Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

mercoledì 20 maggio 2015

Traversie di un “Principe senza scettro”. Omaggio a Lelio Basso, costituente /4




Quarta parte

Nei restanti capitoli del Principe senza scettro, Lelio Basso denuncia i ritardi del legislatore nel dare applicazione ai princìpi costituzionali, ritardi non casuali, anzi spesso politicamente significativi, poiché – come il deputato socialista afferma citando casi specifici e documentati – si legano alla riluttanza, da parte di ambienti conservatori della Democrazia Cristiana e in misura minore di altri partiti allora suoi alleati di governo, ad abrogare varie norme varate dal fascismo, ad esempio in tema di pubblica sicurezza. Quello messo in atto dai governi centristi dell'epoca è, secondo Basso, un vero e proprio sabotaggio, se non un tradimento, dello spirito e della lettera della Costituzione.
Poiché queste parti del testo sono legate alla situazione che L. Basso registrava nel 1958, e hanno oggi soprattutto importanza sotto il profilo della ricostruzione storica della vita politica italiana degli anni Cinquanta del secolo scorso, non ce ne occuperemo qui se non sommariamente: chi volesse “saperne di più”, su questi e sugli altri temi che il volume in esame tratta, non ha che da cercarlo in qualche biblioteca e leggerlo per intero – e in fondo mi auguro che qualcuno, incuriosito da questo post, lo faccia.




Rodotà, riferendosi a questa parte di denuncia del testo, ritiene che Basso abbia trascurato il peso che la “questione comunista” (ovvero la necessità – intesa come imprescindibile e prioritaria dalle forze centriste e “filoatlantiste” – di sbarrare il passo a tutti i costi all'“avanzata del comunismo”, al “pericolo comunista”) ha avuto nel determinare gli “ostruzionismi di maggioranza” contro l'attuazione piena delle norme costituzionali: «Con l'argomento del realismo politico […] si potrebbe obiettare al politico Basso di non aver visto, o di non aver voluto vedere, quale fosse la ragione vera della situazione che tanto impietosamente denunciava» [Rodotà 1998, p. 9].

Non trovo però del tutto convincente questa tesi: basta leggere attentamente i capitoli che Lelio Basso, nel Principe senza scettro, dedica alla “Continuità delle leggi fasciste” e a quello che lui definisce “Sovvertimento dello Stato” (messo in atto a suo parere dalle forze di governo di quegli anni), per rendersi conto che la “questione comunista” può essere tutt'al più una delle cause, e non sempre la prevalente, dell'atteggiamento che Basso denuncia; si ha insomma l'impressione che ciò che faceva paura ai settori più conservatori (Basso avrebbe aggiunto senza esitazione: “...e reazionari”) non solo della politica istituzionale, ma anche della società, era in realtà proprio la democrazia intesa come “sistema inclusivo”, che se attuata integralmente nel rispetto scrupoloso della Costituzione, avrebbe rapidamente messo in crisi (e spazzato via) la mentalità stessa che reggeva gli orientamenti legislativi e di governo tipici di quegli anni, i “dogmi sociali” che regolavano i rapporti reciproci fra le persone e fra i ceti, certi tabù collettivi improntati a una miscela di tradizionalismo autoritario e puritanesimo fuori tempo massimo, norme (antecedenti al 1945, ma vigenti) paternalistiche e lesive, ancor prima che della dignità delle persone, della loro intelligenza, e così via. La politica (delle forze di governo) e la società italiana (non tutta, certo, ma nella sua parte “elettoralmente maggioritaria”) sembravano incapaci, pur dopo aver liquidato sul piano politico-istituzionale la logica autocratica del fascismo, di liberarsi anche della mentalità autoritaria e antipluralistica che aveva caratterizzato quel regime e di cui questo si era al contempo sapientemente alimentato.

Sulla necessità – e sull' “occasione mancata” – di varare la Repubblica democratica disegnata dalla Costituzione facendo tabula rasa della legislazione fascista e più in generale delle norme incompatibili con lo spirito del nuovo ordinamento, Lelio Basso è netto e intransigente: in proposito, per far comprendere il proprio pensiero, ricorda – sia pure in forma di annotazione a margine – come nel 1946 Vittorio Emanuele Orlando, già Capo del Governo in era prefascista, avesse dichiarato che «[...] se ne avesse avuto il potere, “la sera del 25 luglio avrebbe con un articolo unico stabilito che tutte le leggi e i provvedimenti emanati dal gennaio 1925 fino a quel momento erano abrogati. Ma provvedimenti simili si devono prendere a sangue caldo”» [Basso 1998, p. 202, in nota].

Secondo L. Basso la scelta, che la classe dirigente italiana che gestì la “transizione” fece, di far prevalere il principio della “continuità istituzionale” fu sbagliata ma non casuale: ebbe infatti il sopravvento la preoccupazione «di impedire qualunque elemento di rottura, qualunque affermazione rivoluzionaria» [Basso 1998, p. 202]; la legislazione fascista rimase quasi integralmente in vigore e «[...] nessun serio provvedimento fu preso per […] ristabilire, almeno in fatto di pubbliche libertà, la legislazione precedente» [Basso 1998, pp. 202-203].

Oltre che alla continuità delle leggi, Basso non manca di accennare alla vexata quaestio della «continuità degli uomini» [Basso 1998, p. 203] che erano stati immessi in posti di responsabilità nella Pubblica Amministrazione dal passato regime e che non vennero rimossi alla caduta del medesimo.

Per il costituente socialista la decisione più discutibile fu però un'altra, ovvero quella di sancire il passaggio alla Repubblica col consenso della monarchia – una monarchia che aveva avallato gli arbitrii del fascismo; per salvare la “forma” della legalità istituzionale, si umiliò la “sostanza” del significato storico e politico di quel cambiamento: «La repubblica nacque così, paradossalmente, in virtù di un decreto della monarchia» [Basso 1998, p. 204]. Si trattò di un atto simbolico tutt'altro che innocuo, poiché autorizzò a ritenere che, dal punto di vista giuridico, non di una cesura tra due sistemi politici incompatibili si trattasse, ma della prosecuzione del vecchio ordinamento, salvo “qualche ritocco” di facciata. Tra gli effetti di questo vero e proprio “equivoco istituzionale” «[...] il primo e più grave [fu] quello di dare così una sanatoria a tutto il passato e di assumere senz'altro nella nuova legislazione repubblicana tutto il vecchio bagaglio della legislazione fascista» [Basso 1998, p. 204].

Dietro le esitazioni delle classi dirigenti, operanti nei primi anni di vita della Repubblica, a disfarsi dei “residui normativi” del passato, e il vero e proprio “ostruzionismo di maggioranza” da quelle messo in atto per non dare tempestivamente attuazione alle norme costituzionali considerate più “scomode”, Lelio Basso intravede il tentativo delle «classi conservatrici italiane» di contrastare la tendenza delle classi popolari a conquistare sempre maggiore spazio nella politica e nella società italiane, come cittadini-sovrani a pieno titolo e non più sudditi di maggiorenti e “notabili”: è un motivo ricorrente di riflessione del deputato socialista in queste pagine. Il tentativo sembra incoraggiato dal successo nelle urne elettorali, a partire dal 1948 [Basso 1998, p. 206].

L'ostinazione – peraltro anche anacronistica – con la quale i ceti conservatori italiani tentavano di sbarrare il passo ai cambiamenti sociali, favoriti d'altra parte dalla fine dell'isolamento “autarchico” del Paese (anche sotto il profilo dello scambio di saperi, conoscenze e informazioni) e dall'incipiente sviluppo industriale (come la “contestazione” degli anni Sessanta di lì a poco dimostrerà) – prima fase di accelerazione di quel processo di lungo periodo che solo oggi classifichiamo come “globalizzazione” – si rifletteva nelle forzature che, come Lelio Basso puntualmente registra, le classi dirigenti, persa probabilmente la loro lucidità, operavano nell'interpretazione e nell'applicazione del diritto, forzature talmente evidenti da costituire veri “mostri” giuridici. Come Basso fa notare, in base ai princìpi elementari del diritto «[...] l'entrata in vigore della Costituzione avrebbe dovuto mettere nel nulla tutte le norme anteriori che la contraddicevano, non solo perché la Costituzione era una legge posteriore, ma perché […], come costituzione rigida, aveva un valore gerarchico superiore» [Basso 1998, p. 207].
Invece queste due chiare motivazioni non vennero praticamente tenute in considerazione dalle forze politiche di maggioranza, e di conseguenza l'ordinamento giuridico disegnato dalla Costituzione risultò contraddetto in più punti dalla perdurante e incostituzionale vigenza e “vitalità” di alcune norme liberticide.

Vi fu secondo Lelio Basso una vera e propria strategia di “dilazione infinita”, messa in atto dalle forze politiche della maggioranza “centrista”, per sottrarsi al dovere di emanare le norme attuative previste dalla Costituzione; tale strategia non a caso ebbe fra i suoi bersagli principali l'istituto della Corte Costituzionale. Affinché l'apparato legislativo repressivo fascista rimanesse in vigore, infatti, «[...] occorreva innanzi tutto che non entrasse in funzione la Corte Costituzionale la quale avrebbe potuto dichiarare l'inefficacia delle leggi incompatibili con la Costituzione, in secondo luogo che il Parlamento non le abrogasse apertamente o tacitamente facendone di nuove, poi che la Magistratura si piegasse a riconoscere la validità delle leggi fasciste [...]» e che il Governo le interpretasse, in sede di applicazione, in maniera “opportuna” dal proprio punto di vista, ovvero con scarso riguardo per la Costituzione [Basso 1998, p. 213].

A tutti questi punti della “strategia” venne data febbrile attuazione, come Basso documenta. In particolare egli ricorda appunto come si fece di tutto per ritardare l'emanazione delle norme che avrebbero dovuto istituire la Corte Costituzionale (e poi anche la nomina dei giudici) e consentirle di operare. Fu Piero Calamandrei a coniare l'espressione ostruzionismo di maggioranza per indicare e stigmatizzare la strategia coscientemente dilatoria adottata dalle forze di governo in merito a tale delicata questione; e Basso è pienamente d'accordo con lui. Tutta la vicenda è ricostruita dal costituente socialista ed è istruttivo leggerne anche i dettagli, per i quali rinvio al testo [si veda: Basso 1998, pp. 215-219].

Fra le norme fasciste che la maggioranza “centrista” preferiva – contro la stessa Costituzione, la sua ispirazione, i suoi princìpi fondamentali – mantenere in vigore vi era la legge di Pubblica Sicurezza; “preferenza” nient'affatto casuale, come ben si comprende, e quantomeno allarmante.
Anche in questo caso, L. Basso documenta i dettagli della “strategia dilatoria” adottata dalla maggioranza [Basso 1998, pp. 219-225].

Basso denuncia anche come la Magistratura, non ancora garantita nella sua indipendenza tramite il CSM, e quindi ancora dipendente dalla “benevolenza” del Governo in fatto di nomine, trasferimenti, ecc., non fosse in grado di esercitare – nelle more dell'istituzione della Corte Costituzionale – un efficace potere di supplenza quale soggetto temporaneamente preposto al controllo di costituzionalità delle leggi: infatti, a norma della VII disposizione transitoria della Costituzione, «[...] l'autorità giudiziaria, pur non avendo il potere di dichiarare, come la Corte Costituzionale, l'inefficacia erga omnes di una norma giuridica, poteva e doveva rifiutarne l'applicazione ogni qual volta ritenesse quella norma inapplicabile perché abrogata o costituzionalmente illegittima.» [Basso 1998, p. 228]
In realtà, la Magistratura esercitò questa sua funzione in maniera “timidissima”, nel complesso.
(E' utile leggere in particolare quanto il costituente socialista scrive in merito a certi orientamenti della Corte di Cassazione in quegli anni, non molto “attenti” ai princìpi innovativi che la Costituzione aveva introdotto nell'ordinamento in fatto di libertà personali [Basso 1998, pp. 230-233]).

Basso ama tuttavia sottolineare che, davanti alla «[...] battaglia combattuta fra i cittadini e i pubblici poteri per il rispetto di alcune norme della Carta Costituzionale», vari magistrati si dimostrarono all'altezza del loro compito civile e in molti casi «si ribellarono coraggiosamente alla Cassazione, stimando giustamente di dover maggiore rispetto alla Costituzione» [Basso 1998, pp. 233-234].

Le forzature anticostituzionali di cui si rese responsabile la maggioranza politica al governo nel primo decennio di vita della Repubblica sono varie e, riesaminate con gli occhi di oggi, ci appaiono assurde, stravaganti o sconcertanti. Ad esempio, in contrasto palese con l'art. 51 della Costituzione, in base al quale ai concorsi per accedere a pubblici impieghi dev'essere consentito a tutti i cittadini di partecipare senza discriminazioni di alcun genere, il Governo si riservava talora di inserire nei bandi dei concorsi pubblici una clausola che diceva testualmente: «“Il Ministro potrà negare, con provvedimento non motivato, l'ammissione ai concorsi”» e tale norma era chiaramente diretta a impedire l'accesso al pubblico impiego a persone politicamente “non gradite” al Governo [Basso 1998, p. 235].

O ancora, si tentò di mantenere in vita le norme fasciste sulle competenze dei Tribunali Militari, sotto la cui giurisdizione ricadevano, in base ad alcune disposizioni del Codice Penale Militare di Pace, interpretate in maniera discutibile dalla Cassazione – e peraltro chiaramente incompatibili con l'art. 103 della Costituzione –, tutti i cittadini arruolati fino al congedo assoluto: si voleva cioè sottoporre potenzialmente alla giurisdizione militare tutti i cittadini che avevano svolto il servizio di leva, fino all'età di 55 anni. In tal modo si rischiava di avallare il principio fascista del cittadino-soldato, per il quale un cittadino, anche dopo avere svolto il servizio militare, resta essenzialmente un soldato in attesa di essere richiamato in servizio (e pertanto sottoposto alla “spada di Damocle” della disciplina militare anche quando è tornato alla vita civile) [Basso 1998, pp. 236-239], principio incompatibile con l'art. 52 della Costituzione, in virtù del quale il militare di leva «non è che un cittadino il quale provvisoriamente presta un determinato servizio e quindi riveste una determinata uniforme», sicché secondo i princìpi democratici costituzionali «non è più la qualità di militare che si sovrappone a quella di cittadino, ma è la qualità di cittadino che domina in ogni momento della vita» [Basso 1998, p. 239].
E' particolarmente grave che le forze di governo dell'epoca abbiano tentato di ignorare la Costituzione in àmbiti come questo, in cui il contrasto tra la norma fascista e i princìpi democratici di libertà personale e di cittadinanza è di un'evidenza macroscopica.

Altro àmbito in cui si proponeva tale contrasto, ignorato ancora una volta platealmente dalla maggioranza politica dell'epoca, è quello della censura sugli spettacoli, settore in cui erano rimaste in vigore norme palesemente confliggenti con l'art. 21 della Costituzione [Basso 1998, pp. 250-252].
Anche i poteri attribuiti ai prefetti continuavano a essere quelli stabiliti dalle leggi fasciste, ed erano perciò imperniati sul principio della “piramide gerarchica” al cui vertice in ogni territorio provinciale erano posti appunto i prefetti [Basso 1998, pp. 270-272]; e in particolare l'art. 2 della legge di P.S. continuava ad attribuire a questi ultimi poteri eccezionali, incompatibili con la Costituzione, e «fu in base ad esso che i prefetti presero i provvedimenti più arbitrari, in violazione dei diritti di libertà, fino ad annullare decisioni di magistrati [...]» [Basso 1998, p. 272].

Nel complesso, la strategia attuata dalle forze di maggioranza finiva per configurare, secondo L. Basso, una vera e propria “procedura alternativa” (e non legittima) di revisione della Costituzione [Basso 1998, p. 244], che lasciava intatto in apparenza il testo delle disposizioni costituzionali ma ne riduceva la portata e la “forza normativa”, sino a farne un mero flatus vocis, una bella ma inefficace dichiarazione di intenti continuamente contraddetta dalla prassi.

In effetti, come testimonia Lelio Basso, il modo peculiare col quale le forze di governo negli anni Cinquanta interpretavano il ruolo delle norme costituzionali emerge con chiarezza nella querelle che contrappose il Governo alla Corte Costituzionale, quando questa finalmente poté insediarsi, nel 1956. Si stenta a crederlo oggi, ma sta di fatto che il Governo dell'epoca «tentò in un primo momento […] di limitare i poteri della Corte, contestandole la facoltà di pronunciarsi sulla costituzionalità delle leggi emanate prima della Costituzione e quindi in particolare delle leggi fasciste. Ma la Corte, nella propria sovrana decisione, respinse questa assurda pretesa e si pronunciò anche su quelle leggi» [Basso 1998, p. 257].
Ritengo che non fosse soltanto la “questione comunista” – per tornare all'ipotesi avanzata da Stefano Rodotà –, a spingere il Governo ad agire in un modo così poco consono allo spirito della democrazia: con buona probabilità, certi orientamenti erano il portato di una cultura autoritaria dura a morire.

Ad ogni modo, la Corte Costituzionale fu sin da sùbito cosciente del proprio compito. Nella sua prima sentenza – con la quale respinse le surreali tesi del Governo, sostenute dall'Avvocatura dello Stato, che avrebbero condotto a un'“insindacabilità” delle leggi emanate da un regime antidemocratico – la Corte dichiarò – fra la costernazione della maggioranza al governo – l'illegittimità dell'art. 113 della legge di P.S., «che esigeva un'autorizzazione di polizia per l'affissione dei manifesti», perché contrario all'art. 21 della Costituzione che tutela la libertà di espressione pubblica di pensieri e opinioni [Basso 1998, p. 306].
Un'altra pronuncia della Corte che suscitò malumori nel Governo riguardò l'istituto dell'ammonizione, previsto anch'esso dalla legge fascista di P.S.: la Corte ne dichiarò l'illegittimità in quanto, in contrasto con l'art. 13 della Costituzione, effettuava «una sorta di degradazione giuridica di taluni individui in virtù d'un atto discrezionale della pubblica Amministrazione» [Basso 1998, p. 307].

In questo caso la reazione governativa alla decisione della Corte fu particolarmente veemente, e l'allora ministro degli Interni, Tambroni, «fece apertamente l'apologia degli istituti dell'ammonizione e del confino», presentandoli come indispensabili strumenti di prevenzione e “profilassi sociale” «e dichiarò che, privata di strumenti, la polizia non era in grado di sostenere la lotta con la delinquenza ed era vittima di “una crisi psicologica di allarmanti proporzioni”». Dichiarazioni di questo tipo ebbero da un lato l'effetto di autorizzare moralmente – fatto gravissimo – le forze dell'ordine alla disobbedienza nei confronti di una pronuncia della Corte (infatti, come Basso documenta, «si ebbero casi clamorosi di ribellione da parte delle autorità locali di polizia»), e dall'altro di gettare discredito su un organo essenziale dell'ordinamento democratico, quale appunto la Corte Costituzionale, tanto da provocare le dimissioni del suo primo presidente, Enrico De Nicola, nel settembre del 1956 [Basso 1998, p. 257].

Ma questi attriti non scoraggiarono l'azione della Corte, che emanò fin dai suoi primi anni di attività (come ricorda L. Basso) importanti sentenze per imporre il rispetto dei princìpi costituzionali; tra l'altro, riguardo ai poteri prefettizi previsti dall'art. 2 della legge di P.S., ai quali si è accennato, pur non dichiarando l'illegittimità della norma, la Corte ne ridimensionò la portata, riconducendo i poteri prefettizi nell'alveo dell'ordinamento democratico, poiché stabilì che essi non sono al di sopra delle leggi, in quanto si tratta di meri atti amministrativi, con tutti i limiti di competenza e validità tipica di tali atti, e sono sottoposti, in quanto tali, «ai normali controlli giurisdizionali» [Basso 1998, p. 308].

E' il caso forse di riflettere su queste vicissitudini della Corte Costituzionale, per comprendere come il suo ingresso sulla “scena” dei poteri democratici di garanzia previsti dalla Costituzione sia stato decisivo per indurre gradualmente il legislatore e i governi a mutare i loro indirizzi e orientamenti, svolgendo indirettamente una funzione di “educazione alla democrazia” anche nei confronti dell'opinione pubblica.
Oggi la Corte subisce nuovamente attacchi e critiche, non dovuti soltanto a questa o quella sentenza (le sue pronunce possono certo essere criticate, poiché anche rispetto ad esse vige la libertà di pensiero, prevista dalla Costituzione), ma al suo stesso ruolo, considerato talora “intrusivo” nei confronti dell'azione legislativa, la quale – secondo queste critiche – si vedrebbe sempre più limitata nella sua libertà “sovrana” di operare scelte e valutare opzioni.
Non vi è qui lo spazio sufficiente per entrare nel merito di tali critiche (è un argomento che richiederebbe in sé un'ampia trattazione e discussione), ma proprio queste vicende relative agli “albori” della storia della Corte Costituzionale ci suggeriscono che le conseguenze di un'eventuale “estromissione” di tale organo dal nostro ordinamento, o di un drastico ridimensionamento delle sue funzioni, sarebbero preoccupanti, sotto il profilo della difesa e dell'attuazione dei princìpi sanciti dalla Costituzione.

In molti punti la riflessione di Lelio Basso è ancora attuale; alcuni li abbiamo già illustrati; si potrebbe aggiungere anche l'allarme che egli lancia, nel Principe senza scettro, circa la tendenza dei partiti a occupare e invadere, da posizioni di potere, spazi «della vita nazionale» al di fuori delle istituzioni, gettando le basi di una “deriva partitocratica” che evidentemente egli già registrava, sul finire degli anni Cinquanta [Basso 1998, pp. 274-278].

Basso mette costantemente in guardia il lettore-cittadino, ricordandogli che «[...] la democrazia non è mai un pacifico possesso, perché nella società agiscono in senso contrario forze poderose miranti ad un rigoroso concentramento e controllo del potere, [sicché] un ordine democratico può reggersi solo sulla base di una costante e robusta pressione delle masse, di una continua e vivace partecipazione di tutti alla vita pubblica». Ma perché questa sia realmente possibile, bisogna altresì esigere che lo Stato dia scrupolosa attuazione ai princìpi enunciati nell'art. 3 della Costituzione, affinché non ci siano settori della società che versino «in condizioni tali di miseria o di ignoranza da impedire una reale e cosciente partecipazione o da distrarre comunque le loro energie verso esigenze di vita immediata» [Basso 1998, p. 283].
Proprio la storia del nostro Paese, secondo il costituente socialista, insegna che ogni generazione ha «dovuto lottare per riconquistare, non diciamo un ordinamento democratico, ma le premesse di uno Stato liberale». La «resistenza delle classi dominanti all'avanzata delle classi popolari, la volontà di respingerle ai margini della vita sociale (miseria, disoccupazione, analfabetismo, arretratezza di intere regioni, ecc.) e della vita politica (diniego delle fondamentali libertà)» [Basso 1998, p. 284] rappresenta una costante della storia italiana, benché non sia una caratteristica esclusiva dell'Italia. Cambiano col tempo solo gli strumenti dei quali le classi dominanti si servono.

Anche se, come Basso ribadisce a più riprese, l'affermarsi della democrazia in forma compiuta è condizionato dalla dialettica “classi dominanti/classi popolari”, o “classe dirigente/masse”, ovvero è ostacolato o perlomeno ritardato dall'azione di gruppi che si trovano in posizioni privilegiate nella società o che detengono il potere economico o politico, egli non ritiene che il destino della democrazia, anche in un Paese caratterizzato da profondi squilibri come l'Italia, sia segnato: tutt'altro. Traendo le conclusioni del suo testo, L. Basso parla di “Democrazia in cammino”: pur tra molte incertezze e difficoltà, alcune istituzioni aventi la missione di vigilare sul rispetto dei princìpi e valori fondamentali dell'ordinamento, come la Magistratura, si sono rese rapidamente coscienti del loro ruolo; la Corte Costituzionale, una volta insediatasi, ha contribuito a contraddire e contrastare autorevolmente le pulsioni e gli atteggiamenti antidemocratici ancora serpeggianti nel Paese perfino a livello governativo; l'opinione pubblica non ha subìto in silenzio gli atti discutibili delle autorità.
Non bisogna, esorta Basso tracciando il bilancio politico relativo all'anno in cui scriveva (1958), scoraggiarsi rilevando che le conquiste sinora fatte quanto ad attuazione dei princìpi democratici sanciti dalla Costituzione sono modeste. Ogni conquista pur piccola, in questo campo, reca in sé il germe di ulteriori progressi [Basso 1998, p. 311].

E' però la coscienza democratica diffusa il bene più prezioso; e a giudizio del costituente socialista, essa ha compiuto, in un solo decennio, «passi giganteschi» [Basso 1998, p. 312].
Si sono dileguate le ingenuità dei primi anni dopo la Liberazione, caratterizzati dalla «facile illusione che la democrazia, una volta scritta nella Costituzione, fosse definitivamente conquistata: la superficiale contrapposizione fascismo-democrazia, l'unità antifascista realizzata nella lotta di Liberazione avevano reso più agevole abbandonarsi all'idea che alla caduta del fascismo dovesse subentrare automaticamente un periodo di sviluppo democratico e di unità nazionale.» [Basso 1998, p. 312]

L'esperienza, la politica “alla prova dei fatti”, la gestione del quotidiano, hanno fatto maturare in fretta l'opinione pubblica, o perlomeno i cittadini «più avvertiti», mostrando loro «che la democrazia, soprattutto la democrazia ai suoi primi passi, dev'essere la conquista di ogni giorno, che essa è un regime a misura dell'uomo comune, senza capi taumaturgici, senza investiture carismatiche, senza destini segnati e senza guide provvidenziali, ma che appunto perciò richiede l'umile e quotidiano impegno di ciascuno, impone la presenza continua, vigilante e operante, del sovrano nella vita pubblica, così nei grandi problemi nazionali come nei piccoli problemi locali.» [Basso 1998, p. 312]

Oggi, con l'ulteriore esperienza che abbiamo accumulato, possiamo cancellare l'inciso «soprattutto la democrazia ai suoi primi passi», sottoscrivendo tutto il resto, visto che tali considerazioni conservano intatta la loro validità.

Grazie ai valori che la Costituzione ha introdotto nell'ordinamento e nella società italiani, si è andata creando e si sviluppa – registra Lelio Basso – una diffusa familiarità con l'idea e con la pratica democratiche: insomma «[...] è nata la coscienza di che cosa significhi essere cittadino sovrano di uno Stato democratico: l'alta dignità che si esprime in questa figura e la severa responsabilità che vi è connessa. Dignità di cittadino che non si piega ad ordini illegittimi, che non postula favori illeciti, che sa difendere il proprio diritto e far rispettare la propria personalità colle armi civili di una società moderna, e contemporaneamente assolvere ai propri doveri verso la collettività; responsabilità di cittadino che conosce il dovere di impegnarsi ogni giorno per la difesa democratica, […] responsabilità soprattutto di fare da sé le proprie scelte, di non subire tutele menomatrici, di non operare abdicazioni rinunciatarie.» [Basso 1998, pp. 312-313]

Dignità e responsabilità sono dunque i concetti che illustrano e riassumono le qualità del moderno cittadino-sovrano della democrazia. Sono fra loro intimamente connesse: la dignità di chi non piega il capo davanti a soprusi e sopraffazioni “legalizzate”, di chi non mendica favori e non si svende in cambio di piccoli o grandi privilegi – e quindi abbandona le abitudini e le pratiche tipiche di chi è avvezzo a “sopravvivere da suddito” in ordinamenti e regimi autoritari e paternalistici – si accompagna alla responsabilità di chi sa di dover contare sulle proprie forze, scegliere in prima persona, non affidarsi alla tutela o alla protezione di nessun “signore” o “condottiero” o “tecnocrate”.

Lelio Basso sa bene che si tratta di un percorso ancora molto lungo, e che in definitiva il “cittadino-sovrano” (o meglio, il “cittadino-lavoratore-sovrano”) è ancora nella fase dell'apprendistato e dell'incertezza. Tuttavia il cammino da compiere è quello, non sono previste inversioni di marcia: una volta enunciati i princìpi della dignità e della responsabilità, questi non possono più essere rinnegati o dissolti: «[...] chi ha vissuto in questi anni l'esperienza di tante battaglie politiche e giudiziarie, chi è stato in più occasioni a fianco soprattutto di contadini meridionali, magari ancora analfabeti, e ha visto quale augusto significato abbia per essi la Costituzione, che cosa significhi per essi la coscienza che contro la millenaria oppressione esistono oggi delle leggi e dei giudici che garantiscono i diritti anche del debole, non può non aver avvertito i segni di una profonda rivoluzione morale che prepara nuove generazioni di cittadini.» [Basso 1998, p. 313]

Dalle conclusioni che egli trae – ottimistiche, nonostante le difficoltà e gli ostacoli – si evince che Lelio Basso ha fiducia nelle nuove generazioni, quelle che si vanno formando e si formeranno “respirando” i valori democratici della Costituzione, nutrendosene, e che comprenderanno sempre più l'importanza della diade “dignità/responsabilità”. Forse non prevede la “lunga durata” e la “resistenza inerziale” di certe abitudini sociali acquisite (come il «postula[re] favori illeciti»), il servilismo e il “familismo” millenario di chi dentro di sé continua a ripetere con cinismo e scetticismo irranciditi: “Franza o Spagna purché se magna”. Tuttavia sa che ogni progresso, per quanto piccolo, lungo la strada della realizzazione concreta dei princìpi costituzionali, crea le condizioni per produrne altri: i decenni che seguiranno immediatamente la stesura de Il Principe senza scettro lo confermeranno.

Ritiene che la democrazia non potrà dirsi compiuta finché ci saranno disparità di classe, finché una classe sociale pretenderà di far prevalere i propri interessi a scapito delle classi “diseredate” e prive di mezzi e di potere. E' una concezione, la sua, in cui l'influenza del marxismo è evidente, profonda; tuttavia egli non è un marxista “ortodosso” (se per convenzione intendiamo come “ortodossa” la linea del “marxismo-leninismo”) e non crede neppure per un attimo nelle virtù di una qualsivoglia dittatura, neppure se questa si appone l'etichetta “del proletariato”.

In quanto frutto, sia pure prezioso, di una società ancora basata sugli squilibri e i conflitti di classe, per L. Basso la Costituzione non è «una conquista definitiva», non perché debba essere in futuro rinnegata, ma perché non rappresenta «il punto d'arrivo della nostra battaglia democratica». Dunque essa non è immutabile né intoccabile; però, come egli ha già spiegato, può essere riformata solo in direzione di una maggiore democrazia, che permetta maggiori spazi di partecipazione e di intervento ai cittadini. Ciò non significa in ogni caso che la Costituzione sia da considerare un esito di poca importanza o un “ripiego” da archiviare al più presto: sarebbe infatti «[...] colpevole sottovalutare il significato morale e politico della Costituzione, la forza che si sprigiona dal fatto che essa esiste, che contiene principi, che è stata il frutto di tanti sacrifici passati ed è oggi il punto di riferimento di tante speranze avvenire.» [Basso 1998, p. 316]

Considerando le problematiche con le quali la democrazia deve confrontarsi ai giorni nostri, bisognerebbe probabilmente riflettere sull'evoluzione del concetto cardine del discorso di Basso, ovvero il “cittadino-sovrano”. Entrambi gli elementi che lo compongono, ovvero la cittadinanza e la sovranità, vanno analizzati. L'idea di cittadinanza infatti si presenta oggi come un'idea double face: da un lato essa è ancora un'idea-guida o un'idea-simbolo che richiama una costellazione di diritti e di garanzie, e la stessa nozione di “dignità” su cui insisteva il costituente socialista; dall'altro, però, essa rischia di rappresentare la versione moderna di un privilegio – si hanno diritti solo in quanto si è compresi nel “cerchio magico” della cittadinanza; chi ne è fuori è nella “zona grigia” del “non-garantito”, del “non-riconosciuto”, rispetto alla quale non possono applicarsi i “riguardi” che il “potere” tributa o dovrebbe tributare al cittadino. Quanto questa “doppia faccia” della cittadinanza sia compatibile con la democrazia compiuta della quale parla L. Basso è appunto tema (arduo e tutt'altro che risolto) del dibattito attuale.

La sovranità, a sua volta, in virtù dei processi ai quali si fa riferimento col nome di “globalizzazione”, è sempre meno una “risorsa” a disposizione degli Stati nazionali; il che vuol dire che il “cittadino” degli Stati-nazione è sempre meno “sovrano”. Anche l'Unione Europea ha contribuito a indebolire lo spazio di decisione autonoma degli Stati: quanto conta ancora realmente, nella cornice di questo “edificio” sovranazionale, la “decisione sovrana” dei cittadini e degli organi rappresentativi all'interno degli Stati? E se le Corti Costituzionali si pongono a guardia della prevalenza del diritto comunitario su quello degli Stati, non perdono di vista il loro compito prioritario, che è quello di far rispettare le norme delle Costituzioni nazionali che sono espressione diretta e garanzia essenziale della “sovranità dei cittadini”?
Anche questi sono temi in linea col dibattito attuale, che certo L. Basso non poteva preconizzare.
Il costituente socialista era invece già attento all'equilibrio fra diritti e doveri, o fra diritti e responsabilità: e questo è un tema che è stato a lungo, ed è tuttora sottovalutato – pur risultando cruciale specialmente oggi per ricomporre il rapporto fra interessi privati e beni collettivi.

Forse Lelio Basso ha riposto troppe speranze in certe riforme auspicate dalla Costituzione, come quella relativa al decentramento regionale: ne Il Principe senza scettro ne sostiene a più riprese la necessità. Nel 1970 essa sarà finalmente attuata, ma i suoi effetti, soprattutto sulla lunga distanza, non saranno esaltanti, e comunque ci appaiono oggi discutibili, e sono vivacemente “discussi” in effetti.
Lo stesso ruolo dei partiti, che Basso – sulla scorta dell'esperienza della Costituente – ritiene di fondamentale importanza, non sempre oggi appare una chiara “risorsa” per la democrazia, essendosi nel frattempo trasformato in un “problema”. (Non è il caso qui di inserire un excursus su questo tema; mi limito a rinviare all'abbondante letteratura che in anni recenti è fiorita in materia [Si vedano ad esempio: Ignazi 2012; Revelli 2013; Raniolo 2013].)
Tuttavia (come l'appena menzionata letteratura specifica sul tema conferma) non si può dare torto a L. Basso, quando sostiene che la democrazia è necessariamente una “democrazia di partiti”: bisogna vigilare affinché questi non vengano meno ai loro compiti e doveri e affinché siano trasparenti quanto al loro operato ed alla gestione dei finanziamenti, al tesseramento, ecc.; li si deve forse riformare profondamente, ma non li si può abolire, se non si vuole tornare, in maniera palese o surrettizia, a una qualche forma di regime “a partito unico”.

La difesa dei valori e dei princìpi costituzionali che Basso fa incessantemente, nel testo esaminato ma anche in molti suoi altri scritti e discorsi, è un monito che col passare del tempo non perde un grammo della sua efficacia e giustezza. Riallacciandoci a un'incisiva osservazione di Rodotà, possiamo dire che se un tempo – all'epoca in cui Basso pubblica Il Principe senza scettro – bisognava difendere la Costituzione da coloro che la consideravano una “trappola” da scansare (perché troppo “avanzata” rispetto al conservatorismo dominante), negli ultimi trent'anni è stato – ed è tuttora – necessario rintuzzare le argomentazioni di coloro che la considerano invece un “ferrovecchio” da “rottamare” quasi per intero [Rodotà 1998, p. 12]. In sostanza, la Costituzione repubblicana è sempre apparsa “scomoda” e “ingombrante”, per un motivo o per l'altro, agli occhi di coloro che evidentemente considerano il potere che detengono (la sua conservazione, il suo accrescimento, ecc.) più importante del suo scopo e della sua stessa legittimazione – la quale risiede soltanto nel consenso condizionato (ovvero non incondizionato e non illimitato) e informato del cittadino-sovrano. E – questo il cuore del monito di Basso – perché quella sovranità sia sempre piena e garantita, il cittadino deve difenderne quasi giorno per giorno la fonte concreta e simbolica: la Costituzione.

(i.s.)


Testi citati:


- [Basso 1998]: L. Basso, Il Principe senza scettro (I ediz.: 1958), Feltrinelli, Milano.

- [Bagehot 1995]: W. Bagehot, La Costituzione inglese, Il Mulino, Bologna // ed. orig.: The English Constitution, Oxford University Press, Oxford 1867.

- [Bernocchi 2012]: P. Bernocchi, Benicomunismo. Fuori dal capitalismo e dal «comunismo» del Novecento, Massari, Bolsena (VT).

- [Bernocchi 2015]: P. Bernocchi, Oltre il capitalismo. Discutendo di benicomunismo, per un'altra società, Massari, Bolsena (VT).

- [Bobbio 1984]: N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino.

- [Canfora-Zagrebelsky 2014]: L. Canfora – G. Zagrebelsky, La maschera democratica dell'oligarchia. Un dialogo, a cura di G. Preterossi, Editori Laterza, Roma-Bari.

- [Giorgi 2014]: Ch. Giorgi, La fantasia giuridica del costituente: Lelio Basso e il secondo comma dell'articolo 3, in Fondazione Lelio e Lisli Basso – Issoco, Il progetto costituzionale dell'uguaglianza, a cura di Ch. Giorgi, Ediesse, Roma, pp. 53-70.

- [Ignazi 2012]: P. Ignazi, Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti, Editori Laterza, Roma-Bari.

- [Lijphart 2014]: A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, II edizione, a cura di L. Verzichelli, Il Mulino, Bologna // ed. orig.: Patterns of Democracy. Government Forms and Performance in Thirty-Six Countries, II ed., Yale University Press, London 2012.

- [Raniolo 2013]: F. Raniolo, I partiti politici, Editori Laterza, Roma-Bari.

- [Revelli 2013]: M. Revelli, Finale di partito, Einaudi, Torino.

- [Rodotà 1998]: S. Rodotà, Prefazione a L. Basso, Il Principe senza scettro, cit., pp. 7-13.


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