Nella mia esperienza mi sono reso conto che ci sono alcuni argomenti “facili facili” coi quali suggestionare l'uditorio anche senza dover assumersi l'onere di dimostrare la verità di ciò che si sostiene.
Due di questi sono: “C'è un complotto contro di me” e “Sono invidiosi di me”.
Tralasciando la questione del “complotto” (che comunque, per definizione... è indimostrabile, quindi è un argomento buono per ogni stagione e per ogni spiegazione, specie se non si ha alcuna valida spiegazione...), consideriamo l'argomento dell'invidia. Se qualcuno, ad es. in una cena con tanta gente o in un dibattito pubblico, ti lancia l'accusa fatidica: “Tu sei invidioso di me!”, come fai a dimostrare il contrario?
Ossia: come puoi dimostrare di non provare invidia? Una dimostrazione agevole della “non-invidia” non sempre è a portata di mano.
E' una sottile inversione dell'onere della prova, direbbero i giuristi... In realtà, chi lancia l'accusa di invidia dovrebbe avere l'onere di provare circostanziatamente (cioè non con argomentazioni vaghe e generiche) la veridicità della sua accusa, invece le regole del “discorso pubblico” gli consentono di sottrarsi in modo subdolo a quest'obbligo e di rovesciarlo sull'accusato.
L'accusa dell'invidia si regge sul meccanismo dell'insinuazione – meccanismo sempre feroce, ingiusto e “garante” o complice dei pregiudizi. Ad esempio, un personaggio potente e influente, strizzando l'occhio alla platea, se si vede a corto di argomenti (ad es. perché qualcuno lo sta accusando di mentire, o di essere un truffatore, o un corrotto, ecc.), tira fuori questo asso nella manica: “Tu dici questo di me perché sei invidioso (sottinteso: del mio potere, del mio successo, ecc.)”.
Ma su che cosa si basa questa contro-accusa? Su nient'altro che sulla stessa posizione personale o sociale di chi la lancia, che diventa quindi una rendita di posizione: chi accusa il potente, può essere immediatamente sospettato di invidia (in base ai luoghi comuni); e il potente si avvale di questo serpeggiante pregiudizio facendo appello alla complicità della platea (che ritiene sensibile in qualche misura al richiamo del pregiudizio stesso).
Il potente insomma usa il suo stesso potere come argomento per sfuggire ad ogni accusa!
E su che cosa si basa il “sospetto pregiudiziale” dell'invidia? Su vari elementi (ad es. l'ancestrale sottomissione psicologica ai “notabili” che diventa in molti una specie di riflesso condizionato), ma uno di essi è particolarmente importante: la presunzione che la posizione e i privilegi del “potente” siano desiderabili e desiderati da tutti, senza eccezioni.
Ma si tratta appunto di una “presunzione”, di una supposizione non basata su argomenti solidi, bensì su una generica esperienza empirica (piuttosto rozza e sbrindellata...), riassumibile nel detto quasi-mozartiano “Così fan tutti”, che per giunta tende a far passare o a dare per acquisito un principio discutibile, e tutto da dimostrare – ovvero l'idea che “Siamo tutti uguali” (in senso letterale, non solo sul piano della dignità e dei diritti), “Abbiamo tutti gli stessi valori e le stesse priorità” e “Desideriamo tutti le stesse cose”.
E' davvero difficile far capire a una platea soggiogata psicologicamente e moralmente dall'aura del “potente” che non tutti desiderano essere al suo posto; e che ci possono essere desideri e aspirazioni molto diversi dal successo mondano (o mediatico), dal delirio di onnipotenza e dalla ricchezza.
L'unico modo per dimostrare in maniera lampante che ci sono altri valori (ad esempio: la serenità d'animo, la coscienza di compiere in onestà il proprio dovere, la misura, la sobrietà, l'equilibrio e - diciamolo pure - la saggezza; ecc.), spesso in benefico contrasto con quelli, è viverli; ma questo vuol dire che ahimè non bastano un dibattito pubblico o una cena per evidenziarlo, e così, sul suo palcoscenico, il potente ha buon gioco nel padroneggiare da vero istrione i luoghi comuni che proteggono il “diritto all'eccesso” che il suo stesso potere gli garantisce.
Già: perché più il potente eccede (cioè, letteralmente, commette eccessi) e più lo “scudo” della presunzione dell'altrui invidia si rivela efficace nel proteggerlo agli occhi dell'opinione pubblica che si fida (magari anche solo per distratta abitudine) dei luoghi comuni del “potere”, che potremmo raccogliere un giorno in una sorta di “hit parade”, da “Così fan tutti” in giù...
Quindi, checché se ne dica, il modo di pensare da noi oggi diffuso (che è in questo ancora molto "vecchio", a mio avviso, perché da sudditi) fa coincidere la libertà con l'eccesso e vede nel potente l'alibi e lo specchio per questo desiderio di eccesso, nel quale riflettersi, e tende a coccolarlo e incoraggiarlo implicitamente.
E chi sta dentro questo "circuito" di lettura della realtà (che è soprattutto un "corto circuito") non può concepire dietro le critiche (e cioè dietro le letture differenti) altro che "invidia". Che dire? A ognuno i suoi sogni d'oro... però bisogna ricordare che il momento più delicato è il risveglio.
Io mi scontro spesso con questa idea diffusa che tutti ambiremmo ad avere le medesime prerogative esistenziali (ricchezza, potere, successo, riconoscimento sociale ecc.), e davvero faccio fatica a far comprendere che possono esistere altri modi di vivere e di guardare alla vita.
RispondiEliminaIn effetti il tacciare qualcuno di essere invidioso è soltanto una supposizione, e l'unica maniera per smentire questa accusa, come dici tu, è mostrare, con l'esempio, che si ha una scala di valori diversa, nella quale non è detto che debbano rientrare i cosiddetti privilegi di chi sta supponendo.
Dirlo, mostrarlo con gli esempi, è l'unica maniera. E pazienza se non lo si riuscirà a far capire durante una cena, il fine di una discussione non è quella di uscirne vincenti, no? ;-)
In verità, sotto sotto, c'è l'incapacità, dell'altro (cioè di chi sta supponendo l'invidia altrui), di prendere atto delle critiche che gli vengono rivolte, quindi di mettersi in discussione. Sotto sotto ci vedo una persona debole, fragile, arroccata nel proprio castello di sicurezze e certezze costruito con tanta fatica, e guai a pensare che in fondo... è solo un castello di carta.
Provo compassione, più che indignazione, per persone così incapaci di mettersi in discussione, così granitiche nella loro visione e concezione dell'esistenza.
In fondo sono loro che si perdono qualcosa, no?
Mi trovo molto d'accordo con ciò che dici. Il fine di una discussione non è "apparire vincenti" a tutti i costi, "inchiodare l'avversario", ecc., anche perché questa "strategia" molte volte impoverisce il ragionamento, e lo porta proprio sul terreno della "personalizzazione", nel quale prevalgono l'insinuazione, il sospetto (appunto: "tu sei invidioso di me!") e non l'analisi delle ragioni. "In fondo sono loro che si perdono qualcosa": condivido.
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