Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

mercoledì 20 maggio 2015

Traversie di un “Principe senza scettro”. Omaggio a Lelio Basso, costituente /3




Terza parte

Per quanto riguarda i diritti e le garanzie stabilite a tutela dei singoli, vi è da rilevare che la Costituzione, a giudizio di L. Basso, ha recepito l'evoluzione delle democrazie moderne e ha perciò «superato il concetto di “individuo” sostituendovi quello di “persona”» [Basso 1998, p. 192].

La differenza sembra sottile, e quasi soltanto terminologica, ma in realtà essa rinvia a due precise e distinte concezioni della società, della politica e anche (se non soprattutto) dell'essere umano. La nozione di “individuo” è legata a una concezione filosofica e socio-politica (di ispirazione principalmente liberale) che considera i singoli come unità autonome e a sé stanti, autosufficienti, ovvero – per usare un termine di illustre ascendenza filosofica – come monadi. Gli “individui” sono piccoli mondi che determinano, a partire dalla loro autonomia (nel senso letterale di “capacità di dare norme a sé stessi”), tutto ciò che è intorno a loro e non ne vengono a loro volta determinati (in linea di massima). Sono insomma, per dirla in termini semplici, l'alfa e l'omega del mondo: tutto parte da loro e tutto deve convergere verso i loro interessi, i loro voleri, i loro bisogni, ecc.. In quest'ottica, la società (ammesso che esista: ricordiamo en passant che non a caso una liberal-conservatrice come la “Lady di Ferro” Thatcher negava l'esistenza stessa di una cosa chiamata società...), la società dunque è la risultante dei desideri e bisogni degli individui, è solo ciò che gli individui vogliono che sia ed è uno strumento al loro servizio, così come lo Stato (considerato un “male necessario” la cui esistenza si giustifica solo se resta dentro il proprio recinto di “controllore del traffico” e non viola la soglia del “sacro domicilio” costituito dalle libertà dell'individuo).



L'idea di “persona” rinvia invece a una concezione del mondo per la quale il singolo è un essere certamente dotato di una propria incoercibile e inviolabile dignità, un essere certamente unico e irripetibile, valido in sé e per sé, ma non slegato né indipendente dall'ambiente che lo circonda; viene al mondo per l'atto di altri esseri (e non certo per propria “autonoma” decisione), si forma grazie all'interazione con la sua famiglia (che peraltro se ne prende materialmente cura) e con la società, e per esistere e condurre una vita dignitosa ha bisogno di stabilire e definire incessantemente relazioni con i propri simili. La “persona” (specialmente in un contesto democratico) contribuisce a determinare gli indirizzi della società, ma è a sua volta influenzata e in qualche misura “co-determinata” dalla “rete” di interrelazioni nella quale è immersa e che contribuisce a tenere in vita. (E' appena il caso di accennare che il concetto di “persona” è anche parte integrante della dottrina cristiana, che lo arricchisce di ulteriori connotazioni).

Optando per la nozione di “persona”, la Costituzione considera di capitale importanza tutelare la partecipazione di ciascun cittadino alla vita sociale, poiché è precisamente in questa partecipazione che consiste il contributo del singolo all'esercizio del potere sovrano che spetta al popolo: «Poiché dunque ciascuno partecipa alla vita sociale, anche i diritti di libertà devono essere calati nella realtà sociale. Non difesa del privato contro l'invadenza del pubblico, ma equilibrio fra privato e pubblico, fra momento individuale e momento sociale: questa è la libertà in uno Stato moderno».
Ciò significa «che i diritti individuali non possono esercitarsi a detrimento del bene pubblico, significa che lo Stato, rappresentante della collettività, deve assicurare questo equilibrio reale, non soltanto giuridico e formale, intervenendo in difesa delle posizioni più deboli.» [Basso 1998, p. 192]

E' essenziale che il bene pubblico non venga sistematicamente sacrificato in nome di interessi privati (la nozione chiave, come Basso correttamente afferma e come oggi si fa di tutto per ignorare, è quella di equilibrio): possiamo forse capirlo meglio se teniamo conto delle volte e delle situazioni nelle quali, in anni recenti, abbiamo visto parti della società o del territorio subire le conseguenze della scarsa considerazione del bene pubblico (interventi di edilizia selvaggia che hanno devastato territori, emissioni inquinanti ben al di là dei limiti di sicurezza, abusi “assortiti” legati alla gestione e allo smaltimento dei rifiuti, ecc.). I diritti delle future generazioni sono un esempio lampante di “interesse pubblico” che va tutelato dalla possibile “invadenza famelica” degli interessi privati e immediati (che assumono il ruolo di “soggetto forte” e prevaricatore): non sempre è lo Stato il “cattivo”, colui che invade spazi che non gli appartengono...

Queste riflessioni conducono all'art. 3 della Costituzione, sul quale Lelio Basso si sofferma diffusamente, essendone stato tra l'altro in buona misura l'artefice e l'estensore materiale.
Come rileva un recente saggio di Chiara Giorgi, in sostanza questo fondamentale articolo della Costituzione «afferma che non si realizzerà l'uguaglianza proclamata nel primo comma (secondo cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di convinzioni personali e sociali”), se lo Stato non si farà carico di rimuovere gli ostacoli che nella realtà impediscono questa sostanziale uguaglianza, “il pieno sviluppo della persona e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Il secondo comma di questa disposizione costituzionale dichiara dunque che l'ordine giuridico è in contrasto con l'ordine sociale, perché l'ordine giuridico (l'articolo 3) vuole l'uguaglianza ma riconosce che essa non c'è.» [Giorgi 2014, pp. 56-57]

Il ruolo che L. Basso assegna al diritto in democrazia emerge da questa norma costituzionale: l'ordine giuridico democratico non si limita (com'è avvenuto troppe volte in passato) a fotografare i rapporti di forza esistenti e a cristallizzarli – affidandone la custodia allo Stato-guardiano – ma mira a denunciare, affinché lo Stato poi intervenga e provveda, gli ostacoli che non permettono a tutti di avere effettivamente pari dignità e la possibilità di contare in egual misura come cittadini a pieno titolo della Repubblica.

Il diritto è insomma strumento di intervento attivo nella e sulla realtà, con una precisa missione politica di segno democratico, e non un mezzo apparentemente “neutro e imparziale” (ma nei fatti ben caratterizzato sotto il profilo politico e ideologico) per congelare lo “stato delle cose” sul piano dell'ordine sociale, dando per presupposto che quest'ultimo sia “il migliore possibile” e che comunque non si possa o meglio non si debba – nel rispetto dei princìpi di libertà – fare nulla per influenzarlo “dall'alto”.

Ma, come si comprende, la difesa del mero “stato delle cose” non è affatto un atto “neutrale”; il non intervento è una precisa opzione politica e una scelta di campo sul piano sociale. D'altra parte, in una situazione sociale caratterizzata da forti squilibri e disparità, se l'autorità politica apparentemente non interviene e “non s'immischia” è perché è intervenuta già a monte, garantendo la legittimità e l'intoccabilità della situazione esistente (con norme specifiche ad es. sulla proprietà, sui contratti e sul lavoro, con l'eventuale repressione del dissenso, ecc.).

Lo Stato liberale “classico”, vestendo apparentemente i panni di imparziale arbitro che si limita a registrare la disparità esistente fra i soggetti e le classi sociali, in realtà la difende attivamente, perché è proprio mediante quella disparità che si rendono possibili i rapporti di potere economici, i quali poi dall'ordine economico vengono trasposti nell'ordine politico e “solennizzati”.

La democrazia invece contrasta l'idea stessa che il potere economico – con le disparità sociali a cui si accompagna e la condizione di subalternità delle masse “diseredate” che esso comporta se “sregolato” – possa essere la base sulla quale fondare il potere politico; quest'ultimo deve essere svincolato dalle posizioni di vantaggio che gli abbienti e i possidenti hanno, perché deve essere posto a disposizione di tutto il corpo sociale. La democrazia in definitiva nega che l'àmbito dei rapporti sociali ed economici sia il terreno nel quale si afferma chi “per natura” o “per eminenti meriti” ha il diritto “intangibile” di detenere il potere; l'àmbito politico democratico non ha affatto il compito di rispecchiare e replicare meccanicamente quanto avviene in campo economico, ma rimette in gioco tutto – per questo motivo la democrazia dev'essere apparsa “sovversiva” nel momento in cui ha cominciato ad affermarsi, dopo le grandi Rivoluzioni moderne – e si apre al confronto dei diversi interessi, dei diversi orientamenti, delle diverse idee presenti nella collettività.

Lo Stato in democrazia non è un fortino dalle porte sbarrate che mira a difendersi dall'ingerenza degli “intrusi”, ovvero le classi non privilegiate, o meglio ancora i “cittadini qualunque” senza un nome illustre e sconosciuti ai “salotti che contano”, bensì è una stanza dalla porta perennemente aperta. Gli “intrusi” in democrazia sono i benvenuti, perché senza la loro partecipazione il principio di sovranità popolare non è attuato, anzi viene contraddetto, violato.

Una teoria politica piuttosto conosciuta e “coltivata” da diversi studiosi, appassionati e addetti ai lavori, ha detto e ripetuto, adducendo sempre nuovi esempi e argomenti, che nessun sistema politico, nessun ordinamento si sottrae al dato “brutale” secondo il quale è sempre un'oligarchia a governare, è sempre una cerchia ristretta di politici, di eletti, di esperti (e di esponenti dei grandi gruppi finanziari, industriali, ecc.) a detenere le leve del potere politico effettivo e a prendere decisioni. In base a questa teoria “elitista” la democrazia non può che rimanere, rispetto ai suoi intenti più genuini, una “promessa non mantenuta” (con buona pace di Norberto Bobbio... [si veda Bobbio 1984]), giacché il potere non sarà mai veramente e letteralmente “a disposizione” dei cittadini “comuni”.
Ritengo che l'obiezione più acuta a tale tesi sia stata di recente formulata da Luciano Canfora, il quale ha suggerito opportunamente di non farsi fuorviare dal “fatalismo” (di solito un cattivo consigliere...) immaginando una situazione eternamente immobile dalla notte dei tempi, con oligarchie inamovibili, e dunque onnipotenti, saldamente insediate al potere. La realtà – dice Canfora – è che le oligarchie moderne non sono affatto inamovibili e non sono inscritte nel nostro “fatale destino”: «[...] l'oligarchia è la forma concreta in cui il potere si organizza, ma è vulnerabile, ed è sulla vulnerabilità che si gioca tutta la partita della politica.» [Canfora-Zagrebelsky 2014, p. 24]

E, si può aggiungere, le “oligarchie” operanti nelle moderne democrazie hanno bisogno del consenso, dunque sono in continua relazione con il “pubblico” dei cittadini, degli interessi diffusi, ecc.; la loro tendenza ad “arroccarsi” nel proprio fortino (tendenza che si può intravedere ad es. in certi comportamenti dei partiti politici) non può mai superare un certo limite di guardia, e in ogni caso l'opinione pubblica ormai “matura” – laddove, come in Italia, la sua funzione è tutelata dalla Costituzione – sa dotarsi degli strumenti per chiedere conto alle “oligarchie” delle loro scelte.
(Il problema che emerge negli ultimi decenni è quello delle oligarchie transnazionali, di tipo burocratico o tecnocratico, che si sottraggono al controllo dei cittadini; tuttavia neppure la loro azione riesce a sfuggire all'attenzione della critica politica ed è infatti sempre più diffusamente oggetto di dibattito e di studi. Questa nuova realtà è costituita in primis da organismi sovranazionali come quelli della UE, che come evidenzia ancora una volta L. Canfora, hanno la caratteristica peculiare di «sottrarsi alla vista», nel momento stesso in cui finiscono per rappresentare i veri luoghi del potere: «Sottrarsi alla vista vuol dire che noi sappiamo dell'esistenza di istituzioni, luoghi, ma non li possiamo raggiungere perché essi non rispondono a noi» [Canfora-Zagrebelsky 2014, p. 73].)

Com'è stato validamente osservato: «Il rifiuto di una funzione ideologica del diritto, mistificatrice della realtà dei rapporti sociali, al pari di una concezione solo formale dell'uguaglianza, accompagnati da una visione dinamica del diritto e delle istituzioni, inducono Basso a individuare nella partecipazione effettiva e universale uno dei temi rilevanti del proprio impegno alla Costituente.» [Giorgi 2014, p. 57]

E' proprio nell'art. 3 che emerge pienamente la preferenza della Costituzione per la nozione di “persona”, alla quale si è già accennato, come punto di riferimento essenziale dell'ordinamento; lo Stato dunque, preso atto che non ci sono individui astrattamente uguali, ma persone, ciascuna delle quali collocata in una precisa situazione ambientale e sociale, deve farsi carico «positivamente, con un intervento attivo, di ciò che impedisce il pieno sviluppo della persona umana e la realizzazione di un'autentica democrazia» [Giorgi 2014, p. 58].

La persona in quanto tale ha diritto essenzialmente a veder riconosciuta la sua dignità; sotto il profilo politico, non si può parlare di “dignità differenziate”, è quindi proprio nella dignità delle persone che risiede il diritto alla pari considerazione, che assume sostanza se viene sancito il riconoscimento della pari dignità sociale di tutti i cittadini, il quale di per sé pone un obbligo ben preciso a carico dello Stato. Riconoscere la pari dignità significa infatti che lo Stato si impegna, come suo supremo dovere costituzionale, a dare priorità assoluta a tutti gli atti che contribuiscono a garantirla concretamente, cioè lo Stato incessantemente, attraverso tutti i mezzi a propria disposizione (norme, interventi amministrativi, atti di autorità, interventi di spesa, ecc.), deve fare in modo che la pari dignità dei cittadini sia realtà. Detto in altri termini, una volta riconosciuta la pari dignità sociale dei cittadini, qualsiasi inerzia dello Stato e delle autorità politiche che ne metta in pericolo l'effettivo rispetto è una violazione delle norme costituzionali e del carattere democratico dell'ordinamento.

L'art. 3 della Costituzione è lo strumento normativo principale mediante il quale questo principio viene affermato. Esso è una vera e propria “cartina di tornasole”: in un certo senso “stana” il legislatore e i governanti ponendoli di fronte ai loro doveri e alle loro responsabilità, e mette in mora tutti coloro che detengono pubblici poteri, come dice L. Basso a chiare lettere: «In altre parole quest'articolo contiene in sé la denuncia delle contraddizioni della società italiana e della Costituzione, poiché dichiara che le sue solenni proclamazioni, il suo riconoscimento della sovranità popolare, la sua affermazione di democraticità rischiano di rimanere soltanto vane parole per la presenza di ostacoli sociali ed economici, quali per esempio la miseria, l'ignoranza, la disoccupazione, il dislivello, gli squilibri e le abissali distanze fra regioni e regioni, fra ceti e ceti». Come spiega il costituente socialista, «[...] solo l'adempimento effettivo del contenuto sociale della Costituzione può rendere interamente vero e operante anche il contenuto politico. Quell'unità dialettica fra i due momenti della democrazia, per cui lo sviluppo della sovranità popolare deve portare ad uno sviluppo del contenuto sociale e a un miglioramento delle condizioni materiali, e questo a sua volta deve rafforzare ulteriormente la partecipazione e la sovranità del popolo, è riconosciuta espressamente dalla Costituzione italiana» [Basso 1998, p. 195].

Prendendo spunto da questo e dagli altri articoli della Carta costituzionale riguardanti i princìpi fondamentali, Lelio Basso osserva che la Costituzione, e di conseguenza la democrazia che essa disegna, è dinamica, perché va oltre il presente, anzi per meglio dire si pone apertamente l'obiettivo di superare le condizioni (sociali, economiche) che lo caratterizzano, e indica la “direzione di marcia” lungo la quale il legislatore, le istituzioni e i decision maker devono procedere. La Costituzione, insomma, non auspica il “movimento per il movimento”, o il cambiamento fine a se stesso – ovvero, per usare espressioni attuali, non auspica una qualsiasi “politica del fare” o un “riformismo purchessia” (“riformare per riformare”, non importa in quale direzione o con quali obiettivi sociali) – ma, al contrario, impone che il cambiamento sia progettato e realizzato secondo un preciso orientamento, ossia nella prospettiva di «un maggiore sviluppo della democrazia», affinché – ribadisce il costituente socialista – si proceda senza indugi né deviazioni di percorso «verso un conseguimento reale della democrazia oggi ancora non attuato» [Basso 1998, p. 197].

Si può dire – per tradurre questa riflessione in termini attuali – che la direzione di marcia indicata dalla Costituzione sia in netta antitesi rispetto alle tendenze, oggi in voga, all'accentramento dei poteri nelle mani di organi monocratici o al sacrificio della rappresentanza e della partecipazione in nome della “governabilità” e della presunta “efficienza dei risultati” (sempre discutibile, in verità, e usata fondamentalmente come pretesto propagandistico per trincerarsi dietro il fatidico monito-invito [che ben poco ha di democratico, se le parole hanno ancora un senso]: “Ragazzini, non immischiatevi in cose più grandi di voi, lasciate lavorare gli esperti e gli eletti”).

Il processo democratico in ogni caso – nonostante dunque certi segnali “regressivi” di ieri e di oggi – è irreversibile, secondo Lelio Basso, perché «nel sistema della nostra Costituzione non è ammesso un ritorno indietro dalle conquiste democratiche realizzate» [Basso 1998, p. 197]. E' sottinteso che, affinché ciò sia vero sul piano della realtà (e non solo sul piano delle enunciazioni), è necessario che i soggetti preposti a vigilare sul rispetto della Costituzione (come la Corte Costituzionale o l'opposizione parlamentare) siano sempre all'erta e soprattutto che sia sempre all'opera quello che per Basso è il baluardo fondamentale della democrazia, ovvero – come si è già detto – la «coscienza democratica diffusa» [Basso 1998, p. 90] della popolazione.

La democrazia è di per sé un ordinamento che si evolve continuamente: è la sua stessa natura, la sua stessa ragion d'essere che ne fa un “contenitore politico” il cui contenuto è «in continuo arricchimento», giacché la storia recente dimostra che il concetto di democrazia si è caricato strada facendo di «un significato sempre più complesso e più ricco ed è presumibile che il processo abbia a svilupparsi ulteriormente» [Basso 1998, p. 198].
Il sistema politico sancito dalla Costituzione repubblicana deve operare sempre in modo da conservare il grado di “democraticità” già conseguito, non per considerarsi appagato dal traguardo già raggiunto, ma per accrescerlo, e dunque per spingere incessantemente l'asticella sempre più in alto (per usare una metafora sportiva). In sostanza, «[i]l nostro sistema costituzionale è un sistema aperto verso il progresso sociale e lo sviluppo democratico, verso una trasformazione delle strutture anche economiche, in senso sempre più egalitario e per una partecipazione sempre più vivace ed effettiva delle masse all'esercizio del potere. Ma è chiuso a qualunque ritorno indietro, a qualunque menomazione del quantum di democrazia che è ad ogni momento realizzato. Il processo è quindi irreversibile ed ogni tentativo di forzare questo divieto è in realtà un attentato ai principi della Costituzione, cioè ai fondamenti stessi della nostra civile convivenza.» [Basso 1998, pp. 198-199]

In varie parti del suo libro, Lelio Basso accenna al ruolo che la Costituzione riconosce e al tempo stesso assegna al lavoro e ai lavoratori.
Si tratta di un argomento particolarmente delicato, come molti comprendono, e per molti aspetti anche complesso.
Come ricorda il deputato socialista, nei lavori della I Sottocommissione dell'Assemblea Costituente si era proposto di far figurare un riferimento ai lavoratori fin nell'art. 1 del testo costituzionale; era stato Togliatti a suggerire di emendare la proposta Cevolotto (“Lo Stato italiano è una Repubblica democratica”) aggiungendovi la specificazione: “di lavoratori” «o quanto meno – “per evitare equivoci” com'egli stesso precisò –, “di lavoratori del braccio e della mente”» [Basso 1998, p. 136]. La proposta di Togliatti, fatta propria anche da Amendola e dallo stesso L. Basso, non venne accolta; prevalse invece la formulazione proposta da Fanfani, “fondata sul lavoro”, che secondo i costituenti democristiani si prestava meno a interpretazioni classiste, pur salvaguardando il principio della centralità del lavoro nella democrazia che si andava a costruire [Basso 1998, p. 137].

Si è già detto, del resto, dello stretto legame fra il concetto di cittadino e quello di lavoratore, che spicca con evidenza nei primi articoli della Costituzione e in quelli relativi ai rapporti economici: Lelio Basso ricorda come Giorgio La Pira, l'illustre politico democristiano, nei lavori della Costituente attribuisse al concetto di “lavoratore” una funzione innovativa, tale da fornire un contributo essenziale per superare la concezione atomistica del cittadino tipica dello Stato liberale e liberista [Basso 1998, p. 141].

Come rammenta Basso, sempre nella I Sottocommissione l'on. Mastroianni, discutendo di quello che poi diventerà nel testo definitivo l'art. 35 della Costituzione, «affermò che “il lavoro fra i diversi fattori della produzione deve essere quello prediletto dallo Stato”» e l'on. Ruini, parlando all'Assemblea come relatore, a proposito dello stesso articolo affermò che erano maturi i tempi per varare, dopo la “Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino”, quella dei “Diritti dei lavoratori” [Basso 1998, p. 144].

Dei lavoratori, come abbiamo visto, si parla espressamente nell'art. 3 della Costituzione; e la rassegna potrebbe ancora continuare.
La questione più delicata su cui è utile soffermarsi, e alla quale il costituente socialista accenna, è quella sollevata dall'art. 4, specialmente se si tiene conto della connessione che tale articolo ha con il primo comma dell'art. 1, poc'anzi menzionato.
L'art. 1, comma 1, e l'art. 4 della Costituzione infatti convergono nel qualificare il lavoro «come un diritto di tutti i cittadini […] ma altresì come un dovere sociale. […] Il dovere cioè che ogni membro della società ha di dare il suo contributo per il vantaggio di tutti» [Basso 1998, p. 192].
Il primo comma dell'art. 4 (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”), in stretta armonia con alcuni articoli della parte della Costituzione dedicata ai rapporti economici, intende «[...] assicurare l'esistenza a tutti i cittadini» e garantire su solide basi un diritto al lavoro concretamente esigibile da parte di tutti, in condizioni di dignità e di rispetto per la persona [Basso 1998, p. 194].

Il lavoro come diritto è un concetto che può suscitare oggi perplessità o prestarsi a varie critiche, anche di segno opposto. Da un lato infatti qualcuno può obiettare che lo Stato può e magari anche deve fare il possibile, attraverso gli strumenti dei quali dispone, per promuovere la crescita economica, la formazione dei giovani, per fissare incentivi alle assunzioni, ecc. – può insomma operare sulle condizioni che determinano l'aumento delle opportunità lavorative e l'occupazione, ma non è nei suoi poteri “creare” posti di lavoro come se possedesse la “bacchetta magica”. Intendere quindi in senso letterale il concetto di “diritto al lavoro” significa stravolgere la realtà e illudere le masse che lo Stato possegga appunto la “bacchetta magica” delle favole e che, se non la adopera, è perché la tiene ben nascosta per qualche misterioso e sospetto motivo.

Dall'altro lato sono possibili però – come dicevo – anche critiche di segno opposto: vi è infatti ormai, soprattutto fra i critici radicali del capitalismo (che non sono necessariamente “marxisti ortodossi”...), una corrente di pensiero che nega al lavoro il ruolo di strumento per la liberazione e l'emancipazione delle masse e delle persone, considerandolo invece irredimibile strumento di oppressione. L'unica libertà possibile, dicono i sostenitori di queste tesi, è la libertà dal lavoro; la liberazione dal lavoro dev'essere insomma il vero obiettivo della lotta per l'emancipazione degli oppressi: il lavoro è sempre servaggio, è sempre sfruttamento, appropriazione del tempo del lavoratore, un bene che gli viene sottratto irreversibilmente e che non potrà mai essergli risarcito. Secondo questa scuola di pensiero, quindi, l'idea stessa di un “diritto al lavoro” rappresenta un inganno ai danni delle masse, giacché le induce a ritenere, ripetendo passivamente il “credo” degli sfruttatori, che il lavoro debba essere il principale obiettivo della loro esistenza, che il lavoro le “redima” e dia loro uno status, equiparandole in prospettiva – nella considerazione sociale, nei vantaggi, nei privilegi – all'élite di “sfruttatori” che detiene il potere.

Non entrerò nel merito di tali differenti critiche all'idea di “diritto al lavoro”, giacché un'analisi puntuale delle argomentazioni che sono alla base delle loro tesi richiederebbe un post a parte, ma ritengo sia opportuno interrogarsi sul vero significato che quel diritto ha, il che vuol dire interrogarsi sui motivi per i quali è sancito, come s'è detto, dagli artt. 4 e 1 (comma 1) della Costituzione, oltre che da altre norme contenute nella nostra Carta fondamentale.

Il “lavoro come diritto” va connesso, come si accennava, all'idea di dignità della persona, ed è in questo stretto legame che se ne comprende meglio il senso. Il diritto al lavoro scardina le logiche dei rapporti di subordinazione servile alle quali erano costrette a sottostare le masse “diseredate” in epoche anche recenti: ciò significa che il lavoro non è più, o non può più essere, una “concessione” che il “signore”, il possidente o il notabile di turno fa al “poveraccio” e per la quale quest'ultimo gli dev'essere eternamente grato (e inchinarsi riverente, ecc.). Il lavoro dignitoso libera la persona dal bisogno e dall'umiliazione di dover dipendere, per la propria esistenza, dalla benevolenza e dalla carità altrui.
Aver diritto a un lavoro dignitoso e dignitosamente retribuito significa dunque poter rivendicare libertà e dignità per sé e per la propria famiglia; significa non dover dipendere dagli umori dei “potenti” per poter condurre e programmare la propria vita.
Diritto al lavoro”, in quest'ottica, significa poi permettere a chiunque, a prescindere dalla classe sociale di provenienza, di mettere a frutto le proprie capacità a beneficio della collettività, dando il proprio contributo effettivo e quotidiano alla soddisfazione dei bisogni della società, alla crescita del benessere, alla sua diffusione, ecc..
Non a caso la battaglia delle donne per la pari dignità sociale e la “piena cittadinanza” è passata attraverso il riconoscimento del loro diritto – sancito peraltro dalla Costituzione – a svolgere un lavoro, o esercitare una professione, alla pari degli uomini e senza subire discriminazioni.

Ritengo che il senso politico del “diritto al lavoro”, e la sua immutata ragion d'essere, siano questi: come si vede, vi è una relazione strettissima fra un tale diritto e l'idea di cittadinanza democratica che la Costituzione enuncia e sostiene.

Lelio Basso ricorda che l'art. 4 fa parte delle cosiddette norme “programmatiche” della Costituzione, le quali, com'è noto, richiedono un intervento del legislatore, ovvero specifiche leggi di attuazione, per poter diventare “operative”.
Egli, pur sostenendo che il diritto al lavoro si traduce nel dovere del legislatore e dei governi di garantire la piena occupazione [Basso 1998, p. 287], considerata assieme alla sicurezza sociale come «fondamento di una convivenza civile» [Basso 1998, p. 312], sottolinea come non basti la proclamazione del principio, “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro”, «perché ogni disoccupato possa trovare lavoro: sarà necessario un apparato non indifferente di leggi, di regolamenti, di istituti, di provvidenze sociali affinché tale risultato si consegua davvero, ove lo si voglia, e sia possibile» [Basso 1998, p. 229].

Qui mi sembra che L. Basso sia consapevole del nodo complesso che bisogna affrontare affinché questa norma costituzionale trovi adeguata applicazione; e al “nodo” concorrono almeno due elementi: la volontà del legislatore di ottemperare al compito che la Costituzione gli assegna e le concrete possibilità di intervento che la realtà sociale ed economica offre, nel momento in cui lo Stato si accinge eventualmente a operare. Vi è da dire infatti che, per dare concreta applicazione all'art. 4 e alle norme ad esso connesse, è necessario intervenire periodicamente, monitorando costantemente l'andamento dell'occupazione, i contratti di lavoro, ecc.. Per garantire il “diritto al lavoro” non è sufficiente emanare una legge una volta per tutte, giacché l'economia e la società sono in costante trasformazione.

Per tornare ai due tipi di obiezioni all'idea del “diritto al lavoro”, al primo si può replicare in sostanza che non si tratta di figurarsi un ruolo “irrealistico” dello Stato, da deus ex machina che col suo intervento risolve l'intreccio di ogni “racconto”, ma non si deve neppure immaginare che il mercato e il lavoro “se la sbrighino” ottimamente da soli e che lo Stato debba rimanere alla finestra a guardare. Come ha detto recentemente Gustavo Zagrebelsky, partendo dalla constatazione che molti dei diritti previsti dalla Costituzione rischiano di essere consegnati all'oblio: «[...] basterebbe ricordare l'articolo 1 (“L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”). La communis opinio, la vulgata, è che il lavoro c'è in quanto, come prodotto di fattori economici che si sviluppano per conto loro, si producono posti di lavoro. La nostra Costituzione, viceversa, partiva dall'idea che il lavoro è il principio e quei fattori che possono influire sulla creazione di posti di lavoro vanno elaborati e costruiti dalla politica.» [Canfora-Zagrebelsky 2014, p. 84]

Non bisogna dimenticare, dunque, che il lavoro non è solo un concetto economico, e non è perciò di esclusiva pertinenza dei mercati, delle agenzie di rating, dei revisori di conti, delle banche centrali, dei tecnici più intransigenti del “liberismo applicato”; la Costituzione ci ricorda che è soprattutto un àmbito dai connotati fortemente politici e dai risvolti sociali e deve essere un fine costante dell'azione politica, non un mezzo o una “pedina” che si può spostare a piacimento sulla scacchiera della politica economica, a seconda delle esigenze della finanza. Se i mercati tendono in certe fasi a “sbarazzarsi” del lavoro o a dimenticare totalmente il suo significato politico (legato, come si è visto, all'idea di dignità della persona), è compito dello Stato intervenire per ribadire – riporto le parole di Zagrebelsky – che «il lavoro è il principio» e la sua tutela fa parte dell'orizzonte irrinunciabile che l'ordinamento costituzionale assegna all'azione politica. Detto in altri termini, il lavoro (ovvero: la creazione di occupazione, la tutela dei diritti dei lavoratori, ecc.) non può essere un “effetto collaterale” di politiche economiche decise tenendo presenti altri scopi e altre priorità, ma affinché i princìpi costituzionali siano rispettati scrupolosamente (e non elusi o aggirati con pretesti di prammatica, come “ma ce lo chiede l'Europa”, “ma ce lo chiedono i mercati”, ecc.) deve essere sempre fra gli obiettivi prioritari e irrinunciabili dell'azione legislativa e di governo.

Quanto al secondo tipo di obiezione all'idea del “diritto al lavoro”, quello elaborato da alcuni settori dell'“anticapitalismo radicale”, si può dire che esso colga un aspetto importante di quel diritto (pur contestandolo), ovvero la necessità che il lavoro non sia sfruttamento e non si trasformi in servaggio, in schiavitù. E' lo stesso diritto al lavoro, inteso come corollario del diritto alla dignità, a contemplare il diritto di ciascuno di disporre di tempi e spazi liberi dalle costrizioni che il lavoro pur sempre comporta. Certo, l'idea che le società possano liberarsi letteralmente e completamente della necessità del lavoro, pur essendo allettante in quanto “emotivamente liberatoria”, non riesce al momento a superare il suo statuto di provocazione, di idea-paradosso che serve a ribaltare i princìpi degli “antagonisti” (i sistemi capitalisti) per rifiutarli “il più radicalmente possibile”, senza tuttavia sapersi e potersi trasformare – al di là di un generale invito al ribellismo e al sabotaggio – in alternativa politica dai chiari contenuti (e dunque di evidente applicabilità su scala generale: potrebbe mai il lavoro, a livello di interi Stati, essere rimpiazzato da una sorta di sciopero totale, permanente e “irreversibile”? E con quali risultati, con quale gradimento reale da parte della popolazione? Per costruire quale sistema alternativo, sotto il profilo istituzionale, economico, ecc.?).



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