Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

mercoledì 20 maggio 2015

Traversie di un “Principe senza scettro”. Omaggio a Lelio Basso, costituente /2




Seconda parte

Il secondo capitolo de Il Principe senza scettro si sofferma su “Lo spirito della Resistenza”. Qui Lelio Basso sottolinea il contributo che l'esperienza della lotta al fascismo ebbe per la maturazione dei valori democratici che sarebbero poi stati alla base della Costituzione repubblicana, ma mette anche in evidenza i problemi e le difficoltà coi quali la Resistenza dovette fare i conti, e che le impedirono – a differenza di quel che avvenne in altri contesti nazionali, ad es. in quello francese – di essere la fonte chiara e univoca di un nuovo pensiero politico e di un conseguente e organico programma di riforme. Come nota il deputato socialista, dopo la «lunga notte fascista» che «aveva reso impossibile in Italia una continuità di pensiero democratico», isolando le giovani generazioni e impedendo loro qualsiasi contatto con gli «sviluppi del pensiero e delle esperienze internazionali» [Basso 1998, pp. 93-94], negli anni della Resistenza «[n]on vi fu […] una vera simbiosi fra le masse e il personale politico specializzato, entrati da poco in contatto e preoccupati, le une e gli altri, soprattutto delle esigenze belliche immediate; le loro idee e il loro linguaggio non furono sempre coincidenti, anche se, naturalmente, si andò a poco a poco creando una fusione sempre più organica. […] Ed è anche per questo che è più appropriato parlare, per quanto riguarda l'Italia, di uno “spirito” della Resistenza, piuttosto che di un vero e proprio pensiero.» [Basso 1998, p. 94]




Secondo Basso, questo “spirito”, che accomunava le varie componenti dei Comitati di Liberazione Nazionale e i cittadini desiderosi di modificare le fondamenta istituzionali del Paese, si può «riassumere in una frase: fare tutto il contrario del fascismo» [Basso 1998, p. 99]. Dietro la facciata dello slogan polemico, e a monte di esso, L. Basso sviluppa una riflessione che parte dai dati storici del colpo di stato del 25 luglio, che con la sua «facilità addirittura operettistica […] mise a nudo, dietro la cortina fumogena creata dalla propaganda, la natura di cartapesta del regime» e della fuga dell'8 settembre, che squalificò definitivamente la monarchia, per ricordare la condizione in cui si trovò il popolo italiano in quegli ultimi mesi del 1943, ossia «veramente solo: solo colla propria coscienza. Quattro anni prima che la Costituente la registrasse nel testo dell'articolo primo, la democrazia, cioè la maturità e la responsabilità del popolo, nasceva da questa diretta esperienza [...]» [Basso 1998, p. 99].

La democrazia coincide dunque con la maturità di un popolo che si rende conto che, svanite tutte le illusioni e rivelatisi i vecchi poteri (frutto di dinastie di ancien régime, di oligarchie, di dittature, ecc.) come soggetti opportunisti e parassitari interessati soltanto alla propria sopravvivenza anche a spese del popolo medesimo – che peraltro considerano estraneo e cinicamente “sacrificabile” –, deve fare affidamento soltanto sulle proprie capacità ed energie e assumersi la responsabilità di compiere scelte. Definizione più incisiva della democrazia – ideale e al tempo stesso pragmatica, di “spirito” e di “carne” a un tempo – non può forse esserci.

In tal modo, lo “spirito” della Resistenza si manifesta segnando alcune precise priorità: «Ricostruzione dal basso, impegno e responsabilità di ciascuno per assolvere nel miglior modo il proprio compito, liquidazione definitiva del passato» [Basso 1998, p. 99].
All'idea di democrazia come età della “maturità politica” di un popolo è connaturato il concetto di responsabilità, e non a caso Lelio Basso lo rimarca a più riprese. In particolare sottolinea come uno dei valori che «fu conquistato quasi d'impeto in quei mesi» sia «il senso della responsabilità personale, principio e fondamento di ogni vita democratica» [Basso 1998, pp. 99-100].
La dittatura fascista si era adoperata quasi “scientificamente” per avvilire e umiliare le persone e il loro senso di libertà e di dignità, «la coscienza che ciascuno deve avere del proprio diritto e dovere di scegliere, di decidere, di assumere delle responsabilità», provando sistematicamente ad annullare tutto questo «nel conformismo, nell'indifferentismo o nell'ipocrisia» [Basso 1998, p. 100], i buoni “compagni di viaggio” di ogni sistema autoritario e autocratico.

Con la democrazia, le persone (ri)conquistano il diritto di non essere “conformi” a un modello prestabilito (da un regime di turno o da un'ideologia) ma anche la responsabilità di confrontarsi coi propri simili, poiché decidere ciò che è bene per la collettività non è un privilegio concesso a pochi, e del quale non si debba render conto ai “governati”, ma una facoltà che discende dalla dignità stessa di cittadino, che a tutti spetta in egual misura.

Nel terzo e nel quarto capitolo del libro, Lelio Basso parla rispettivamente del lavoro di elaborazione che ha portato alla Costituzione e dei contenuti di quest'ultima.
Egli innanzitutto affronta una celebre critica che veniva (e tuttora viene) mossa alla Costituzione, ovvero quella «di essere sorta sulle fragili fondamenta di un compromesso politico fra i principi del liberalismo e quelli del socialismo, senza soddisfazione né delle correnti liberali né di quelle socialiste, e, quel che più importa, senza un'organicità giuridico-politica con lo sviluppo storico del paese» [Basso 1998, p. 131].
In realtà, usato in questo contesto, il termine “compromesso”, in sé non necessariamente negativo, serve spesso a costruire una “narrazione” (diremmo oggi) che giustifichi «l'applicazione di una vera e propria “costituzione di fatto” presentata in maniera arbitraria come rispondente alla reale fisionomia storico-politica della nazione, in contrapposizione alla costituzione “di diritto” votata nel dicembre 1947, denunciata invece come una astratta enunciazione di principi ibridamente fusi in una congiuntura storica e politica di eccezione» [Basso 1998, pp. 131-132].

E' una “narrazione”, questa, che è servita allora (negli anni Cinquanta) come in séguito per giustificare i ritardi nell'applicazione delle norme costituzionali, o le “deviazioni” della prassi politica rispetto alla lettera della Costituzione; ma le “circostanze eccezionali” del 1946-48, lungi dall'essere un “incidente di percorso” da dimenticare al più presto, sono state in effetti un'occasione importante di reciproco riconoscimento delle forze politiche che rappresentavano le maggiori tendenze ideali e le “famiglie ideologiche” presenti in Italia, occasione che ha consentito il determinarsi di un accordo di alto livello per disegnare attraverso la Carta costituzionale il futuro democratico del Paese.
Così, il compromesso che pure vi fu tra le forze di ispirazione cattolica, quelle di ispirazione socialista e quelle liberal-democratiche (secondo la tripartizione proposta da Basso), «non si risolse in una giustapposizione di principi inconciliabili, ma rappresentò una sintesi non infelice, sostanzialmente vitale» [Basso 1998, p. 132] che, eccettuate alcune norme nelle quali la presenza di reciproche concessioni è evidente, fece emergere un accordo di tutte le forze politiche dell'arco costituente sui valori fondamentali che lo “spirito della Resistenza” aveva contribuito a manifestare e a sostenere.

Basso ricorda come nei dibattiti della Costituente si andò delineando un concetto di cittadino non più inteso come astratto “tassello” del corpo politico, ovvero dell'edificio-Stato, ma come soggetto concreto inserito in una società della quale subisce le iniquità, soggetto che quindi deve essere messo in grado di contribuire coi propri simili, in condizioni di parità, alla determinazione degli indirizzi politici, sociali ed economici del Paese. Il cittadino, per il Costituente, proprio perché si identifica in una figura concreta (il che implica un'opzione politica forte), è anche un lavoratore: «la preoccupazione del costituente di assicurare l'uguaglianza del cittadino non è fine a se stessa, ma mira ad assolvere a una precisa funzione, per cui sembra possibile la concreta identificazione del cittadino stesso nel lavoratore come cellula umana costitutiva, organica della società costituzionale, e innanzi tutto come unità tipica, sotto il profilo sociale ed economico e quindi giuridico, di quel “popolo” al quale appartiene […] la sovranità e che l'on. Ruini definì vero e proprio “organo fondamentale” della Costituzione.» [Basso 1998, pp. 140-141]

Naturalmente – come L. Basso opportunamente commenta – l'accordo raggiunto tra le forze politiche in seno alla Costituente su questo modo di intendere la nozione di cittadino esclude che il concetto di “lavoratore”, in tale contesto, possa avere una connotazione classista, anche se la sua comparsa nei lavori della Costituente e poi nel testo definitivo della Costituzione è segno inequivocabile di «un graduale spostamento dell'asse sociale ed economico dello Stato moderno dai ceti capitalistici ai ceti lavoratori» [Basso 1998, p. 141] che le forze politiche democratiche non possono non registrare.

Questa concezione della cittadinanza emerge a più riprese nel dibattito; lo stesso Lelio Basso, nella sua attività di costituente, la considerò alla base delle norme sul diritto di voto, tanto da proporre nella I Sottocommissione che esso non dovesse essere concesso, tra gli altri, «a coloro che non esercitano un'attività produttiva». E sul principio vi era sostanzialmente un largo consenso, tanto che Moro intervenne per sostenere che «la proposta si armonizzava con le norme “sancite nella Costituzione in base alle quali non è assolutamente concepibile vi siano in Italia persone che non si dedicano volontariamente a un'attività produttiva” (benché proprio per questa ragione dubitasse dell'opportunità di ribadirla)» [Basso 1998, p. 147].

Circa il testo che poi è stato approvato in via definitiva dall'Assemblea Costituente ed è diventato la Costituzione della Repubblica italiana, Lelio Basso rileva come esso – nonostante i suoi molti pregi e i princìpi avanzati che enuncia – non sia del tutto armonico, dal momento che non sempre le forze innovatrici sono riuscite a far prevalere il loro punto di vista rispetto alle posizioni degli elementi più conservatori dell'Assemblea. Una delle parti della Costituzione che evidentemente non soddisfa del tutto Basso è quella riguardante gli organi statali, che risente di vecchi schemi liberali non più adeguati ai tempi: «In modo particolare rimangono come espressione del vecchio Stato il bicameralismo e l'indipendenza dei parlamentari.» [Basso 1998, p. 164]

A giudizio di L. Basso, il bicameralismo venne sancito nel testo definitivo della Costituzione soprattutto con lo scopo di fungere da ostacolo alle politiche che i partiti di sinistra avrebbero prevedibilmente sostenuto in Parlamento. Per di più, il bicameralismo non è stato aggiornato ai tempi, prevedendo – come in altri ordinamenti all'epoca esistenti – la prevalenza di una Camera sull'altra; si è preferito invece un obsoleto e ingiustificato “bicameralismo paritario”, «cercando poi di introdurre elementi estrinseci di differenziazione (età degli elettori, età degli eleggibili, durata) che in realtà non hanno nessuna giustificazione» [Basso 1998, p. 164].

Altro principio proveniente dalla tradizione liberale è quello che Basso definisce qui della «indipendenza dei parlamentari rispetto al corpo elettorale» e che con linguaggio tecnico-giuridico si definisce in genere come “divieto del mandato imperativo”. Secondo il deputato socialista, un simile principio contrasta con la realtà della democrazia imperniata sui partiti e con la stessa norma costituzionale che sancisce la funzione dei partiti medesimi, ovvero «quella di concorrere alla determinazione della politica nazionale (art. 53 [sic; in realtà si riferisce all'art. 49: mia nota esplicativa]), dato che il modo più efficace con cui i partiti possono assolvere a questa loro funzione è quello appunto di dare direttive ai propri rappresentanti in Parlamento.» [Basso 1998, pp. 164-165]

Sono temi sui quali ancora oggi si dibatte: come si vede, Basso offre spunti di riflessione tanto sul superamento del “dogma del bicameralismo” (da lui auspicato in tempi non sospetti) – benché vi siano buone ragioni per conservare tale assetto del legislativo, sacrificandone soltanto l'eccesso, ovvero la forma “paritaria” – quanto sulla revisione o abolizione del “divieto di mandato imperativo”, che oggi viene invocata per motivi differenti da quelli indicati da Basso (che tuttavia sono importanti, giacché i partiti in tutti questi decenni hanno vanificato l'assolutezza di quel principio, condizionando di fatto il voto in aula dei loro eletti), ovvero sul presupposto di una maggiore coerenza dell'eletto rispetto agli impegni assunti in campagna elettorale.

Di fondamentale importanza, come ognuno comprende, è l'affermazione contenuta nell'art. 1, comma 2, della Costituzione, secondo la quale “la sovranità appartiene al popolo”: è una formulazione chiara e semplice, che vuol rendere esplicito il carattere democratico dello Stato, esaltando fin dall'esordio del testo la centralità del cittadino, e tuttavia, come ricorda L. Basso, si è giunti a quella versione dell'art. 1 dopo un lungo dibattito nell'Assemblea Costituente, e il testo inizialmente previsto era: “La sovranità emana dal popolo”, certamente più “timido” e meno incisivo [Basso 1998, p. 167].

Il popolo però non è un “corpo astratto” e la Costituzione non intende avallare la concezione vetero-liberale che faceva del popolo o della “nazione” soggetti «omogenei ed esprimenti un'unica volontà» [Basso 1998, p. 171], e pertanto fittizi. In altre parole, il popolo di cui parla la Costituzione è un popolo fatto di concreti soggetti, con le loro differenti idee e aspirazioni, dunque un popolo articolato, un “popolo-pluralità”.

E' per questo motivo che la mediazione dei partiti si rende necessaria: essi rappresentano la pluralità delle posizioni, degli interessi, delle prospettive presenti nella collettività e ricevono dagli elettori un mandato che ha una duplice finalità: da un lato, sostenere una determinata visione della società e dell'azione politica e darle visibilità, e dall'altro contribuire a ricomporre in sede parlamentare e istituzionale i diversi e talora contrapposti interessi dei cittadini.
Questi ultimi dunque, nella cabina elettorale, votano a favore di un partito prima ancora che di un parlamentare; il partito si fa garante del programma elettorale e dell'operato dei singoli eletti, è al partito innanzitutto che l'elettore chiede conto. Ecco perché Basso sostiene che è un equivoco ritenere «che il Parlamento riceva direttamente dal corpo elettorale la sua investitura» [Basso 1998, p. 171]. Senza la partecipazione di una pluralità di partiti alla competizione elettorale, quest'ultima non si può ritenere valida (non rispetta infatti i requisiti minimi di pluralismo democratico): non è sufficiente che vi sia una pluralità di candidati.

Secondo Basso, la Costituzione prevede e incoraggia una partecipazione costante del cittadino alla politica: dunque, in netto contrasto con le concezioni vetero-liberali dei diritti politici dei cittadini, le elezioni parlamentari non sono «l'atto unico, o press'a poco, della sovranità» [Basso 1998, p. 174]. Il cittadino ha molte forme di partecipazione a sua disposizione, a cominciare dagli istituti di democrazia diretta; i diritti a questi connessi sono «esercitabili continuamente, e il cittadino che li voglia esercitare effettivamente non deve spogliarsi mai del suo abito mentale di cittadino-sovrano: si pensi, per esempio, che il Parlamento approva ogni anno centinaia di leggi, nella grande maggioranza suscettibili di essere sottoposte a referendum abrogativo, e si vedrà che se il popolo vuole avere la certezza che i suoi interessi siano bene gestiti dai suoi rappresentanti ne deve sorvegliare l'attività, si può dire, ogni giorno[Basso 1998, p. 175: corsivo aggiunto da me]

Questa considerazione riveste un'importanza particolare, se teniamo conto del fatto che quando Basso la espresse non era stata ancora emanata la legge attuativa dell'art. 75 della Costituzione, sul referendum abrogativo (solo nel 1970, a ben 22 anni di distanza dall'entrata in vigore della Costituzione, essa venne approvata e varata). Implicitamente qui l'autore ci dice il perché del ritardo del legislatore ordinario: non si voleva incoraggiare la “maturità” del cittadino controllore “quotidiano” dell'operato dei suoi rappresentanti, anzi si voleva decisamente scoraggiare un simile atteggiamento...
Come ricorda L. Basso, i cittadini possono inoltre contribuire a determinare la politica nazionale attraverso i partiti, che devono essere associazioni, organismi aperti al loro intervento e al loro contributo: è lo spirito che informa l'art. 49 della Costituzione [Basso 1998, p. 175], che il deputato socialista ha personalmente elaborato, durante i lavori dell'Assemblea Costituente.

In definitiva, secondo Lelio Basso, «[...] il nuovo sovrano, il popolo, non diversamente da quanto faceva o avrebbe dovuto fare il sovrano assoluto delle antiche monarchie, deve considerarsi sempre nell'esercizio delle proprie funzioni, che non sono soltanto quelle di votare, ma altresì quelle di sorvegliare, controllare, criticare e insomma fare quanto è necessario perché la sua vera volontà (che è poi la risultante di tante diverse e contrastanti volontà) si traduca in azione politica e legislativa.» [Basso 1998, p. 176]

Questa riflessione permette di comprendere meglio la portata “rivoluzionaria” dei princìpi sanciti dall'art. 1 della Costituzione: un'importante conseguenza giuridica, prima ancora che politica, dell'affermazione del costituente secondo la quale la sovranità “appartiene al popolo”, è che vi deve essere una corrispondenza necessaria e continua «fra la reale volontà popolare e gli organi a cui il popolo affida l'attuazione di questa volontà, in modo particolare, naturalmente, le assemblee parlamentari» [Basso 1998, p. 176]. Queste ultime devono essere «la fotografia il più possibile fedele dei contrasti di opinioni e di tendenze politiche che esistono nel Paese» e, secondo Basso, la Costituzione rispetta e rispecchia questo principio, sicché «il rapporto fra l'Italia, cioè il popolo italiano, e la Repubblica, cioè gli organi statali, sarà veramente democratico, come vuole il primo articolo della Costituzione, quanto più il Parlamento sarà specchio fedele del popolo» [Basso 1998, p. 176].

E' vero che – come stabilisce l'art. 67 della Costituzione – il parlamentare rappresenta “la Nazione” e non singoli cittadini o gruppi di elettori, ma è altresì vero – secondo le tesi di L. Basso – che la libertà di interpretare la volontà della Nazione, che apparentemente il testo costituzionale assegna a ciascun singolo parlamentare (liberandolo da qualsiasi “vincolo di mandato”, come si è già detto), non può spingersi sino al totale arbitrio ma deve rimanere ancorata alle reali richieste provenienti dai cittadini-elettori, alle loro priorità e alle loro visioni del mondo; giudici del “buon uso” della libertà della quale il parlamentare dispone non possono essere che i cittadini stessi, membri del “popolo sovrano”, dalla cui volontà scaturisce la stessa “investitura” conferita ai singoli parlamentari, il che equivale a dire che la carica di parlamentare non è un privilegio concesso a qualcuno “per meriti speciali ed esclusivi” affinché se ne serva a proprio piacimento e a detrimento della collettività e dei suoi interessi, bensì un ruolo consistente in una precisa funzione di rango costituzionale, sottoposta al continuo vaglio dei “deleganti”, i cittadini-elettori, i quali non perdono mai, in nessun istante, la funzione di soggetto sovrano.

Il referendum abrogativo e lo scioglimento anticipato delle Camere sono due degli istituti che la Costituzione prevede affinché i cittadini possano porre rimedio agli eventuali scostamenti delle assemblee parlamentari – e conseguentemente dei governi – dalla reale volontà popolare.

Tuttavia dal principio della corrispondenza necessaria fra volontà popolare («e cioè, in realtà – come Basso opportunamente chiarisce –, le molteplici volontà e tendenze del popolo») e rappresentanza parlamentare discende anche un'altra importante conseguenza, oggigiorno poco considerata (e non casualmente): la necessità della rappresentanza proporzionale. E' proprio in virtù del legame strettissimo fra principio della corrispondenza volontà popolare/volontà parlamentare (base essenziale della democrazia) e legge elettorale proporzionale che «s'è potuto sostenere che la proporzionale, pur non essendo espressamente menzionata, deve intendersi connaturata allo spirito della Costituzione» [Basso 1998, p. 178]. Nell'affermare questo, Lelio Basso si richiama al parere di illustri studiosi della materia costituzionale, come Mortati.

L'unico sistema elettorale che garantisce il rispetto della sovranità popolare è quello proporzionale (senza premi di maggioranza, è utile specificare, dato che questi hanno la stessa funzione dei meccanismi elettorali maggioritari); il sistema elettorale maggioritario infatti sacrifica la rappresentatività delle Camere in nome della cosiddetta “governabilità”: quest'ultima, che sembra in cima alle preoccupazioni dei governanti e dei “riformatori” d'oggi, è a ben vedere il residuo di una concezione davvero arcaica del potere, ancien régime verrebbe da dire, secondo la quale il “potere di comando” dev'essere in una sola mano, senza alcuna forma di condivisione – il che, se si riflette, è in contrasto con l'esigenza comprensibile e diffusa e, questa sì, schiettamente democratica, di rafforzare gli strumenti di intervento dei cittadini, di controllo (costante) sull'operato dei pubblici poteri, di democrazia partecipativa.
Come ha recentemente e incisivamente sostenuto Luciano Canfora, il sistema proporzionale è il solo che rispetti il principio che sta a fondamento del suffragio universale: un uomo, un voto. Egli ha aggiunto che è nel principio maggioritario «la causa vera del disastro della rappresentanza. L'argomento della cosiddetta governabilità è fatuo. La governabilità più semplice è il tiranno: il monarca incarna la governabilità più rapida. […] Perché il principio proporzionale è l'unica forma di attuazione del suffragio universale? Perché nelle società nostre, dove è una minoranza numerica quella che sta male, noi proprio a quella togliamo la rappresentanza. Non si vogliono avere in Parlamento delle minoranze che possano inceppare la macchina» [Canfora-Zagrebelsky 2014, pp. 93-94].

E Zagrebelsky, nella sua replica a Canfora, dopo aver sottolineato il ruolo che i partiti hanno nel far funzionare (o non funzionare) il sistema proporzionale, dovendo «fare aggregazione, rinunciando a qualche cosa di sé per costruire un quadro di collaborazione possibile» [Canfora-Zagrebelsky 2014, p. 94], commenta fra l'altro: «[...] il premio di maggioranza servirebbe a dare stabilità solo se potesse impedire il trasformismo, vizio italiano di coloro che, eletti con i voti d'una parte, poi passano dall'altra parte per motivi che, spesso, hanno poco o nulla di politico. Ma, a questo proposito, finché esiste la libertà del mandato, ci si può affidare solo alla correttezza del singolo parlamentare. Cioè, il serpente si morde la coda.» [Canfora-Zagrebelsky 2014, pp. 94-95]

Vi è dunque consonanza in queste riflessioni con i dubbi espressi da Lelio Basso nel 1958 circa la validità odierna e la sensatezza del “divieto del mandato imperativo”, e soprattutto la sua compatibilità col principio della sovranità popolare, se vengono rigorosamente tratte tutte le conseguenze politiche e istituzionali che quest'ultimo comporta.

A questo proposito, L. Basso ritiene che sarebbe conforme allo spirito della Costituzione una norma «che stabilisse la revoca del mandato di quei parlamentari che abbandonano il partito nel cui nome sono stati eletti, e presumibilmente si staccano in tal guisa dai propri elettori» [Basso 1998, p. 178].

Dal carattere democratico delle istituzioni disegnate dalla Costituzione si ricava, secondo Lelio Basso, anche il principio in base al quale l'opposizione parlamentare «svolge una funzione sovrana» in quanto essa è parte integrante del popolo, e la sovranità di cui parla la Carta costituzionale spetta «a tutto il popolo e quindi a tutti i cittadini che lo compongono». Ciò significa che i poteri della maggioranza non sono illimitati, «proprio in contrasto con il diffuso luogo comune che confonde la democrazia, cioè il governo di tutto il popolo, con il governo della maggioranza» [Basso 1998, p. 178: corsivo aggiunto da me].

Il Governo in democrazia, dunque, rappresenta tutto il popolo, e non solo una parte del Paese, degli elettori, dei cittadini, ecc.: esso è certamente espresso dalla maggioranza parlamentare, ma in quanto organo che riceve la sua investitura e i suoi poteri dal “sovrano”, ovvero dalla totalità del popolo (nelle sue molteplici componenti), «deve tener conto non solo dell'esistenza ma anche della volontà della minoranza» [Basso 1998, p. 180]. Sul piano pratico ciò vuol dire che l'indirizzo politico del Governo sarà determinato dalla maggioranza, ma l'azione di governo dovrà tener conto, nei limiti del possibile, anche degli indirizzi dell'opposizione.

Oggi forse questo principio enunciato da L. Basso può avere ulteriori e più incisivi sviluppi, se lo si considera non più soltanto in rapporto alla dialettica fra maggioranza e opposizione (e dunque fra soggetti politici all'interno del Parlamento e delle istituzioni rappresentative), ma anche in relazione al ruolo degli istituti di democrazia partecipativa (e dunque in riferimento al rapporto fra cittadini e istituzioni).

Se dovessimo far riferimento alle due tipologie di democrazia individuate da Arend Lijphart, ovvero il “modello Westminster” (o maggioritario) e il “modello consensuale”, potremmo annoverare con molta probabilità Lelio Basso fra i sostenitori del modello “consensuale” di democrazia. Non è detto però che la democrazia “del consenso” tratteggiata da Basso coincida perfettamente con la democrazia consensuale nella definizione datane da Lijphart; non c'è lo spazio per soffermarsi su questo punto, che ci porterebbe lontano dall'analisi del Principe senza scettro, ma è opportuno ricordare brevemente che secondo Lijphart sono democrazie “maggioritarie” quelle in cui «le maggioranze dovrebbero sempre poter governare e le minoranze rimanere all'opposizione», e sono invece “consensuali” le democrazie che rifiutano la contrapposizione netta fra maggioranza e opposizione, giacché «la regola di maggioranza e il modello di governo ad essa legato […] potrebbero essere considerate addirittura espressioni non pienamente democratiche, in quanto fondate su un principio di esclusione» [Lijphart 2014, p. 55].
Se il modello maggioritario sembra funzionare in «società relativamente omogenee» [Lijphart 2014, p. 56], in società attraversate da profonde fratture culturali, religiose, etniche, ecc., e quindi sostanzialmente divise, invece «la regola maggioritaria porta alla dittatura della maggioranza e alla guerra civile, e non alla democrazia. Ciò di cui ha bisogno questo tipo di società è un regime democratico che ponga l'accento sul consenso più che sull'opposizione, che includa più di escludere e che tenti di allargare al massimo le dimensioni della maggioranza di governo, anziché accontentarsi di una maggioranza risicata.» [Lijphart 2014, p. 57]

Secondo Lelio Basso, la Costituzione italiana, facendo propria l'evoluzione che vi è stata nella concezione della dialettica Stato/cittadini, governanti/governati e collettività/individui, ha inteso dare al popolo (nel senso di “popolo-pluralità”, come si è detto) la facoltà di esercitare appieno il suo potere sovrano [Basso 1998, p. 187]. Se «ogni cittadino è portatore di una porzione di sovranità e partecipa all'esercizio della funzione sovrana» [Basso 1998, pp. 187-188], in maniera permanente (cioè non soltanto al momento del voto), si può affermare che «il cittadino è, in un certo senso, un funzionario, un funzionario chiamato all'esercizio della suprema funzione statale, quella sovrana», proprio perché questa è permanente ed è costantemente nelle mani dei cittadini – anche se in effetti il cittadino-sovrano «non è di continuo nell'esercizio delle sue funzioni» [Basso 1998, p. 188].

Se misurato in rapporto a ogni singolo cittadino, non è un esercizio effettivamente “continuo” solo per “motivi tecnici”, potremmo dire; ma potenzialmente esso – se considerato in un'ottica collettiva – non s'interrompe mai, giacché «l'esercizio di questa funzione si esplica anche attraverso i partiti, le associazioni e gli enti minori e l'attività di questi, a sua volta, si esercita quotidianamente sulla stampa, nelle riunioni e così via» (oggi potremmo certamente aggiungere all'elenco anche il Web) e ciò implica che «quelli che un tempo apparivano come diritti “naturali”, come sfere autonome di attività individuale da contrapporsi alla sfera di attività pubblica, come libertà limitatrici del potere, possono essere considerate anche come momenti essenziali dell'esercizio del potere, non contrapposte quindi, ma coessenziali» [Basso 1998, p. 188].

I diritti delle persone, in primis quelli politici (ma non soltanto), non sono perciò concessioni dello Stato che si “autolimita”, ma «una limitazione che il potere sovrano del popolo impone agli organi da lui dipendenti» [Basso 1998, p. 188]. E' una sorta di “rivoluzione copernicana” nel modo di considerare i diritti di libertà, i quali in questa maniera vengono fatti derivare direttamente dai princìpi della democrazia e non passano più attraverso la “mediazione” esercitata dagli assiomi del liberalismo (se non in misura limitata “allo stretto necessario”).

Per Lelio Basso «la democraticità dello Stato sarà tanto maggiore quanto più intima sarà questa coessenzialità, quanto più cioè il potere sarà diffuso e il suo esercizio si esplicherà come momento di libertà» [Basso 1998, p. 188].
Il potere dello Stato, insomma, in una democrazia non può esercitarsi che allo scopo di garantire e accrescere l'equità sociale, la giustizia, le opportunità di vita e di emancipazione delle persone, lo sviluppo delle loro conoscenze e delle loro capacità: infatti queste considerazioni riguardano non soltanto i diritti politici in senso lato, ma anche «ogni diritto inerente alla tutela della personalità, il cui sviluppo è condizione delle qualità necessarie al cittadino sovrano» [Basso 1998, p. 188].

I cittadini, in democrazia, in quanto sovrani, non solo non sono più sudditi sotto il profilo del diritto (de iure, direbbero i giuristi), ma non devono neppure più essere trattati come sudditi da parte dei pubblici poteri, dei funzionari pubblici e della Pubblica Amministrazione in genere (non sono insomma più sudditi neppure de facto, per usare ancora il linguaggio dei giuristi, altrimenti – se la qualifica di “cittadini-non-sudditi” viene riconosciuta solo de iure e non nei fatti – vengono violati i princìpi della democrazia, che sono molto esigenti e pretendono che i fatti corrispondano agli enunciati di diritto).

Come ricorda L. Basso, un tempo, prima dell'avvento della democrazia, quando appunto i cittadini erano soltanto sudditi (immancabilmente de facto, ma talora anche de iure), e i funzionari ritenevano di dover rispondere del loro operato soltanto ai propri superiori che rappresentavano “il sovrano” (fosse questi un monarca o un governo che incarnava il popolo soltanto sulla carta), «ogni rappresentante di questa autorità si sentiva un caporale dell'ordine politico e sociale, un rappresentante del sovrano, e quindi in diritto di comandare ai sudditi», limitando a suo piacimento i diritti di riunione, di associazione e di stampa, in un quadro nel quale «il potere discrezionale della polizia non era che un momento dell'esercizio del potere sovrano» [Basso 1998, p. 189].

In proposito Lelio Basso fa una riflessione che è certamente legata alla situazione del tempo in cui egli scrive (nel 1958 il fascismo era caduto da “appena” tredici anni), ma che per molti aspetti è utile per meditare anche oggi: «E' certamente difficile far comprendere a un prefetto, a un questore, a un commissario di polizia o a un maresciallo dei carabinieri che la situazione politico-giuridica è oggi completamente mutata: che essi rimangono sempre al servizio del sovrano, ma che il nuovo sovrano è il popolo nella sua totalità, e che perciò la loro funzione precipua è, oggi, non già quella di difendere il sovrano contro un pericoloso estendersi della sfera di libertà, ma quella di garantire la piena esplicazione della libertà proprio in quanto esercizio in atto del potere sovrano.» [Basso 1998, p. 189]

Ciò ovviamente non significa lasciare campo libero agli eccessi dei singoli e dei gruppi (i funzionari statali «proprio perché la loro autorità discende dalla potestà d'imperio che spetta al sovrano, cioè al popolo nella sua totalità [e non ai singoli in maniera estemporanea: nota esplicativa mia], hanno il dovere di intervenire contro chiunque disubbidisca agli ordini del sovrano legittimamente impartiti, nelle forme e nei limiti stabiliti dalla Costituzione e dalle leggi» [Basso 1998, pp. 190-191]), ma certamente tra gli eventuali atti arbitrari dei pubblici poteri da un lato, e l'arbitrio di singoli o gruppi che eventualmente approfittano in maniera scorretta della libertà, dall'altro (gli estremi si toccano, e non si giustificano reciprocamente in alcun modo, si potrebbe dire...), c'è tutto uno spazio di civiltà democratica da preservare.



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