce.
Se
ciò che le donne sono e pensano di sé viene fatto derivare, come
una conseguenza “inevitabile”, dal mondo etico e “valoriale”
degli altri – degli uomini innanzitutto – e quindi anche dai modi
in cui si esprime il loro immaginario soggettivo (o quanto di questo
si proietta in àmbito sociale o collettivo), esse finiscono per
contribuire, anche se non in maniera consapevole, a rinsaldare gli
stereotipi culturali nei quali è inscritto il “destino”
(pseudo-destino, in realtà) della loro “dipendenza eterna”.
Insomma,
il processo di liberazione della donna deve prescindere dai mutamenti
in atto nelle coscienze degli uomini o nei “valori” generalmente
condivisi. Non è in posizione subordinata rispetto a quelli; può
sollecitarli, osservarli, accompagnarli, ma non farne la radice
stessa del cambiamento.
Insiste
giustamente Valeria Ottonelli su questo punto:
«Dietro
agli atteggiamenti e ai propositi del moralismo, in realtà, c'è un
peccato più grave e generale, che consiste nell'immaginare che la
giustizia sociale possa essere raggiunta solo a patto che tutti i
nostri simili – o la maggior parte di essi – siano o diventino
esseri umani decenti o virtuosi, o quello che definiremmo tale
secondo i nostri parametri. Come ha dimostrato più volte la storia,
questo sogno di palingenesi morale può generare veri e propri orrori
se è coltivato da chi ha potere politico e sociale. Ma è pericoloso
anche se coltivato dai politicamente deboli e dagli oppressi, perché
si traduce in speranze mal riposte e in richieste fuori luogo»
[Ottonelli 2011, pp. 17-18].
Come
mi è già capitato di scrivere altrove, trattando altri temi, è
illusorio (oltre che fuorviante) pensare che un processo politico
volto al mutamento dei rapporti sociali e dei paradigmi teorici che
li giustificano e sorreggono debba passare necessariamente attraverso
(o condurre in ultima analisi a) una “conversione” generale e
generalizzata delle coscienze dei singoli, tale che grazie ad essa
scompaiano dalla faccia della terra definitivamente cose come la
“malvagità”, la “crudeltà”, la “disonestà”,
l'“ottusità”, la “falsità”, l'“inganno”, l'“egoismo”,
ecc.
Una
trasformazione del genere non l'avremo probabilmente mai, se non in
sogno o nelle favole; e tuttavia, questa impossibilità non
costituisce un ostacolo al mutamento dei rapporti sociali e al
perseguimento di valori politici come l'equità sociale,
l'allargamento delle condizioni di libertà, l'estensione dei
diritti, ecc.
Si
tratta di due piani ben distinti, che però i moralisti tendono a
confondere e a sovrapporre indebitamente.
E
anche qui, se si fa dipendere la liberazione della donna da un
ambizioso programma di “palingenesi morale”, o si rende l'una
parte integrante dell'altro, l'unico risultato che si ottiene in
realtà è quello di congelare le sorti del processo di liberazione,
rinviando quest'ultimo sine die, in attesa che si presentino o
maturino le condizioni concrete per un'“umanità migliore”
(buona, giusta, onesta, trasparente, ecc.).
E,
parallelamente, con queste premesse si finisce per richiedere alle
donne stesse di attenersi a un alto “standard” morale, per avere
diritto di far parte di quella “umanità migliore”; le “buone
qualità” morali (misurate secondo il metro discutibile stabilito
dal moralista, beninteso) diventano insomma un prerequisito
indispensabile per accedere all'“Olimpo dell'emancipazione”, che
diventa quindi una faccenda riservata a poche, alle sole “virtuose”
che – rispondendo ai criteri morali stabiliti dal moralista –
possono fregiarsi del marchio “doc” di “vere donne”. (Le
altre, in quanto donne “non virtuose” e pertanto “non vere”,
non sono considerate dal moralista capaci di autonomia morale, e
anche quando credono di decidere in realtà non decidono, e quindi
sono soltanto “soggetti a rimorchio” – degli altri, degli
uomini, dei pregiudizi, dei “falsi valori”, ecc.: ma di questo
aspetto si torna fra poco a parlare.)
Sottolinea
in maniera incisiva questi concetti Valeria Ottonelli, quando afferma
senza mezzi termini:
«Io
sarò libera e sicura quando vivrò in una società a prova di
imbecille. Sarò tale non quando non ci saranno più maschilisti, o
razzisti, o cafoni, o stupidi, ma quando questi non potranno più
danneggiarmi» [Ottonelli 2011, p. 18].
Non
si può pretendere che dal mondo spariscano, magari istantaneamente,
i razzisti, i maschilisti, ecc., però si può senz'altro fare in
modo che, attraverso un processo politico, sociale, legislativo,
ecc., vengano poste le basi per arrivare a un paradigma di
convivenza, e dunque a un modello sociale in virtù del quale chi è
completamente altro rispetto
alle categorie di cui sopra (razzisti, ecc.) sia posto totalmente in
condizione di condurre la propria esistenza senza dover minimamente
subire i condizionamenti (culturali, morali, politici, ecc.) e le
conseguenti imposizioni provenienti da quelle (e per imposizioni si
intendono qui anche le tacite o palesi restrizioni alla libertà
personale, i soprusi, le discriminazioni, le violenze anche solo
verbali, le prepotenze reiterate, tacitamente tollerate e impunite,
ecc.).
Se
ci sono imposizioni/arbitri/violenze dinanzi ai/alle quali alcune
categorie di persone – nel caso di cui si parla, le donne – sono
tuttora costrette a piegare il capo senza poter (anche solo per
“quieto vivere”) far valere efficacemente le proprie ragioni e i
propri spazi significa che c'è ancora un'area “grigia” di
consenso intorno a chi commette quegli arbitri. Esistono ancora,
grazie al paradigma che regola la nostra convivenza sociale, rapporti
di forza “opachi”, che avvantaggiano determinati soggetti
tendenti a queste forme di “guappismo” (o “bullismo da
adulti”).
Nessuno
può garantirci che queste tendenze scompariranno, e d'altra parte
porsi un simile obiettivo rende al limite impossibile qualsiasi
tentativo di cambiamento dello stato di cose esistente (si arriva per
questa via infatti al classico dilemma insolubile: “come può
cambiare la natura umana?”); come suggeriscono le parole di V.
Ottonelli, bisogna piuttosto porsi l'obiettivo di mettere in
discussione i rapporti di forza esistenti e la loro “opacità”
(il consenso tacito e trasversale sul quale si reggono), fino a
destituirli radicalmente di legittimità, mettendo sistematicamente a
nudo l'apparato retorico del quale si servono per riprodursi.
Se
il “verbo” del primo razzista o sessista che passa per strada (o
in televisione o sul Web) fa testo, e addirittura pretende di ergersi
a senso comune “della società” strizzando l'occhio a una
sotterranea complicità diffusa nella “platea”, a scapito non
solo delle visioni del mondo e delle opinioni di altri soggetti ma
soprattutto della stessa dignità di questi ultimi (definiti dal
discorso del razzista o sessista come “inferiori” meritevoli di
sopruso), pur non essendo quel “verbo” dotato di alcuna
caratteristica particolare che lo renda indiscutibile e “vero a
priori”, è segno che esiste un rapporto di forza “opaco”,
appunto, non facilmente identificabile come tale (almeno non alle
nostre latitudini liberali) che innerva tutta la società e mantiene
in vita una struttura sociale basata sulle idee di dominazione, di
prevaricazione, di gerarchia (concetto quest'ultimo che sventolato fideisticamente
– e collocandosi di fatto in un paradigma socio-economico che non
pone affatto alla testa della piramide sociale i più meritevoli ma i
privilegiati [a qualunque titolo] – non fa che trasformare per via
retorica l'arbitrio di pochi in sedicente “ordine”) e dunque di
oppressione.
E'
scardinando questo “ordine” discorsivo e retorico, e dunque
questo paradigma che regge l'attuale modello sociale, questo robusto
“castello di carte”, prodottosi nel corso della storia (non
quindi generato “dalla natura”) e retto a beneficio di pochi
e non certo di chiunque, che i soggetti oppressi
possono liberarsi dalla condizione in cui si trovano; è cosa ben
diversa rispetto all'ambizioso e utopico intento di “cambiare la
natura umana” (la quale peraltro è di per sé una nozione fumosa,
confusa e imprecisabile).
Quando
dunque il “verbo” del razzista e del sessista diventeranno
soltanto flatus vocis, pura
espressione personale di risentimento, senza più risalto e influenza
particolari all'interno della società, la “missione” del
processo di liberazione delle donne potrà dirsi compiuta.
C'è
poi un'altra importante questione, che la critica di Valeria
Ottonelli mette in evidenza:
«Dietro
all'atteggiamento del moralista che ambisce a una trasformazione
intima dei propri concittadini come condizione ineludibile di
giustizia e di bene non c'è solo l'istinto totalitario di chi aspira
alla virtù come fondamento dell'ordine sociale; c'è anche un altro
atteggiamento, più superficiale ma non meno odioso, che è tipico di
molti intellettuali: lo schifo e il disprezzo per le vite che non
coltivano gli stessi valori estetici e spirituali che sono propri
degli accademici ben pensanti» [Ottonelli 2011, p. 18].
Il
femminismo moralista di cui V. Ottonelli parla si radica infatti
specialmente presso determinati ceti intellettuali e assume di
conseguenza i loro stessi tic, le loro stesse idiosincrasie.
I
moralisti – e le “femministe moraliste” – puntando il dito
accusatore contro certi comportamenti e certi valori del “volgo”
che ritengono spregevoli e/o inaccettabili, in realtà compiono un
gesto rivelatore – che è tale però non tanto rispetto ai
“reprobi” che vorrebbero condannare quanto rispetto ai valori e
al mondo mentale degli stessi “accusatori”.
Spiega
infatti la studiosa:
«Il
vero nemico di questa mentalità sono le masse di ignoranti che non
sanno parlare, non sanno vestirsi e non sanno pensare, e per questo
costituiscono il vero humus
su cui cresce rigogliosa l'ingiustizia.
[…] Immaginare di essere in balia di una massa
scriteriata di ignoranti è in verità il segno distintivo, la
matrice originaria dell'odio per la democrazia stessa»
[Ottonelli 2011, p. 19].
C'è
un'ampia letteratura su questo, che risale fino a Platone, come
ricorda la stessa Ottonelli, e come si può leggere in un
interessante volume di Valentina Pazé (ricercatrice di
Filosofia Politica presso l'Università di Torino), In nome del
popolo. Il problema democratico
(Editori Laterza, 2011), che analizza ampiamente la questione.
Scrive
V. Pazé:
«La
democrazia non godeva di buona fama nell'antichità, neppure nella
città che le aveva dato i natali. Se un aspetto accomuna la quasi
totalità degli intellettuali ateniesi del V e IV secolo [a.C.], è
la diffidenza, il sospetto, in alcuni casi l'aperta condanna e il
disprezzo da essi manifestato nei confronti dell'esperimento di
governo “del popolo” di cui erano privilegiati testimoni. Una
simile avversione nei confronti della forma di governo democratica si
spiega se pensiamo al giudizio prevalentemente negativo formulato
dagli scrittori antichi nei confronti del demos,
il soggetto collettivo che in democrazia detiene il kratos,
il potere di governare. Ignorante, inaffidabile, ondivago, sensibile
alle lusinghe dei demagoghi, il popolo non gode di buona letteratura
in questa fase storica, anche perché i pochi in grado di scrivere e
di trasmettere ai posteri il proprio pensiero non provengono dalle
sue file» [Pazé 2011, p. 5].
E,
come ricorda la studiosa, l'avversione per il popolo, considerato
sostanzialmente “volgo” selvaggio, rozzo e incostante, incapace
di autoregolarsi e a maggior ragione di autogovernarsi, continua nei
secoli; la ritroviamo in Guicciardini, cioè nel Rinascimento, e si
protrae fino al Settecento e oltre. Nella modernità, specialmente,
il concetto di “popolo” acquista una duplice valenza,
significando al tempo stesso il “tutto” e una “parte” della
comunità, la più “arretrata” e “pericolosa”, secondo alcuni
(ed è da questo senso duplice, sdoppiato, che sorgono alcuni
fraintendimenti anche “autorevoli” e talora anche “strategici”,
circa la natura della democrazia e la natura del “popolo”):
«Nella
Francia del Settecento il peuple
coincide, a seconda dei casi, con l'intera nazione, o con le classi
lavoratrici, percepite e temute come “classi pericolose”. Se, nel
capitolo del Contratto sociale
dedicato alla forma di governo democratica, Rousseau fa coincidere il
popolo con la totalità dei cittadini, gran parte degli intellettuali
illuministi suoi contemporanei continua a identificarlo con la
populace [plebaglia],
e con la canaille
[canaglia]: la massa dei diseredati e degli esclusi che preme
minacciosamente sui ceti facoltosi per cercare di insidiarne i
privilegi» [Pazé 2011, pp. 27-28].
Erano
quindi spesso intellettuali “illuminati”, e per altri aspetti
“progressisti”, a nutrire pregiudizi classisti nei confronti del
popolo. Per lungo tempo (come possiamo constatare leggendo autori
come Kant, A. Ferguson, Constant, Hegel [cfr. Pazé 2011, pp.
29-41]) il “popolo” è stato considerato incapace di
autogovernarsi sia perché nella sua stragrande maggioranza indigente
ma anche perché non dotato degli strumenti culturali adatti a
comprendere gli interessi generali della società. Era un classico
“serpente che si morde la coda”, giacché se costretto nella
miseria e nella mera sussistenza, il “popolo” non poteva avere
certo modo di istruirsi e di elevare la propria condizione. Tuttavia
pochi – anche tra i pensatori e gli intellettuali più “illuminati”
– erano coloro che si ponevano il problema di combattere nel
concreto le ingiustizie sociali, anche le più evidenti, e di
consentire quindi alla maggioranza del popolo di esercitare a pieno
titolo i propri diritti di cittadinanza. Cosicché la “inferiorità
culturale” del popolo finiva per essere condiderata una specie di
dato “naturale” e “immodificabile”.
Oggi
questa concezione della “naturale inferiorità” del popolo non è
più giustificabile – se mai lo è stata. Eppure l'atteggiamento di
preconcetta diffidenza rimane quasi intatto, a distanza di secoli.
Gli
odierni intellettuali moralisti (donne e uomini) giudicando con
disprezzo e perfino con ribrezzo quelli che considerano i “vizi del
volgo” (anche se oggigiorno non li definiscono più con questa
espressione, ormai inelegante e screditata), e attribuendo ad essi, e
alla loro diffusione, tutta la colpa dell'ingiustizia presente nella
società, mettono in luce inavvertitamente il sottofondo classista
della loro concezione del mondo; sono portati (loro malgrado?) a
ritenere che “il popolo”, preso dalle sue passioni “basse” e
“indegne” (se rapportate – a loro dire – ai valori “perbene”
dei moralisti stessi), non sappia decidere e debba quindi essere
posto sotto la benevola tutela di “coloro che sanno”, dei saggi e
dei sapienti, che sono i soli in possesso dei “veri valori” e
possono mostrarli agli altri, illuminando le loro menti. E'
precisamente questa, come giustamente sottolinea Valeria Ottonelli,
la radice dell'avversione “classista” ed elitaria per la
democrazia e della denigrazione sistematica che ancora oggi, in certi
circoli, se ne fa.
Nel
suo testo, Valeria Ottonelli si concentra principalmente su quattro
esempi recenti, quattro casi nei quali emerge in pieno l'azione del
“femminismo moralista” da lei criticato.
Uno
di essi è rappresentato a suo parere dal documentario di Lorella
Zanardo, M. Malfi Chindemi e C. Cantù, Il corpo delle donne
[qui il blog
che da esso è scaturito, ricco ad ogni modo di importanti
riflessioni e dibattiti] e, quasi contemporaneamente (a testimonianza
dell'esistenza di una vera e propria tendenza cultural-politica),
dall'appello di Concita De Gregorio che si pone a
monte dell'iniziativa “Se non ora quando”
(che com'è noto ha visto la mobilitazione di molte donne provenienti
da esperienze politiche, civili e personali fra loro differenti).
Ciò
che accomuna il documentario di L. Zanardo e l'appello di C. De
Gregorio, come anche le richieste del movimento “Se non
ora quando”, è la critica al
modello e all'immagine di donna considerati tipici prodotti del
“berlusconismo”, della sua propaganda, della sua visione del
mondo e della televisione da esso colonizzata.
Tanto
Il corpo delle donne
quanto l'appello di Concita De Gregorio tendono, secondo V.
Ottonelli, a dividere nettamente l'universo femminile in due precise
categorie, sino a tracciare insomma un'ideale linea di demarcazione
che separa le donne proposte come modelli dal “berlusconismo” (e
dalle “sue” televisioni) da tutte le altre, rappresentate –
attraverso tale impostazione – come le “vere donne”.
C'è qualcosa, in questa
semplice e semplicistica suddivisione delle donne in due “classi”,
che risulta inaccettabile, e la studiosa ne spiega il motivo in
questi termini, anche stavolta molto schietti:
«[...]
le donne che si sacrificano, studiano, lavorano, fanno figli, ecc.
non sono più “reali” semplicemente perché vivono e abitano
nella realtà di tutti i giorni, a differenza delle soubrette
imbellettate degli spettacoli televisivi: sono più reali perché più
“vere”, nel senso che si tratta di “vere donne” allo stesso
modo in cui si dice che uno che spezza il fil di ferro coi denti è
un “vero uomo”. Dietro a questo giudizio, in altre parole, c'è
una vera e propria gerarchia dell'essere, coniata su una retorica e
un'estetica di marca essenzialmente tradizionalista, se non fascista,
sulla quale c'è poco da discutere: si tratta ancora una volta di
dividere il genere umano in classi, attività diffusa in molte epoche
e in molti ambienti, ma che dovrebbe essere evitata il più
possibile, tanto più quando i gradi di “realtà” delle persone,
o i gradi in cui le donne sono “vere” donne e gli uomini “veri”
uomini, sono ricalcati su modelli retrogradi ed etiche del
sacrificio» [Ottonelli
2011, p. 35].
Ovvero, il femminismo
moralista, affermando che le “vere donne” sono soltanto quelle da
esso indicate (cioè quelle che “studiano”, “lavorano”,
“fanno figli” e soprattutto “sacrifici”), stabilisce in
sostanza che tutte le altre non meritano di essere considerate
altrettanto “vere”, non meritano quindi di essere considerate
donne a pieno titolo, in quanto non hanno scelto di impostare la loro
vita secondo “valori veri”, o meglio “autenticamente
femminili”, ed essendo condizionate dall'immaginario del
“berlusconismo” o anche semplicemente della televisione, sono di
quest'ultimo succubi – motivo in più per non considerarle davvero
e sul serio come soggetti morali autonomi e perciò degni di stima. E
anzi, le “vere donne” dovrebbero schierarsi contro queste donne
“non vere” perché queste ultime farebbero il gioco di chi umilia
e offende le prime, quelle “vere”. Insomma, le donne “non vere”
gravitanti nell'orbita del “berlusconismo” (fuor di metafora: le
soubrette che impazzano sul teleschermo, le invitate “esclusive”
alle cenette del Presidente, le “olgettine” ed escort
assortite...) sarebbero una sorta di “quinta colonna” del
“nemico” in seno alla categoria “pura” delle “vere donne”.
Come Valeria Ottonelli fa
notare, questo modo di ragionare è pericolosamente affine a quello
del tradizionalismo sessista. Chi stabilisce quali sono i “veri
valori” e i criteri che, soli, sono in grado di definire se una
donna è una “vera donna” oppure no? E come e perché vengono
scelti certi valori e certi criteri e non altri? Non sono, forse,
ancora una volta i rapporti di potere presenti nella società a
guidare la scelta e a orientarla in una determinata direzione?
E attenzione, perché
dall'altra parte, nella “tana del lupo” (laddove imperano altre
gerarchie di potere, che vedono in testa alla piramide il cosiddetto
“maschio-alpha”) si fa in sostanza la stessa cosa, anche se (ed è
solo qui la differenza, nel tipo di soggetto prescelto) si dà la
patente di “vera donna” solo alla donna giovane, piacente, ben
truccata e “disponibile”.
Quando
si sente parlare di “vera donna” o di “vero uomo”, si è in
presenza di un discorso autoritario: ovvero laddove vengono
pronunciate queste espressioni, c'è qualcuno, da qualche parte, che
si arroga il diritto di attribuire patenti esclusive, di stabilire
chi è in e chi è
out, e quindi di
decidere chi può a pieno titolo far parte della “tribù”, in
quanto “vero uomo” o “vera donna”, e chi invece ne è escluso
come indegno. E' un modo di procedere “tribale”, dunque, nel
peggiore dei sensi, ed è volto soltanto a confermare il potere dei
“capi”, dei “decisori”, che premiano – concedendo la
patente di “vero uomo” o “vera donna” – la fedeltà ai
valori che essi ritengono gli unici validi; è un procedimento che è
eminentemente tipico della mentalità tradizionalista, ed è infatti
volto a perpetuare i luoghi comuni, gli stereotipi di genere e i
pregiudizi di una collettività.
(Tanto
è vero che poi, e non certo per pura combinazione, come fa notare
Valeria Ottonelli, l'identikit della “vera donna” tracciato dal
femminismo moralista coincide con quello della donna che – secondo
un'ancestrale tradizione – si “sacrifica” per la famiglia).
La “giovane disponibile”,
che mette a frutto le proprie grazie per ricavarne un compenso, è
probabilmente un'opportunista e una persona moralmente “disinvolta”;
ma è per questo anche una donna “non vera”? Fino a che punto,
poi, è moralmente autonoma e fino a che punto è “succube” del
sistema, condizionata (dalle televisioni, forse?) o plagiata e dunque
incapace di fare scelte consapevoli? (E chi può dirlo? chi è
autorizzato a rispondere al suo posto?)
La
società “mercatizzata”, dov'è in atto una sorta di
“compravendita universale”, che riduce pressoché ogni rapporto
sociale a puro scambio economico (o preme fortemente, al limite
irresistibilmente, in questa direzione), è il vero problema, e su
questo piano andrebbe spostato il discorso, anziché farlo volare
basso intorno alla diatriba fittizia e sterile “vera donna”/
“donna non vera”.
E'
la “mercatizzazione generalizzata” (vero paradigma onnivoro del
nostro presente) che attraverso il flusso di denaro che genera,
mantiene e perpetua le gerarchie sociali “squilibrate”
attualmente esistenti (fondate in realtà sul nulla, dal momento che
la ricchezza che un soggetto possiede non è di necessità
direttamente proporzionale ai suoi meriti umani, sociali, civili,
intellettuali, ecc.), perché chi è in posizione di vantaggio, può
comprare il tempo e la vita di un insieme innumerevole di persone,
tenendole a propria disposizione per i bisogni più disparati – che
nel tempo si allargano a dismisura, fino a combaciare potenzialmente
con ogni necessità e desiderio del “pagante”.
E
chi è socialmente svantaggiato finisce per calcolare come
“opportunità” (di riscatto sociale, ad es., oltre che di
arricchimento) il tempo e persino il corpo che mette a disposizione
del proprio “compratore”.
In
questo quadro, la barriera ideale posta dalla “morale corrente”
(con termini più antichi, dal “buoncostume” e dal “decoro”),
lungi dal mettere in crisi la vocazione espansiva del paradigma
“mercatista” costringendolo a recedere e ad abbandonare certi
territori dell'esistenza, diventa invece soltanto un fattore che fa
salire il costo del “servizio” richiesto e ne accresce dunque il
“valore di mercato”.
E
per tornare alla “retorica dell'autenticità”, osserva Valeria
Ottonelli:
«Quello
che spesso succede [...] quando ci viene chiesto di essere
“noi stessi”, di mostrare la nostra “vera faccia”, è che ci
si invita ad aderire a un qualche modello di come dovremmo
essere e che è diverso da come
appariamo agli altri e da come gli altri
ci interpretano. Quando ci viene detto che non siamo
autentici, c'è sempre un po' di sottile violenza in chi ci attacca
[...]» [Ottonelli 2011, p. 42].
Quando
qualcuno rimprovera qualcun altro di non essere “autentico” o
critica determinati comportamenti o valori in quanto “non
autentici”, si colloca di fatto su un piedistallo o meglio su un
pulpito poiché si sente investito del diritto, o persino del “sacro
dovere”, di mostrarci attraverso le sue parole la “luce” di ciò
che è autentico, riportandoci sulla “retta via”.
Dove
si sente parlare di autenticità, possiamo star certi che ci sono
nelle vicinanze “solerti guardiani dell'autenticità” che
vigilano attenti.
E'
un bel dire: “Sii te stesso/a!” Cosa significa, al di là
dell'allettante formula, della quale forse nei nostri tempi si abusa?
Ma
soprattutto – come sottolinea V. Ottonelli, prendendo spunto in
particolare dalla critica che L. Zanardo rivolge alla chirurgia
estetica, “burqa di carne” – è problematico asserire
l'esistenza di un “dovere di essere autentici” o di un “dovere
di essere sé stessi”. Su cosa si fonda un simile dovere? chi lo ha
stabilito, e per quale scopo? (e torniamo in fondo alla distinzione
fra “morale” e “moralismo”: la morale deve elaborare
argomentazioni convincenti per sostenere le proprie asserzioni; il
moralismo si accontenta di sentenziare e condannare, postulando anche
l'esistenza di doveri che poi non sa giustificare.)
Il
problema è che l'autenticità assoluta non esiste, è una chimera.
Così come non esiste l'assoluta autonomia. Non siamo monadi, viviamo
in una trama di rapporti sociali, fin da quando nasciamo, e i nostri
comportamenti e le nostre scelte non si spiegano interamente al di
fuori di ciò che siamo in relazione
ai contesti sociali nei quali ci siamo formati o coi quali
interagiamo.
Come
fa correttamente notare Valeria Ottonelli:
«[...]
pensare che le persone che ci circondano, e noi stessi, nella
misura in cui nella nostra vita quotidiana facciamo scelte che
obbediscono a pressioni sociali e culturali non siamo autonomi è
inutilmente offensivo nei nostri confronti. Siamo autonomi quanto
basta, anche se non siamo completamente autodeterminati e non stiamo
a scandagliare le nostre motivazioni recondite quando facciamo le
stesse scelte che più o meno fanno tutte le persone nella nostra
posizione sociale» [Ottonelli 2011, pp. 43-44].
Nessuno
può creare da se stesso i punti di riferimento (culturali, sociali)
ai quali rivolgersi per orientarsi nelle scelte e nei comportamenti:
pensare il contrario è surreale; dunque, sotto questo profilo,
nessuno/a può essere “autentico/a” (se si considera autentico
chi è completamente libero da ogni condizionamento sociale,
familiare, culturale, ecc.), e tutti finiremmo per essere bocciati/e
in un ipotetico “esame di autenticità” dai “solerti guardiani”
della medesima.
Interessante analisi di un testo che immagino altrettanto interessante.
RispondiEliminaTi confesso una cosa: a me le donne che si schierano contro altre, accusando queste ultime di non rendere un buon servizio all'immagine della donna, hanno sempre dato i brividi. Non esiste un'immagine univoca della donna e della femminilità.
Le soubrettine, le veline, le olgettine ecc. fanno parte di un fenomeno sociale ben più complesso che non può essere ridotto solo allo stereotipo di una certa femminilità da condannare e giudicare.
Già indicare un modello di femminilità giusto, piuttosto che un altro, è una chiusura, una forma di discriminazione non meno peggio di quella maschilista.
Concordo anche sul fatto che se le donne vogliono ottenere maggiori riconoscimenti sociali e culturali non dovrebbero stare ad aspettare che muti lo sguardo prospettico dell'uomo su di esse, ma farsi artefici attive del dirottamento di questo sguardo. Certo, i cambiamenti culturali richiedono tanto tempo e questo un po' sconforta.
Comunque le donne, da sempre, sono le peggiori nemiche di se stesse. Gli uomini sanno essere più solidali tra di loro. Forse perché per secoli a noi è stato negato il pieno dispiegamento delle nostre potenzialità e questo ci ha rese più fragili, più bisognose, a volte, di parteggiare per la parte maschile, a volerne ricevere appoggio e benevolenza. L'accondiscendenza verso l'uomo credo sia il male peggiore.
Infine, riguardo l'autenticità, anche qui mi trovo d'accordo con le riflessioni dell'autrice e con le tue.
Molti confondono "autentico" con "naturale", ma sappiamo bene che tutto è sovrastruttura culturale, anche il solo fatto che intellettualizziamo certi discorsi, quindi di "naturale" non c'è nulla ed autentico è tutto ciò che, in una qualche misura, si fa più vicino al sentire di una persona; faccio un esempio: se una persona ha la sfortuna di nascere uomo ma di sentirsi, percepirsi donna, e desidera, per meglio far aderire la sua immagine mentale di sé stesso a quella reale e concreta del corpo, di operarsi, dovrebbe, soltanto per questo, essere definito meno autentico? Io non sono d'accordo.
Perché le vere donne dovrebbero essere solo quelle che hanno figli e lavorano? Se una ha la fortuna di non aver bisogno di lavorare o non vuole mettere su famiglia, per questo è meno donna?
Sì, l'imperativo dell'"essere autentici" è di matrice autoritaria; implica infatti l'esistenza di una qualche pseudo-autorità che stabilisca (su che base?) chi è autentico/a e chi no. E non è di solito una scelta innocente o disinteressata, ma presuppone sempre un giudizio di valore volto a decidere quali "prescelti" saranno premiati, indicati come modello, ecc., e quali "esclusi" saranno invece - in quanto "inautentici" - consegnati a una qualche gogna o a un qualche ostracismo.
EliminaE invece, non esistono "veri uomini" o "vere donne", come non esistono "veri europei", "veri italiani", "veri napoletani", ecc.; ma solo (una pluralità di) "uomini", "donne", europei, italiani, napoletani, ecc., che *proprio nella loro sconfinata varietà*, i cui caratteri sono indecidibili a priori, costituiscono la "generalità" (altrettanto indefinibile) della loro "specie" o del loro "genere".