Quarta parte
Nei
restanti capitoli del Principe
senza scettro, Lelio Basso
denuncia i ritardi del legislatore nel dare applicazione ai princìpi
costituzionali, ritardi non casuali, anzi spesso politicamente
significativi, poiché – come il deputato socialista afferma
citando casi specifici e documentati – si legano alla riluttanza,
da parte di ambienti conservatori della Democrazia Cristiana e in
misura minore di altri partiti allora suoi alleati di governo, ad
abrogare varie norme varate dal fascismo, ad esempio in tema di
pubblica sicurezza. Quello messo in atto dai governi centristi
dell'epoca è, secondo Basso, un vero e proprio sabotaggio, se non un
tradimento, dello spirito e della lettera della Costituzione.
Poiché queste parti del
testo sono legate alla situazione che L. Basso registrava nel 1958, e
hanno oggi soprattutto importanza sotto il profilo della
ricostruzione storica della vita politica italiana degli anni
Cinquanta del secolo scorso, non ce ne occuperemo qui se non
sommariamente: chi volesse “saperne di più”, su questi e sugli
altri temi che il volume in esame tratta, non ha che da cercarlo in
qualche biblioteca e leggerlo per intero – e in fondo mi auguro che
qualcuno, incuriosito da questo post, lo faccia.
Rodotà,
riferendosi a questa parte di denuncia del testo, ritiene che Basso
abbia trascurato il peso che la “questione comunista” (ovvero la
necessità – intesa come imprescindibile e prioritaria dalle forze
centriste e “filoatlantiste” – di sbarrare il passo a tutti i
costi all'“avanzata del comunismo”, al “pericolo comunista”)
ha avuto nel determinare gli “ostruzionismi di maggioranza”
contro l'attuazione piena delle norme costituzionali: «Con
l'argomento del realismo politico […] si potrebbe obiettare al
politico Basso di non aver visto, o di non aver voluto vedere, quale
fosse la ragione vera della situazione che tanto impietosamente
denunciava» [Rodotà 1998, p.
9].
Non
trovo però del tutto convincente questa tesi: basta leggere
attentamente i capitoli che Lelio Basso, nel Principe
senza scettro, dedica alla
“Continuità delle leggi fasciste” e a quello che lui definisce
“Sovvertimento dello Stato” (messo in atto a suo parere dalle
forze di governo di quegli anni), per rendersi conto che la
“questione comunista” può essere tutt'al più una delle cause, e
non sempre la prevalente, dell'atteggiamento che Basso denuncia; si
ha insomma l'impressione che ciò che faceva paura ai settori più
conservatori (Basso avrebbe aggiunto senza esitazione: “...e
reazionari”) non solo della politica istituzionale, ma anche della
società, era in realtà proprio la democrazia intesa come “sistema
inclusivo”, che se attuata integralmente nel rispetto scrupoloso
della Costituzione, avrebbe rapidamente messo in crisi (e spazzato
via) la mentalità stessa che reggeva gli orientamenti legislativi e
di governo tipici di quegli anni, i “dogmi sociali” che
regolavano i rapporti reciproci fra le persone e fra i ceti, certi
tabù collettivi improntati a una miscela di tradizionalismo
autoritario e puritanesimo fuori tempo massimo, norme (antecedenti al
1945, ma vigenti) paternalistiche e lesive, ancor prima che della
dignità delle persone, della loro intelligenza, e così via. La
politica (delle forze di governo) e la società italiana (non tutta,
certo, ma nella sua parte “elettoralmente maggioritaria”)
sembravano incapaci, pur dopo aver liquidato sul piano
politico-istituzionale la logica autocratica del fascismo, di
liberarsi anche della mentalità autoritaria e antipluralistica che
aveva caratterizzato quel regime e di cui questo si era al contempo
sapientemente alimentato.
Sulla
necessità – e sull' “occasione mancata” – di varare la
Repubblica democratica disegnata dalla Costituzione facendo tabula
rasa della legislazione
fascista e più in generale delle norme incompatibili con lo spirito
del nuovo ordinamento, Lelio Basso è netto e intransigente: in
proposito, per far comprendere il proprio pensiero, ricorda – sia
pure in forma di annotazione a margine – come nel 1946 Vittorio
Emanuele Orlando, già Capo del Governo in era prefascista, avesse
dichiarato che «[...] se ne avesse avuto il potere, “la
sera del 25 luglio avrebbe con un articolo unico stabilito che tutte
le leggi e i provvedimenti emanati dal gennaio 1925 fino a quel
momento erano abrogati. Ma provvedimenti simili si devono prendere a
sangue caldo”» [Basso 1998, p. 202, in nota].
Secondo L. Basso la scelta,
che la classe dirigente italiana che gestì la “transizione”
fece, di far prevalere il principio della “continuità
istituzionale” fu sbagliata ma non casuale: ebbe infatti il
sopravvento la preoccupazione «di impedire qualunque elemento di
rottura, qualunque affermazione rivoluzionaria» [Basso 1998, p.
202]; la legislazione fascista rimase quasi integralmente in
vigore e «[...] nessun serio provvedimento fu preso per […]
ristabilire, almeno in fatto di pubbliche libertà, la legislazione
precedente» [Basso 1998, pp. 202-203].
Oltre che alla continuità
delle leggi, Basso non manca di accennare alla vexata quaestio
della «continuità degli uomini» [Basso 1998, p. 203] che
erano stati immessi in posti di responsabilità nella Pubblica
Amministrazione dal passato regime e che non vennero rimossi alla
caduta del medesimo.
Per il costituente
socialista la decisione più discutibile fu però un'altra, ovvero
quella di sancire il passaggio alla Repubblica col consenso della
monarchia – una monarchia che aveva avallato gli arbitrii del
fascismo; per salvare la “forma” della legalità istituzionale,
si umiliò la “sostanza” del significato storico e politico di
quel cambiamento: «La repubblica nacque così, paradossalmente, in
virtù di un decreto della monarchia» [Basso 1998, p. 204].
Si trattò di un atto simbolico tutt'altro che innocuo, poiché
autorizzò a ritenere che, dal punto di vista giuridico, non di una
cesura tra due sistemi politici incompatibili si trattasse, ma della
prosecuzione del vecchio ordinamento, salvo “qualche ritocco” di
facciata. Tra gli effetti di questo vero e proprio “equivoco
istituzionale” «[...] il primo e più grave [fu] quello di dare
così una sanatoria a tutto il passato e di assumere senz'altro nella
nuova legislazione repubblicana tutto il vecchio bagaglio della
legislazione fascista» [Basso 1998, p. 204].
Dietro le esitazioni delle
classi dirigenti, operanti nei primi anni di vita della Repubblica, a
disfarsi dei “residui normativi” del passato, e il vero e proprio
“ostruzionismo di maggioranza” da quelle messo in atto per non
dare tempestivamente attuazione alle norme costituzionali considerate
più “scomode”, Lelio Basso intravede il tentativo delle «classi
conservatrici italiane» di contrastare la tendenza delle classi
popolari a conquistare sempre maggiore spazio nella politica e nella
società italiane, come cittadini-sovrani a pieno titolo e non più
sudditi di maggiorenti e “notabili”: è un motivo ricorrente di
riflessione del deputato socialista in queste pagine. Il tentativo
sembra incoraggiato dal successo nelle urne elettorali, a partire dal
1948 [Basso 1998, p. 206].
L'ostinazione – peraltro
anche anacronistica – con la quale i ceti conservatori italiani
tentavano di sbarrare il passo ai cambiamenti sociali, favoriti
d'altra parte dalla fine dell'isolamento “autarchico” del Paese
(anche sotto il profilo dello scambio di saperi, conoscenze e
informazioni) e dall'incipiente sviluppo industriale (come la
“contestazione” degli anni Sessanta di lì a poco dimostrerà) –
prima fase di accelerazione di quel processo di lungo periodo che
solo oggi classifichiamo come “globalizzazione” – si rifletteva
nelle forzature che, come Lelio Basso puntualmente registra, le
classi dirigenti, persa probabilmente la loro lucidità, operavano
nell'interpretazione e nell'applicazione del diritto, forzature
talmente evidenti da costituire veri “mostri” giuridici. Come
Basso fa notare, in base ai princìpi elementari del diritto «[...]
l'entrata in vigore della Costituzione avrebbe dovuto mettere nel
nulla tutte le norme anteriori che la contraddicevano, non solo
perché la Costituzione era una legge posteriore, ma perché […],
come costituzione rigida, aveva un valore gerarchico superiore»
[Basso 1998, p. 207].
Invece queste due chiare
motivazioni non vennero praticamente tenute in considerazione dalle
forze politiche di maggioranza, e di conseguenza l'ordinamento
giuridico disegnato dalla Costituzione risultò contraddetto in più
punti dalla perdurante e incostituzionale vigenza e “vitalità”
di alcune norme liberticide.
Vi fu secondo Lelio Basso
una vera e propria strategia di “dilazione infinita”, messa in
atto dalle forze politiche della maggioranza “centrista”, per
sottrarsi al dovere di emanare le norme attuative previste dalla
Costituzione; tale strategia non a caso ebbe fra i suoi bersagli
principali l'istituto della Corte Costituzionale. Affinché
l'apparato legislativo repressivo fascista rimanesse in vigore,
infatti, «[...] occorreva innanzi tutto
che non entrasse in funzione la Corte Costituzionale la quale avrebbe
potuto dichiarare l'inefficacia delle leggi incompatibili con la
Costituzione, in secondo luogo che il Parlamento non le abrogasse
apertamente o tacitamente facendone di nuove, poi che la Magistratura
si piegasse a riconoscere la validità delle leggi fasciste [...]» e
che il Governo le interpretasse, in sede di applicazione, in maniera
“opportuna” dal proprio punto di vista, ovvero con scarso
riguardo per la Costituzione [Basso
1998, p. 213].
A
tutti questi punti della “strategia” venne data febbrile
attuazione, come Basso documenta. In particolare egli ricorda appunto
come si fece di tutto per ritardare l'emanazione delle norme che
avrebbero dovuto istituire la Corte Costituzionale (e poi anche la
nomina dei giudici) e consentirle di operare. Fu Piero Calamandrei a
coniare l'espressione ostruzionismo
di maggioranza per indicare e
stigmatizzare la strategia coscientemente dilatoria adottata dalle
forze di governo in merito a tale delicata questione; e Basso è
pienamente d'accordo con lui. Tutta la vicenda è ricostruita dal
costituente socialista ed è istruttivo leggerne anche i dettagli,
per i quali rinvio al testo [si
veda: Basso 1998, pp. 215-219].
Fra le norme fasciste che la
maggioranza “centrista” preferiva – contro la stessa
Costituzione, la sua ispirazione, i suoi princìpi fondamentali –
mantenere in vigore vi era la legge di Pubblica Sicurezza;
“preferenza” nient'affatto casuale, come ben si comprende, e
quantomeno allarmante.
Anche
in questo caso, L. Basso documenta i dettagli della “strategia
dilatoria” adottata dalla maggioranza [Basso
1998, pp. 219-225].
Basso
denuncia anche come la Magistratura, non ancora garantita nella sua
indipendenza tramite il CSM, e quindi ancora dipendente dalla
“benevolenza” del Governo in fatto di nomine, trasferimenti,
ecc., non fosse in grado di esercitare – nelle more
dell'istituzione della Corte Costituzionale – un efficace potere di
supplenza quale soggetto temporaneamente preposto al controllo di
costituzionalità delle leggi: infatti, a norma della VII
disposizione transitoria della Costituzione, «[...] l'autorità
giudiziaria, pur non avendo il potere di dichiarare, come la Corte
Costituzionale, l'inefficacia erga
omnes di una norma giuridica,
poteva e doveva rifiutarne l'applicazione ogni qual volta ritenesse
quella norma inapplicabile perché abrogata o costituzionalmente
illegittima.» [Basso 1998, p.
228]
In realtà, la Magistratura
esercitò questa sua funzione in maniera “timidissima”, nel
complesso.
(E'
utile leggere in particolare quanto il costituente socialista scrive
in merito a certi orientamenti della Corte di Cassazione in quegli
anni, non molto “attenti” ai princìpi innovativi che la
Costituzione aveva introdotto nell'ordinamento in fatto di libertà
personali [Basso 1998, pp.
230-233]).
Basso
ama tuttavia sottolineare che, davanti alla «[...] battaglia
combattuta fra i cittadini e i pubblici poteri per il rispetto di
alcune norme della Carta Costituzionale», vari magistrati si
dimostrarono all'altezza del loro compito civile e in molti casi «si
ribellarono coraggiosamente alla Cassazione, stimando giustamente di
dover maggiore rispetto alla Costituzione» [Basso
1998, pp. 233-234].
Le forzature
anticostituzionali di cui si rese responsabile la maggioranza
politica al governo nel primo decennio di vita della Repubblica sono
varie e, riesaminate con gli occhi di oggi, ci appaiono assurde,
stravaganti o sconcertanti. Ad esempio, in contrasto palese con
l'art. 51 della Costituzione, in base al quale ai concorsi per
accedere a pubblici impieghi dev'essere consentito a tutti i
cittadini di partecipare senza discriminazioni di alcun genere, il
Governo si riservava talora di inserire nei bandi dei concorsi
pubblici una clausola che diceva testualmente: «“Il Ministro potrà
negare, con provvedimento non motivato, l'ammissione ai concorsi”»
e tale norma era chiaramente diretta a impedire l'accesso al pubblico
impiego a persone politicamente “non gradite” al Governo [Basso
1998, p. 235].
O ancora, si tentò di
mantenere in vita le norme fasciste sulle competenze dei Tribunali
Militari, sotto la cui giurisdizione ricadevano, in base ad alcune
disposizioni del Codice Penale Militare di Pace, interpretate in
maniera discutibile dalla Cassazione – e peraltro chiaramente
incompatibili con l'art. 103 della Costituzione –, tutti i
cittadini arruolati fino al congedo assoluto: si voleva cioè
sottoporre potenzialmente alla giurisdizione militare tutti i
cittadini che avevano svolto il servizio di leva, fino all'età di 55
anni. In tal modo si rischiava di avallare il principio fascista del
cittadino-soldato, per il quale un cittadino, anche dopo avere svolto
il servizio militare, resta essenzialmente un soldato in attesa di
essere richiamato in servizio (e pertanto sottoposto alla “spada di
Damocle” della disciplina militare anche quando è tornato alla
vita civile) [Basso 1998, pp.
236-239], principio incompatibile con l'art. 52 della
Costituzione, in virtù del quale il militare di leva «non è che un
cittadino il quale provvisoriamente presta un determinato servizio e
quindi riveste una determinata uniforme», sicché secondo i princìpi
democratici costituzionali «non è più la qualità di militare che
si sovrappone a quella di cittadino, ma è la qualità di cittadino
che domina in ogni momento della vita» [Basso
1998, p. 239].
E' particolarmente grave che
le forze di governo dell'epoca abbiano tentato di ignorare la
Costituzione in àmbiti come questo, in cui il contrasto tra la norma
fascista e i princìpi democratici di libertà personale e di
cittadinanza è di un'evidenza macroscopica.
Altro àmbito in cui si
proponeva tale contrasto, ignorato ancora una volta platealmente
dalla maggioranza politica dell'epoca, è quello della censura sugli
spettacoli, settore in cui erano rimaste in vigore norme palesemente
confliggenti con l'art. 21 della Costituzione [Basso
1998, pp. 250-252].
Anche i poteri attribuiti ai
prefetti continuavano a essere quelli stabiliti dalle leggi fasciste,
ed erano perciò imperniati sul principio della “piramide
gerarchica” al cui vertice in ogni territorio provinciale erano
posti appunto i prefetti [Basso 1998,
pp. 270-272]; e in particolare l'art. 2 della legge di
P.S. continuava ad attribuire a questi ultimi poteri eccezionali,
incompatibili con la Costituzione, e «fu
in base ad esso che i prefetti presero i provvedimenti più
arbitrari, in violazione dei diritti di libertà, fino ad annullare
decisioni di magistrati [...]» [Basso
1998, p. 272].
Nel
complesso, la strategia attuata dalle forze di maggioranza finiva per
configurare, secondo L. Basso, una vera e propria “procedura
alternativa” (e non legittima) di revisione della Costituzione
[Basso 1998, p. 244],
che lasciava intatto in apparenza il testo delle disposizioni
costituzionali ma ne riduceva la portata e la “forza normativa”,
sino a farne un mero flatus
vocis, una bella ma inefficace
dichiarazione di intenti continuamente contraddetta dalla prassi.
In
effetti, come testimonia Lelio Basso, il modo peculiare col quale le
forze di governo negli anni Cinquanta interpretavano il ruolo delle
norme costituzionali emerge con chiarezza nella querelle
che contrappose il Governo alla Corte Costituzionale, quando questa
finalmente poté insediarsi, nel 1956. Si stenta a crederlo oggi, ma
sta di fatto che il Governo dell'epoca «tentò in un primo
momento […] di limitare i poteri della Corte, contestandole la
facoltà di pronunciarsi sulla costituzionalità delle leggi emanate
prima della Costituzione e quindi in particolare delle leggi
fasciste. Ma la Corte, nella propria sovrana decisione, respinse
questa assurda pretesa e si pronunciò anche su quelle leggi» [Basso
1998, p. 257].
Ritengo che non fosse
soltanto la “questione comunista” – per tornare all'ipotesi
avanzata da Stefano Rodotà –, a spingere il Governo ad agire in un
modo così poco consono allo spirito della democrazia: con buona
probabilità, certi orientamenti erano il portato di una cultura
autoritaria dura a morire.
Ad ogni modo, la Corte
Costituzionale fu sin da sùbito cosciente del proprio compito. Nella
sua prima sentenza – con la quale respinse le surreali tesi del
Governo, sostenute dall'Avvocatura dello Stato, che avrebbero
condotto a un'“insindacabilità” delle leggi emanate da un regime
antidemocratico – la Corte dichiarò – fra la costernazione della
maggioranza al governo – l'illegittimità dell'art. 113 della legge
di P.S., «che esigeva un'autorizzazione di polizia per l'affissione
dei manifesti», perché contrario all'art. 21 della Costituzione che
tutela la libertà di espressione pubblica di pensieri e opinioni
[Basso 1998, p. 306].
Un'altra pronuncia della
Corte che suscitò malumori nel Governo riguardò l'istituto
dell'ammonizione, previsto anch'esso dalla legge fascista di P.S.: la
Corte ne dichiarò l'illegittimità in quanto, in contrasto con
l'art. 13 della Costituzione, effettuava «una sorta di degradazione
giuridica di taluni individui in virtù d'un atto discrezionale della
pubblica Amministrazione» [Basso
1998, p. 307].
In questo caso la reazione
governativa alla decisione della Corte fu particolarmente veemente, e
l'allora ministro degli Interni, Tambroni, «fece apertamente
l'apologia degli istituti dell'ammonizione e del confino»,
presentandoli come indispensabili strumenti di prevenzione e
“profilassi sociale” «e dichiarò che, privata di strumenti, la
polizia non era in grado di sostenere la lotta con la delinquenza ed
era vittima di “una crisi psicologica di allarmanti proporzioni”».
Dichiarazioni di questo tipo ebbero da un lato l'effetto di
autorizzare moralmente – fatto gravissimo – le forze dell'ordine
alla disobbedienza nei confronti di una pronuncia della Corte
(infatti, come Basso documenta, «si ebbero casi clamorosi di
ribellione da parte delle autorità locali di polizia»), e
dall'altro di gettare discredito su un organo essenziale
dell'ordinamento democratico, quale appunto la Corte Costituzionale,
tanto da provocare le dimissioni del suo primo presidente, Enrico De
Nicola, nel settembre del 1956 [Basso
1998, p. 257].
Ma questi attriti non
scoraggiarono l'azione della Corte, che emanò fin dai suoi primi
anni di attività (come ricorda L. Basso) importanti sentenze per
imporre il rispetto dei princìpi costituzionali; tra l'altro,
riguardo ai poteri prefettizi previsti dall'art. 2 della legge di
P.S., ai quali si è accennato, pur non dichiarando l'illegittimità
della norma, la Corte ne ridimensionò la portata, riconducendo i
poteri prefettizi nell'alveo dell'ordinamento democratico, poiché
stabilì che essi non sono al di sopra delle leggi, in quanto si
tratta di meri atti amministrativi, con tutti i limiti di competenza
e validità tipica di tali atti, e sono sottoposti, in quanto tali,
«ai normali controlli giurisdizionali» [Basso
1998, p. 308].
E' il caso forse di
riflettere su queste vicissitudini della Corte Costituzionale, per
comprendere come il suo ingresso sulla “scena” dei poteri
democratici di garanzia previsti dalla Costituzione sia stato
decisivo per indurre gradualmente il legislatore e i governi a mutare
i loro indirizzi e orientamenti, svolgendo indirettamente una
funzione di “educazione alla democrazia” anche nei confronti
dell'opinione pubblica.
Oggi la Corte subisce
nuovamente attacchi e critiche, non dovuti soltanto a questa o quella
sentenza (le sue pronunce possono certo essere criticate, poiché
anche rispetto ad esse vige la libertà di pensiero, prevista dalla
Costituzione), ma al suo stesso ruolo, considerato talora “intrusivo”
nei confronti dell'azione legislativa, la quale – secondo queste
critiche – si vedrebbe sempre più limitata nella sua libertà
“sovrana” di operare scelte e valutare opzioni.
Non vi è qui lo spazio
sufficiente per entrare nel merito di tali critiche (è un argomento
che richiederebbe in sé un'ampia trattazione e discussione), ma
proprio queste vicende relative agli “albori” della storia della
Corte Costituzionale ci suggeriscono che le conseguenze di
un'eventuale “estromissione” di tale organo dal nostro
ordinamento, o di un drastico ridimensionamento delle sue funzioni,
sarebbero preoccupanti, sotto il profilo della difesa e
dell'attuazione dei princìpi sanciti dalla Costituzione.
In molti punti la
riflessione di Lelio Basso è ancora attuale; alcuni li abbiamo già
illustrati; si potrebbe aggiungere anche l'allarme che egli lancia,
nel Principe senza scettro, circa la tendenza dei
partiti a occupare e invadere, da posizioni di potere, spazi «della
vita nazionale» al di fuori delle istituzioni, gettando le basi di
una “deriva partitocratica” che evidentemente egli già
registrava, sul finire degli anni Cinquanta [Basso
1998, pp. 274-278].
Basso mette costantemente in
guardia il lettore-cittadino, ricordandogli che «[...] la democrazia
non è mai un pacifico possesso, perché nella società agiscono in
senso contrario forze poderose miranti ad un rigoroso concentramento
e controllo del potere, [sicché] un ordine democratico può reggersi
solo sulla base di una costante e robusta pressione delle masse, di
una continua e vivace partecipazione di tutti alla vita pubblica».
Ma perché questa sia realmente possibile, bisogna altresì esigere
che lo Stato dia scrupolosa attuazione ai princìpi enunciati
nell'art. 3 della Costituzione, affinché non ci siano settori della
società che versino «in condizioni tali di miseria o di ignoranza
da impedire una reale e cosciente partecipazione o da distrarre
comunque le loro energie verso esigenze di vita immediata» [Basso
1998, p. 283].
Proprio la storia del nostro
Paese, secondo il costituente socialista, insegna che ogni
generazione ha «dovuto lottare per riconquistare, non diciamo un
ordinamento democratico, ma le premesse di uno Stato liberale». La
«resistenza delle classi dominanti all'avanzata delle classi
popolari, la volontà di respingerle ai margini della vita sociale
(miseria, disoccupazione, analfabetismo, arretratezza di intere
regioni, ecc.) e della vita politica (diniego delle fondamentali
libertà)» [Basso 1998, p. 284]
rappresenta una costante della storia italiana, benché non sia una
caratteristica esclusiva dell'Italia. Cambiano col tempo solo gli
strumenti dei quali le classi dominanti si servono.
Anche se, come Basso
ribadisce a più riprese, l'affermarsi della democrazia in forma
compiuta è condizionato dalla dialettica “classi dominanti/classi
popolari”, o “classe dirigente/masse”, ovvero è ostacolato o
perlomeno ritardato dall'azione di gruppi che si trovano in posizioni
privilegiate nella società o che detengono il potere economico o
politico, egli non ritiene che il destino della democrazia, anche in
un Paese caratterizzato da profondi squilibri come l'Italia, sia
segnato: tutt'altro. Traendo le conclusioni del suo testo, L. Basso
parla di “Democrazia in cammino”: pur tra molte incertezze e
difficoltà, alcune istituzioni aventi la missione di vigilare sul
rispetto dei princìpi e valori fondamentali dell'ordinamento, come
la Magistratura, si sono rese rapidamente coscienti del loro ruolo;
la Corte Costituzionale, una volta insediatasi, ha contribuito a
contraddire e contrastare autorevolmente le pulsioni e gli
atteggiamenti antidemocratici ancora serpeggianti nel Paese perfino a
livello governativo; l'opinione pubblica non ha subìto in silenzio
gli atti discutibili delle autorità.
Non bisogna, esorta Basso
tracciando il bilancio politico relativo all'anno in cui scriveva
(1958), scoraggiarsi rilevando che le conquiste sinora fatte quanto
ad attuazione dei princìpi democratici sanciti dalla Costituzione
sono modeste. Ogni conquista pur piccola, in questo campo, reca in sé
il germe di ulteriori progressi [Basso
1998, p. 311].
E' però la coscienza
democratica diffusa il bene più prezioso; e a giudizio del
costituente socialista, essa ha compiuto, in un solo decennio, «passi
giganteschi» [Basso 1998, p. 312].
Si sono dileguate le
ingenuità dei primi anni dopo la Liberazione, caratterizzati dalla
«facile illusione che la democrazia, una volta scritta nella
Costituzione, fosse definitivamente conquistata: la superficiale
contrapposizione fascismo-democrazia, l'unità antifascista
realizzata nella lotta di Liberazione avevano reso più agevole
abbandonarsi all'idea che alla caduta del fascismo dovesse subentrare
automaticamente un periodo di sviluppo democratico e di unità
nazionale.» [Basso 1998, p. 312]
L'esperienza, la politica
“alla prova dei fatti”, la gestione del quotidiano, hanno fatto
maturare in fretta l'opinione pubblica, o perlomeno i cittadini «più
avvertiti», mostrando loro «che la democrazia, soprattutto la
democrazia ai suoi primi passi, dev'essere la conquista di ogni
giorno, che essa è un regime a misura dell'uomo comune, senza capi
taumaturgici, senza investiture carismatiche, senza destini segnati e
senza guide provvidenziali, ma che appunto perciò richiede l'umile e
quotidiano impegno di ciascuno, impone la presenza continua,
vigilante e operante, del sovrano nella vita pubblica, così nei
grandi problemi nazionali come nei piccoli problemi locali.» [Basso
1998, p. 312]
Oggi,
con l'ulteriore esperienza che abbiamo accumulato, possiamo
cancellare l'inciso «soprattutto la democrazia ai suoi primi
passi», sottoscrivendo tutto il resto,
visto che tali considerazioni conservano intatta la loro validità.
Grazie
ai valori che la Costituzione ha introdotto nell'ordinamento e nella
società italiani, si è andata creando e si sviluppa – registra
Lelio Basso – una diffusa familiarità con l'idea e con la pratica
democratiche: insomma «[...] è nata la coscienza di che cosa
significhi essere cittadino sovrano di uno Stato democratico: l'alta
dignità che si esprime in questa figura e la severa responsabilità
che vi è connessa. Dignità di cittadino che non si piega ad ordini
illegittimi, che non postula favori illeciti, che sa difendere il
proprio diritto e far rispettare la propria personalità colle armi
civili di una società moderna, e contemporaneamente assolvere ai
propri doveri verso la collettività; responsabilità di cittadino
che conosce il dovere di impegnarsi ogni giorno per la difesa
democratica, […] responsabilità soprattutto di fare da sé le
proprie scelte, di non subire tutele menomatrici, di non operare
abdicazioni rinunciatarie.» [Basso
1998, pp. 312-313]
Dignità e responsabilità
sono dunque i concetti che illustrano e riassumono le qualità del
moderno cittadino-sovrano della democrazia. Sono fra loro intimamente
connesse: la dignità di chi non piega il capo davanti a soprusi e
sopraffazioni “legalizzate”, di chi non mendica favori e non si
svende in cambio di piccoli o grandi privilegi – e quindi abbandona
le abitudini e le pratiche tipiche di chi è avvezzo a “sopravvivere
da suddito” in ordinamenti e regimi autoritari e paternalistici –
si accompagna alla responsabilità di chi sa di dover contare sulle
proprie forze, scegliere in prima persona, non affidarsi alla tutela
o alla protezione di nessun “signore” o “condottiero” o
“tecnocrate”.
Lelio
Basso sa bene che si tratta di un percorso ancora molto lungo, e che
in definitiva il “cittadino-sovrano” (o meglio, il
“cittadino-lavoratore-sovrano”) è ancora nella fase
dell'apprendistato e dell'incertezza. Tuttavia il cammino da compiere
è quello, non sono previste inversioni di marcia: una volta
enunciati i princìpi della dignità e della responsabilità, questi
non possono più essere rinnegati o dissolti: «[...] chi ha
vissuto in questi anni l'esperienza di tante battaglie politiche e
giudiziarie, chi è stato in più occasioni a fianco soprattutto di
contadini meridionali, magari ancora analfabeti, e ha visto quale
augusto significato abbia per essi la Costituzione, che cosa
significhi per essi la coscienza che contro la millenaria oppressione
esistono oggi delle leggi e dei giudici che garantiscono i diritti
anche del debole, non può non aver avvertito i segni di una profonda
rivoluzione morale che prepara nuove generazioni di cittadini.»
[Basso 1998, p. 313]
Dalle
conclusioni che egli trae – ottimistiche, nonostante le difficoltà
e gli ostacoli – si evince che Lelio Basso ha fiducia nelle nuove
generazioni, quelle che si vanno formando e si formeranno
“respirando” i valori democratici della Costituzione,
nutrendosene, e che comprenderanno sempre più l'importanza della
diade “dignità/responsabilità”. Forse non prevede la “lunga
durata” e la “resistenza inerziale” di certe abitudini sociali
acquisite (come il «postula[re] favori illeciti»), il servilismo e
il “familismo” millenario di chi dentro di sé continua a
ripetere con cinismo e scetticismo irranciditi: “Franza o Spagna
purché se magna”. Tuttavia sa che ogni progresso, per quanto
piccolo, lungo la strada della realizzazione concreta dei princìpi
costituzionali, crea le condizioni per produrne altri: i decenni che
seguiranno immediatamente la stesura de Il
Principe senza scettro lo
confermeranno.
Ritiene che la democrazia
non potrà dirsi compiuta finché ci saranno disparità di classe,
finché una classe sociale pretenderà di far prevalere i propri
interessi a scapito delle classi “diseredate” e prive di mezzi e
di potere. E' una concezione, la sua, in cui l'influenza del marxismo
è evidente, profonda; tuttavia egli non è un marxista “ortodosso”
(se per convenzione intendiamo come “ortodossa” la linea del
“marxismo-leninismo”) e non crede neppure per un attimo nelle
virtù di una qualsivoglia dittatura, neppure se questa si appone
l'etichetta “del proletariato”.
In quanto frutto, sia pure
prezioso, di una società ancora basata sugli squilibri e i conflitti
di classe, per L. Basso la Costituzione non è «una
conquista definitiva», non perché debba essere in futuro rinnegata,
ma perché non rappresenta «il punto d'arrivo della nostra battaglia
democratica». Dunque essa non è immutabile né intoccabile; però,
come egli ha già spiegato, può essere riformata solo in direzione
di una maggiore democrazia, che permetta maggiori spazi di
partecipazione e di intervento ai cittadini. Ciò non significa in
ogni caso che la Costituzione sia da considerare un esito di poca
importanza o un “ripiego” da archiviare al più presto: sarebbe
infatti «[...] colpevole sottovalutare il significato morale e
politico della Costituzione, la forza che si sprigiona dal fatto che
essa esiste, che contiene principi, che è stata il frutto di tanti
sacrifici passati ed è oggi il punto di riferimento di tante
speranze avvenire.» [Basso 1998, p. 316]
Considerando le
problematiche con le quali la democrazia deve confrontarsi ai giorni
nostri, bisognerebbe probabilmente riflettere sull'evoluzione del
concetto cardine del discorso di Basso, ovvero il
“cittadino-sovrano”. Entrambi gli elementi che lo compongono,
ovvero la cittadinanza e la sovranità, vanno analizzati. L'idea di
cittadinanza infatti si presenta oggi come un'idea double face:
da un lato essa è ancora un'idea-guida o un'idea-simbolo che
richiama una costellazione di diritti e di garanzie, e la stessa
nozione di “dignità” su cui insisteva il costituente socialista;
dall'altro, però, essa rischia di rappresentare la versione moderna
di un privilegio – si hanno diritti solo in quanto si è compresi
nel “cerchio magico” della cittadinanza; chi ne è fuori è nella
“zona grigia” del “non-garantito”, del “non-riconosciuto”,
rispetto alla quale non possono applicarsi i “riguardi” che il
“potere” tributa o dovrebbe tributare al cittadino. Quanto questa
“doppia faccia” della cittadinanza sia compatibile con la
democrazia compiuta della quale parla L. Basso è appunto tema (arduo
e tutt'altro che risolto) del dibattito attuale.
La sovranità, a sua volta,
in virtù dei processi ai quali si fa riferimento col nome di
“globalizzazione”, è sempre meno una “risorsa” a
disposizione degli Stati nazionali; il che vuol dire che il
“cittadino” degli Stati-nazione è sempre meno “sovrano”.
Anche l'Unione Europea ha contribuito a indebolire lo spazio di
decisione autonoma degli Stati: quanto conta ancora realmente, nella
cornice di questo “edificio” sovranazionale, la “decisione
sovrana” dei cittadini e degli organi rappresentativi all'interno
degli Stati? E se le Corti Costituzionali si pongono a guardia della
prevalenza del diritto comunitario su quello degli Stati, non perdono
di vista il loro compito prioritario, che è quello di far rispettare
le norme delle Costituzioni nazionali che sono espressione diretta e
garanzia essenziale della “sovranità dei cittadini”?
Anche questi sono temi in
linea col dibattito attuale, che certo L. Basso non poteva
preconizzare.
Il costituente socialista
era invece già attento all'equilibrio fra diritti e doveri, o fra
diritti e responsabilità: e questo è un tema che è stato a lungo,
ed è tuttora sottovalutato – pur risultando cruciale specialmente
oggi per ricomporre il rapporto fra interessi privati e beni
collettivi.
Forse
Lelio Basso ha riposto troppe speranze in certe riforme auspicate
dalla Costituzione, come quella relativa al decentramento regionale:
ne Il Principe senza scettro
ne sostiene a più riprese la necessità. Nel 1970 essa sarà
finalmente attuata, ma i suoi effetti, soprattutto sulla lunga
distanza, non saranno esaltanti, e comunque ci appaiono oggi
discutibili, e sono vivacemente “discussi” in effetti.
Lo
stesso ruolo dei partiti, che Basso – sulla scorta dell'esperienza
della Costituente – ritiene di fondamentale importanza, non sempre
oggi appare una chiara “risorsa” per la democrazia, essendosi nel
frattempo trasformato in un “problema”. (Non è il caso qui di
inserire un excursus
su questo tema; mi limito a rinviare all'abbondante letteratura che
in anni recenti è fiorita in materia [Si
vedano ad esempio: Ignazi 2012; Revelli 2013; Raniolo 2013].)
Tuttavia (come l'appena
menzionata letteratura specifica sul tema conferma) non si può dare
torto a L. Basso, quando sostiene che la democrazia è
necessariamente una “democrazia di partiti”: bisogna vigilare
affinché questi non vengano meno ai loro compiti e doveri e affinché
siano trasparenti quanto al loro operato ed alla gestione dei
finanziamenti, al tesseramento, ecc.; li si deve forse riformare
profondamente, ma non li si può abolire, se non si vuole tornare, in
maniera palese o surrettizia, a una qualche forma di regime “a
partito unico”.
La
difesa dei valori e dei princìpi costituzionali che Basso fa
incessantemente, nel testo esaminato ma anche in molti suoi altri
scritti e discorsi, è un monito che col passare del tempo non perde
un grammo della sua efficacia e giustezza. Riallacciandoci a
un'incisiva osservazione di Rodotà, possiamo dire che se un tempo –
all'epoca in cui Basso pubblica Il
Principe senza scettro –
bisognava difendere la Costituzione da coloro che la consideravano
una “trappola” da scansare (perché troppo “avanzata”
rispetto al conservatorismo dominante), negli ultimi trent'anni è
stato – ed è tuttora – necessario rintuzzare le argomentazioni
di coloro che la considerano invece un “ferrovecchio” da
“rottamare” quasi per intero [Rodotà
1998, p. 12]. In sostanza, la
Costituzione repubblicana è sempre apparsa “scomoda” e
“ingombrante”, per un motivo o per l'altro, agli occhi di coloro
che evidentemente considerano il potere che detengono (la sua
conservazione, il suo accrescimento, ecc.) più importante del suo
scopo e della sua stessa legittimazione – la quale risiede soltanto
nel consenso condizionato
(ovvero non incondizionato e non illimitato) e informato
del cittadino-sovrano. E – questo il cuore del monito di Basso –
perché quella sovranità sia sempre piena e garantita, il cittadino
deve difenderne quasi giorno
per giorno la fonte concreta e
simbolica: la Costituzione.
Testi citati:
-
[Basso 1998]: L. Basso, Il Principe senza scettro (I
ediz.: 1958), Feltrinelli, Milano.
-
[Bagehot 1995]: W. Bagehot, La Costituzione inglese,
Il Mulino, Bologna //
ed. orig.: The English Constitution, Oxford University Press,
Oxford 1867.
-
[Bernocchi 2012]: P. Bernocchi, Benicomunismo. Fuori dal
capitalismo e dal «comunismo»
del Novecento, Massari,
Bolsena (VT).
-
[Bernocchi 2015]: P. Bernocchi, Oltre il capitalismo.
Discutendo di benicomunismo, per un'altra società, Massari,
Bolsena (VT).
-
[Bobbio 1984]: N. Bobbio, Il futuro della democrazia,
Einaudi, Torino.
-
[Canfora-Zagrebelsky 2014]: L. Canfora – G. Zagrebelsky,
La maschera democratica dell'oligarchia. Un dialogo, a cura di
G. Preterossi, Editori Laterza, Roma-Bari.
-
[Giorgi 2014]: Ch. Giorgi, La fantasia giuridica del
costituente: Lelio Basso e il secondo comma dell'articolo 3, in
Fondazione Lelio e Lisli Basso – Issoco, Il progetto
costituzionale dell'uguaglianza, a cura di Ch. Giorgi, Ediesse,
Roma, pp. 53-70.
-
[Ignazi 2012]: P. Ignazi, Forza senza legittimità. Il
vicolo cieco dei partiti, Editori Laterza, Roma-Bari.
-
[Lijphart 2014]: A. Lijphart, Le democrazie
contemporanee, II edizione, a cura di L. Verzichelli, Il Mulino,
Bologna // ed.
orig.: Patterns of Democracy. Government Forms and Performance in
Thirty-Six Countries, II ed., Yale University Press, London 2012.
-
[Raniolo 2013]: F. Raniolo, I partiti politici,
Editori Laterza, Roma-Bari.
-
[Revelli 2013]: M. Revelli, Finale di partito,
Einaudi, Torino.
-
[Rodotà 1998]: S. Rodotà, Prefazione a L. Basso,
Il Principe senza scettro, cit., pp. 7-13.
Nessun commento:
Posta un commento
Ogni confronto di idee è benvenuto. Saranno invece rigettati ed eliminati commenti ingiuriosi e/o privi di rispetto, perché non possono contribuire in alcun modo a migliorare il sapere di ciascuno né ad arricchire un dialogo basato su riflessioni argomentate.