Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

venerdì 15 giugno 2012

Tendenze-revival: in certi posti la povertà è di nuovo una "colpa"


Tante le notizie che ci càpitano sotto gli occhi durante la giornata. Molte volte non riusciamo a soffermarci come si dovrebbe su ciascuna di esse: e in effetti dietro molte notizie che passano quasi sotto silenzio, perché considerate “secondarie”, si nascondono problemi o ingiustizie che in realtà riguardano – o potrebbero prima o poi riguardare – tutti/e noi.

Qualche volta però una notizia di queste, pur immersa nel “mucchio” delle tante, riesce a far accendere una lampadina nella mente perché ci illumini su tutte le implicazioni che certi avvenimenti del mondo portano con sé.

A me qualcosa del genere è successo ad esempio ieri, leggendo questa notizia sul blog “E-Il Mensile”.


A Philadelphia e in alcune altre città statunitensi (fra cui Atlanta, Los Angeles e Dallas) da qualche tempo è vietato condividere il cibo con i senzatetto, con i clochard. Non si deve “dar da mangiare ai barboni”, insomma...

Al primo impatto, non potevo credere a ciò che leggevo. “No, non si può arrivare a tanto!” mi sono detto.

E invece non si tratta realmente di una novità: anche in passato, per un lungo periodo, c'era la tendenza a colpevolizzare i poveri per la loro condizione, e periodicamente, sia pure con forme e sfumature diverse, questa “tentazione” è tornata anche in tempi recenti ad affacciarsi nelle nostre società.

Cosa c'è di male, di orribile, di sbagliato, nel condividere un po' del proprio cibo con un povero? con un senzatetto? Solo se attribuiamo a quel povero una colpa, il divieto di nutrirlo si spiega (anche se a mio parere comunque non si giustifica); e – seguendo questo ragionamento – qual è la colpa del povero, se non la sua stessa povertà?

Ma perché, in quale modo, attraverso quale percorso mentale, possiamo arrivare a ritenere la povertà una colpa sociale, un marchio d'infamia?

Se la povertà e i suoi segni evidenti, come la fame e la mancanza di un tetto, li consideriamo colpa in sé, a prescindere anche dalla storia dei singoli poveri senzatetto, in effetti non facciamo altro che personificare il “destino” (il Fato degli antichi), rendendolo un'entità dotata di intelligenza e discernimento, che sa quello che fa; e dunque, se costringe una persona a vivere da clochard, privo di mezzi e di una casa, lo fa a ragion veduta.

Il “destino” svolge quindi la funzione di “pregiudizio”, in quanto diventa lo strumento (o meglio il pretesto o l'alibi) mediante il quale – prima ancora di conoscere le vicende di un concreto povero senzatetto, e anzi facendo a meno di approfondirle – esprimiamo una condanna inappellabile circa la sua persona, la sua storia, le sue vicissitudini, ecc.

L'idea del destino come perfetto regolatore della giustizia esclude alla radice la possibilità delle ingiustizie umane e sociali, sicché credere nell'esistenza di un destino siffatto significa negare l'esistenza di tali ingiustizie, anche contro qualsiasi evidenza. Insomma, se crediamo che ciascun povero abbia meritato la sua povertà, non ci dobbiamo sentire in obbligo di soccorrere alcun povero o di alleviarne le condizioni.

E anzi, se la povertà discende da un destino sempre giusto, equo e onnisciente, andare contro i voleri di quel destino è atto sbagliato, ingiusto e degno di biasimo. Lasciare i poveri al loro destino, secondo questa concezione, diventerebbe in sostanza il miglior comportamento possibile, e addirittura un atto meritevole della più alta considerazione.

E' da ragionamenti come questi che derivano norme come quelle adottate nelle città statunitensi di cui si parla nell'articolo indicato dal link.

Ma dobbiamo chiederci: esiste realmente un'entità, definibile come “destino” o in qualsiasi altro modo, che conduce e/o determina in maniera perfettamente giusta le nostre vite?
Domanda che a sua volta richiama immediatamente la seguente: si può davvero ritenere che non esista l'ingiustizia nel mondo, o che essa non influenzi mai e in nessun modo le nostre condizioni di vita? Si può ritenere insomma che gli elementi e le condizioni di partenza i quali fanno in modo che la nostra vita assuma una determinata direzione piuttosto che un'altra (condizioni economiche della famiglia di provenienza, assenza/presenza di gravi conflitti nel luogo in cui si è nati e/o cresciuti, condizioni di salute, ecc.) siano equamente e perfettamente distribuiti nella società?

La risposta a queste domande a mio parere non può essere positiva – a meno che non si voglia negare ostinatamente l'evidenza (ad es. per motivi ideologici).

Inoltre, non è inutile sottolineare come di solito sia il potente o il privilegiato – o comunque colui/colei che si trova in posizione di vantaggio – a dire, rivolgendosi al diseredato: “Accetta il tuo destino”. Non è di secondaria importanza capire chi dica cosa a chi, e per quale ragione...

Certo, qualcuno può anche obiettare: “D'accordo, le ingiustizie ci sono, non lo nego; ma ci sono sempre state e sempre ci saranno, perciò le dobbiamo accettare.”

Che ci siano sempre state è un fatto, se parliamo di “ingiustizie” in senso approssimativo e generico; e siccome non possiamo prevedere l'avvenire, neppure possiamo dire che scompariranno del tutto; ma questa constatazione prudenziale non ci esime dal riconoscere due fatti: a) le ingiustizie di oggi non sono necessariamente le stesse di ieri, o si presentano comunque in forme differenti rispetto al passato: gran parte dei “sommovimenti” della storia è nata proprio dall'insoddisfazione di alcuni popoli o di alcuni gruppi sociali per l'iniqua distribuzione delle risorse e delle opportunità di vita nel mondo – il che ha comportato nel tempo numerosi cambiamenti, che hanno portato a migliorare le condizioni di vita di alcune popolazioni o di alcuni gruppi sociali; non una trasformazione “perfetta” delle cose, certo, ma una serie di cambiamenti graduali e, pur nella loro incompiutezza o limitatezza (e pur tenendo conto di tentativi sbagliati o non riusciti), non insignificanti [analizzando la storia sul lungo periodo, dunque, ci si accorge che non ci si arrende mai, in realtà, ai presunti “voleri” di una fittizia entità come il “destino”, inibendosi qualsiasi tentativo di cambiamento, se non in periodi e/o in luoghi circoscritti];

b) anche in virtù della considerazione precedente (la possibilità dei cambiamenti, nel corso del tempo), l'apparente impossibilità del superamento immediato e definitivo delle ingiustizie (in blocco e in senso generico) non è elemento sufficiente per scoraggiarci dal resistere alle ingiustizie “macroscopiche” dei nostri tempi, denunciandole (è il primo atto importante da compiere), per poi impegnarci nel comprenderne a fondo cause e conseguenze – scoprendo i nessi causali che collegano fra loro alcune forme di ingiustizia, ed eventualmente mettendo in evidenza la loro comune “radice” – e quindi anche per individuare la maniera per superarle.

Vi è poi una riflessione forse ancora più importante da fare: nessuno/a di noi può essere certo/a di non aver mai bisogno dell'aiuto degli altri. Norme come quelle che stanno approvando in quelle città statunitensi mirano a eliminare il senso di solidarietà, portando alle estreme conseguenze (e, secondo me, oltre i confini dell'umanamente accettabile) il principio dell'individualismo chiuso in e su se stesso, solipsistico e “proprietario”.

Eppure, come fa a rimanere in piedi qualsiasi legame sociale in assenza (completa assenza, come auspicano questi provvedimenti “liberisti”) della solidarietà?
Perché mai adesso si è diventati intolleranti (“tolleranza zero”...) nei confronti della solidarietà?
Una ragione per questa crescente “insofferenza” andrà pur cercata, capita, spiegata.

Chi è sicuro/a di poter fare a meno comunque e sempre della solidarietà altrui? Forse soltanto alcuni ricchissimi privilegiati chiusi in quartieri chic recintati col filo spinato e sorvegliati giorno e notte da pattuglie di vigilanti. Questo sembra essere il modello che certe norme hanno in mente: una società nettamente divisa in ceti, come nell'ancien régime, in cui le prerogative dei privilegiati diventano sacre, indiscutibili e intoccabili, e i “destini di vita” sono fisicamente separati dal filo spinato e dalle telecamere di sorveglianza.

Essere solidali significa anche mettere in discussione qualcosa di sé – dando qualcosa del “prezioso” sé agli altri e scendendo dall'invisibile piedistallo sul quale ci si è collocati – e questi nuovi privilegiati “blindati” non accettano di mettere in discussione le basi della loro “appartenenza di casta”: secondo loro devono essere accettate come un “dato naturale” (esattamente come pretendevano i nobili nell'ancien régime), giacché se si comincia a voler “indagare” troppo e a farsi troppe domande, si può scoprire che nessun privilegio è slegato dalla società che lo produce e lo consente, e che non è quindi un “dono del cielo” a questo/a o quel(la) singolo/a “predestinato/a”, per quanti meriti costui/costei possa avere.

Quelle norme che stanno “dilagando” da una città all'altra negli Stati Uniti sono “disegnate” per questo tipo di mentalità di ceto; ma chi non rientra nel ristretto numero degli “eletti” e dei “baciati dal destino” come fa ad appoggiarle? Come fa ad essere sicuro/a di non potersi ritrovare un giorno senza averi e senza casa, e di non aver bisogno di una mano d'aiuto?

Certo, forse la benevolenza delle autorità locali di quelle città ha pensato ad alloggi “autorizzati” per i senzatetto – o almeno così mi pare di intuire; ma questo significa irreggimentarli, sottoporli a una sorta di “tutela obbligatoria”, rendendoli di fatto cittadini “di serie B”. Intendiamoci, gli “alloggi autorizzati” vanno bene, ma solo se non diventano un “recinto obbligatorio”, dal quale i senzatetto siano costretti – in maniera palese o implicita – a non poter più uscire.

Nessuno deve dar loro da mangiare” è un ordine che serve proprio a questo: vien fatta terra bruciata intorno ai “cittadini di serie B”, in maniera che se ne stiano buoni e zitti nel loro recinto, consapevoli di non poter trovare altrove nessun aiuto e nessuna comprensione, come se fossero appestati o nemici di guerra.

Forse quella povertà, per il fatto stesso di esistere nel nostro “bel mondo”, ci accusa silenziosamente e noi cerchiamo di ribaltare quella accusa per liberarcene.

Soprattutto se si ha la sensazione che la povertà stia crescendo, la sua visibilità rischia di delegittimare lo “stato delle cose”: forse è di questo che hanno timore coloro che hanno pensato e varato quelle norme. E se aumentano specialmente le famiglie senzatetto (o comunque coloro che il tetto l'hanno perso non per loro volontà, ma a causa di licenziamenti, fallimenti di ditte, ecc.), cosa si fa? Le si manda negli “alloggi autorizzati” o si fa in modo di trovar loro una vera casa, dove i loro componenti possano vivere da persone libere e non da reclusi e/o sorvegliati?

Eh, ma trovar loro una casa sarebbe troppo, secondo i canoni del liberismo imperante: già, si tratterebbe del diritto alla casa, ossia sarebbe socialismo, e questa parola in certi posti (specialmente nei santuari mondiali del “mercatismo”) non la si può nemmeno pronunciare, neanche... per una buona causa (anzi, soprattutto se si tratta di una buona causa, perché poi i cittadini potrebbero prenderci gusto...).

Temo – anzi sono profondamente convinto – che ciò che viene descritto in quell'articolo non sia una vicenda marginale, davanti alla quale possiamo permetterci di scrollare le spalle e passare oltre. O meglio, pur non essendo una questione marginale, ci parla proprio di ciò che accade ai margini, perché è dai margini di un sistema (sociale, economico, ecc.) che se ne comprende il reale funzionamento: è nelle “periferie” delle grandi costruzioni sociali e politiche che emergono con tutta evidenza (e dunque, messi a nudo, si comprendono) i veri costi, in termini umani e morali, di quelle stesse “costruzioni”.

Perché la cosa tutto sommato ci riguarda? Ecco, forse perché la “periferia” si estende; sì, la vediamo e la sentiamo estendersi in modo irregolare, ora più veloce ora più lento, talora persino impercettibile, ma comunque finora inarrestabile. Va bene, d'accordo, non vogliamo dircelo ancora a piena voce, perché certe promesse in cui avevamo creduto avevano un suono ammaliante – crescita illimitata, competitività, il migliore si arricchisca di più e agli altri/e le briciole (“sono comunque belle grandi quelle briciole, non potete lamentarvi!”). E non avevamo pensato all'infinità delle variabili – che inizialmente se ne stavano innocue nelle retrovie dell'euforia – e ai rischi che comportavano, di cui del resto nessuno ci aveva parlato con chiarezza. Ci sanno proprio fare, certi piazzisti... e poi quelle briciole: com'erano belle e luccicanti, le briciole che ci mettevano sotto gli occhi! Ci sarebbe cascato chiunque, no?

13 commenti:

  1. Jeremy Rifkin, nel suo "Il sogno europeo" - in cui descrive le caratteristiche della civiltà e cultura europee e le confronta con quelle degli Stati Uniti - afferma che alle radici della società statunitense si può ben dire di trovare questo binomio: calvinismo ed utilitarismo.
    Nell'ottica calvinista la povertà e la malattia sono infatti segni esteriori di "rifiuto" e "punizione" divina, quindi il povero, il disgraziato, il malato è colui che non è redento, colui che non ha meritato la salvezza, giacché vi è una predestinazione alla nascita, ossia la salvezza non è qualcosa che si conquista, ma cui si è predestinati o meno dalla nascita.
    Segni distintivi di essere nelle grazie del Signore sono invece il successo, la salute, la serenità, un buon lavoro, una bella casa ecc..
    Questa mentalità, per quanto oggi difficilmente riconducibile alle sue profonde radici religiose, è comunque assai diffusa negli Stati Uniti. Il povero porta lo stigma sociale di colui che è fuori dalla grazia divina, che non è predestinato. Per questo negli Stati Uniti fallire è una tragedia, il successo e la ricchezza contano moltissimo, così come la bellezza, la forma fisica, il successo sociale: sono segni esteriori di grazia divina, significano molto di più di mero benessere materiale.
    Pure secondo la religione buddhista il povero non andrebbe aiutato perché si interferirebbe con il suo karma. Deve farcela da solo.

    Residui religiosi, quindi. Alla faccia della carità cristiana!

    Ovviamente la povertà ha invece precise e ben identificabili cause sociali, che nulla c'entrano con il destino, o fato (o come lo si voglia chiamare) o con l'esser fuori da qualsivoglia grazia divina: quelle della sperequazione. E diceva bene Victor Hugo ne "L'uomo che ride", il ricco si siede sui poveri. La ricchezza di alcuni, tanti o pochi che siano, è sempre costruita a discapito di qualcun altro, così funzionano le ferree leggi del capitalismo, dove chi non ce la fa è relagato ai margini, lasciato indietro perché "se lo merita", perché ha dimostrato di non essere tanto capace.
    Sapessi quante volte mi è capitato di sentir rivolgere ai poveracci e senzatetto frasi come: "ma andassero a lavorare", "sono dei fannulloni" ecc..
    Eppure il confine tra "noi" e "loro" è così sottile, in fondo basta poco per perdere tutto: qualche rata di mutuo non pagato, la perdita del lavoro, amici o famiglia assenti e ci si ritrova dall'oggi al domani in mezzo ad una strada. E non perché non si ha voglia di lavorare o perché si è fuori dalla grazia divina o vittime di un fato crudele, ma solo perché il funzionamento del sistema permette questo.
    Tra i pilastri della cultura europea - e ciò che appunto la contraddistingue da quella americana - c'è proprio lo stato assistenziale; valori come la carità, la solidarietà, la compassione verso chi è stato più "sfortunato" (per varie cause, magari perché semplicemente è nato in una famiglia indigente dalla quale non ha saputo affrancarsi, o per affari andati male, o per cause di malattia) sono alla base della nostra società e dovremmo cercare di difenderli e ribadirli più che mai.
    Ci sono casi in cui trasgredire alcune leggi o ordinanze diventa necessario: quella di non sfamare gli affamati è semplicemente follia e come tale spero che nessun cittadino, americano o meno, la rispetti.
    Un caro saluto e grazie per aver scritto su un argomento davvero importante.

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    1. Giusto quello che dici in merito alle radici della cultura americana. La tendenza a giudicare pressoché soltanto dal "successo mondano" il valore di una persona (come se nessun'altra dimensione dell'umano fosse altrettanto importante, neppure le qualità interiori, ecc.) - e quindi a considerare l'insuccesso (e quindi i rovesci della vita, dovuti spesso a fattori imponderabili) come una "colpa" - è una delle caratteristiche del modello sociale statunitense.
      Nonostante le differenze però neppure noi siamo oramai immuni da questa tendenza, impregnati come siamo dell'"etica del successo", della "competizione senza limiti", ecc.; quando le altre dimensioni del vivere e del con-vivere vengono schiacciate e ridotte alla marginalità (se non all'assenza), il risultato è quello di cui parlavo nel post. E anche da noi si vedono i segni di questa tendenza... anche nell'esperienza quotidiana.

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    2. Opportuno il riferimento alla considerazione di Victor Hugo: nessuna ricchezza può basarsi esclusivamente sulle capacità (vere talvolta, e troppe volte solo presunte...) di chi la possiede; senza il lavoro (spesso oscuro, misconosciuto e/o mal retribuito) e senza le condizioni "ambientali" che la società offre, il "ricco" non sarebbe tale, e anzi lo stesso concetto di ricchezza, e il denaro, sarebbero inconcepibili. Forse tutti faremmo bene a ricordare umilmente anche questi "dettagli", quando discutiamo (in astratto) di "diritti" che riguardano gli "averi". Ma ovviamente questo tema - per essere adeguatamente approfondito -richiederebbe un'ulteriore discussione...

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    3. Eppure il confine tra "noi" e "loro" è così sottile, in fondo basta poco per perdere tutto: qualche rata di mutuo non pagato, la perdita del lavoro, amici o famiglia assenti e ci si ritrova dall'oggi al domani in mezzo ad una strada
      E' un punto estremamente importante, secondo me. Dovremmo rifletterci più spesso. La differenza fra chi ha e chi non ha è labile, sottile, inessenziale, legata com'è a fattori imponderabili, fragili, che spesso poco hanno a che fare con le vere capacità di ciascuno di noi; eppure nel nostro modello di vita diventa la differenza, dalla quale viene fatta discendere una serie impressionante di conseguenze.
      Il fatto è che spesso ragioniamo, parliamo e ci comportiamo in società come se il modello di vita nel quale siamo immersi (e che contribuiamo, tanto o poco, consciamente o inconsapevolmente, a tenere in piedi) obbedisse a logiche connesse con il merito, la giustizia, ecc.; soltanto se queste logiche fossero effettivamente operanti, e non solo immaginarie o fittizie (in quanto funzionali alle convenzioni sociali), potrebbe avere un qualche senso ritenere che il povero, in quanto tale, sia un "fannullone" o un "buono a nulla" e "se la sia cercata" la sua povertà (sempre e comunque).
      Un saluto e grazie infinite per il tuo commento!

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  3. Le vere discriminazioni, tra gli uomini - mi scuso se parlo in termini così generali, ma porterò qualche esempio in seguito - credo siano tutte innestate su motivi di matrice economica, sulla paura d'essere contaminati dalla povertà. A parte le frange più estremiste, il razzismo non è forse più che il terrore del diverso culturalmente, il terrore del diverso "economicamente"?
    Prendiamo la situazione italiana. Durante il boom economico, al nord, è iniziato il razzismo contro i "terroni", durante le grandi ondate di emigrazione interna, masse di genti dal meridione salivano su a lavorare sottopagate e sfruttate e vivevano sostanzialmente come oggi vivono gli immigrati clandestini: in povertà e senza diritti. I meridionali erano discriminati ed emarginati.
    Oggi che i meridionali salgono al nord per studiare, lavorare in banca, in ufficio, o nell'esercito, nella scuola, nelle poste, questa forma di razzismo s'è notevolmente spuntata, in sostanza non c'è più. chissà perché? forse perché oggi hanno una ricchezza che può dialogare con quella posseduta prima dai settentrionali?
    sì mi si dirà, però c'è la lega, è vero; ma la lega ora è alfiere e ricettacoli di nuovi malumori: gli extracomunitari che guardanpò sono poverissimi.
    quindi, mi chiedo, è una questione razziale, una questione culturale che creano discrimine oppure queste questioni (cultura, provenienza, diversità)fanno da sponda, fanno da rinforzo alla vera questione cardine che è il fattore economico?
    oggi, gente di Catania o di Napoli non è integrata se vive al nord? ma anni fa, quando vivevano in venti in una casa e non facevano altro che lavorare e lavorare, non facevano mai sciopero ed erano poverissimi e sfruttati, vi pare che ci potesse essere integrazione?

    oggi è il turno degli extracomunitari, ad esser poveri e quindi ad essere discriminati...
    l'imprenditoria ha solo vantaggi a finanziare narrazioni per tv e stampa che diano addosso a queste minoranze, così che negli italiani non si generi il moto di aiutarli, di aiutarli politicamente a migliorare la loro condizione. ecco dove sta la lega nord o dove stanno i partiti di estrema destra e destra in europa. stanno alla difesa del lavoro in nero, che tanto fa comodo ai piccoli medi e grandi imprenditori che pagano la manodopera un quinto del dovuto, bypassando la legge.
    se gli immigrati ottenessero più assistenza, a rimetterci sarebbero questi signori qui.
    quindi il discorso razzista per cultura è una grande macchinazione per disorientare la gente, per allontanarla dagli affari che contano. il vero razzismo è quello finanziario, perché chi più ha non cede un pollice a chi ha di meno, anzi, crea attorno a lui una cortina di retoriche calunniose ("gli entracomunitari stuprano le nostre donne") che servono di modo che la gente non si faccia impietosire dalle loro condizioni. anzi, fanno in modo che la gente abbia ancora più paura, ché colla paura si fanno i miliardi e si costruiscono fortune, economiche e politiche.

    un saluto

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    1. Sono d'accordo con le tue considerazioni.
      I luoghi comuni negativi che fioriscono intorno ai poveri creano vere e proprie "fobie collettive" e sociali, continuamente alimentate e rinfocolate da chi ha interesse a servirsene per i propri scopi politici, e si può assistere in alcuni casi, nel corso del tempo, a vere e proprie escalation di intolleranza, basate su narrazioni discutibili che, trasformando arbitrariamente i poveri o i "paria" di turno in mostri, creano un clima sociale e culturale che può portare talvolta al linciaggio dei presunti "reprobi" o "mostri" (morale, o persino letterale, fisico...).

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    2. Anche nei nostri tempi, per altri aspetti così disincantati e scettici, si presentano troppo spesso inopinate paranoie sociali, veri e propri lucidi deliri simili a quelli di coloro che secoli or sono facevano di presunte "streghe" e di fantomatici "untori" i capri espiatori delle loro paure e ossessioni e anche delle loro collettive disgrazie (che a quel tempo erano la peste, la carestia, ecc.).
      La povertà è uno dei bersagli principali di queste ossessioni e dei lucidi deliri che ad esse talora si accompagnano. Perché - come giustamente fai notare - la povertà fa paura anche a livello irrazionale, ed è facile trasformare questa sorda e profonda paura in un vero e proprio "delirio collettivo" che vede nella povertà stessa una specie di "minaccia contagiosa", della quale sono portatori "non incolpevoli"... gli stessi poveri che invece - a guardar le cose lucidamente - non sono che le vittime di un "male" che non si può addebitare interamente alle loro azioni o al loro personale, peculiare modo di essere ("male" dal quale peraltro nella maggior parte dei casi gradirebbero ardentemente liberarsi!).

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    4. Condivido poi particolarmente le riflessioni che fai sugli "extracomunitari" e sui veri scopi delle narrazioni che vengono costruite intorno a loro. Semplificando un po' il discorso (giacché entrare nei dettagli richiederebbe molto spazio), possiamo dire che il povero da sfruttare, privo di ogni diritto, è funzionale a questa "macchina produttiva", e dunque quando una determinata categoria di sfruttati riesce a "emanciparsi" (ad es., nel contesto italiano e per seguire i tuoi esempi, i meridionali o coloro che provenivano da paesini sperduti, gli sfruttati di ieri), ne viene subito trovata un'altra, che non avendo alcuna forza "contrattuale", si assoggetti a lavorare per un tozzo di pane, facendo lavori massacranti, con orari "disumani" e/o per giunta in ambienti insalubri (si pensi al lavoro bracciantile, ad es.).

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    5. E a volte si assiste a un "curioso" fenomeno, le cui radici sono peraltro comprensibili: non di rado proprio la categoria che si è più di recente "affrancata" dallo sfruttamento è quella che con maggiore accanimento infierisce sui "nuovi" sfruttati che hanno preso il suo posto (la cosiddetta "lotta fra poveri"), facendosi portatrice attiva dei pregiudizi che vengono costruiti appositamente per isolare gli sfruttati e mantenerli in condizione di paura, affinché non alzino la testa. Infatti, credo che chi da non molti anni (o anche da decenni) è uscito dalla condizione di sfruttamento più "intensa" conservi la memoria di quella condizione e sappia che - in mancanza di nuovi "ultimi" che si facciano "incatenare" al suo posto - gli toccherà ricascare in quella aborrita condizione, dopo tanta fatica per venirne fuori.
      E' un meccanismo triste e terribile, dal quale non si può (cominciare finalmente ad) uscire se non mettendo allo scoperto questo stato di cose e queste dinamiche.

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  5. E' difficile parlare della famigerata lotta tra poveri... perché, come ben dici, si può rimanere solo sul vago o sul generico. Certo una famiglia povera italiana è molto difficile che sia "più" povera di una famiglia di "extracomunitari" appena arrivati in Italia. E' anche una questione di aiuti, di reti di conoscenze, contatti che una famiglia autoctona ha, rispetto a chi lascia tutto e cambia paese.
    Poi ecco anche qui la tv e la percezione populista la fanno da padrone. Si aizzano le famiglie meno abbienti contro le famiglie povere straniere che - a detta loro - sarebbero aiutate a discapito delle famiglie italiane.

    Purtroppo, i benestanti di prima generazione (chiamiamoli così coloro che da poco sono usciti da una condizione di povertà) o quelli di terza quarta quinta generazione, parlano tutti una lingua comune, e quindi finiscono per pensare alla stessa maniera... ecco perché dialogo c'è solo tra consociati... succede anche al basso, ma al basso nessuno può permettersi di imporre la propria versione dei fatti, la propria versione di realtà alla collettività (nessuno dovrebbe imporre niente... ma tant'è)...

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