Pare che in
un'intervista a Time Beppe
Grillo abbia affermato,
tra l'altro, che il suo Movimento punta al «100 per cento del
Parlamento» [«We
want 100% of Parliament, not 20% or 25% or 30%»]
e che nel momento in cui il Movimento 5 Stelle «otterrà il 100% e i
cittadini saranno diventati lo Stato, il Movimento non avrà più
bisogno di esistere» [«When
the movement gets to 100% when the citizens become the state, the
movement will no longer need to exist»].
[Qui
il testo originale e completo dell'intervista]
Tutto
chiaro? Secondo me, non del tutto; o meglio, affermazioni come quelle
riportate devono essere attentamente analizzate ed è necessario
capire bene quali implicazioni potrebbero avere.
Il
Movimento 5 Stelle, si sa, muove fin dalla sua nascita una critica
radicale e senza sfumature al
“sistema dei partiti”. Il suo slogan di maggiore impatto, in
questa campagna elettorale, è stato: “Mandiamoli a casa”
(sottinteso: i partiti, tutti
i partiti).
Per
potere con tutta libertà pretendere di “mandare a casa” il
“vecchio sistema dei partiti” per intero
il Movimento 5 Stelle deve evidentemente presentarsi come un
“non-partito”; e infatti non vuole collocarsi, per sua precisa
scelta, “né a destra né a sinistra”. Si presenta dunque come un
soggetto (o un contenitore di idee politiche) completamente
nuovo, inedito, come una novità
che con la sua sola presenza “spiazza” le vecchie categorie e i
vecchi ragionamenti politici.
In
séguito ai risultati delle ultime elezioni, hanno fatto il loro
ingresso in Parlamento molti giovani, e comunque molti “cittadini
comuni”, che fino all'altro ieri erano appunto soltanto semplici
cittadini estranei alla classica carriera politica col suo tipico
cursus honorum. La
democrazia deve essere anche questo: ricambio reale
delle classi dirigenti e inclusione del “cittadino comune” nei
processi decisionali. L'ingresso di tante “facce nuove” e “non
vip” in Parlamento (nonostante le “controindicazioni” che può
comportare sotto il profilo “tecnico”: inesperienza dei nuovi
parlamentari, ecc.) è già un passo decisivo in questa direzione e
lo si deve specialmente – come negarlo? – al Movimento 5 Stelle e
ai consensi che ha saputo aggregare.
Mi
auguro che si proceda ancora su questa strada e che anzi si migliori
l'opera, attivando processi di partecipazione (a qualsiasi livello
decisionale) sempre più efficaci, al tempo stesso affinando
strumenti atti a ridurre gli inconvenienti che si determinano in
questo tipo di procedure (ad es. il prolungarsi delle discussioni, la
difficoltà di giungere a sintesi condivise quando la platea dei
partecipanti è ampia e variegata, la necessità di operare talora
selezioni “in entrata” [ragionevoli e non arbitrarie] per evitare
il sovraccarico di domanda, la necessità di contemperare
rappresentanza e partecipazione senza sminuire l'essenza e l'apporto
dell'una o dell'altra, ecc.).
Si
tratta però di un compito tutt'altro che facile e non si può
pensare di risolverlo con formulette da salotto – ma su questo mi
soffermo in séguito.
Accanto
ai possibili meriti del Movimento 5 Stelle, per comprendere l'attuale
situazione, bisogna anche considerare attentamente la crisi che negli
ultimi anni hanno attraversato – a vario titolo e con diverse
sfumature – i partiti “tradizionali”.
Ora,
il sistema dei partiti era giunto – ben prima di queste elezioni –
ad una crisi di non facile soluzione, sicché la necessità che i
partiti finora conosciuti procedessero ad una (auto)riforma severa
del loro modo di porsi nelle istituzioni e in relazione ai
cittadini-elettori, si sarebbe potuta porre all'ordine del giorno già
da tempo.
L'occasione
non è stata colta, lo scollamento fra gruppi dirigenti ed elettori
si è nel frattempo approfondito e la “transizione tecnocratica”
montiana ha probabilmente aumentato (con la furba abdicazione
momentanea dei due maggiori partiti e il loro “machiavellico”
tentativo di evitare le responsabilità davanti al Paese) il
malessere dei cittadini.
Si
è avuta anche, in questi anni, la sensazione (forse esagerata per
alcuni aspetti ma comunque non campata in aria) che i partiti finora
conosciuti abbiano puntato, in una situazione economica
oggettivamente difficile, innanzitutto a difendere il proprio
recinto, incamerando “legalmente” a proprio beneficio risorse
pubbliche – e non disdegnando, in alcuni casi (grazie alla
sciagurata coincidenza [o quasi-coincidenza] delle figure
istituzionali del controllore e del controllato), di “approfittare
generosamente” di rimborsi spese che in ogni altra organizzazione,
pubblica o privata, sarebbero stati ritenuti scandalosi (per non
parlare poi degli eclatanti casi di corruzione in senso proprio).
Quasi
nessuno ha compreso, nonostante i numerosi e documentati dossier
giornalistici, che la spesa eccessiva, incontrollata e
incontrollabile (tradottasi talvolta in generosissimi emolumenti,
trattamenti previdenziali privilegiati, ecc.), tale da configurare un
vero e proprio “delirio di onnipotenza” da ancien
régime, da parte di taluni
influenti gruppi dirigenti politici, avrebbe portato a una vera e
propria “epidemia di sfiducia” dei cittadini nei confronti dei
loro rappresentanti politici e persino delle istituzioni.
In
sintesi, le “ricette di Monti” e il trimalcionismo sfacciato e
cinico di una frangia (che certo non rappresenta il “totale”, ma
che essendo trasversale agli schieramenti li scredita in maniera
“bipartisan”) dei ceti politici italiani hanno, nella loro fatale
combinazione di questi ultimi mesi, contribuito ad accrescere
l'appeal dello slogan
grillino “Mandiamoli a casa!”. Ma di certo le cause profonde sono
meno contingenti e vengono da lontano.
Già
solo considerando le questioni qui riassunte, si comprende che
l'esistente non è difendibile per ciò che è, ma solo per ciò che
dovrebbe essere:
ovvero, l'attuale sistema dei partiti deve riconquistare
la propria legittimazione riformandosi nel profondo e tornando a
incarnare lo strumento principe del pluralismo politico, e non
lasciarsi più andare, invece, alla tentazione di essere il versante
politico-istituzionale del peggiore "corporativismo" (neofeudale) italiano.
C'è
chi punta a sottolineare le differenze fra i partiti, anche rispetto
a tali questioni; ma non si può negare che, accanto alle differenze
che pure vi sono, esistono comunque difetti che sono comuni
all'intero sistema dei partiti: intorno a tale tema si è
avuto già modo di riflettere, su questo blog.
Detto
ciò, torniamo alle dichiarazioni di Grillo.
Mi
son detto – e qualcuno è d'accordo con me – che probabilmente
non sono da prendere alla lettera: con quelle parole forse il
fondatore del Movimento 5 Stelle intende auspicare che tutto il
panorama politico si rimodelli sull'esempio del M5S,
che quindi assumerebbe il ruolo di “paradigma del cambiamento”,
col compito di mutare in maniera permanente la forma della politica
in Italia.
Il
Movimento 5 Stelle dovrebbe diventare insomma, se l'interpretazione è
corretta, il catalizzatore e il punto di riferimento di un
cambiamento
epocale,
o il “modello di politica” per antonomasia (trasparente,
partecipata, non verticistica, ecc.), ma non
certamente
una sorta di “partito unico”.
Può
darsi che le vere intenzioni di Grillo siano quelle appena esposte, e
in tal caso contengono promesse interessanti, anche se non facili da
realizzare. Ma resta il fatto che certe affermazioni suscitano una
serie di interrogativi, anche perché il senso letterale delle frasi
citate all'inizio è tutt'altro. E non si può tranquillamente
ignorare, giacché un politico – in virtù della propria
responsabilità pubblica – non può evitare di farsi carico del
significato letterale delle proprie affermazioni o delle implicazioni
che queste hanno.
Torniamo
quindi a quelle affermazioni.
Perché
mai un partito, o un non-partito o Movimento, dovrebbe puntare al
100% dei consensi elettorali (e di conseguenza al 100% dei seggi in
Parlamento)? Non bastano forse il 51% o il 60% per governare? Perché
pretendere il 100%?
Probabilmente
nei sogni di molti partiti c'è il traguardo del consenso
universale; nessuno però lo
dichiara, poiché tutti sanno che in democrazia è altamente
improbabile.
Consenso
universale è sinonimo di
mancanza assoluta di dissenso,
e dunque di opposizione. Può una moltitudine di milioni di elettori
convergere spontaneamente
e in assenza di coercizioni o di pesanti pressioni,
come “un sol uomo”, su un unico partito
(o “non-partito”...) e raggiungere quindi un accordo
universale che elimini le
differenze di opinione, di orientamenti e di idee?
E
in virtù di cosa?
Forse
secondo Grillo – se è buona questa lettura delle sue parole –
questo traguardo è possibile se tutti gli elettori arrivano a
rendersi conto che il M5S è l'unico “alieno” nel sistema dei
partiti italiani e quindi l'unico che può spazzare via gli errori e
le contraddizioni di questi ultimi; d'altra parte, se tutti i partiti
sono “cattivi e perfidi”, solo un non-partito
può legittimamente prenderne il posto, nelle istituzioni.
Seguendo
questo ragionamento, però, si può arrivare a ritenere che gli
elettori che si ostinano
a non votare per il M5S siano “complici del sistema” e pertanto
esecrabili.
Votare
per un determinato partito è tuttavia in realtà un atto carico di
molteplici significati, che non si può ridurre ad un'unica
dimensione.
Anche
ammesso che il Movimento 5 Stelle sia il miglior movimento politico
che sia mai comparso sulla faccia della Terra, non per questo chi
vota per un partito diverso dal M5S può essere ipso facto
(cioè senza neppure indagare nel concreto casi specifici,
motivazioni specifiche di singoli concreti elettori) ritenuto
“indegno”, sconsiderato, miope, disonesto, corrotto, ecc.
Soltanto
se il Movimento 5 Stelle riuscisse a dimostrare – come mai nessuna
dottrina, religiosa o politica, è riuscita a fare in maniera
convincente e incontrovertibile – di rappresentare, in
maniera esclusiva e monopolistica, nei suoi princìpi ispiratori, nel
suo programma d'azione e nella sua pratica,
la Verità assoluta e la Giustizia pura, potrebbe pretendere di
giudicare con disprezzo e commiserazione e perfino di “scomunicare”
chiunque non pieghi le ginocchia davanti al Movimento, accettandone
incondizionatamente la supremazia.
Certo,
chi è convinto di detenere l'unica verità possibile,
arriva per forza di cose a negare la legittimità di posizioni e
opinioni differenti e dunque del dissenso, e tenderà a screditare
tutti coloro che non si riconoscono in quella presunta “verità
assoluta”, come persone in malafede, corrotte, conniventi, ecc.
Bisognerebbe sempre evitare di imboccare questa strada, che porta
molto lontano dalla ragionevolezza e anche dalla razionalità dei
giudizi.
E
– riprendendo l'ipotesi di prima – anche ammesso che il Movimento
5 Stelle sia il miglior movimento politico che sia mai comparso sulla
faccia della Terra, le sue ragioni non possono essere le “uniche
vere” o le “uniche giuste”. Questo vale per qualsiasi
aggregazione umana, che si chiami “partito”, “movimento”,
“associazione”, “gruppo”, ecc.: non è questione di
denominazioni, qui...
Non
nego affatto che il M5S abbia buone argomentazioni e/o che molte
delle sue critiche al sistema dei partiti siano fondate. Ma questo
non vuol dire – in senso assoluto, aprioristico e definitivo –
che nessun altro all'infuori del M5S abbia buone ragioni da
difendere.
Alcune
domande a questo punto si impongono.
Volere
il 100% dei consensi significa forse disprezzare il pluralismo? Ha
una qualche validità un concetto di democrazia che ritenga
fisiologico l'unanimismo e invece consideri sospetti a priori (e anzi
da estirpare come patologici) il pluralismo e il dissenso
organizzati? E se sì,
in cosa questo genere di democrazia differisce dal totalitarismo e
dall'autoritarismo?
Immagino
un paio di possibili risposte a quest'ultima domanda, in particolare:
quello che ha ipotizzato e/o auspicato Grillo è un consenso unanime
spontaneamente manifestato dagli elettori nelle urne, senza alcuna
forma di coercizione; inoltre, il Movimento 5 Stelle non è un
partito e non ha ideologie da imporre, ma soltanto alcune misure che
nessuna “persona onesta e di buona volontà” può sensatamente
rifiutare.
Si
può controreplicare a queste risposte, facendo notare ad es. che
l'unanimismo “monolitico” (comunque impossibile da riscontrare
“in natura” [per così dire], nelle aggregazioni di vaste
dimensioni, come la grandi città o, a maggior ragione, gli Stati),
in qualsiasi direzione si orienti, secondo tutte le accezioni
riconosciute di democrazia e di pluralismo, segnala una grave
patologia del sistema sociale e/o politico (che può essere l'eccesso
di conformismo, l'assenza di offerte politiche alternative, la
“posizione eccessivamente dominante” di un partito o di un leader
nella società, ecc.) e non ne è quindi, in alcun modo, la “cura”.
Inoltre, dire che il M5S “non è un partito” non muta la sostanza
della questione (forse che un “movimento” o una potente
associazione non hanno scopi ideali e persino politici da perseguire?
e non possono anch'essi assumere atteggiamenti prevaricatori e
intolleranti?), e affermare “l'autoevidenza” del valore delle
proposte politiche del Movimento sposta il discorso addirittura sul
piano del fideismo
collocando quelle proposte al di là
di ogni possibile critica.
A
scanso di equivoci, è bene precisare che le osservazioni che qui
vado facendo non hanno necessariamente attinenza coi partiti oggi
esistenti. Voglio dire: non ho
alcuna intenzione né alcun interesse a perorare la causa del PD, del
PDL o di chicchessia. Il ragionamento deve andare al di là delle
situazione contingente, per poter essere compreso nel suo vero senso.
E allora, per capirci meglio, facciamo l'ipotesi che compaiano sulla
scena politica nuovi partiti o raggruppamenti politici, che
condividano con il M5S alcuni “valori” di fondo – come la non
candidabilità dei condannati, il divieto per i parlamentari di
ricandidarsi alle elezioni dopo uno o due mandati o la riduzione di
taluni privilegi – ma non
il resto del programma politico.
O
– altra ipotesi – poniamo che sorgano uno o più partiti che
propongano un modo di “miscelare” democrazia diretta e
rappresentativa che, pur somigliante per ispirazione a quello del
M5S, sia però differente (anche in maniera profonda) sotto il
profilo delle modalità operative.
In
questi due casi, il Movimento 5 Stelle tratterebbe questi nuovi
partiti come sospetti o “appestati”, esattamente come i “vecchi”,
sol perché non perfettamente in linea con il programma del M5S
medesimo? Li tratterebbe come “concorrenti sleali” o come
“illegittimi usurpatori” della scena politica nuova?
E
se una parte del movimento per i beni comuni e per l'acqua pubblica –
per fare l'esempio eclatante di un movimento realmente “partecipato”
– non riconoscendosi legittimamente nella rappresentanza che il
movimento di Grillo dà a quelle istanze decidesse di darsi una
rappresentanza politica distinta rispetto a quella offerta dal M5S,
tale decisione sarebbe da contrastare alla stregua delle “vecchie
trovate” del sistema dei partiti da “mandare a casa”? Non hanno
altre parti del movimento lo stesso diritto
all'autodeterminazione politica
del quale si è avvalso il M5S per organizzarsi e chiedere il
consenso degli elettori? Chi e in virtù di cosa può negare tale
diritto?
Credo
che le aspirazioni del Movimento 5 Stelle siano ben sintetizzate da
Nadia Urbinati
nella formula: democrazia rappresentativa diretta.
Questo nel dettaglio il ragionamento della studiosa [e il link al suo articolo è qui]:
«Il
M5S non esalta la democrazia diretta. Ha intenzione di inaugurare
quel che solo un ossimoro può rendere: una democrazia
rappresentativa diretta, cioè senza l'intermediazione del partito
politico, e con la promessa di mantenere un filo diretto via Internet
tra i cittadini e i rappresentanti. Una democrazia rappresentativa
sempre in rete. Questa è la novità più dirompentee complicata da
gestire. Il M5S ha l' ambizione di dimostrare che un dispositivo
tecnico come il web riuscirà a scalzare l' intermediazione
partitica, ce lo dicono Grillo e Dario Fo, lo si legge sul sito del
movimento. Con Internet, i grillini vorrebbero tenere in mano il
Parlamento, se così si può dire, ecco perché si ostinano a
chiamare gli eletti "cittadini" mettendo in secondo piano
il fatto, centrale, che sono invece dei "rappresentanti".
Come tradurre questo proposito in realtà?»
[N.
Urbinati, Dalla piazza
al Parlamento]
“Democrazia
rappresentativa diretta”: suona bene, certo, ma chi conosce almeno
un po' la storia della democrazia, la filosofia politica, il diritto
costituzionale e la scienza politica (per tacere di altre discipline)
non può ignorare a cuor leggero che quella formula equivale – come
la stessa studiosa comprende e fa intendere – alla quadratura
del cerchio.
Sembra
talvolta che i grillini si propongano al Paese come coloro che – a
quanto pare ignorando o perlomeno fortemente sottovalutando le enormi
difficoltà che nel corso degli ultimi secoli hanno incontrato
pensatori politici e giuristi nel cercare di conciliare la
rappresentanza con la democrazia diretta – sono in grado di
“quadrare il cerchio”, senza nemmeno troppa fatica. La “spada
nella roccia” era lì da secoli, nessuno, per quanti sforzi
facesse, riusciva a estrarla, poi un bel giorno è arrivato Grillo e
in quattro e quattr'otto l'ha tirata fuori dalla sua “prigione di
pietra”, mostrandola trionfante alle genti.
Le
favole sono belle ed entusiasmanti, me ne rendo conto... e io non
voglio turbarle più di tanto.
Come
faranno, comunque, i rappresentanti parlamentari del Movimento 5
Stelle a conciliare rappresentanza e democrazia diretta? Se
interpreto bene il pensiero di Grillo e del suo movimento, quando
sorgeranno contraddizioni o difficoltà, i parlamentari “grillini”
(e il movimento in genere) le supereranno grazie alla buona
volontà, alla trasparenza,
all'onestà di intenti
e magari anche grazie al buon senso.
Forse
per questo sembrano ritenere che la rinuncia al principio conosciuto
come “divieto del mandato imperativo” per i parlamentari, sancito
dall'art. 67 della Costituzione (e del resto da tutte le Costituzioni
“liberaldemocratiche”), sia priva di controindicazioni. Basta
essere benintenzionati, insomma, e ogni cosa va a posto da sé.
Un
altro passaggio dell'intervista citata all'inizio aiuta a capire un
altro caposaldo della visione del mondo “grillina”. Dice Grillo:
«L’arte del compromesso, che è stata l’arte della politica,
non è più valida. Il compromesso deve essere tra cittadini» e non
tra partiti [«The
art of the compromise, which was the art of politics, is no longer
valid. Compromise needs to be between citizens, not between
Republicans and Democrats»].
Dunque,
come ripete con varie sfumature, i partiti si devono fare da parte
per lasciare spazio interamente
ai cittadini.
La
dialettica politica non deve avere più per protagonisti i partiti,
bensì i singoli cittadini.
Il
Movimento 5 Stelle combatte quindi la mediazione politica
come se fosse il “male assoluto”.
Questa
concezione interpreta i partiti politici esclusivamente come “gabbie”
che hanno imposto il loro potere ai cittadini, offrendo a questi
ultimi catene in cambio del loro servizio di “mediazione” fra
opposti interessi e visioni del mondo.
Ma
l'organizzazione degli interessi comuni, che prende forma anche
attraverso i partiti politici (e, in altri àmbiti, attraverso i
sindacati, non a caso altro bersaglio della polemica grillina), non è
un inutile orpello o un arnese ingombrante del quale sbarazzarsi:
risponde invece a un'esigenza reale della società. Certo, come
anch'io ho detto qui e altrove, non è necessariamente questo
sistema dei partiti a rappresentare lo “stato fisiologico”; ma da
qui a sottovalutare o a demonizzare acriticamente la funzione
della mediazione politica in quanto tale ed in ogni sua
forma ce ne corre.
Perché
mai ai cittadini deve essere impedito, con libero atto della loro
volontà, di organizzarsi in partiti? Non è forse vero che una
persona da sola ha meno chances
di incidere sulla realtà e di farsi ascoltare, rispetto a un insieme
di persone che si sostengono a vicenda e sostengono solidali gli
stessi princìpi e le stesse battaglie ideali? E non è forse vero
che l'individuo, lasciato a se stesso, nel suo solipsismo, senza la
possibilità di confrontarsi con chi condivide almeno in parte le sue
idee, è meno capace di (auto)critica e ha meno possibilità di
allargare il proprio orizzonte mentale, ostinandosi magari in errori
dovuti semplicemente all'isolamento?
Devono
aumentare i controlli di quei cittadini sui partiti, rispetto a
quanto avveniva in passato, e deve essere più “vera” la
trasparenza dei partiti stessi, questo è chiaro; ma ciò non vuol
dire che i partiti non hanno una funzione da svolgere ancora oggi.
Si
possono a questo punto citare alcune riflessioni di Dino
Cofrancesco che, pur partendo da un punto di vista ideale
profondamente diverso dal mio, a mio avviso mette a fuoco in maniera
incisiva il ruolo dei partiti e della mediazione da essi svolta nelle
democrazie.
Scrive
tra l'altro il prof. Cofrancesco [qui o qui il link all'articolo]:
«I
cittadini vogliono le cose più diverse (e talora incompatibili) e il
compito dei partiti è quello di fissare la road map: alcuni
obiettivi vengono raggiunti subito, altri rimandati, altri lasciati
cadere. Se il nostro partito ci ‘accontenta’ su un piano ma non
ci convince su un altro, ci si rassegna pensando che, in un momento
successivo, potrebbe cambiare linea. Al fondo, resta la fiducia in
una formazione politica che condivide la nostra ‘political culture’
e che è in grado di organizzare e far valere le esigenze di quanti
sentono e la pensano come noi.»
[D.
Cofrancesco, Senza partiti non c'è democrazia]
La
mediazione politica, finora svolta (probabilmente male negli
ultimi anni, e perciò ci troviamo ora a questo punto) dai partiti,
ha anche una funzione pedagogica, che si può suddividere in
vari aspetti: uno di essi si compendia nel compito di ricordarci che
le esigenze della collettività non possono ridursi a quelle che noi,
come singole persone, dal nostro osservatorio privatissimo (e
inevitabilmente condizionato dalle nostre personali priorità e
preferenze), individuiamo.
Non
possiamo insomma ragionevolmente aspettarci che le priorità
politiche di un'intera nazione (o anche di una città) possano o
debbano sempre e comunque essere condizionate e determinate
prevalentemente o addirittura esclusivamente dalle
nostre personali aspettative e dalla nostra personale “agenda”.
Ma
chi deve tener conto degli interessi pubblici? Non può farlo il
singolo individuo come tale, neppur con tutta la buona volontà.
Il
partito in un certo senso, sulla base di un mandato fiduciario,
ristruttura le aspettative e le “agende” dei singoli – e
deve quindi ascoltarli, tenerli in considerazione, ecc. – per
giungere a una piattaforma di valori e priorità ragionevole e
condivisibile (perlomeno da parte dei suoi simpatizzanti ed
elettori), che però fatalmente non può accontentare al cento per
cento ciascun singolo. Si tratta di un compromesso, in questo caso
non fra partiti (il genere di compromesso demonizzato da Grillo), ma
fra partiti e cittadini: siamo sicuri che anche di questo tipo di
compromesso possiamo/dobbiamo fare a meno in modo assoluto?
Certo,
perché questo meccanismo si attivi e funzioni, è necessario che
esista mediamente fiducia nella capacità dei partiti – quella che
adesso è venuta meno e che forse non sarà facile ripristinare. Con
cosa la sostituiamo? Con l'assenza assoluta di mediazioni?
Siccome
non credo che di questa funzione di mediazione si possa in realtà
fare a meno, non vorrei che, una volta tolti di mezzo i partiti, il
loro posto venisse preso da altri soggetti che, come “avvoltoi”
travestiti da premurose colombe, magari presentandosi come
“rappresentanti di istanze della società civile” o “fautori
del buon governo” o come “équipe di esperti”, cominciassero a
imporre, per carità “solo per il bene del Paese” e “dalla
parte della società civile”, le loro soluzioni ai problemi, le
loro ricette, i loro “valori”. Mi riferisco a soggetti che
dispongono di denaro, di mezzi, di mass media, del potere di
influenza, eccetera, tali da orientare le opinioni di molte persone
senza aver l'aria di farlo: pensate che non esistano “soggetti”
simili tra noi, quaggiù, nella “società civile”?
I
partiti insomma occupano un posto strategico nella nicchia
“ecologica” della politica: se li si costringe a uscire di scena,
quella nicchia non rimarrà vuota, statene certi; sarà invece
occupata da chi possiede i mezzi (economici e di potere) e la
capacità per farlo. E – potrei scommetterci – si tratterebbe di
soggetti privati, che in quanto tali non avrebbero il dovere di
rispondere delle loro decisioni e delle loro azioni (nonché della
provenienza e dell'utilizzo delle loro risorse) davanti ai
cittadini-elettori. La funzione di mediazione politica sarebbe in
definitiva assunta in maniera sotterranea da soggetti “opachi”,
da un lato capaci di orchestrare campagne di opinione (ricorrendo
magari anche a mezzi “sporchi”, come il dossieraggio e la
calunnia), di decretare l'ostracismo contro questo o quel
personaggio, contro questa o quella proposta di legge, e anche di
offrire finanziamenti per questa o quella iniziativa politica, e
dall'altro non responsabili (in quanto “non-politici”) dei loro
atti davanti all'opinione pubblica e ai cittadini.
Dite
che soggetti simili non fanno politica quanto e talvolta più dei
partiti? E che non hanno lo stesso potere dei partiti, se non
talvolta anche maggiore?
In
mancanza di altre forme di orientamento collettivo, a chi – se non
a quei soggetti “opachi” e irresponsabili – si rivolgerebbero
gli “individui” per cercare di “capirci qualcosa” nei
problemi della società? E per distribuire torti e ragioni e
individuare soluzioni?
E
questo è in realtà solo un pallido esempio di ciò che potrebbe
succedere.
Trattandosi
però di un'ipotesi o, se vogliamo, di una “proiezione futura”
(basata tuttavia su dati reali e storici), metto in conto anche di
potermi sbagliare su questo punto.
Qualche
volenteroso ottimista può pensare che invece, scomparsi dalla scena
i partiti, la mediazione fra le singole persone e la collettività
possa essere fatta in prima persona dai cittadini, ad esempio in
assemblee apposite. Forse è questo che hanno in mente Grillo e i
militanti del M5S.
Certamente
tentativi del genere si possono fare – e del resto non mi sognerei
di scoraggiarli, anche perché li auspico da tempo. Temo però che da
sola questa soluzione dell'“autogestione permanente” non possa
reggersi.
E
qui torno a citare Cofrancesco:
«Una
democrazia senza partiti, che, in nome della partecipazione
‘totalitaria’, elimini de facto la rappresentanza, significa tout
court, il caos e l’anomia eretti a sistema: saremo continuamente
chiamati a scegliere su problemi specifici (piccoli o grandi che
siano) e su ciascuno di essi ci divideremo trasversalmente, rispetto
agli schieramenti attuali, in una sorta di guerra di tutti contro
tutti intesa a destabilizzare le istituzioni e ad alimentare climi
diffusi di risentimento.»
[D.
Cofrancesco, Senza partiti non
c'è democrazia]
Non
è uno scenario da fantascienza. Chi ha avuto modo di assistere ai
dibattiti che si accendono nei movimenti “assembleari” sa bene
che questo rischio esiste. Dibattito dopo dibattito, le divisioni si
approfondiscono, i personalismi si accentuano e nessuno vuol sentirsi
da meno degli altri, sicché anche chi non ha nulla di fondamentale
da dire trova una virgola alla quale appigliarsi e in nome della
quale accapigliarsi con altri ostinati come lui/lei.
(La
cosa si risolve soltanto con l'intervento di mediatori autorevoli,
che peraltro si sentono di solito dai più intransigenti rivolgere
l'accusa di voler “pilotare” lo spontaneismo dell'assemblea per
interessi di bottega – e talora l'accusa è fondata... Ma la realtà
è che senza interventi “semplificatori” del “caos atomistico
assembleare”, le assemblee stesse si votano da sole allo
scioglimento per incapacità di decidere alcunché.)
Al
limite, se nessuno/a vuol cedere di un passo, perché in ogni
“cedimento” al compromesso “con gli altri” vede una
diminuzione del proprio potere di decidere sovranamente per sé,
nella ideale assemblea (più o meno permanente, più o meno virtuale)
che dovrebbe fungere da camera di mediazione fra i cittadini
“autogestita” le mozioni si moltiplicano, giacché nessuno/a
si abbassa a votare per mozioni che non lo/a soddisfino al cento
per cento, in un clima di sospetto generale e di conflitto
“atomizzato” ed endemico.
Ma
anche ammesso che non si arrivi a questo estremo (purtroppo
tutt'altro che improbabile, specialmente in momenti di
insoddisfazione generale), sorgono comunque altri problemi, ad
esempio la regola da adottare per prendere le decisioni. La regola di
maggioranza nella pratica della democrazia partecipativa non di rado
viene criticata in quanto “prevaricatrice” e le si preferisce
perciò la regola del consenso.
Sarebbe
una regola splendida, perfetta, se non fosse per un dettaglio: come
si raggiunge e si misura in maniera chiara e incontrovertibile
il consenso? Lo si ottiene facendo una sintesi di tutte le mozioni
tale da accontentare potenzialmente (almeno un po') tutti/e senza
scontentare (troppo) nessuno/a? In teoria sì; ma tra il dire e il
fare... E' facile in pratica che qualcuno/a rimanga scontento/a della
“sintesi” così ottenuta e accusi coloro che gestiscono
l'assemblea di “manipolazioni”.
Il
rapporto di fiducia anche in questo caso (come nel sistema che vede
la mediazione affidata ai partiti) svolge un ruolo insostituibile.
Qui si instaura fra i partecipanti all'assemblea e coloro che vengono
dall'assemblea stessa incaricati – anche solo in via temporanea –
di gestire il dibattito e costruire sulla base di questo la fatidica
“sintesi condivisa”, nella e sulla quale si dovrebbe esprimere il
consenso dell'assemblea e quindi la sua deliberazione finale.
I
“mediatori temporanei” (o facilitatori o moderatori, ecc.) devono
ovviamente essere innanzitutto in buona fede (e non essere
interessati quindi a “pilotare” secondo i propri fini i dibattiti
dell'assemblea) e inoltre devono avere la capacità (non comune) di
individuare i punti di sintesi nella marea sterminata di proposte e
di punti di vista che in un'assemblea veramente “libera” si
presentano sulla scena – il tutto senza urtare le suscettibilità
dei singoli partecipanti all'assemblea (e quindi i buoni “mediatori”
sono anche buoni diplomatici o comunque persone dotate di tatto e
sensibilità...).
Qualcuno
può proporre: “Beh, se il problema sono i 'mediatori', facciamone
a meno e lasciamo l'assemblea libera di discutere e deliberare
all'infinito senza nessun 'moderatore'”.
Che
dire? Che qualcuno ci provi, se ci crede davvero... a quel punto
dubito però che l'assemblea riesca ad arrivare a una qualche
deliberazione, se non per sfinimento fisico (ma quando e con quali
risultati?)...
Un
altro problema, nelle discussioni assembleari “aperte e
partecipate” – del quale nessuno di solito se la sente di parlare
se non in via “ufficiosa” – è costituito dal livello
“qualitativo” degli interventi.
Non
si tratta di esprimere giudizi sul livello di preparazione e di
competenza dei partecipanti né – quindi – di stabilire forme di
censura; ciò a cui mi riferisco qui sono i casi di manifesta
incapacità del partecipante o di reiterata e irrimediabile
incongruenza dei suoi interventi rispetto ai temi in discussione.
Potremmo definire questo problema con espressione graziosa come il
problema dell'“eccentrico in assemblea” (laddove per
eccentrico si può intendere una vasta gamma di tipologie, che
spaziano – a mero titolo di esempio – dal “semplice”
eccentrico dotato di strambo eloquio [e di ancor più stramba idea
della logica] al vero e proprio mitomane, passando per il “paranoico
lucido”).
Il
pubblico dibattito è infatti anche una grande occasione di sfoggio
narcisistico e determinati soggetti non riescono a resistere a tale
richiamo; se il loro numero e il loro peso in assemblea (anche per
via delle regole di discussione e di partecipazione che eventualmente
l'assemblea stessa si è data) non è indifferente, la discussione
può anche risentirne in una certa misura e la stessa “autorevolezza”
dell'assemblea rischia conseguentemente di affievolirsi.
(Che
succede infatti se, in nome del “rispetto di tutte le opinioni”,
il veto o l'ostruzionismo a oltranza di un eccentrico –
nella suddetta accezione – impediscono all'assemblea di
deliberare?).
La
soluzione di questo problema – laddove si opti per una democrazia
diretta “senza barriere e senza mediazioni” – non è tanto
semplice: chi si assume l'onere e la responsabilità di escludere un
presunto eccentrico dall'assemblea, col rischio di sentirsi
accusare di adottare “pratiche discriminatorie”?
Come
si vede, anche limitandosi a considerare poche questioni essenziali,
l'espansione dello spazio partecipativo (e dunque della democrazia
diretta) non si può affidare solo alla “buona volontà” e
all'“onestà di intenti”, perché è un percorso da costruire con
competenza e sapienza, e soprattutto è difficile immaginare di poter
risolvere il problema della mediazione semplicemente sopprimendola.
Rischia di essere un'illusione equivalente alla fede nell'esistenza
del Paese dei Balocchi.
La
mediazione risiede oggi essenzialmente nel luogo istituzionale della
rappresentanza, il che vuol dire che lo spazio della partecipazione e
della democrazia diretta si può ampliare, e anche parecchio, ma –
se la mediazione, come si è detto, non è un “accidente
passeggero” del quale ci si può sbarazzare senza inconvenienti –
a patto di non farne l'unico polo possibile della dialettica
politica, che in sé tutto riassume e assorbe.
Il
rinnovo della rappresentanza che oggi il M5S ha realizzato è un
traguardo importante e promettente anche dal punto di vista
simbolico. Nonostante le perplessità (serie) sopra espresse, quindi, anche perché non sono un nemico del rinnovamento (men che mai un conservatore), specie se questo è volto a rendere migliore e più "inclusiva" la democrazia, concludo dicendo che si può ragionevolmente esprimere anche qualche speranza, la cui
fondatezza potrà essere giudicata soltanto nel corso dei prossimi
mesi (anni?).
Articoli
citati nel testo:
- Italy’s Beppe Grillo: Meet the Rogue
Comedian Turned Kingmaker, intervista di S. Faris a Beppe Grillo,
su “Time” del 7/3/2013,
http://world.time.com/2013/03/07/italys-beppe-grillo-meet-the-rogue-comedian-turned-kingmaker/
- D. Cofrancesco, Senza partiti non c'è
democrazia, su “Il Giornale” del 10/3/2013 e sul sito
“Il Legno Storto”,
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/senza-partiti-non-c-democrazia-894177.html
http://www.legnostorto.com/index.php?option=com_content&task=view&id=36368&Itemid=26
- N.
Urbinati, Dalla piazza al Parlamento, su “La Repubblica”
del 5/3/2013,
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/03/05/dalla-piazza-al-parlamento.html?ref=search
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