Terza parte
Per
quanto riguarda i diritti e le garanzie stabilite a tutela dei
singoli, vi è da rilevare che la Costituzione, a giudizio di L.
Basso, ha recepito l'evoluzione delle democrazie moderne e ha perciò
«superato il concetto di “individuo” sostituendovi quello
di “persona”» [Basso 1998, p.
192].
La differenza sembra
sottile, e quasi soltanto terminologica, ma in realtà essa rinvia a
due precise e distinte concezioni della società, della politica e
anche (se non soprattutto) dell'essere umano. La nozione di
“individuo” è legata a una concezione filosofica e
socio-politica (di ispirazione principalmente liberale) che considera
i singoli come unità autonome e a sé stanti, autosufficienti,
ovvero – per usare un termine di illustre ascendenza filosofica –
come monadi. Gli “individui” sono piccoli mondi che determinano,
a partire dalla loro autonomia (nel senso letterale di “capacità
di dare norme a sé stessi”), tutto ciò che è intorno a loro e
non ne vengono a loro volta determinati (in linea di massima). Sono
insomma, per dirla in termini semplici, l'alfa e l'omega del mondo:
tutto parte da loro e tutto deve convergere verso i loro interessi, i
loro voleri, i loro bisogni, ecc.. In quest'ottica, la società
(ammesso che esista: ricordiamo en passant che non a caso una
liberal-conservatrice come la “Lady di Ferro” Thatcher negava
l'esistenza stessa di una cosa chiamata società...), la società
dunque è la risultante dei desideri e bisogni degli individui, è
solo ciò che gli individui vogliono che sia ed è uno strumento al
loro servizio, così come lo Stato (considerato un “male
necessario” la cui esistenza si giustifica solo se resta dentro il
proprio recinto di “controllore del traffico” e non viola la
soglia del “sacro domicilio” costituito dalle libertà
dell'individuo).
L'idea di “persona”
rinvia invece a una concezione del mondo per la quale il singolo è
un essere certamente dotato di una propria incoercibile e inviolabile
dignità, un essere certamente unico e irripetibile, valido in sé e
per sé, ma non slegato né indipendente dall'ambiente che lo
circonda; viene al mondo per l'atto di altri esseri (e non certo per
propria “autonoma” decisione), si forma grazie all'interazione
con la sua famiglia (che peraltro se ne prende materialmente cura) e
con la società, e per esistere e condurre una vita dignitosa ha
bisogno di stabilire e definire incessantemente relazioni con i
propri simili. La “persona” (specialmente in un contesto
democratico) contribuisce a determinare gli indirizzi della società,
ma è a sua volta influenzata e in qualche misura “co-determinata”
dalla “rete” di interrelazioni nella quale è immersa e che
contribuisce a tenere in vita. (E' appena il caso di accennare che il
concetto di “persona” è anche parte integrante della dottrina
cristiana, che lo arricchisce di ulteriori connotazioni).
Optando per la nozione di
“persona”, la Costituzione considera di capitale importanza
tutelare la partecipazione di ciascun cittadino alla vita sociale,
poiché è precisamente in questa partecipazione che consiste il
contributo del singolo all'esercizio del potere sovrano che spetta al
popolo: «Poiché dunque ciascuno partecipa alla vita sociale, anche
i diritti di libertà devono essere calati nella realtà sociale. Non
difesa del privato contro l'invadenza del pubblico, ma equilibrio fra
privato e pubblico, fra momento individuale e momento sociale: questa
è la libertà in uno Stato moderno».
Ciò significa «che i
diritti individuali non possono esercitarsi a detrimento del bene
pubblico, significa che lo Stato, rappresentante della collettività,
deve assicurare questo equilibrio reale, non soltanto giuridico e
formale, intervenendo in difesa delle posizioni più deboli.» [Basso
1998, p. 192]
E'
essenziale che il bene pubblico non venga sistematicamente
sacrificato in nome di interessi privati (la nozione chiave, come
Basso correttamente afferma e come oggi si fa di tutto per ignorare,
è quella di equilibrio):
possiamo forse capirlo meglio se teniamo conto delle volte e delle
situazioni nelle quali, in anni recenti, abbiamo visto parti della
società o del territorio subire le conseguenze della scarsa
considerazione del bene pubblico (interventi di edilizia selvaggia
che hanno devastato territori, emissioni inquinanti ben al di là dei
limiti di sicurezza, abusi “assortiti” legati alla gestione e
allo smaltimento dei rifiuti, ecc.). I diritti delle future
generazioni sono un esempio lampante di “interesse pubblico” che
va tutelato dalla possibile “invadenza famelica” degli interessi
privati e immediati (che assumono il ruolo di “soggetto forte” e
prevaricatore): non sempre è lo Stato il “cattivo”, colui che
invade spazi che non gli appartengono...
Queste riflessioni conducono
all'art. 3 della Costituzione, sul quale Lelio Basso si sofferma
diffusamente, essendone stato tra l'altro in buona misura l'artefice
e l'estensore materiale.
Come rileva un recente
saggio di Chiara Giorgi, in sostanza questo fondamentale articolo
della Costituzione «afferma che non si realizzerà l'uguaglianza
proclamata nel primo comma (secondo cui “tutti i cittadini hanno
pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di convinzioni personali e sociali”), se lo Stato non si
farà carico di rimuovere gli ostacoli che nella realtà impediscono
questa sostanziale uguaglianza, “il pieno sviluppo della persona e
l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione
politica, economica e sociale del paese”. Il secondo comma di
questa disposizione costituzionale dichiara dunque che l'ordine
giuridico è in contrasto con l'ordine sociale, perché l'ordine
giuridico (l'articolo 3) vuole l'uguaglianza ma riconosce che essa
non c'è.» [Giorgi 2014, pp. 56-57]
Il ruolo che L. Basso
assegna al diritto in democrazia emerge da questa norma
costituzionale: l'ordine giuridico democratico non si limita (com'è
avvenuto troppe volte in passato) a fotografare i rapporti di forza
esistenti e a cristallizzarli – affidandone la custodia allo
Stato-guardiano – ma mira a denunciare, affinché lo Stato poi
intervenga e provveda, gli ostacoli che non permettono a tutti di
avere effettivamente pari dignità e la possibilità di contare in
egual misura come cittadini a pieno titolo della Repubblica.
Il diritto è insomma
strumento di intervento attivo nella e sulla realtà, con una precisa
missione politica di segno democratico, e non un mezzo apparentemente
“neutro e imparziale” (ma nei fatti ben caratterizzato sotto il
profilo politico e ideologico) per congelare lo “stato delle cose”
sul piano dell'ordine sociale, dando per presupposto che quest'ultimo
sia “il migliore possibile” e che comunque non si possa o meglio
non si debba – nel rispetto dei princìpi di libertà – fare
nulla per influenzarlo “dall'alto”.
Ma, come si comprende, la
difesa del mero “stato delle cose” non è affatto un atto
“neutrale”; il non intervento è una precisa opzione politica e
una scelta di campo sul piano sociale. D'altra parte, in una
situazione sociale caratterizzata da forti squilibri e disparità, se
l'autorità politica apparentemente non interviene e “non
s'immischia” è perché è intervenuta già a monte, garantendo la
legittimità e l'intoccabilità della situazione esistente (con norme
specifiche ad es. sulla proprietà, sui contratti e sul lavoro, con
l'eventuale repressione del dissenso, ecc.).
Lo Stato liberale
“classico”, vestendo apparentemente i panni di imparziale arbitro
che si limita a registrare la disparità esistente fra i soggetti e
le classi sociali, in realtà la difende attivamente, perché è
proprio mediante quella disparità che si rendono possibili i
rapporti di potere economici, i quali poi dall'ordine economico
vengono trasposti nell'ordine politico e “solennizzati”.
La democrazia invece
contrasta l'idea stessa che il potere economico – con le disparità
sociali a cui si accompagna e la condizione di subalternità delle
masse “diseredate” che esso comporta se “sregolato” – possa
essere la base sulla quale fondare il potere politico; quest'ultimo
deve essere svincolato dalle posizioni di vantaggio che gli abbienti
e i possidenti hanno, perché deve essere posto a disposizione di
tutto il corpo sociale. La democrazia in definitiva nega che l'àmbito
dei rapporti sociali ed economici sia il terreno nel quale si afferma
chi “per natura” o “per eminenti meriti” ha il diritto
“intangibile” di detenere il potere; l'àmbito politico
democratico non ha affatto il compito di rispecchiare e replicare
meccanicamente quanto avviene in campo economico, ma rimette in
gioco tutto – per questo motivo la democrazia dev'essere
apparsa “sovversiva” nel momento in cui ha cominciato ad
affermarsi, dopo le grandi Rivoluzioni moderne – e si apre al
confronto dei diversi interessi, dei diversi orientamenti, delle
diverse idee presenti nella collettività.
Lo Stato in democrazia non è
un fortino dalle porte sbarrate che mira a difendersi dall'ingerenza
degli “intrusi”, ovvero le classi non privilegiate, o meglio
ancora i “cittadini qualunque” senza un nome illustre e
sconosciuti ai “salotti che contano”, bensì è una stanza dalla
porta perennemente aperta. Gli “intrusi” in democrazia sono i
benvenuti, perché senza la loro partecipazione il principio di
sovranità popolare non è attuato, anzi viene contraddetto, violato.
Una teoria politica
piuttosto conosciuta e “coltivata” da diversi studiosi,
appassionati e addetti ai lavori, ha detto e ripetuto, adducendo
sempre nuovi esempi e argomenti, che nessun sistema politico, nessun
ordinamento si sottrae al dato “brutale” secondo il quale è
sempre un'oligarchia a governare, è sempre una cerchia ristretta di
politici, di eletti, di esperti (e di esponenti dei grandi gruppi
finanziari, industriali, ecc.) a detenere le leve del potere politico
effettivo e a prendere decisioni. In base a questa teoria “elitista”
la democrazia non può che rimanere, rispetto ai suoi intenti più
genuini, una “promessa non mantenuta” (con buona pace di Norberto
Bobbio... [si veda Bobbio 1984]), giacché il potere non sarà
mai veramente e letteralmente “a disposizione” dei cittadini
“comuni”.
Ritengo che l'obiezione più
acuta a tale tesi sia stata di recente formulata da Luciano Canfora,
il quale ha suggerito opportunamente di non farsi fuorviare dal
“fatalismo” (di solito un cattivo consigliere...) immaginando una
situazione eternamente immobile dalla notte dei tempi, con oligarchie
inamovibili, e dunque onnipotenti, saldamente insediate al potere. La
realtà – dice Canfora – è che le oligarchie moderne non sono
affatto inamovibili e non sono inscritte nel nostro “fatale
destino”: «[...] l'oligarchia è la
forma concreta in cui il potere si organizza, ma è vulnerabile, ed è
sulla vulnerabilità che si gioca tutta la partita della politica.»
[Canfora-Zagrebelsky 2014, p.
24]
E, si può aggiungere, le
“oligarchie” operanti nelle moderne democrazie hanno bisogno del
consenso, dunque sono in continua relazione con il “pubblico” dei
cittadini, degli interessi diffusi, ecc.; la loro tendenza ad
“arroccarsi” nel proprio fortino (tendenza che si può
intravedere ad es. in certi comportamenti dei partiti politici) non
può mai superare un certo limite di guardia, e in ogni caso
l'opinione pubblica ormai “matura” – laddove, come in Italia,
la sua funzione è tutelata dalla Costituzione – sa dotarsi degli
strumenti per chiedere conto alle “oligarchie” delle loro scelte.
(Il problema che emerge
negli ultimi decenni è quello delle oligarchie transnazionali, di
tipo burocratico o tecnocratico, che si sottraggono al controllo dei
cittadini; tuttavia neppure la loro azione riesce a sfuggire
all'attenzione della critica politica ed è infatti sempre più
diffusamente oggetto di dibattito e di studi. Questa nuova realtà è
costituita in primis da organismi sovranazionali come quelli
della UE, che come evidenzia ancora una volta L. Canfora, hanno la
caratteristica peculiare di «sottrarsi
alla vista», nel momento stesso in cui finiscono per rappresentare i
veri luoghi del potere: «Sottrarsi alla vista vuol dire che noi
sappiamo dell'esistenza di istituzioni, luoghi, ma non li possiamo
raggiungere perché essi non rispondono a noi» [Canfora-Zagrebelsky
2014, p. 73].)
Com'è stato validamente
osservato: «Il rifiuto di una funzione ideologica del diritto,
mistificatrice della realtà dei rapporti sociali, al pari di una
concezione solo formale dell'uguaglianza, accompagnati da una visione
dinamica del diritto e delle istituzioni, inducono Basso a
individuare nella partecipazione effettiva e universale uno dei temi
rilevanti del proprio impegno alla Costituente.» [Giorgi 2014, p.
57]
E' proprio nell'art. 3 che
emerge pienamente la preferenza della Costituzione per la nozione di
“persona”, alla quale si è già accennato, come punto di
riferimento essenziale dell'ordinamento; lo Stato dunque, preso atto
che non ci sono individui astrattamente uguali, ma persone, ciascuna
delle quali collocata in una precisa situazione ambientale e sociale,
deve farsi carico «positivamente, con un intervento attivo, di ciò
che impedisce il pieno sviluppo della persona umana e la
realizzazione di un'autentica democrazia» [Giorgi 2014, p. 58].
La persona in quanto tale ha
diritto essenzialmente a veder riconosciuta la sua dignità;
sotto il profilo politico, non si può parlare di “dignità
differenziate”, è quindi proprio nella dignità delle persone che
risiede il diritto alla pari considerazione, che assume sostanza se
viene sancito il riconoscimento della pari dignità sociale di tutti
i cittadini, il quale di per sé pone un obbligo ben preciso a carico
dello Stato. Riconoscere la pari dignità significa infatti che lo
Stato si impegna, come suo supremo dovere costituzionale, a dare
priorità assoluta a tutti gli atti che contribuiscono a garantirla
concretamente, cioè lo Stato incessantemente, attraverso
tutti i mezzi a propria disposizione (norme, interventi
amministrativi, atti di autorità, interventi di spesa, ecc.), deve
fare in modo che la pari dignità dei cittadini sia realtà.
Detto in altri termini, una volta riconosciuta la pari dignità
sociale dei cittadini, qualsiasi inerzia dello Stato e delle autorità
politiche che ne metta in pericolo l'effettivo rispetto è una
violazione delle norme costituzionali e del carattere democratico
dell'ordinamento.
L'art. 3 della Costituzione
è lo strumento normativo principale mediante il quale questo
principio viene affermato. Esso è una vera e propria “cartina di
tornasole”: in un certo senso “stana” il legislatore e i
governanti ponendoli di fronte ai loro doveri e alle loro
responsabilità, e mette in mora tutti coloro che detengono pubblici
poteri, come dice L. Basso a chiare lettere: «In
altre parole quest'articolo contiene in sé la denuncia delle
contraddizioni della società italiana e della Costituzione, poiché
dichiara che le sue solenni proclamazioni, il suo riconoscimento
della sovranità popolare, la sua affermazione di democraticità
rischiano di rimanere soltanto vane parole per la presenza di
ostacoli sociali ed economici, quali per esempio la miseria,
l'ignoranza, la disoccupazione, il dislivello, gli squilibri e le
abissali distanze fra regioni e regioni, fra ceti e ceti». Come
spiega il costituente socialista, «[...] solo l'adempimento
effettivo del contenuto sociale della Costituzione può rendere
interamente vero e operante anche il contenuto politico. Quell'unità
dialettica fra i due momenti della democrazia, per cui lo sviluppo
della sovranità popolare deve portare ad uno sviluppo del contenuto
sociale e a un miglioramento delle condizioni materiali, e questo a
sua volta deve rafforzare ulteriormente la partecipazione e la
sovranità del popolo, è riconosciuta espressamente dalla
Costituzione italiana» [Basso 1998, p. 195].
Prendendo
spunto da questo e dagli altri articoli della Carta costituzionale
riguardanti i princìpi fondamentali, Lelio Basso osserva che la
Costituzione, e di conseguenza la democrazia che essa disegna, è
dinamica, perché va oltre il presente, anzi per meglio dire si pone
apertamente l'obiettivo di superare le condizioni (sociali,
economiche) che lo caratterizzano, e indica la “direzione di
marcia” lungo la quale il legislatore, le istituzioni e i decision
maker devono procedere. La
Costituzione, insomma, non auspica il “movimento per il movimento”,
o il cambiamento fine a se stesso – ovvero, per usare espressioni
attuali, non auspica una qualsiasi “politica del fare” o un
“riformismo purchessia” (“riformare per riformare”, non
importa in quale direzione o con quali obiettivi sociali) – ma, al
contrario, impone che il cambiamento sia progettato e realizzato
secondo un preciso orientamento, ossia nella prospettiva di «un
maggiore sviluppo della democrazia», affinché – ribadisce il
costituente socialista – si proceda senza indugi né deviazioni di
percorso «verso un conseguimento reale della democrazia oggi ancora
non attuato» [Basso 1998, p. 197].
Si può dire – per
tradurre questa riflessione in termini attuali – che la direzione
di marcia indicata dalla Costituzione sia in netta antitesi rispetto
alle tendenze, oggi in voga, all'accentramento dei poteri nelle mani
di organi monocratici o al sacrificio della rappresentanza e della
partecipazione in nome della “governabilità” e della presunta
“efficienza dei risultati” (sempre discutibile, in verità, e
usata fondamentalmente come pretesto propagandistico per trincerarsi
dietro il fatidico monito-invito [che ben poco ha di democratico, se
le parole hanno ancora un senso]: “Ragazzini, non immischiatevi in
cose più grandi di voi, lasciate lavorare gli esperti e gli
eletti”).
Il processo democratico in
ogni caso – nonostante dunque certi segnali “regressivi” di
ieri e di oggi – è irreversibile, secondo Lelio Basso,
perché «nel sistema della nostra Costituzione non è ammesso un
ritorno indietro dalle conquiste democratiche realizzate» [Basso
1998, p. 197]. E' sottinteso che, affinché ciò sia vero sul
piano della realtà (e non solo sul piano delle enunciazioni), è
necessario che i soggetti preposti a vigilare sul rispetto della
Costituzione (come la Corte Costituzionale o l'opposizione
parlamentare) siano sempre all'erta e soprattutto che sia sempre
all'opera quello che per Basso è il baluardo fondamentale della
democrazia, ovvero – come si è già detto – la «coscienza
democratica diffusa» [Basso 1998, p. 90] della popolazione.
La democrazia è di per sé
un ordinamento che si evolve continuamente: è la sua stessa natura,
la sua stessa ragion d'essere che ne fa un “contenitore politico”
il cui contenuto è «in continuo arricchimento», giacché la storia
recente dimostra che il concetto di democrazia si è caricato strada
facendo di «un significato sempre più complesso e più ricco ed è
presumibile che il processo abbia a svilupparsi ulteriormente»
[Basso 1998, p. 198].
Il sistema politico sancito
dalla Costituzione repubblicana deve operare sempre in modo da
conservare il grado di “democraticità” già conseguito, non per
considerarsi appagato dal traguardo già raggiunto, ma per
accrescerlo, e dunque per spingere incessantemente l'asticella sempre
più in alto (per usare una metafora sportiva). In sostanza, «[i]l
nostro sistema costituzionale è un sistema aperto verso il progresso
sociale e lo sviluppo democratico, verso una trasformazione delle
strutture anche economiche, in senso sempre più egalitario e per una
partecipazione sempre più vivace ed effettiva delle masse
all'esercizio del potere. Ma è chiuso a qualunque ritorno indietro,
a qualunque menomazione del quantum di democrazia che è ad
ogni momento realizzato. Il processo è quindi irreversibile ed ogni
tentativo di forzare questo divieto è in realtà un attentato ai
principi della Costituzione, cioè ai fondamenti stessi della nostra
civile convivenza.» [Basso 1998, pp. 198-199]
In varie parti del suo
libro, Lelio Basso accenna al ruolo che la Costituzione riconosce e
al tempo stesso assegna al lavoro e ai lavoratori.
Si tratta di un argomento
particolarmente delicato, come molti comprendono, e per molti aspetti
anche complesso.
Come ricorda il deputato
socialista, nei lavori della I Sottocommissione dell'Assemblea
Costituente si era proposto di far figurare un riferimento ai
lavoratori fin nell'art. 1 del testo costituzionale; era stato
Togliatti a suggerire di emendare la proposta Cevolotto (“Lo Stato
italiano è una Repubblica democratica”) aggiungendovi la
specificazione: “di lavoratori” «o
quanto meno – “per evitare equivoci” com'egli stesso precisò
–, “di lavoratori del braccio e della mente”» [Basso
1998, p. 136]. La proposta di
Togliatti, fatta propria anche da Amendola e dallo stesso L. Basso,
non venne accolta; prevalse invece la formulazione proposta da
Fanfani, “fondata sul lavoro”, che secondo i costituenti
democristiani si prestava meno a interpretazioni classiste, pur
salvaguardando il principio della centralità del lavoro nella
democrazia che si andava a costruire [Basso 1998, p. 137].
Si
è già detto, del resto, dello stretto legame fra il concetto di
cittadino e quello di lavoratore, che spicca con evidenza nei primi
articoli della Costituzione e in quelli relativi ai rapporti
economici: Lelio Basso ricorda come Giorgio La Pira, l'illustre
politico democristiano, nei lavori della Costituente attribuisse al
concetto di “lavoratore” una funzione innovativa, tale da fornire
un contributo essenziale per superare la concezione atomistica del
cittadino tipica dello Stato liberale e liberista [Basso
1998, p. 141].
Come
rammenta Basso, sempre nella I Sottocommissione l'on. Mastroianni,
discutendo di quello che poi diventerà nel testo definitivo l'art.
35 della Costituzione, «affermò che “il lavoro fra i diversi
fattori della produzione deve essere quello prediletto dallo Stato”»
e l'on. Ruini, parlando all'Assemblea come relatore, a proposito
dello stesso articolo affermò che erano maturi i tempi per varare,
dopo la “Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino”,
quella dei “Diritti dei lavoratori” [Basso 1998, p.
144].
Dei lavoratori, come abbiamo
visto, si parla espressamente nell'art. 3 della Costituzione; e la
rassegna potrebbe ancora continuare.
La
questione più delicata su cui è utile soffermarsi, e alla quale il
costituente socialista accenna, è quella sollevata dall'art. 4,
specialmente se si tiene conto della connessione che tale articolo ha
con il primo comma dell'art. 1, poc'anzi menzionato.
L'art.
1, comma 1, e l'art. 4 della Costituzione infatti convergono nel
qualificare il lavoro «come un diritto di tutti i cittadini […] ma
altresì come un dovere sociale. […] Il dovere cioè che ogni
membro della società ha di dare il suo contributo per il vantaggio
di tutti» [Basso 1998, p. 192].
Il
primo comma dell'art. 4 (“La Repubblica riconosce a tutti i
cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano
effettivo questo diritto”), in stretta armonia con alcuni articoli
della parte della Costituzione dedicata ai rapporti economici,
intende «[...] assicurare l'esistenza a tutti i cittadini» e
garantire su solide basi un diritto al lavoro concretamente esigibile
da parte di tutti, in condizioni di dignità e di rispetto per la
persona [Basso 1998, p. 194].
Il
lavoro come diritto
è un concetto che può suscitare oggi perplessità o prestarsi a
varie critiche, anche di segno opposto. Da un lato infatti qualcuno
può obiettare che lo Stato può e magari anche deve fare il
possibile, attraverso gli strumenti dei quali dispone, per promuovere
la crescita economica, la formazione dei giovani, per fissare
incentivi alle assunzioni, ecc. – può insomma operare sulle
condizioni che determinano l'aumento delle opportunità lavorative e
l'occupazione, ma non è nei suoi poteri “creare” posti di lavoro
come se possedesse la “bacchetta magica”. Intendere quindi in
senso letterale il concetto di “diritto al lavoro” significa
stravolgere la realtà e illudere le masse che lo Stato possegga
appunto la “bacchetta magica” delle favole e che, se non la
adopera, è perché la tiene ben nascosta per qualche misterioso e
sospetto motivo.
Dall'altro
lato sono possibili però – come dicevo – anche critiche di segno
opposto: vi è infatti ormai, soprattutto fra i critici radicali del
capitalismo (che non sono necessariamente “marxisti ortodossi”...),
una corrente di pensiero che nega al lavoro il ruolo di strumento per
la liberazione e l'emancipazione delle masse e delle persone,
considerandolo invece irredimibile strumento di oppressione. L'unica
libertà possibile, dicono i sostenitori di queste tesi, è la
libertà dal
lavoro; la liberazione dal
lavoro dev'essere insomma il vero obiettivo della lotta per
l'emancipazione degli oppressi: il lavoro è sempre servaggio, è
sempre sfruttamento, appropriazione del tempo del lavoratore, un bene
che gli viene sottratto irreversibilmente e che non potrà mai
essergli risarcito. Secondo questa scuola di pensiero, quindi, l'idea
stessa di un “diritto al lavoro” rappresenta un inganno ai danni
delle masse, giacché le induce a ritenere, ripetendo passivamente il
“credo” degli sfruttatori, che il lavoro debba essere il
principale obiettivo della loro esistenza, che il lavoro le “redima”
e dia loro uno status, equiparandole in prospettiva – nella
considerazione sociale, nei vantaggi, nei privilegi – all'élite di
“sfruttatori” che detiene il potere.
Non entrerò nel merito di
tali differenti critiche all'idea di “diritto al lavoro”, giacché
un'analisi puntuale delle argomentazioni che sono alla base delle
loro tesi richiederebbe un post a parte, ma ritengo sia opportuno
interrogarsi sul vero significato che quel diritto ha, il che vuol
dire interrogarsi sui motivi per i quali è sancito, come s'è detto,
dagli artt. 4 e 1 (comma 1) della Costituzione, oltre che da altre
norme contenute nella nostra Carta fondamentale.
Il
“lavoro come diritto” va connesso, come si accennava, all'idea di
dignità della persona, ed è in questo stretto legame che se ne
comprende meglio il senso. Il diritto al lavoro scardina le logiche
dei rapporti di subordinazione servile alle quali erano costrette a
sottostare le masse “diseredate” in epoche anche recenti: ciò
significa che il lavoro non è più, o non può più essere, una
“concessione” che il “signore”, il possidente o il notabile
di turno fa al “poveraccio” e per la quale quest'ultimo gli
dev'essere eternamente grato (e inchinarsi riverente, ecc.). Il
lavoro dignitoso libera la persona dal bisogno e dall'umiliazione di
dover dipendere, per la propria esistenza, dalla benevolenza e dalla
carità altrui.
Aver diritto a un lavoro
dignitoso e dignitosamente retribuito significa dunque poter
rivendicare libertà e dignità per sé e per la propria famiglia;
significa non dover dipendere dagli umori dei “potenti” per poter
condurre e programmare la propria vita.
“Diritto al lavoro”, in
quest'ottica, significa poi permettere a chiunque, a prescindere
dalla classe sociale di provenienza, di mettere a frutto le proprie
capacità a beneficio della collettività, dando il proprio
contributo effettivo e quotidiano alla soddisfazione dei bisogni
della società, alla crescita del benessere, alla sua diffusione,
ecc..
Non a caso la battaglia
delle donne per la pari dignità sociale e la “piena cittadinanza”
è passata attraverso il riconoscimento del loro diritto – sancito
peraltro dalla Costituzione – a svolgere un lavoro, o esercitare
una professione, alla pari degli uomini e senza subire
discriminazioni.
Ritengo che il senso
politico del “diritto al lavoro”, e la sua immutata ragion
d'essere, siano questi: come si vede, vi è una relazione
strettissima fra un tale diritto e l'idea di cittadinanza democratica
che la Costituzione enuncia e sostiene.
Lelio Basso ricorda che
l'art. 4 fa parte delle cosiddette norme “programmatiche” della
Costituzione, le quali, com'è noto, richiedono un intervento del
legislatore, ovvero specifiche leggi di attuazione, per poter
diventare “operative”.
Egli,
pur sostenendo che il diritto al lavoro si traduce nel dovere del
legislatore e dei governi di garantire la piena occupazione [Basso
1998, p. 287], considerata assieme
alla sicurezza sociale come «fondamento di una convivenza civile»
[Basso 1998, p. 312],
sottolinea come non basti la proclamazione del principio, “la
Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”,
«perché ogni disoccupato possa trovare lavoro: sarà necessario un
apparato non indifferente di leggi, di regolamenti, di istituti, di
provvidenze sociali affinché tale risultato si consegua davvero, ove
lo si voglia, e sia possibile» [Basso 1998, p. 229].
Qui
mi sembra che L. Basso sia consapevole del nodo complesso che bisogna
affrontare affinché questa norma costituzionale trovi adeguata
applicazione; e al “nodo” concorrono almeno due elementi: la
volontà del legislatore di ottemperare al compito che la
Costituzione gli assegna e le concrete possibilità di intervento che
la realtà sociale ed economica offre, nel momento in cui lo Stato si
accinge eventualmente a operare. Vi è da dire infatti che, per dare
concreta applicazione all'art. 4 e alle norme ad esso connesse, è
necessario intervenire periodicamente, monitorando costantemente
l'andamento dell'occupazione, i contratti di lavoro, ecc.. Per
garantire il “diritto al lavoro” non è sufficiente emanare una
legge una volta per tutte, giacché l'economia e la società sono in
costante trasformazione.
Per
tornare ai due tipi di obiezioni all'idea del “diritto al lavoro”,
al primo si può replicare in sostanza che non si tratta di figurarsi
un ruolo “irrealistico” dello Stato, da deus
ex machina che col suo
intervento risolve l'intreccio di ogni “racconto”, ma non si deve
neppure immaginare che il mercato e il lavoro “se la sbrighino”
ottimamente da soli e che lo Stato debba rimanere alla finestra a
guardare. Come ha detto recentemente Gustavo Zagrebelsky, partendo
dalla constatazione che molti dei diritti previsti dalla Costituzione
rischiano di essere consegnati all'oblio: «[...] basterebbe
ricordare l'articolo 1 (“L'Italia è una Repubblica democratica
fondata sul lavoro”). La communis
opinio, la vulgata, è che il
lavoro c'è in quanto, come prodotto di fattori economici che si
sviluppano per conto loro, si producono posti di lavoro. La nostra
Costituzione, viceversa, partiva dall'idea che il lavoro è il
principio e quei fattori che possono influire sulla creazione di
posti di lavoro vanno elaborati e costruiti dalla politica.»
[Canfora-Zagrebelsky 2014, p.
84]
Non
bisogna dimenticare, dunque, che il lavoro non è solo un concetto
economico, e non è perciò di esclusiva pertinenza dei mercati,
delle agenzie di rating,
dei revisori di conti, delle banche centrali, dei tecnici più
intransigenti del “liberismo applicato”; la Costituzione ci
ricorda che è soprattutto un àmbito dai connotati fortemente
politici e dai risvolti sociali e deve essere un fine costante
dell'azione politica, non un mezzo o una “pedina” che si può
spostare a piacimento sulla scacchiera della politica economica, a
seconda delle esigenze della finanza. Se i mercati tendono in certe
fasi a “sbarazzarsi” del lavoro o a dimenticare totalmente il suo
significato politico (legato, come si è visto, all'idea di dignità
della persona), è compito dello Stato intervenire per ribadire –
riporto le parole di Zagrebelsky – che «il lavoro è il principio»
e la sua tutela fa parte dell'orizzonte irrinunciabile che
l'ordinamento costituzionale assegna all'azione politica. Detto in
altri termini, il lavoro (ovvero: la creazione di occupazione, la
tutela dei diritti dei lavoratori, ecc.) non può essere un “effetto
collaterale” di politiche economiche decise tenendo presenti altri
scopi e altre priorità, ma affinché i princìpi costituzionali
siano rispettati scrupolosamente (e non elusi o aggirati con pretesti
di prammatica, come “ma ce lo chiede l'Europa”, “ma ce lo
chiedono i mercati”, ecc.) deve essere sempre fra gli obiettivi
prioritari e irrinunciabili dell'azione legislativa e di governo.
Quanto al secondo tipo di
obiezione all'idea del “diritto al lavoro”, quello elaborato da
alcuni settori dell'“anticapitalismo radicale”, si può dire che
esso colga un aspetto importante di quel diritto (pur contestandolo),
ovvero la necessità che il lavoro non sia sfruttamento e non si
trasformi in servaggio, in schiavitù. E' lo stesso diritto al
lavoro, inteso come corollario del diritto alla dignità, a
contemplare il diritto di ciascuno di disporre di tempi e spazi
liberi dalle costrizioni che il lavoro pur sempre comporta. Certo,
l'idea che le società possano liberarsi letteralmente e
completamente della necessità del lavoro, pur essendo allettante in
quanto “emotivamente liberatoria”, non riesce al momento a
superare il suo statuto di provocazione, di idea-paradosso che serve
a ribaltare i princìpi degli “antagonisti” (i sistemi
capitalisti) per rifiutarli “il più radicalmente possibile”,
senza tuttavia sapersi e potersi trasformare – al di là di un
generale invito al ribellismo e al sabotaggio – in alternativa
politica dai chiari contenuti (e dunque di evidente applicabilità su
scala generale: potrebbe mai il lavoro, a livello di interi Stati,
essere rimpiazzato da una sorta di sciopero totale, permanente e
“irreversibile”? E con quali risultati, con quale gradimento
reale da parte della popolazione? Per costruire quale sistema
alternativo, sotto il profilo istituzionale, economico, ecc.?).
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