Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

lunedì 6 giugno 2011

Il senso e i contenuti dell'eguaglianza, oggi (qualche appunto)

Non credo si possa riproporre oggi una concezione "d'antan" o nostalgica del comunismo, secondo la quale dovremmo essere tutti tendenzialmente uguali nella povertà. Perché l'idea di eguaglianza, in una società come quella attuale, se viene associata all'idea di "povertà", suona come arretramento, privazione, sconfitta individuale e collettiva. E perciò chi si ostina - per le ragioni più disparate, che vanno appunto dall'ostinata nostalgia (dell'URSS di Breznev, forse, o della Romania di Ceausescu? possibile?) a un intransigente "egualitarismo moralistico" e quindi pauperistico - a proporre questa idea di comunismo, ritenendo che possa ancora risvegliare passioni forti nelle "masse", non può che condannarsi a veder girare a vuoto i propri sforzi.

Le rivoluzioni, a partire da quella francese (anzi, ancor prima, da quella inglese), sono state sempre sostenute dalla richiesta di riconoscimento avanzata da parte di masse di "esclusi" - e quella richiesta di riconoscimento implicava un miglioramento delle loro condizioni di vita (intese in senso sociale, economico, politico, separatamente o nell'insieme; ma l'elenco non è esaustivo...).
Penso non si possa negare che uno dei motori fondamentali dell'azione umana sia la ricerca di un grado soddisfacente di benessere per sé e per la cerchia dei familiari; a quale quantità, misura e tipo "concreto" corrisponda poi di fatto quel "grado di benessere" dipende essenzialmente dalle condizioni generali presenti in una data epoca, dalle aspettative che si determinano nella stessa, a partire dal livello di sviluppo dell'istruzione, della conoscenza scientifica e dell'economia; e in definitiva da vari altri fattori. (Ma non sono i dettagli che qui interessano.)


La stessa lotta che i lavoratori hanno compiuto ad es. in Italia, dal dopoguerra ad oggi, col sostegno dei partiti progressisti e comunisti, per garantire ai loro figli un miglior livello di istruzione (l'accesso "aperto" all'Università) e quindi migliori opportunità di lavoro, conferma ampiamente quanto appena sostenuto.
Immaginare perciò che un programma politico basato sulla richiesta: "Torniamo tutti indietro" - giustificata dall'idea secondo cui, anche se staremo tutti male, "almeno saremo tutti uguali" - possa esercitare una qualche attrattiva sulle "masse", è una vana illusione. L'uguaglianza non attrae granché (e tantomeno basta a suscitare entusiasmi) se comporta un peggioramento generale delle condizioni di vita.

Certo, se gli squilibri fra la parte più ricca della popolazione (i ricchi ormai sono "straricchi") e la parte più povera sono sempre più accentuati ed evidenti, e si fanno perciò insopportabili (soprattutto se il potere e le opportunità - gli incarichi migliori, i lavori più prestigiosi e meglio remunerati - sembrano concentrarsi in poche mani, o in ristretti clan, lobby affaristiche, amicali, parentali, ecc.), possono accumularsi cause di malessere sociale, che quanto più si fanno diffuse nei vari ceti intermedi e inferiori [inferiori non per dignità, intelligenza, capacità, ecc., ma solo per introiti e opportunità socio-economiche, sia chiaro], tanto più possono dare luogo a richieste "impetuose" di cambiamento (può dilagare insomma lo scontento, e le manifestazioni di piazza, ad es., possono farsi più partecipate e cariche delle frustrazioni accumulate nella società; può aumentare l'incidenza del voto anti-sistema; ecc.).

Quindi, la diseguaglianza può incidere sulla volontà di mobilitazione delle persone - non è ininfluente neppure oggi - e può ancora, come sempre, dar luogo a richieste di riforme radicali, che prevedano una migliore redistribuzione non solo della ricchezza, ma (oggi) anche delle opportunità professionali e di carriera, dell'accesso a determinate professioni (che appaiono monopolio dei clan di cui sopra), dell'accesso al credito (per sostenere l'acquisto di una casa, o l'avvio di piccole attività nel campo dei servizi).

La richiesta di uguaglianza, come pari opportunità, oggi è quindi più che mai attuale, ma si è affinata, si è fatta più oculata e selettiva. Non si configura più - almeno nel mondo occidentale - come uguaglianza nel possesso di "un pezzo di terra da lavorare", come ancora sessant'anni fa, perché non è più quella la frontiera da raggiungere per migliorare le condizioni di vita della gran parte della popolazione. Riproporre perciò oggi un programma politico analogo a quello elaborato a quei tempi, sulla base di quelle condizioni storiche e sociali, contraddice a mio parere la stessa capacità critica che dovrebbe essere propria di qualsiasi idea di emancipazione e di "liberazione".

Perché tutto sommato oggi il precariato è vissuto come una condanna intollerabile? Forse perché produce instabilità e incertezza nelle vite dei singoli e delle famiglie? Anche, certo; ma questa spiegazione da sola non è sufficiente: per tanti secoli, nell'era dell'economia agraria, la vita di gran parte delle persone è stata drammaticamente "precaria" (cioè incerta, instabile, affidata interamente alla "fortuna", tra povertà diffusa, denutrizione, carestie devastanti, guerre ed epidemie apocalittiche - per tacere di altri elementi), e in buona parte del pianeta lo è tuttora in quel senso "arcaico".
Non si tratta dunque di una condizione inedita e precedentemente sconosciuta. Quello che reca malessere e insofferenza nel "precariato" delle moderne società industrializzate (e "terziarizzate"), ponendolo al centro di molte critiche, è che esso rappresenta un arretramento rispetto alle condizioni socio-economiche delle generazioni immediatamente precedenti.
Ed è vero (nel senso che è facile per chiunque constatarlo empiricamente) che nelle generazioni immediatamente precedenti (diciamo: quelle di coloro che erano adulti e con famiglia negli anni Sessanta-Ottanta del secolo scorso), quando una coppia della classe media (o suppergiù) poteva disporre di un doppio stipendio, perché entrambi i coniugi lavoravano, in famiglia c'era in genere un discreto benessere (che comprendeva anche un buon livello di risparmi); i figli e le figlie di quelle coppie, che oggi si trovano ad essere adulti e in "età da famiglia", anche se lavorano entrambi, riescono tutt'al più, coi loro stipendi da "precari" - nei casi più fortunati - a far quadrare i conti a fine mese, senza poter mettere da parte risparmi appena decorosi (e non possono di solito permettersi dunque nessun "extra", o spesa imprevista).

E' l'idea dell'arretramento che è insopportabile, in sostanza. Ovviamente, per completezza e chiarezza di discorso, si dovrebbe anche analizzare lo stesso concetto di "benessere", per capirne il senso e i contenuti effettivi; e certo questa analisi richiederebbe una trattazione a parte. Quel che forse è utile accennare qui è che il concetto di "benessere", comunque lo si intenda, è influenzato dalle aspettative che - per ragioni a loro volta molteplici - in un dato momento storico (e in una data area geografica) si sono determinate nella società; sicché l'idea di "benessere" dell'Europa o dell'Italia del primo Novecento, ad es., non corrisponde (se non forse in parte) a quella che ne abbiamo oggi, nella stessa area europea e/o italiana.
Ed è con l'idea di benessere nella sua versione odierna che noi dobbiamo oggi fare i conti; non certo con quella di qualche decennio fa. Un altro punto essenziale è che il "benessere" non coincide con la "felicità", che è un concetto ben più vasto ed esigente, e per questo molto più difficile da definire e quantificare: cioè, se è possibile escogitare sistemi per misurare il grado di benessere di una popolazione o area geografica, la quantificazione del "grado di felicità" di una collettività si rivela invece impresa impossibile - anche perché, com'è ormai noto, ciascun individuo misura secondo propri criteri soggettivi il proprio "grado di felicità" (criteri che includono inevitabilmente anche la valutazione personale di aspetti strettamente privati della vita, come la situazione affettiva e familiare), e quindi operare una pura "sommatoria delle felicità" dei singoli per ricavare da questa il quadro di un ipotetico "livello collettivo della felicità" diventa un'operazione arbitraria.

Qualcuno dirà che continuare a pensare il "miglioramento" delle condizioni di vita come l'abbiamo pensato negli ultimi decenni - cioè in termini di "sviluppo industriale" - è sbagliato e/o insensato. E ha di sicuro molte buone ragioni per dirlo. (Ad es., ritengo che non si possa continuare a misurare il grado di benessere di una popolazione solo in termini di "Prodotto interno lordo": il benessere, se preso sul serio, è un concetto più articolato e vasto.)


Il problema è che un modello economico-sociale si può contrastare soltanto se: a) si elabora in maniera compiuta (e non solo in forma di vago accenno o abbozzo) un modello alternativo che possa prenderne interamente il posto; e: b) se vi sono nella società gruppi o soggetti capaci di/ e interessati a/ incarnare quel modello, mettendolo in pratica su vasta scala in maniera che, col suo attivo funzionamento, possa esercitare un "contagio" benefico e massiccio sul resto della società.
Insisto sulla "vasta scala" e sul "contagio massiccio", perché non si tratta di un punto secondario: c'è chi pensa infatti che allo scopo possano bastare una manciata di volenterose piccole comunità "virtuose", alla maniera dei falansteri o delle "comuni agricole", che isolandosi dal "cattivo mondo" dello "sviluppo" mettano in pratica modelli "alternativi".
Ma la prova del nove dell'efficacia di un modello è la sua capacità di funzionare moltiplicato per milioni o miliardi di persone. Il fatto che possa funzionare fra pochi volontari isolati (come in un vivente laboratorio di esperimenti utopici) non vuol dire nulla, purtroppo, anzi può persino essere un cattivo segnale: indica infatti, nel migliore dei casi, che solo chi "sa" (un gruppo di "spiriti eletti" che aderiscono a una determinata visione del mondo, che propone valori e richiede eventualmente rinunce) può salvarsi dallo sviluppo, e rifugiarsi sulla propria personale arca di Noè; a tutti gli altri, che "non sanno" (cioè alla maggioranza della popolazione, o meglio alla quasi totalità), è riservato il diluvio.

Un modello sociale ed economico, se davvero è progressista, non deve limitarsi a "salvare" una élite di illuminati, ma deve essere in grado di far compiere passi avanti indiscriminatamente a tutta la popolazione. Altrimenti è soltanto un gioco da salotto, che di fatto non intacca minimamente la solidità del modello socio-economico imperante, e permette soltanto a qualcuno, nella massa dei "bruti", di sentirsi "più puro". Altro che ricerca dell'uguaglianza!

La sobrietà e la frugalità, che certi modelli di "comunità virtuose" (basate in un modo o nell'altro sull'abbandono del modello di società imperniato sui consumi di massa e/o sullo sviluppo industriale) presuppongono ed esigono, possono essere valori importanti ed eticamente condivisibili; ma possono diventare la regola generale della società solo attraverso due strade: a) il libero convincimento della stragrande maggioranza delle persone (unico metodo compatibile con la democrazia); b) la coercizione (ovvero, la riassunzione, da parte dello Stato, delle sue funzioni di "Stato etico" in senso letterale e rigoroso, che impone, se necessario con la forza, determinati comportamenti virtuosi a tutti i cittadini: il che però comporta una conseguenza non secondaria, e inaccettabile, ossia l'abbandono della democrazia).

Qualche critico dello Stato sociale odierno, o della società dei consumi (o di entrambe le cose), sostiene che molti Paesi oggi vivono al di sopra delle loro possibilità, e che dunque dovranno fatalmente, nel breve o nel lungo periodo, contrarre drasticamente le spese, abbassando così di fatto il tenore di vita di ampie fasce della popolazione. In sostanza, ci si dice che dovremo ridurre tutti le nostre pretese, e abituarci all'idea di essere più poveri (una prospettiva che va anche al di là della classica esortazione a "stringere la cinghia" che i governi rivolgono ai cittadini, nelle fasi difficili dell'economia nazionale). In questo caso si verificherebbe una terza ipotesi (un'ipotesi "c"), oltre alle due appena indicate, che costituirebbe una via di mezzo fra libera accettazione e costrizione: si tratterebbe infatti di un peggioramento forzato e generalizzato delle condizioni di vita, dovuto al fallimento - in senso letterale - dello Stato "del benessere" (o a qualcosa di molto simile).

Forse - se i dati di partenza dell'analisi sono veri - è l'ipotesi più realistica; ma questo pone un ulteriore problema, che coinvolge direttamente proprio il tema dell'uguaglianza: a quali condizioni avverrà (se avverrà) questo "impoverimento generale"? Ovvero: in che modo verrà governato? I privilegiati del sistema, che si trovano in posizioni di forza tali da garantir loro migliori condizioni per sé e per la propria ristretta cerchia, faranno in modo che le conseguenze peggiori del "fallimento generale" tocchino alla popolazione "meno privilegiata" o assolutamente non privilegiata? oppure le conseguenze negative verranno redistribuite in modo equo fra tutta la popolazione, in modo da salvaguardare il principio di uguaglianza?

Ecco che torniamo al tema principale: cosa significa oggi "uguaglianza"? Riproporre oggi in termini rivoluzionari il tema dell'uguaglianza significa a mio parere, ad esempio, pretendere che le periferie delle città non siano più un conglomerato di brutti "casermoni" tutti uguali gettati in un deserto di asfalto, senza servizi e senza vita sociale: ogni persona, a prescindere dalle proprie condizioni economiche, ha il diritto di vivere in un ambiente che favorisce il benessere e la vita equilibrata, e quindi strutturato in base a criteri di "vivibilità": colori, aria pura, spazi urbani non soffocanti e pensati secondo canoni estetici soddisfacenti. In poche parole, dobbiamo abituarci all'idea che non c'è uguaglianza in senso pieno e civile, se non abbiamo tutti la pari opportunità di sentirci accolti e di abitare quindi luoghi che possano sembrarci belli, oltre che semplicemente decenti.

(E questo l'uguaglianza proposta dal vecchio "socialismo reale" dell'URSS e dell'Europa dell'Est non lo diceva né lo ammetteva nel proprio orizzonte: infatti, l'immagine dei loro tristi casermoni di periferia - a Mosca come a Berlino Est - se è vicina a quella di certe periferie povere del "mondo libero", è in realtà ben lontana da questo nuovo ideale di uguaglianza intesa "nel miglioramento" - a sua volta tutto da definire e negoziare, ovviamente.)

Promuovere la giustizia sociale oggi non può avere lo stesso esatto significato di cento o duecento anni fa: le classi lavoratrici non possono permettersi il lusso di perdere il terreno che hanno nel frattempo conquistato; non si tratta di "essere diventati tutti borghesi", ma di aver abbandonato (chi ha potuto) la povertà disperata della condizione di bracciante o le stamberghe nelle quali si dormiva assieme a dieci familiari, tra fratelli, sorelle e genitori.
Ecco perché c'è chi difende strenuamente i "diritti acquisiti" dei lavoratori (e c'è viceversa chi purtroppo non ne comprende il valore storico, civile e sociale). Quei diritti - che forse un giorno il "Diritto", che cambia sempre volto, rinnegherà - raccontano una storia di riscatto dalla servitù e dalla fatica bruta; forse ora si tratta di capire come tirar fuori dalle nuove "stamberghe" o dalla paralisi esistenziale i nuovi poveri e/o sfruttati, e coloro che vivono (forzatamente) solo per l'oggi, vincolati a contratti di lavoro che scadono (e che, a differenza di certi contratti di fornitura di servizi - telefono, gas - non si rinnovano quasi mai automaticamente: chissà perché poi, mentre siamo tanto coccolati e vezzeggiati in quanto consumatori, veniamo continuamente bistrattati come produttori: eppure siamo sempre noi... e quando, licenziati a vita, ci accorgeremo di non poter consumare più a livelli "industriali", il mercato con tutte le sue ossessioni per l'efficienza che taglia posti e salari, che fine farà? Si sarà accorto o no di aver divorato se stesso? - Ma, al di là dell'apparente paradosso, qui si aprirebbe un altro lungo discorso).

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