Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

martedì 26 novembre 2013

Una realtà (più o meno) invisibile che ha effetti tangibili: niente di sovrannaturale, è la corruzione

Ci raccontano le statistiche che l'Italia ha una pessima collocazione in graduatorie “prestigiose” che valutano il grado di corruzione presente nei vari Paesi, e di conseguenza non gode di un'ottima reputazione.

Anche nell'esperienza quotidiana ci sembra di percepire disfunzioni che collochiamo “istintivamente” nella categoria della “corruzione”; sappiamo dunque, da varie fonti (non esclusa la nostra diretta percezione), che esiste un problema chiamato “corruzione”. Siamo persino portati talvolta a indignarci per la presenza di un tale problema e ci domandiamo cosa si possa fare per risolverlo – o ci chiediamo spazientiti come mai i governi non si decidano ad affrontarlo a viso aperto (a parte qualche provvedimento eclatante che – temiamo – è destinato a rimanere perlopiù inattuato, una volta spentisi i riflettori dell'opinione pubblica).

Eppure forse questo fenomeno non lo conosciamo davvero. Voglio dire: nonostante la nostra indignazione, non è detto che sapremmo rispondere in maniera chiara se un “marziano”, ignaro di “cose terrestri”, ci chiedesse, dopo aver ascoltato le nostre invettive: ma insomma, che cosa è la corruzione?


Accade per la corruzione ciò che accade anche in altri casi, per altri fenomeni anche molto conosciuti e discussi: quel che a prima vista sembra “semplice” e intuitivo, di fatto non si può comprendere a fondo se non attraverso un'attenta riflessione, che “smontando” un fenomeno complesso e portandone alla luce le sue componenti (come si può fare col meccanismo di un orologio vecchio stile, fatto di ingranaggi, molle, ecc., la cui esistenza di solito ignoriamo, giacché “lavorano” internamente al riparo dai nostri sguardi), ci permette di scoprirne la “meccanica”, che una volta svelata può modificare l'idea che inizialmente ci siamo fatti del fenomeno stesso, delle sue cause, delle sue “dinamiche”, ecc.

Innanzitutto la corruzione si può analizzare sotto diversi profili, e non è indifferente il punto di vista dal quale la si considera, poiché esso ci induce a privilegiare un aspetto del fenomeno complessivo che chiamiamo corruzione, facendoci quasi automaticamente selezionare alcune “risposte” o strategie piuttosto che (e a discapito di) altre: ad esempio, possiamo analizzare la corruzione dal punto di vista giuridico, e affrontarla come una devianza da combattere, disegnando specifiche figure di reato; oppure la possiamo analizzare sotto il profilo economico, e così facendo la classifichiamo come una distorsione dei mercati e/o del rapporto fra autorità politiche (amministrazioni pubbliche, decision makers, ecc.) e soggetti privati (imprenditori, consumatori, ecc.) che genera diseconomie, inefficienza, costi eccessivi per la comunità (derivanti da tangenti, ecc.), nonché distorsioni nei meccanismi della concorrenza; o ancora, la possiamo analizzare dal punto di vista sociale e sociologico, cercando di comprendere quali siano le condizioni (la “cultura civica”, il tipo di relazioni, ecc.) che favoriscono, in un dato sistema sociale, l'insorgere ed eventualmente il proliferare di fenomeni corruttivi; inoltre, la corruzione si può analizzare sotto il profilo etico; e così via.

In ogni caso, quale che sia il punto di vista dell'analisi, non possiamo sottrarci alla domanda “del marziano”, se vogliamo fare qualche decisivo passo avanti nella comprensione del fenomeno. Di cosa stiamo parlando, insomma, quando parliamo di corruzione?

La corruzione è un concetto antico, che però inizialmente assumeva un significato prevalentemente morale, laddove nel mondo contemporaneo è un concetto prevalentemente socio-politico, o giuridico-economico. La forte suggestione che derivava dalla sfera etico-morale della prima accezione storica della corruzione è rimasta tuttora, anche se il termine designa ormai qualcosa di più “tecnico”, relativo a condotte e comportamenti (definiti e codificati, o meglio “proceduralizzati”) della sfera pratico-politica, e non si riferisce più (necessariamente) a processi di “disfacimento” delle virtù “originarie ed essenziali” di una collettività.

Platone, Aristotele o Machiavelli, nel parlare di corruzione, facevano infatti riferimento alla “dirittura morale” delle società nel loro complesso, e non a comportamenti individuali o di gruppo [Trujillo 2002, p. 8]. Oggi, che le società non si possono più considerare sistemi retti da valori morali coerenti e indiscussi, la corruzione viene rappresentata perlopiù come un insieme di pratiche messe in atto da specifici soggetti in vista di determinati scopi [Trujillo 2002, p. 9].

In realtà, su questa base, attualmente si elaborano molteplici definizioni della corruzione: senza entrare qui nel merito di ciascuna [poiché non si ha la pretesa qui, nel breve spazio di un post, di parlare in modo esaustivo degli studi intorno alla corruzione, per i quali si rimanda alla bibliografia riportata alla fine], si cita, a titolo di esempio, una delle più diffuse, la quale fa riferimento al rapporto che intercorre fra mandante, mandatario e cliente, per sostenere che, la funzione pubblica non essendo altro che l'esecuzione da parte di un mandatario (il funzionario) di ordini impartitigli da un mandante (il Parlamento o i politici), si ha corruzione laddove il mandatario vien meno alla lealtà verso il mandante per ricavarne beneficio (privato) per sé o per un terzo (il “cliente”) [Trujillo 2002, p. 10; cfr. Becker e Stigler 1974, Banfield 1975, Rose-Ackerman 1978].

Rispetto alla concezione antica, c'è stato, in sostanza, un mutamento di prospettiva, che tuttavia ha conservato quanto di “apocalittico” implica o richiama il termine “corruzione”. Esso infatti evoca la disgregazione di un sistema: si è parlato in passato di corruzione dei costumi o della civiltà, ad esempio. La corruzione in senso “tecnico”, contemporaneo, è qualcosa di più preciso e al tempo stesso più sfuggente; si lega all'abuso di potere e alla sottrazione di fondi pubblici per fini privati, ma il termine stesso l'accomuna al “flagello disgregativo” che può portare alla fine di un'intera civiltà, e non a caso probabilmente.
Infatti tipico della corruzione, su piccola come su larga scala, è la scissione tra i valori proclamati e quelli effettivamente perseguiti, tra le regole pubblicamente riconosciute e sottoscritte (in apparenza anche dal corrotto) e quelle che vengono in realtà applicate e fatte valere. In effetti la corruzione ha bisogno di doppiezza: al corrotto per primo è necessaria, come l'aria che respira, la divaricazione fra apparenza (proclami pubblici, regole teoricamente vigenti) e realtà. La corruzione “sistemica” si ha quando un sistema sociale e politico si è trasformato in un guscio vuoto, nel quale le leggi, le garanzie dei diritti, la Costituzione stessa sono diventati paraventi o simulacri ai quali non crede più nessuno – ma che tuttavia si è costretti a mantenere in vita (forse per darsi un contegno? Ipocrisia ultimo rifugio contro la disperazione?).

C'è chi distingue diversi tipi di corruzione e indica nella corruzione “sistemica” la tipologia più preoccupante – e anche la più difficile da sanzionare ed estirpare.

Di solito si considera la corruzione un fenomeno deleterio, che ostacola lo sviluppo economico, mina le basi della democrazia, svuota di senso le istituzioni e le Costituzioni, diffonde la sfiducia fra i cittadini, incrina la morale pubblica, spreca o dirotta illecitamente le risorse pubbliche e danneggia il Welfare, ritorcendosi a danno dei più bisognosi.

Ma se qualcuno pensa che questa idea della corruzione sia stata sempre universalmente condivisa, si sbaglia. Anche sotto questo profilo, la reazione “istintiva” che nutriamo di fronte alla corruzione non sempre è un buon punto di partenza per comprendere altri punti di vista, specialmente se riferiti ai cosiddetti Paesi “in via di sviluppo”.

Qualcuno ha infatti indicato nella corruzione addirittura un'opportunità strategica, in alcuni Paesi non sviluppati (e persino in Paesi come gli Stati Uniti, all'epoca in cui la grande immigrazione europea creava masse di persone escluse dai canali istituzionali riservati ai cittadini, le quali non avevano altro sistema per ottenere servizi che il “favore” clientelare [su questo si veda Merton 1957]). Questa corrente di pensiero è stata attiva soprattutto negli anni '60 del XX secolo. Secondo questi autori la corruzione, in condizioni sociopolitiche non ideali (come quelle dei Paesi “in via di sviluppo”), pone rimedio, sia pure in maniera non ortodossa e non legale, a carenze del sistema sociale, come pesanti distorsioni della libera concorrenza e inefficienza della burocrazia.

Polemizzando con studiosi considerati “moralisti” [Friedrich 1963; 1972], alcuni di questi “revisionisti” [Leys 1965] hanno all'epoca sottolineato che la corruzione ha potuto, in Paesi come l'URSS, alleviare le condizioni della popolazione, costretta dal sistema politico-economico e dalle ferree leggi del regime a consumi al limite della sussistenza. Altri [come Bayley 1966] hanno sottolineato che a certe latitudini la corruzione contribuisce alla stabilità e alla “governabilità” del sistema e consente di “umanizzare” le relazioni economiche in sistemi incentrati sulle relazioni personali e quindi non avvezzi alla macchina istituzionale “impersonale” e razionale.

Il più importante dei “revisionisti” è stato però forse Nye [si veda Nye 1967], per il quale, considerati “costi e benefici” della corruzione (e pur mettendo in dubbio che i secondi superino effettivamente i primi), in Stati inefficienti e incapaci di raccogliere risorse e riscuotere tributi, Stati afflitti per di più dalla scarsezza di capitali privati, la corruzione consente di drenare risorse e creare capitali, che in quelle particolari disperate condizioni “sistemiche” diventano preziosi per lo sviluppo economico (in certi casi e circostanze, insomma, la corruzione sarebbe una fonte vitale di “accumulazione originaria”). Naturalmente si tratta di una “possibilità” che non sempre si realizza, riconosce lo stesso Nye (talora i capitali finiscono semplicemente in comodi forzieri esteri). Inoltre, a suo parere, la corruzione in quei Paesi favorisce l'integrazione nazionale e riduce i conflitti interni all'élite di potere, che altrimenti potrebbero dar luogo a guerre civili.

C'è chi mette in evidenza come da queste considerazioni si possano trarre almeno due elementi condivisibili [Huber 2005, p. 12]: la definizione di cosa si debba intendere per corruzione cambia nel corso della storia, e dunque ciò che ieri sembrava pratica normale nelle relazioni sociali, può oggi essere considerata pratica corruttiva [si veda anche Mastropaolo 2011, p. 301]; inoltre, la corruzione è un fenomeno negativo solo se e finché la legislazione o l'ordinamento coi quali entra in contrasto sono eticamente e socialmente preferibili [insomma, la corruzione che aiuta ad alleviare l'indigenza e la fame indotte da sistemi politici inefficienti, disumani e non democratici non è moralmente condannabile (“corruzione di sopravvivenza” o “di resistenza”): caso sollevato da Bayley].

In ogni caso, uno dei problemi notevoli che la corruzione implica (o accentua sino a livelli insostenibili) è la tendenza a far prevalere le relazioni interpersonali sul merito e sulle capacità dei singoli. Ogni volta che questa stortura si verifica, vuol dire che da qualche parte (in qualche concorso, in qualche gara d'appalto, ecc.) qualcuno ha fatto una partita a carte con un mazzo truccato: la posta in gioco sono sì in primo luogo le risorse pubbliche (dilapidate dai “bari”), ma anche il rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni (che ad ogni “partita truccata” giocata s'incrina un po' di più), e di conseguenza la credibilità di queste ultime; e infine – last but not least, è il caso di dire – ciò che viene danneggiato molto spesso da simili “partite” è l'efficienza della pubblica amministrazione. Non sempre lo si sottolinea a dovere. 

Per dirla in parole povere, quando a un buon “giovane talento” viene preferito, per qualche incarico pubblico, un “segnalato speciale” da qualcuna delle infinite cordate del clientelismo, a rimetterci saranno gli utenti del servizio, che dovranno vedersela con funzionari incompetenti ma “ben protetti”. I “talenti umiliati”, a lungo andare, emigreranno (quando non accetteranno di svolgere lavori al di sotto delle loro capacità reali) e la collettività s'impoverirà progressivamente in termini di saperi, efficienza, ma anche di intraprendenza (non è irragionevole pensare che l'eccesso di corruzione e clientelismo, o di “corruzione clientelare”, generi prima o poi rassegnazione e “depressione sociale”).
Una delle sottospecie più diffuse di queste “partite truccate”, ovvero il clientelismo, fanno notare alcuni studiosi, non coincide esattamente con la corruzione propriamente detta, però è certo che i due fenomeni spesso interagiscono fra loro, si sovrappongono e si alimentano a vicenda (l'humus socio-culturale grazie al quale si sviluppano e prosperano è il medesimo).

L'incapacità di ridurre l'influenza di questi fenomeni costituisce, in alcuni Paesi, una “promessa non mantenuta” della democrazia, in quanto quest'ultima non dovrebbe, stando al proprio “DNA” politico-valoriale, tollerare il riprodursi di ingiustificate sperequazioni fra i gruppi e i ceti sociali. Il clientelismo è in gran parte un residuo del potere dei cosiddetti notabili, e dunque si serve del potere acquisito attraverso i canali democratici (elezioni, ecc.) per attuare una politica (se così possiamo definirla...) non-democratica.
[Mastropaolo 2011, pp. 293-295]

La corruzione, tuttavia, non riesce di per sé a incrinare il rapporto di fiducia fra elettori ed eletti. Sembra esserci anzi una discrepanza significativa fra le aspettative di moralità dichiarate dai cittadini e il loro comportamento elettorale. [Mastropaolo 2011, pp. 300-301]
In sostanza i cittadini, anche in Paesi come l'Italia, sembrano rassegnati alla corruzione dei detentori di cariche pubbliche, in base al principio “per qualcuno bisogna pur votare”: la corruzione risulta un “peccato veniale” se ad essa si accompagna la “capacità di fare” (ovvero la capacità di risolvere problemi economici e sociali e di impostare politiche: si chiede insomma ai politici di essere davvero policy makers, qualità che compenserebbe, a detta di parte dell'opinione pubblica, qualche “vizio” o “vizietto”).

In presenza di un orientamento del genere, si può avere l'impressione che troppe persone non abbiano compreso di potersi sottrarre alla condizione di sudditi per abbracciare finalmente quella di cittadini (mutamento che porterebbe a capire come il potere non sia un destino riservato a qualche notabile, ma una funzione che in democrazia richiede un'interazione costante, sempre attiva, vitale e vivace fra “governanti” e “governati”).

Tuttavia dobbiamo anche capire che si tratta di un passaggio tormentato e non facile, condizionato dalla “paura di impegnarsi” in prima persona, elemento da non sottovalutare, giacché sta alla base stessa della concezione più diffusa della delega (che non è però l'unica possibile), intesa dai più come quella cosa che consente di cedere ad altri la responsabilità di assumere decisioni (che come ogni responsabilità comporta anche rischi), in cambio della tranquillità della vita privata. Forse si potrebbero immaginare ricerche su questa “propensione alla delega”, con veri e propri “criteri di misurazione” dell'intensità della propensione stessa. Quanto maggiore è l'intensità di tale propensione in soggetti o gruppi, tanto minore è probabilmente la volontà di “monitorare” effettivamente, con una partecipazione “attiva”, l'operato dei detentori di cariche pubbliche – e di conseguenza, tanto minore è la reattività nei confronti dei fenomeni di corruzione (o tanto più alta è la “benevola tolleranza” nei suoi confronti).

La cultura civica [per un classico studio sulla tradizione civica in Italia, si veda Putnam 1993], che forse necessita di ulteriori analisi e approfondimenti, gioca probabilmente un ruolo cruciale nell'atteggiamento che si ha nei confronti della “delega” e della corruzione.

E' anche la sua costitutiva invisibilità a garantire alla corruzione un margine di incertezza nella pubblica opinione, una terra di nessuno, nella quale non è sempre ben chiaro quale comportamento sia grave e quale no, quale atto corruttivo sia scusabile e quale inaccettabile. [Mastropaolo 2011, p. 301]

Laddove la luce non arriva a illuminare i contorni delle cose, l'immaginazione è sovrana e i resoconti sono interamente affidati all'arbitrio dei testimoni.

L'esistenza di una terra di nessuno, dove l'occhio della pubblica consapevolezza non deve spingersi, sembra far comodo a tutti gli attori politici: «La difficoltà a definire la corruzione conviene peraltro ai corruttori e ai corrotti, agli attori economici e a quelli politici, ai funzionari amministrativi, spessissimo coinvolti anch'essi, e persino a chi svolge alla luce di criteri politici azione di denuncia – forze politiche, media, ecc. – i quali tutti concorrono a elaborare complesse strategie di classificazione, banalizzazione, depistaggio, riscrittura di norme e procedure e quant'altro. Come stupirsi allora se, interrogati specificamente sul punto, gli elettori, pur disapprovando la corruzione, dissocino moralità e capacità di governo?
Ovvero: non solo gli elettori sono in disaccordo con se stessi, ma l'intensità della critica verso le pratiche definite giuridicamente corrotte varia sensibilmente dall'una all'altra.» [Mastropaolo 2011, pp. 301-302]

La corruzione diventa spesso un'arma della lotta politica che ciascuno adopera esclusivamente contro la parte avversa, e viene in sostanza strumentalizzata (sicché l'indignazione “moralista” è piegata alle esigenze della propaganda di parte), in base al principio: “vedo il corrotto nel campo avversario e non lo giustifico a nessun costo, anzi lo segnalo affinché sia squalificato; i corrotti presenti nel mio campo politico non li vedo, e se anche talvolta fossero talmente evidenti da non poterli ignorare, giustificherei le loro azioni in qualche modo, giovandomi dei confini incerti fra illecito, indegno e indecoroso (e mirando perciò a trovare pezze d'appoggio retoriche per tutto quel che non è illecito oltre ogni ragionevole dubbio)”.

E' un atteggiamento riconducibile allo “spirito di fazione” o allo “spirito di corpo” (o anche di “corporazione”), in qualche misura fisiologico nella vita associata. Infatti non vale solo per la competizione politica, ma anche per il mondo delle professioni, per le “questioni di campanile” o di condominio, eccetera.
A volte diventa però l'unico parametro col quale si è disposti a valutare la realtà, e qui comincia il problema.
Quando in noi scatta il meccanismo del “ragionamento corporativo” o “fazioso”, dovremmo cercare di bloccare i motori e fermarci a riflettere, ripetendoci una frase come: “Ecco, ci sto cascando anch'io. Ma devo proprio farlo?”.

Se riuscissimo a fare questa sosta dei pensieri (e delle recriminazioni), ci accorgeremmo perlomeno che il “meccanismo” avvolge e coinvolge anche noi e ha plasmato almeno in parte le nostre abitudini.

Non è però soltanto la nostra visione selettiva dei comportamenti scorretti altrui, e in primis della corruzione e del clientelismo, a favorire in qualche modo il perpetuarsi dei comportamenti stessi. Riprendiamo le considerazioni su accennate sulla corruzione (e sul clientelismo) “di sopravvivenza”: quando combattiamo o deprechiamo la corruzione, dobbiamo stare attenti a concentrare realmente su quella le sanzioni e gli strali, affinché questi non finiscano per colpire di fatto il bisogno di sopravvivere (quando questo è effettivamente coinvolto nella faccenda).

Se e quando la corruzione o il clientelismo sono un rimedio necessario a un'ingiustizia sociale, è l'ingiustizia che dobbiamo combattere, affinché il rimedio cessi di essere necessario. Sembra semplice da comprendere, perfino scontato, eppure nella realtà dei fatti il nodo viene perlopiù eluso, ignorato o mistificato. Infatti a volte si preferisce tollerare benevolmente tali forme di corruzione con un apparentemente comprensivo e umanitario “Poverini, devono pur campare”, che – pur prendendo atto del problema e della necessità di porvi rimedio – di fatto lascia che il rimedio continui a essere la “via traversa”, e dunque non risolve assolutamente nulla. Oppure, al contrario, si solleva il sopracciglio, indignati, ignorando il bisogno a cui quella pratica corruttiva risponde, e – ancor prima di conoscere fatti, circostanze, traversie – si pronuncia una condanna morale onnicomprensiva, che censura tanto l'atto corruttivo quanto lo stato di bisogno che l'ha generato, considerati entrambi rami di una stessa “cattiva pianta” (come se la virtù potesse sempre e in ogni caso vantare diritti di precedenza sul bisogno). In entrambi i casi, si rimane al di qua della vera questione e si esprimono giudizi “all'ingrosso”, sia pure per moventi e motivi differenti.

Da parte degli studiosi si mira di solito a trovare rimedi “da laboratorio” a un problema complesso, che può trovare soluzione solo “sul campo”, tenendo cioè conto delle peculiarità dei singoli Paesi e aree geografiche e culturali: come si è accennato, forse bisogna tener presente soprattutto la cultura civica radicata nelle singole realtà nazionali o locali per comprendere le ragioni della diffusione e le peculiarità della corruzione in quelle aree.

Qualcuno, partendo da un punto di vista classicamente liberale, accusa lo Stato sociale generato dalla democrazia contemporanea e i suoi poteri “ipertrofici” di essere la causa prima della corruzione [Cubeddu 1994]: secondo questa tesi, insomma, non c'è Stato “ipertrofico-burocratico” che non sia corrotto; l'unico rimedio consisterebbe nel ritorno a uno “Stato minimo” che rinunci a regolare in modo invasivo la vita della collettività e dei singoli e a gestire ingenti risorse pubbliche. Altri, invece, partendo da un punto di vista marxista-leninista, vedono la causa della corruzione nello “Stato borghese”, e anzi ritengono che la corruzione sia un falso problema (enfatizzato da un'impostazione moralistica e “perbenista”, tipica della falsa coscienza borghese), poiché il vero, gigantesco problema è il classismo dello Stato, che genera mostri. Sono due concezioni per qualche aspetto opposte, anche se per entrambe il problema è altrove: per la prima lo Stato sociale è la “deviazione” che genera corruzione e lo “Stato minimo” liberale è il bene da perseguire (o almeno è il “male minimo”, che in quanto tale riduce sensibilmente i rischi connessi all'esercizio del potere); per la seconda lo Stato liberale è in sé un male (anche nella sua versione più accattivante e ingannevole, lo Stato sociale) e la corruzione tutt'al più non ne è che uno dei sintomi.

Sta di fatto che anche nei regimi “liberali puri” e nei regimi del cosiddetto “socialismo reale” si sono registrati (e/o si registrano ancora) fenomeni più o meno vasti di corruzione. Non sembra esserci dunque, a dispetto delle derive agiografiche di certe tesi, un regime costitutivamente immune dalla corruzione “per sua intrinseca virtù”. In poche parole, possiamo dire che la corruzione è “trasversale” agli ordinamenti politici e si ritrova ovunque vi sia una struttura verticale di potere.
[Bisogna precisare comunque che non tutti i liberali e non tutti i marxisti sostengono certe tesi; almeno, non coloro che fanno dell'analisi dei fatti e delle evidenze un compito prioritario rispetto a quella che definirei l'“utopia polemica”.]

La corruzione può essere interpretata secondo una prospettiva moralistico-apocalittica, di “decadimento dei costumi” o della “civiltà” o dei “valori universali” (ecc.), oppure secondo una prospettiva pratico-politica, che si interroga sulle effettive manifestazioni della corruzione (o meglio: di ciò che in un dato momento percepiamo come corruzione), per risalire alle cause e individuare rimedi, e in definitiva per circoscrivere il significato stesso del termine corruzione evitando che “esondi” e si trasformi di fatto, oltre che in una (illusoria e “non falsificabile” [nell'accezione popperiana]) chiave di lettura delle catastrofi epocali, in un concetto evanescente e “disincarnato” – che può contenere tutto e niente (e a tutto e niente riferirsi e rinviare).

Nonostante le apparenze, l'accezione pratico-politica del termine “corruzione” è quella che ci consente di analizzare il fenomeno per come effettivamente si manifesta, e farne una “fotografia” più o meno nitida; quella moralistico-apocalittica ci consente forse di lanciare invettive retoricamente più suggestive, facendo dell'oggetto dell'indignazione il Male per antonomasia, ma cessati i furori oratori e le filippiche d'occasione, non riuscendo a mettere a fuoco il bersaglio dei suoi nobili strali, consegna prima o poi tutta la faccenda alla fatalità della “natura umana” (o a fatalismi di seconda mano, come “tutto il mondo è paese”, “l'occasione fa l'uomo ladro”, “sii sincero, tu al suo posto cosa faresti”, ecc.).

E forse, prima di immaginare come estirpare per via amministrativa o giudiziaria la corruzione (attraverso un'accurata “radiografia giuridica” delle fattispecie di reato ad essa connesse), bisogna comprenderne – come qualche studioso recentemente suggerisce – le radici antropologiche [Huber 2005], delle quali ben pochi si occupano e preoccupano. In un fenomeno del genere non sono coinvolti soltanto gli individui e le istituzioni, ma soprattutto le reti sociali. E si può per caso sanzionare efficacemente, attraverso gli ordinari mezzi “tecnici” del diritto o dell'economia (disincentivi, ecc.), il reticolo di legami sociali che costituisce un labirinto impenetrabile per chi non conosca il senso che ogni specifica cultura, in maniere originali e non replicabili, gli attribuisce?
Piuttosto, come si diceva un tempo, il lavoro da compiere – quello decisivo e incisivo – è politico e culturale e non può essere tanto impaziente da fermarsi a una sola generazione.


E a proposito di “culture” (a mo' di riflessione conclusiva)

L'obiezione che a volte viene posta a chi critica i fenomeni di corruzione – obiezione che si può riassumere nella formula: “Perché, tu cosa faresti?” (ribadita in questa forma o in qualcuna delle sue infinite varianti, ad es., in certi commenti su vari forum del Web o su social network) – dimostra in fondo l'esistenza di una cultura diffusa. Chi pone quella domanda retorico-provocatoria ribadisce, nell'atto stesso di enunciarla, l'adesione acritica a una particolare visione del mondo; dà per scontato, in sostanza, che si dia solo una possibilità: l'accettazione dell'esistente stato di cose. La domanda sottintende: “Tu non potresti far altro che agire nello stesso modo”. E così facendo (o meglio, sostenendo surrettiziamente), dà per dimostrato proprio ciò che in realtà avrebbe l'onere di dimostrare.
[Succede qualcosa di analogo a ciò che avviene nell'utilizzo retorico dell'accusa di invidia: si attribuisce all'interlocutore un'intenzione tutta da dimostrare, e che anzi l'interlocutore è nell'impossibilità di smentire efficacemente, e si svia così l'attenzione dell'uditorio dal tema dell'iniquità a quello, più materiale (in senso grossolano), anche perché “epidermico” e “mediaticamente gestibile” (attraverso i codici del gossip o della denigrazione sommaria), dell'invidia.]

Ma dire “Tu non potresti far altro che agire nello stesso modo” equivale a sostenere che esiste una sola cultura, un solo codice di comportamento possibile, e quindi equivale ad escludere ogni possibilità di modificare l'ordine delle cose esistente. E' il tipico codice retorico pseudo-realista, che, ostentando polemicamente l'adesione al “reale stato delle cose”, di fatto sostiene che la realtà (ammesso che si possa ricondurre a un'unica entità coerente) è unica, eterna e immutabile, e così facendo mira, nell'atto stesso in cui mitizza “il Reale” (come unico Bene, contrapposto al Male degli “idealismi”), a monopolizzare il suo uso simbolico-retorico (“solo io conosco la realtà e posso definirla, parlarne e delimitarne i confini, in quanto realista) e a riprodurre quindi all'infinito questa e questa sola immagine della realtà.

Ma chi può dimostrare che non c'è in assoluto altra scelta? Chi può dire che l'interlocutore della domanda di cui sopra non agirebbe in modo diverso, posto davanti al bivio?
Probabilmente la domanda in questione sottintende un altro, ancor più sottile significato: chi la pone o la ripropone pescandola dal bagaglio delle “frasi fatte”, vuol riservarsi la possibilità di ripetere a proprio vantaggio il comportamento stigmatizzato dall'interlocutore: il “fatalismo” apparente del “così fan tutti” serve a crearsi un alibi.

Proprio facendo implicitamente riferimento a un (vero o presunto) sentire diffuso, e quindi a una cultura (o sub-cultura), quella domanda – “Perché, tu cosa faresti?” ovvero “Ma andiamo, in quella situazione tu non avresti fatto la stessa cosa?” – consente a chi la pone di lasciarsi uno spiraglio per poter poi dire, in modo implicito o esplicito (a seconda delle situazioni o dei contesti): “Io per esempio farei lo stesso”. In tal modo non si nega completamente che il comportamento criticato – la corruzione, il clientelismo, ecc. – sia in sé un male, se ne può perfino ammettere la gravità; e tuttavia, nelle circostanze reali (cioè di questa Realtà Unica e Immodificabile, ecc. ecc.), non si può fare a meno di ripeterlo e riprodurlo, perché così fan tutti o così si è sempre fatto o tanto le cose non cambieranno mai, ecc. ecc. (a piacere...).

Questo sdoppiamento continuo fra il si dovrebbe fare X e il però si fa Y, con le sottili e quotidiane strategie retoriche (peraltro collaudate da lunga abitudine) che lo sorreggono e lo rendono in effetti possibile, dimostra – già alla superficie dei comportamenti diffusi, prima ancora di scavare “sotto la crosta” con raffinate ricerche – l'influenza decisiva delle (apparentemente impalpabili e sfuggenti) culture e mentalità (spesso tramandate attraverso le generazioni e le reti sociali) nel riproporsi e riprodursi di certi fenomeni deleteri, che coscientemente sacrificano l'etica pubblica e il senso civico, ma anche il benessere della collettività, ecc.. Ovvero, chi pone la domanda di cui sopra sa che l'etica pubblica e il senso civico richiederebbero un altro comportamento: dunque non è una domanda che denota ingenuità o ignoranza (di ciò che è bene): tutt'altro. Il riferimento implicito, equivalente a una strizzata d'occhio, a un terreno di conoscenze comune che sta dietro la domanda esplicita – “Suvvia, sappiamo bene come vanno certe cose, in realtà” – mira a ribadire la liceità (di solito, non in senso giuridico, ma sotto forma di accettabilità sociale “informale”) e l'inevitabilità della doppiezza (“sì, certo, in astratto si dovrebbe fare X, ma nella Realtà è inevitabile fare Y”), che è l'alimento primario, benché posto al riparo da occhi “indiscreti” (o disattenti, per accidente o per “strategia”), della corruzione nelle sue varie forme.

E se “sappiamo come vanno certe cose”, e ci scambiamo tutti strizzatine d'occhi senza neppure accennare a una reazione diversa, ribadiamo all'infinito che siamo tutti “amichevolmente complici”: dunque, nessun colpevole. Le cose possono restare come sono, e lo pseudo-realismo riesce ad avverare le proprie profezie. O no? Non è così che “funziona” (si fa per dire...)?






Testi citati:


- [Banfield 1975]: E. Banfield, Corruption As Feature of Government Organization, in «Journal of Law and Economics», 18, pp. 587-605.

- [Bayley 1966]: D.H. Bayley, The Effects of Corruption in a Developing Nation (1966), in A.J. Heidenheimer – M. Johnston – V.T. Levine (a cura di), Political Corruption. A Handbook, Transaction Publishers, London – New Brunswick 1997.

- [Becker e Stigler 1974]: G. Becker – G.J. Stigler, Law Enforcement, Malfeance and the Compensation of Enforces, in «Journal of Legal Studies», 3, pp. 1-19.

- [Cubeddu 1994]: R. Cubeddu, Democrazia, liberalismo, corruzione, in «Ragion Pratica», II, n. 3, pp. 12-25.

- [Friedrich 1963]: C.J. Friedrich, Man and His Government: An Empirical Theory of Politics, McGraw-Hill, New York.

- [Friedrich 1972]: C.J. Friedrich, The Pathology of Politics: Violence, Betrayal, Corruption, Secrecy, and Propaganda, Harper & Row, New York.

- [Huber 2005]: L. Huber, Una interpretación antropológica de la corrupción, ricerca svolta per il “Consorcio de Investigación Económica y Social” del Perù, http://cies.org.pe/investigaciones/otros-sectores/interpretacion-antropologica-corrupccion/en-el-peru

- [Leys 1965]: C. Leys, What is the Problem About Corruption?, in «The Journal of Modern African Studies», 3, n. 2, pp. 215-230.

- [Mastropaolo 2011]: A. Mastropaolo, La democrazia è una causa persa? Paradossi di un'invenzione imperfetta, Bollati Boringhieri, Torino.

- [Merton 1957]: R.K. Merton, Social Theory and Social Structure, Free Press, Glencoe (Ill.) // ediz. it.: Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna 1959.

[Nye 1967]: J.S. Nye, Corruption and Political Development: A Cost-Benefit Analysis, in «American Political Science Review», 5, n. 1, pp. 417-427.

- [Putnam 1993]: R.D. Putnam, Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy, Princeton University Press, Princeton (N.J.) // ediz. it.: La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993.

- [Rose-Ackermann 1978]: S. Rose-Ackermann, Corruption: A Study On Political Economy, Academic Press, New York.

- [Trujillo 2002]: A.M. Arjona Trujillo, La corrupción política: una revisión de la literatura, Documentos de Trabajo, 02-14, Universidad Carlos III de Madrid – Departamento de Economía, http://e-archivo.uc3m.es/bitstream/handle/10016/38/de021404.pdf?sequence=1 .



Nota bibliografica finale

Abbastanza recente è l'interesse degli studiosi italiani in merito al tema della corruzione. Relativamente pochi specialisti vi si sono dedicati, ma esistono alcune pubblicazioni importanti sull'argomento, che ormai costituiscono un punto di riferimento anche all'estero.
Senza pretese di esaustività e di completezza, si segnalano qui di séguito alcuni saggi pubblicati in Italia, frutto di progetti di ricerca nostrani (si tratta prevalentemente di ricerche in àmbito politologico; sono esclusi i saggi di carattere strettamente giuridico, poiché – trattando di specifiche norme – non sono direttamente connessi alle questioni discusse nel post):

- Luciano Barca e Sandro Trento (a cura di), L'economia della corruzione, Laterza, Roma-Bari 1994.

- Marco D'Alberti e Renato Finocchi (a cura di), Corruzione e sistema istituzionale, Il Mulino, Bologna 1994.

- Donatella Della Porta – Alberto Vannucci, Corruzione politica e amministrazione pubblica. Risorse, meccanismi, attori, Il Mulino, Bologna 1994.

- D. Della Porta e Yves Mény (a cura di), Corruzione e democrazia. Sette Paesi a confronto, Liguori, Napoli 1995.

- Mauro Magatti, Corruzione politica e società italiana, Il Mulino, Bologna 1996.

- A. Vannucci, Il mercato della corruzione. I meccanismi dello scambio occulto in Italia, Società Aperta, Milano 1997 (pref. di A. Pizzorno).

- Raffaella Coppier, Corruzione e crescita economica. Teorie ed evidenze di una relazione complessa, Carocci, Roma 2005.

- D. Della Porta – A. Vannucci, Mani impunite. Vecchia e nuova corruzione in Italia, Editori Laterza, Roma-Bari 2007.

- Maurizio Bortoletti, Corruzione. Le verità nascoste tra rischio oggettivo e percezione soggettiva, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010.

- A. Vannucci, Atlante della corruzione, Gruppo Abele, Torino 2012.

- Nadia Fiorino – Emma Galli, La corruzione in Italia. Un'analisi economica, Il Mulino, Bologna 2013.


- Luciano Hinna – Mauro Marcantoni, Corruzione. La tassa più iniqua, Donzelli, Roma 2013.

3 commenti:

  1. Mi avresti dovuto corrompere per farmi leggere l'intero post... ma non m'hai chiesto neanche l'IBAN...

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    1. Volendo si può leggere a puntate o a tappe... Dovrebbero fornire segnalibri "virtuali" ai lettori di blog :-)
      Sono più portato al ragionamento e all'analisi che alla sintesi, specialmente se un tema cattura il mio interesse.
      Infatti non sono attratto da Twitter, non è quello lo "spazio" a me congeniale; molto meglio, per me, navigare tra i blog (e ogni tanto mettere qui qualche contributo mio).
      Lo so, i tempi che viviamo, e lo stesso Web, prediligono la sintesi estrema; ma purtroppo varie volte la sintesi portata all'eccesso favorisce gli slogan e i luoghi comuni - e io, piuttosto che esserne il milionesimo ripetitore, preferisco smontarli.

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  2. Leggo dei consiglieri torinesi che giustificano le loro malefatte con estrema naturalezza ("nella realtà è inevitabile fare Y").
    Perdona la sintesi, ma è questi che smonterei.

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