Prima
parte
(Premessa)
Da
tempo avevo in mente di ricordare Lelio Basso occupandomi del suo
“Principe senza scettro”.
Per ragioni che non so neppure io, ho sempre rinviato questo
appuntamento a cui tenevo: forse l'“invadenza del presente”,
della quale parlo nell'introduzione di questo scritto, mi ha
contagiato, e ho dato la preferenza alle sue urgenze. O forse –
come spesso accade – temevo che la rilettura di un testo che a suo
tempo avevo trovato illuminante mi avrebbe deluso, affrontandola con
gli occhi di oggi (e comunque non sto parlando di “molto” tempo
fa: nel '58 io ancora non c'ero...). Invece poi mi son deciso a
ripercorrere le pagine del testo in questione, e mentre prendevo
appunti cresceva pian piano l'impressione che quel libro parlasse
anche a noi, a noi cittadini, a noi persone dell'Italia di oggi.
Ecco,
in certi frangenti, per capire cos'è la politica attuale, dove sta
andando, che senso hanno i suoi slogan, quanto respiro ha il suo
impettito “nuovismo” che ritiene di non aver nulla da imparare
dai maestri del recente passato, è particolarmente utile meditare
proprio sulle parole e sulle riflessioni di questi ultimi; forse più
utile di un “tweet”
estemporaneo che si pone all'affannoso inseguimento dell'attualità
quotidiana e si perde nel vero e proprio flusso dell'infinita chat
propagandistica che oggi i protagonisti stessi della
politica istituzionale alimentano.
Il
“Principe senza scettro”
non è altro che il popolo; è un titolo che dice già molto: ci
ricorda che il primo compito della Costituzione e del legislatore è
quello di rispettare il principio della sovranità popolare, di
renderlo sempre più forte e concreto. Il popolo è sovrano, ma al
contrario dei sovrani del passato non ha scettro, e d'altronde, per
salvaguardare la propria libertà, non gli serve materializzarlo ed
esibirlo come un re qualsiasi. Questo “anomalo principe” è fatto
di molti corpi e di molte teste, anche se talora, per esigenze
discorsive e per convenienza politica, viene rappresentato come “un
solo corpo” bisognoso di “una sola testa”: ed è proprio a
causa di questa rappresentazione “interessata” che rischia ogni
volta di perdere se stesso.
Il
“Principe senza scettro”, se comprende fino in fondo il proprio
ruolo, non è obbligato a giocare il gioco del dominio e della
prevaricazione, non deve umiliare nessuno, né ridurre chicchessia al
silenzio. E' un sovrano del tutto particolare, l'unico che non fa il
“tutore” di nessuno e non usurpa il ruolo d'altri.
Sì,
questo libro parla della Costituzione italiana e del significato di
certe scelte e di certe norme che i costituenti hanno elaborato.
Lelio Basso era uno di loro.
Sui
maestri (una introduzione)
Il
culto dei maestri è diventato una pratica all'apparenza sterile, nel
nostro tempo.
Se
nel Medioevo – e anche oltre – il passato rappresentava
l'Autorità Indiscutibile, e perciò tutto quel che tentava di
sottrarsi ai canoni e alle regole sancite dalla tradizione “dei
padri” appariva come irrimediabile errore, l'era moderna,
specialmente a partire dal Secolo dei Lumi, ha vieppiù reso
marginale il passato, fin quasi a “ghettizzarlo”. Si potrebbe
addirittura vedere in questo processo (nel quale vi è un elemento di
reazione a lunghi secoli di “dittatura degli antenati”, che non
concepiva se non con forte sospetto l'idea di innovazione) una
caratteristica decisiva della mentalità moderna.
Oggi,
che l'idea di progresso si è fatta più problematica benché
non abbia assolutamente smesso di influenzare la mentalità corrente
(giacché il progresso è nei consumi quotidiani, si tocca con mano e
addirittura si può portare in tasca: cellulari, smartphone...),
mentre continuiamo a ghettizzare il passato e a processarlo
incessantemente (usiamo il senno di poi e il giudizio anacronistico
in dosi industriali), non siamo più sicuri del futuro: ci rimane
quindi il presente, l'unica certezza tangibile alla quale
aggrapparci. Consumare qui e ora tutti i frutti possibili del
progresso e dello “sviluppo”, secondo il carpe diem
peculiare della nostra forma di vita: ecco il motto odierno.
(Finora
la preoccupazione per le generazioni future, per l'ambiente, ecc., è
poco più che una bella enunciazione di principio.)
In
un quadro del genere, dunque, che spazio possono avere i maestri?
Dirò di più: siamo ancora disposti a credere che esistano dei
maestri?
Cosa
può dirci una persona, sia pure illustre, che ha però il “difetto”
di essere vissuta in epoche passate?
E'
nozione comune che il tempo – il tempo della società, della
storia, dell'economia – si sia fatto “sempre più veloce”: il
mondo di dieci anni fa (la situazione politica, economica, il livello
della tecnologia, ecc.) ci sembra già vecchissimo, con gli occhi di
oggi. Calarsi con il pensiero nel mondo di trenta anni fa, poi,
equivale a fare un tuffo nella preistoria.
Eppure,
ci sono anche significative continuità, che tendiamo generalmente a
trascurare quando affrontiamo il passato. Abbiamo un singolare
“difetto della vista”, che ci fa percepire con discreta nitidezza
i cambiamenti ma ci impedisce di mettere a fuoco altrettanto bene le
persistenze, i fenomeni di lunga durata che legano l'oggi a un
passato in realtà meno “lontano” di quanto siamo portati a
sentirlo.
Per
dirla con un'immagine, il tempo odierno sarà anche molto veloce in
superficie, ma sotto la “crosta” degli eventi, negli strati più
profondi della “terra del reale”, scorre di gran lunga più
lentamente.
Non
tutto è caduco; il passato non è soltanto, e in blocco, un rudere
più o meno rispettabile.
Coloro
che oggi già in età scolare sanno districarsi fra tablet e
connessioni, possono maturare la convinzione di non aver nulla da
imparare da “maestri” del passato, giacché le uniche cose
importanti le possono apprendere da sé, qui e ora, manovrando i
congegni della tecnologia e “stando connessi”. Non si preoccupano
di sapere o di comprendere che dietro alle “fantastiche conquiste”
tecnologiche o scientifiche di oggi ci sono secoli di cammino,
montagne di conoscenza (che comprendono anche errori poi accantonati,
utili però a procedere nel verso giusto); e senza quelle montagne,
non sarebbe stato possibile raggiungere la “quota” attuale.
Ciò
vale anche per le conquiste sociali e politiche: i diritti, la
Costituzione, ecc., non sono stati un “dono del Cielo”; se quelle
tappe e quei traguardi sono stati raggiunti, lo si deve alla tenacia,
al coraggio, alla capacità e all'intelligenza di alcuni e al “cuore”
e all'impegno di molti altri.
[Sia
chiaro che non critico – e men che meno condanno – il bisogno che
ogni generazione ha di evidenziare in maniera anche “smodata” la
propria presenza, per appropriarsi del “territorio”,
reinventandosi ogni volta la realtà e facendo quindi mostra di non
aver intenzione di ereditare nulla del passato e dei “padri”.
Comprendo meno, tuttavia, proprio gli entusiasmi di questi ultimi:
“Questi qui non hanno bisogno di nulla, sono intelligentissimi,
sanno già tutto!”
Non
credo in sostanza che l'intelligenza aumenti automaticamente (e
neppure che al contrario diminuisca) col passare delle generazioni e
in virtù degli strumenti tecnologici: ma immaginate che intelligenza
e che capacità di adattamento dovevano avere i superstiti delle
popolazioni ancestrali che hanno dovuto ingegnarsi per affrontare e
superare intemperie, nemici naturali e umani, carestie?
E
che intelligenza dovevano avere Galilei, Newton, J.S. Bach, e tutti
coloro che hanno fondato una scienza, un'arte, un sistema
innovativo... e senza grande tecnologia, talora persino dovendo
lottare contro l'indigenza o l'incomprensione della società?]
Se
l'uomo diventa un essere immemore – programmaticamente immemore –
abbraccia la condizione di Sisifo; dovrà sempre ricominciare tutto
dall'inizio, pensando di scoprire per primo ciò che è già apparso
alla conoscenza dell'umanità.
Forse
è riduttivo legare la nozione di “maestro” a un ragionamento
utilitaristico: “òccupati dei maestri, perché imparerai da loro e
farai meno fatica nel tuo cammino”.
In
effetti non è sufficiente né soddisfacente: non è tutto lì; però
non per caso si è tentati di cominciare da quell'invito, da
quell'esortazione.
Se
parlavo nell'incipit di culto dei maestri, c'era una ragione.
Bisognerebbe riconoscer loro i meriti che hanno avuto, celebrare le
loro capacità, la loro lungimiranza; ma questo, in un tempo stregato
dal fascino del presente, è più che inattuale e démodé: è
realmente trasgressivo (e non parlo della “trasgressione
consumistica” che non sposta una virgola dell'esistente o delle sue
regole) o francamente eretico.
Abbiamo
un debito di riconoscenza nei confronti di coloro che hanno – anche
coi loro pensieri, con le loro riflessioni – fatto fare qualche
passo decisivo in avanti alla conoscenza, al sapere, alla società
del loro tempo. Se quindi le nostre convinzioni politiche, i princìpi
cardine del “patto costituzionale”, il nostro sapere, la scienza
sono quelli che sono, lo dobbiamo principalmente al contributo di
persone che in diversi campi si sono impegnate in modo esemplare,
recando beneficio a tutta la collettività. Riconoscere, dare a
ciascuno ciò che spetta, è il primo atto di correttezza; non
possiamo esimercene, se vogliamo avere occhi aperti e limpidi sulla
realtà.
Non
si tratta di “superuomini” o di “superdonne” da venerare –
quasi fossero esseri “di un altro mondo”, diversi da noi e
irraggiungibili – ma di figure esemplari alle quali ispirarsi. O
pensiamo forse, essendo arrivati sulla luna e su Internet, di non
aver più bisogno di modelli? (Se è questo che pensiamo, però, vuol
dire che neppure noi saremo maestri o modelli, e che tutto ciò che
oggi facciamo, in apparente autonomia e solitudine, andrà perso,
destinato com'è ad essere rinnegato e cancellato da discendenti
ancor più convinti di noi di non aver nulla da imparare dai
“padri”).
Detto
questo, tuttavia, non bisogna trasformare i maestri in oracoli o in
semidivinità inaccessibili e intoccabili: il loro lascito non
consiste in una presunta infallibilità; i loro meriti si
accompagnano a inevitabili limiti e a possibili errori. Limiti ed
errori dei maestri, come dei “classici”, non vanno camuffati o
nascosti, li si deve ammettere affinché il confronto coi loro
insegnamenti sia leale e proficuo – barare sulla verità o sui dati
di fatto non è infatti un buon modo per rendere giustizia alla loro
opera, anzi rischia di screditarla (ogni falsificazione e ogni
forzatura, tendente a cancellare possibili “macchie”, incoerenze
o cadute di stile, quando – ed è inevitabile – viene alla luce,
tende a mettere in ombra tutto il resto). Non è neppure giusto,
d'altra parte, usare limiti ed errori dei maestri e dei classici per
darsi l'alibi “perfetto” per dimenticare o sminuire l'apporto che
essi hanno dato alla cultura, alla società o al sapere.
Traversie
di un “Principe senza scettro”
Lelio
Basso può essere considerato effettivamente un maestro,
sotto il profilo del pensiero, dell'azione e della coerenza politica.
Non
molti/e oggi sanno chi fosse, quali fossero le sue idee o le sue
battaglie politiche – ormai ci è difficile perfino ricordare i
partiti e i politici degli anni Novanta dello scorso secolo;
figuriamoci un uomo come Lelio Basso, scomparso nel “lontano”
1978.
Non
intendo certo raccontare qui tutta la sua biografia: per fortuna –
nel bene come nel male – nell'immenso archivio del Web le
informazioni sui campi più disparati della realtà e del sapere non
mancano; e, quel che qui ci interessa, sulla vita e l'opera di Lelio
Basso si trovano notizie abbastanza particolareggiate, ad esempio qui
o qui.
(Qui
si rinvia a una pagina curata dal sito della “Fondazione Basso”.)
Ricordo però a chi legge
che L. Basso, avvocato, pensatore politico, deputato socialista (ma
ostile al centrosinistra e alle alleanze di governo fra “DC
conservatrice” e PSI, e per questo sospeso dal partito nel 1963), è
stato uno dei più illustri “padri” della nostra Costituzione: il
suo apporto è stato determinante in special modo nella stesura degli
articoli 3 e 49 della nostra Carta fondamentale; L. Basso considerava
il primo dei due l'articolo-chiave di tutto l'edificio
costituzionale, la vera “cartina di tornasole” del carattere
democratico dello Stato.
L'oggetto principale di
questo post sarà tuttavia un libro che L. Basso pubblicò nel 1958,
per spronare il legislatore a dare attuazione con maggiore rapidità
e coerenza alle norme costituzionali e per denunciare i tentativi
compiuti a suo parere dai partiti di governo dell'epoca (in primo
luogo la DC) al fine (nemmeno troppo recondito) di non dare realmente
séguito ai princìpi più avanzati sanciti dalla Costituzione –
tentativi che costituivano, per L. Basso, una vera e propria opera di
“ostruzionismo governativo” di segno conservatore, se non
addirittura reazionario.
Nel
1958, a dieci dall'entrata in vigore della Costituzione, il deputato
socialista, attraverso il libro in questione, Il
Principe senza scettro,
intendeva chiedersi “A che punto siamo?” e al tempo stesso
ricordare – con un linguaggio polemico che risentiva certo dei toni
della “guerra fredda” allora in atto ma era generato anche dalle
“resistenze conservatrici” dei ceti dirigenti italiani – con
quale spirito e quali finalità la Costituzione italiana era stata
elaborata e varata. Come dichiara il suo stesso autore, «[...]
questo libro è impregnato di esperienza personale, esperienza di
resistente e di Costituente, esperienza di cittadino e di avvocato,
esperienza di militante politico di sinistra e di deputato
d'opposizione, esperienza di chi ha contribuito a preparare e a fare
la Costituzione e di chi deve difenderla, si può dire ogni giorno,
contro lo scempio che se ne sta facendo» [Basso
1998, p. 101].
Come
si può leggere in un recente saggio, una fondamentale costante del
pensiero politico del costituente socialista, che possiamo ritrovare
anche nel testo di cui qui ci occupiamo, è rappresentata dalla sua
«[...] interpretazione del processo storico come l'arena dove si
svolge ogni giorno il conflitto tra due tendenze contraddittorie che
lacerano la società: l'una tesa a mettere in moto spinte sempre più
progressive “sociali, collettive, socialiste”, l'altra intesa a
resistere, a bloccare in senso conservatore lo sviluppo delle spinte
socializzanti» [Giorgi
2014, p. 55].
Da questa lettura del processo storico e della “dialettica sociale”
deriva un altro elemento caratteristico del pensiero politico di
Basso, ovvero la sua concezione del diritto e delle istituzioni, che
«è positiva, e non appartiene alla vulgata più nota della
sinistra», giacché essi non sono “condannati” ad essere
meccanicamente strumenti al servizio dei ceti dominanti, ma si
collocano nel quadro degli antagonismi che attraversano e
caratterizzano la società, e ne sono a loro volta attraversati, cioè
in definitiva «sono la risultante di uno scontro continuo tra le
opposte forze sociali e politiche, nel quale non è solo la classe
dominante a trovare spazio» [Giorgi
2014, p. 55],
sicché quest'ultima non è necessariamente la “vincitrice
assoluta” e garantita del confronto. Stando così le cose, il
costituente democratico ha un compito preciso, ovvero quello di
assecondare attivamente le istanze della parte “progressiva”
della società, introducendo nell'ordinamento giuridico «[...]
elementi antagonistici, volti a creare i presupposti di un nuovo
ordine democratico ed egualitario» [Giorgi
2014, p. 55].
Il
primo capitolo del volume ha come tema “Lo sviluppo storico della
democrazia”, e in esso l'autore tratteggia brevemente la storia
dell'attrito “dialettico” fra liberalismo e democrazia a partire
dalla Rivoluzione francese, sottolinea l'importanza dell'avvento del
popolo al potere e, passando per Rousseau, indica le insidie che si
nascondono dietro l'idea di “popolo sovrano” e che allontanano la
realtà dalla teoria; ma L. Basso è convinto che una democrazia che
dia concreta sovranità al popolo “reale” sia possibile, si
tratta soprattutto di vigilare costantemente affinché essa si
realizzi. In una democrazia effettiva il cittadino è il vero punto
di riferimento del sistema politico e a lui spetta questo compito
essenziale di vigilanza, soprattutto in merito all'«uso
che dei suoi poteri sovrani fanno i suoi mandatari, i quali gliene
dovranno rendere conto alla successiva scadenza elettorale». Ma per
esercitare tale vigilanza, il cittadino non ha a disposizione solo il
voto, bensì anche «il diritto di servirsi di tutti i mezzi legali
(stampa, riunioni, petizione, scioperi, ecc.) [e di] far conoscere la
propria volontà ai suoi mandatari e mettere così in evidenza,
occorrendo, le eventuali fratture fra paese e Parlamento, che sono
sempre fratture pericolose e sulle quali l'ultima decisione spetta in
ogni caso al paese.» [Basso
1998, p. 81]
Se
si verifica dunque una divaricazione fra volontà del Parlamento e
volontà dei cittadini, deve prevalere quest'ultima: Lelio Basso non
sembra aver dubbi in proposito; e la volontà dei cittadini deve
essere messa in grado – attraverso appositi strumenti informativi,
politici, istituzionali, ecc. – di emergere costantemente, e non
una
tantum
(in pochi casi eccezionali).
Più in là, Basso ricorda
che non esistono al momento le condizioni per realizzare «il regime
ideale corrispondente ad una perfetta democrazia, ad un assoluto
autogoverno» [Basso 1998, p. 83] perché la volontà popolare
deve essere mediata attraverso le istituzioni rappresentative, che la
trasmettono e la attuano, ma vi è il rischio che in questo processo
esse creino concentrazioni di potere. Secondo l'autore, questo può
avvenire a causa degli antagonismi di classe presenti nell'attuale
società. Egli auspica l'avvento di una società «fondamentalmente
solidale almeno rispetto ai grandi compiti comuni dello Stato»,
nell'àmbito della quale sarebbe «più facile l'incontro dei
consensi e meno probabile il tentativo di gruppi o partiti di
sopraffare gli altri, di abusare del potere.» [Basso 1998, p. 84]
In una società nella quale
la divisione fra le classi è accentuata e in cui quindi vi sono
interessi contrastanti e inconciliabili, il potere diventa strumento
di dominio e viene prevalentemente «usato per la difesa di interessi
di gruppo» [Basso 1998, p. 84].
Finché persiste questo tipo
di struttura sociale permanentemente conflittuale, secondo L. Basso
la democrazia deve difendersi da alcuni pericoli che la minacciano
costantemente.
Il primo di essi è
rappresentato dalla dittatura della maggioranza: quest'ultima ha
certo il diritto di governare (è una delle regole fondamentali della
democrazia), ma l'opposizione ha il diritto, «quando si tratti di
un'opposizione che rappresenta una sufficiente porzione del corpo
elettorale, e quindi del popolo, di veder tenuto in considerazione
anche il proprio punto di vista in modo che la decisione finale in
ogni questione affrontata sia quanto più è possibile il frutto di
una sintesi o un compromesso.» [Basso 1998, p. 84]
Il deputato socialista è
ben lontano quindi da tentazioni “decisioniste” e non riconosce
valore all'assillo – oggi impellente – della “governabilità”:
il consenso vasto della base popolare alle decisioni assunte in
Parlamento deve prevalere su ogni altra considerazione; la vera
democrazia è sintesi e compromesso, non imposizione o
prevaricazione. Le decisioni importanti per il Paese devono essere
condivise, non possono essere calate dall'alto da novelli “prìncipi
illuminati” in nome del “bene del popolo”, quest'ultimo
considerato paternalisticamente incapace di capire da sé in cosa
questo bene consista. Al contrario, è al popolo, quello reale e non
quello “rappresentato”, che spetta l'ultima parola circa ciò che
è bene per se stesso.
L'altro pericolo che L.
Basso pone in evidenza è costituito dal potere crescente dei
burocrati e dei tecnici. Un rischio che, come si comprende, è
collegato a quello precedentemente illustrato.
Dopo aver esaminato i
pericoli, l'autore espone i rimedi che a suo giudizio la democrazia
ha escogitato. Tra questi, oltre ai meccanismi di garanzia ereditati
dallo Stato liberale (costituzionalizzazione delle libertà
fondamentali, indipendenza della magistratura, previsione di un
controllo giurisdizionale di costituzionalità delle leggi, autonomie
locali), L. Basso enumera «il cosiddetto
pluralismo, cioè l'esistenza di associazioni e organismi vari a cui
i cittadini possono liberamente appartenere, in modo particolare
sindacati e partiti, che esercitano un potere di fatto nella comunità
pubblica» [Basso 1998, p. 89].
L'importanza della garanzia del “pluralismo organizzato” risiede
nel fatto che esso funge da contraltare rispetto ai poteri
costituiti, accresce la libertà delle persone (consentendo loro di
non essere condannate a rimanere monadi prive di legami coi loro
simili e con la società) e fornisce «spesso un'efficace difesa alle
minoranze» [Basso 1998, p.
89].
E
ancora, fra i “rimedi”, L. Basso annovera l'estensione del metodo
democratico alla sfera dell'economia, ossia la «penetrazione […]
di forme di vita democratica anche nella vita delle aziende», che
attenui «il potere autocratico del padrone o del rappresentante
degli interessi padronali» [Basso
1998, p. 89]. E' evidente che
l'autore scorge chiaramente – in sintonia del resto con altri
pensatori di ispirazione democratica – l'attrito fra
l'organizzazione verticistica della grande economia capitalista
(incarnata dai suoi fondamentali “pilastri”, le grandi industrie)
e lo spirito democratico che prevede il potere del demos
(il popolo). Data l'importanza
che il lavoro ha, secondo L. Basso, come sfera che garantisce la
dignità e l'emancipazione delle persone, è imprescindibile la
necessità di includerlo a pieno titolo nel generale processo di
democratizzazione della società (giacché, come il deputato
socialista ritiene, se non si rimettono seriamente in discussione i
rapporti di potere improntati a un modello gerarchico e dunque
non-democratico all'interno della società e dell'economia, la
democrazia politica
poggia su basi molto fragili).
Costituiscono
un rimedio importante, rispetto ai pericoli che minacciano il “potere
del demos”, anche gli istituti di democrazia diretta; L. Basso
sottolinea tuttavia in un inciso che questi vanno utilizzati «nei
limiti necessariamente ridotti» in cui funzionano [Basso
1998, p. 90]. Vi è qui ancora
un residuo di sospetto nei confronti del pieno utilizzo di tali
strumenti, che del resto era condiviso da altri costituenti e
traspare dal testo della Costituzione. Come rileva Rodotà, in
effetti Lelio Basso punta a una maturazione dei cittadini che porti a
un graduale e inarrestabile estendersi della loro partecipazione
politica, il cui esito non deve tuttavia essere «un perpetuo
“potere costituente”, affidato a un generico spontaneismo
collettivo. Il potere dei cittadini s'incardina in istituti ben
definiti, il partito politico e il sistema elettorale proporzionale,
che assicurano le mediazioni necessarie e l'egual peso al voto dei
cittadini. Nulla è più lontano dal pensiero di Basso di una deriva
verso una generica e incontrollata democrazia diretta.» [Rodotà
1998, p. 11]
Non vi può essere insomma
una partecipazione democratica che non sia inscritta in una forma
istituzionale che comporti precise garanzie e regolamentazioni.
L'assemblearismo magmatico, dai poteri virtualmente sconfinati (a
causa della sua funzione “perpetuamente costituente”) ma privo di
regole e di responsabilità definite, è un pericolo piuttosto che
una risorsa, dal punto di vista della democrazia.
Ciò assodato – e
condiviso in linea di principio – non è tuttavia fuori luogo
sostenere, considerando la questione con gli occhi (e la
consapevolezza politica) di oggi, che gli istituti di democrazia
diretta previsti dalla Costituzione andrebbero ripensati, non con lo
scopo di ridurne la portata, ma anzi per accrescerne il numero e il
peso.
Va
però evidenziato che – per tornare al discorso di Lelio Basso –
il rimedio fondamentale da lui indicato per contrastare i pericoli
che minacciano la democrazia «è una coscienza democratica diffusa,
pronta, vigile, sensibile. Questa coscienza democratica non si può
improvvisare e può essere soltanto il frutto di una lunga e maturata
esperienza storica» [Basso
1998, p. 90]. In altre parole,
l'autore mette in guardia contro il rischio di considerare un
ordinamento democratico solido e garantito per il solo fatto che
possiede una Costituzione democratica e istituzioni rappresentative:
senza una salda coscienza diffusa del valore e dell'importanza dei
princìpi fondanti della democrazia, quest'ultima rimane fragile,
nonostante tutti i presìdi e i baluardi politico-giuridici dei quali
può dotarsi.
Non
può esistere o durare una democrazia senza un demos
cosciente di sé e della propria dignità (prima ancora che dei
propri diritti).
Secondo
Basso, se questa coscienza viene a mancare, possono rimanere salve le
“apparenze” della democrazia, ma la sostanza perisce; gli
istituti parlamentari in questo caso continuano ad esistere, ma si
riducono ad un meccanismo esteriore, ad un rituale che ha il solo
scopo di «dare l'illusione di un'effettiva sovranità
popolare» [Basso 1998, p. 90].
In effetti, secondo il
deputato socialista, i rimedi da lui indicati sulla base della storia
e della sua personale esperienza, non sono del tutto adeguati a
salvaguardare le prerogative della democrazia, la quale «non ha
creato finora gli organi appropriati alle proprie esigenze, ma si è
sforzata attraverso un compromesso continuo di adattare i vecchi
istituti, in modo particolare quelli parlamentari, che rispondono
però solo molto debolmente allo scopo.» [Basso
1998, p. 90]
Si nota in passi come questo
l'insoddisfazione del teorico di formazione marxista rispetto alle
istituzioni e agli strumenti politici offerti dal liberalismo,
compreso il parlamento. La democrazia, anche se eredita le
istituzioni rappresentative create dal liberalismo, e le fa proprie,
non può accontentarsi di quest'opera di benefica “appropriazione”.
Si è già visto come L.
Basso auspichi il superamento della società “divisa in classi”,
e quindi delle ingiustizie socio-economiche generate dal capitalismo:
egli, come del resto molti marxisti, sembra ritenere che il
superamento del capitalismo e delle differenze di classe comporti
ipso facto anche la cessazione dei conflitti sociali ed
economici, per dar luogo a una società basata sulla cooperazione e
sulla solidarietà. E' questo probabilmente uno dei punti deboli
della sua impostazione: anche ammesso che sia possibile superare del
tutto e definitivamente gli antagonismi di classe, in una qualche
epoca più o meno prossima, non è detto né garantito che ciò
comporti anche la fine di ogni possibile conflitto
all'interno della società. Sarà mai possibile eliminare del tutto
l'egoismo dalla convivenza umana? E sarebbe ciò davvero auspicabile?
Non è forse più opportuno comprendere a quali condizioni e in che
modo sia possibile reindirizzare gli egoismi verso scopi cooperativi
e fini sociali? [*]
Nonostante queste riserve
tuttavia il nòcciolo della concezione della democrazia espressa da
Lelio Basso non perde affatto di interesse e di valore. Pur se
poniamo in dubbio la possibilità di eliminare definitivamente i
conflitti e i contrasti dall'arena sociale e politica in una qualche
epoca futura, resta il fatto che la democrazia – in questi tempi lo
comprendiamo – non coincide con le istituzioni liberali
rappresentative, anche se ne ha bisogno per esistere. L'esigenza del
“cittadino comune” di partecipare ai processi decisionali e di
chiedere conto costantemente (non solo al momento del voto) ai
rappresentanti politici del loro operato, di domandare
incessantemente il perché delle varie scelte che essi
operano, esigenza che L. Basso intuiva e incoraggiava, si fa oggi
insopprimibile e chiede risposte sempre più adeguate all'enfasi
della richiesta.
Lelio Basso denunciava
d'altra parte un appannamento del ruolo classico del Parlamento,
tanto da indurlo a ritenere che la vecchia concezione liberale della
“divisione dei poteri” e dei checks and balances fosse
messa in crisi dalla stessa evoluzione-involuzione delle istituzioni.
Pur convinto che il ruolo “classico” del Parlamento non fosse
sufficiente a garantire l'effettività del potere del demos
(ovvero il principio della sovranità popolare “preso sul serio”)
che la democrazia pretende, Basso guardava con preoccupazione alla
diminuzione dei poteri reali dell'organo rappresentativo per
eccellenza, che egli registrava: la fusione tra Parlamento e Governo
emergeva dalla prassi politica travolgendo qualsiasi teoria, poiché
la maggioranza politica finiva per dominare tanto l'esecutivo che il
legislativo, diventando la vera arbitra delle istituzioni e il
soggetto chiave dei meccanismi decisionali democratici, secondo un
principio di cooperazione e non di separazione dei poteri. In tal
modo il Parlamento non poteva più esercitare la funzione di
controllo sull'operato del Governo, se non in maniera molto debole, e
neppure continuare ad essere il titolare effettivo della potestà
legislativa. Questo processo, riconosce L. Basso, è stato prodotto
proprio dal percorso che ha condotto gli ordinamenti liberali a
“democratizzarsi”, «attraverso la costituzione di grandi partiti
che guidano l'opinione pubblica e rappresentano i veri operatori
politici», sicché «fra Governo e maggioranza parlamentare si crea
un rapporto di totale solidarietà, ma in ultima analisi la maggiore
autorità spetta al Governo […] mentre il gruppo o i gruppi
parlamentari, che la maggioranza costituiscono, sono tenuti a un
vincolo di disciplina.» [Basso 1998,
p. 75]
Tuttavia
già Walter Bagehot, analizzando il sistema politico inglese alla
fine del XIX secolo, sfatava il “mito” della separazione dei
poteri. Il “modello Westminster” che ha influenzato molti
ordinamenti democratici europei non è stato – proprio nell'epoca
in cui ha cominciato ad essere un concreto punto di riferimento per
altre esperienze liberali continentali – un modello perfettamente
rispondente alle teorie di Montesquieu. Probabilmente – è ciò che
sottilmente suggerisce la lettura di Bagehot – molti pensatori
politici o giuristi “anglofili” hanno frainteso la vera natura
della English
Constitution,
al punto che si può tranquillamente affermare che la fusione fra
legislativo ed esecutivo che denunciava Lelio Basso (e che altri
continuano a maggior ragione a denunciare oggi) è stata da sempre la
regola,
e non l'eccezione o la deviazione, della democrazia parlamentare di
scuola britannica. Vi è inoltre da dire che Bagehot, nella sua
puntuale analisi, non si limita a registrare i dati di fatto, ma
sottolinea come proprio nella “fusione” fra Governo e Parlamento
risieda il segreto
efficiente
dell'ordinamento britannico [Bagehot
1995, p. 52].
In altre parole, il “modello Westminster” funziona proprio perché
non rispetta la separazione fra legislativo ed esecutivo teorizzata
dal liberalismo “classico”. Non si tratta di uno “sviamento”
o di una “deviazione inconsapevole” dalla presunta “via
maestra”, ma di una scelta deliberata che costituisce il vero
“segreto del successo” della forma di governo parlamentare
elaborata dalla Gran Bretagna e diffusasi poi in altri Paesi
democratici, europei e non.
Ciò però è ben lungi
dall'indebolire la tesi di Lelio Basso circa la necessità che la
democrazia si doti di meccanismi istituzionali ulteriori rispetto a
quelli parlamentari classici, tesi che anzi grazie a queste
considerazioni si rafforza.
_____
[*] Questo
tema è affrontato in maniera acuta e stimolante da Piero Bernocchi,
nei saggi che ha recentemente dedicato alla teoria del benicomunismo,
da lui formulata. Criticando ad un tempo quelli che considera
dogmatismi invero “poco scientifici” del marxismo, come l'idea
del “proletariato unico e salvifico” (che non tiene conto della
complessità delle stratificazioni sociali) contrapposto a
un'altrettanto “introvabile” borghesia “compatta nella colpa”,
e le ingenuità che s'insinuano tra le pieghe delle recenti teorie
della democrazia partecipativa, egli sottolinea come, per giungere a
un'autentica liberazione dal capitalismo che sia anche concreta
liberazione politica per tutti, si debba passare attraverso una nuova
teoria dei beni comuni e attraverso una riflessione matura – scevra
da messianismi, paternalismi e nostalgie – sugli ostacoli che
concretamente bisogna superare per realizzare una democrazia
partecipativa stabile, duratura ed effettivamente operante. Per
superarli occorre però innanzitutto – egli sostiene – non
“barare” con la realtà: non bisogna immaginare una “umanità
totalmente altruista” che non esiste né potrà mai esistere.
Infatti un certo quantum di egoismo è necessario alla
sopravvivenza non solo dei singoli, ma anche delle comunità e della
specie («Donne ed uomini devono
necessariamente formare e curare il proprio Ego, tutelare la propria
integrità fisica e mentale, vivendo non solo la parte solidale con
l'Altro prossimo a sé ma anche quella conflittuale: si tratta di
facce coesistenti della stessa realtà, complessa ma non aggirabile.
Un Ego che viva di solo conflitto sarebbe altrettanto squilibrato e
destinato alla sofferenza e all'autolesionismo di uno assolutamente
impreparato ai conflitti e capace di vivere solo in un'atmosfera di
totale protezione, tutela e solidarietà benevola» [Bernocchi
2012, p. 255]); bisogna
fare in modo che, attraverso pratiche sociali e politiche “virtuose”
emerga piuttosto, e sia valorizzato (non attraverso dichiarazioni
ideologiche e programmatiche, ma approntando condizioni che «devono
essere liberamente verificate e scelte da ognuno/a senza imposizioni»
e che «non sono comunque mai date una volta per tutte» [Bernocchi
2012, p. 256]), quello
che Bernocchi definisce, con un apparente ossimoro, altruismo
egoistico: «Ciò che una società solidale ed egualitaria può e
deve ripromettersi è favorire l'equilibrio tra la difesa individuale
e la partecipazione all'agire collettivo. Ma questo non richiede la
cancellazione (peraltro impossibile) dell'egoismo, quanto piuttosto
la promozione di tutte le forme possibili di altruismo egoistico
[…], attitudine che non esclude affatto la cura dell'Ego, come
della propria integrità fisica e mentale. Un'adeguata organizzazione
sociale e una reale democrazia devono invogliare l'individuo a
incontrarsi con gli altri umani e a cooperare in modo da ricavarne
anche vantaggi personali, rendendo insomma il cosiddetto altruismo,
e cioè la disponibilità a cooperare con (e ad aiutare) l'Altro,
vantaggioso e proficuo anche per l'Io.» [Bernocchi 2015, p. 217]
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