Ogni volta che c'è qualche eclatante manifestazione di protesta dei "precari", si ripresenta (timidamente, in realtà) sulla stampa e in televisione il dibattito sul lavoro.
Per l'ennesima volta ci sentiamo quindi dire, ad esempio, che al giorno d'oggi non si può più pensare al lavoro in termini di "posto fisso" e che bisogna adattarsi alla cosiddetta "flessibilità".
Certo, questi ormai sono leit motiv che vengono ripetuti sino allo sfinimento, ma nessuno è in grado di dire mai (nemmeno chi sta al governo, e avrebbe quindi il dovere di dare serie spiegazioni, e non solo slogan e parole d'ordine, imbeccate da tecnocrati vari) che cosa c'è a monte di questa "benedetta" flessibilità. Cioè che cosa essa rappresenta per noi tutti, in termini di orizzonti di esistenza.
D'altra parte, un altro fenomeno che si registra, parallelamente a questa tendenza generale alla "flessibilità" dei lavori, è la progressiva disaffezione delle giovani generazioni verso il lavoro stesso.
Chi oggi "offre" lavoro spesso sperimenta la tendenza dei giovani "in cerca di occupazione" a cercare un reddito piuttosto che un lavoro: l'idea è "faticare" il meno possibile ed essere remunerati tanto.
Mi sembra che oggi noi tutti abbiamo bisogno, come non mai, di riflettere innanzitutto su cosa sia in sé il lavoro, per capire cosa ne sarà non solo del lavoro stesso, ma anche della nostra organizzazione sociale e del nostro modello economico, in un futuro forse non troppo lontano.
Forse è vero che non è opportuno pensare al lavoro in termini di "posto fisso", ma secondo me il problema di questa espressione non sta nell'aggettivo (fisso) ma nel sostantivo (posto). Ovvero, è fuorviante pensare al lavoro unicamente in termini di posto; il lavoro non è semplicemente una casella da riempire, un vuoto da colmare (un "posto", appunto). Se la sua funzione potesse e dovesse esaurirsi tutta qui, sarebbe davvero poca cosa. Le opere dell'ingegno, i sacrifici, l'abnegazione di tanti, ecc., che hanno contribuito al miglioramento delle nostre condizioni umane e sociali, non avrebbero senso, e non avrebbero trovato posto, se l'attività umana fosse solo... avere un posto.
D'altro canto, però, che senso ha un lavoro nel quale nessuno possa più identificarsi? Voglio dire, se la flessibilità diventasse realmente (come sembra stia ormai accadendo) una regola generale della società e dell'economia, il lavoro si staccherebbe completamente da chi lo svolge, e diventerebbe una variabile incontrollabile: nessuno avrebbe più cioè speranza di realizzarsi in ciò che fa, se fosse condannato eternamente a migrare da un'occupazione all'altra.
Il nostro obiettivo (sociale, culturale...) è davvero quello di arrivare a un nomadismo virtuale delle esistenze? Non dovrebbe essere il nomadismo una scelta, piuttosto che un'imposizione?
Dobbiamo migrare eternamente da un'occupazione all'altra, come fantasmi disperati in cerca di pace, senza mai poter mettere radici? E perché? perché ce lo impone l'economia? Ma cos'è l'economia, chi l'ha inventata, per quale scopo? per riprodurre se stessa e i propri modelli, o per il nostro generale benessere?
Non penso che un modello economico si possa giudicare attraverso se stesso: il parametro di giudizio non può e non deve essere tecnico-autoreferenziale.
I giudici di un modello economico e sociale siamo noi tutti, noi ai quali viene suggerito "dall'alto" che dobbiamo semplicemente subirlo "per il nostro bene" (??) senza poter avere voce in capitolo.
Facciamo un passo indietro e guardiamo allo specchio i nostri percorsi. Se ci riflettiamo (se ci riflettiamo bene, voglio dire), quando si è giovani, si frequentano scuole, corsi universitari, ecc., per prepararsi essenzialmente a svolgere un lavoro; le vocazioni di ciascuno di noi sono differenti, ed è questa differenza a creare la varietà, il cammino evolutivo (più o meno tortuoso...) e la ricchezza (non solo materiale) delle nostre società.
Se però la regola generale e irreversibile diventasse (voglio escludere l'ipotesi che sia già tale: soprattutto irreversibile...) l'impossibilità di scegliere il lavoro per il quale ci siamo preparati (e per il quale siamo certi di avere la vocazione), dovendoci invece "adattare" non per un periodo limitato ma per sempre a svolgere lavori sempre diversi e non appaganti (anche perché provvisori, sapendo in partenza che tali sono), avremmo ottenuto due risultati veramente deleteri, a mio avviso: da un lato, avremmo reso inutile l'istruzione e l'apprendistato (perché devo dedicare tempo a frequentare un corso di studi se sono quasi certo che non mi darà il "mio" lavoro, e dovrò subire quello impostomi, o ad apprendere una mansione che forse fra due mesi mi risulterà inutile?) e dall'altro avremmo sottratto al lavoro ogni possibilità (anche minima) di rappresentare la proiezione della personalità di chi lo svolge, il suo "campo" di realizzazione.
In pratica, avremmo nei fatti ridotto a zero la libertà (noi che tanto parliamo di libertà!) di realizzare sé stessi. Anzi, avremmo eliminato anche ogni pallida speranza di libertà in questo campo. Per tornare - bel guadagno davvero! - a un modello di società che promuove solo chi ha la fortuna di nascere ricco o nella famiglia giusta o con le "giuste entrature": riproposizione dell'Ancien Régime, con altre e nuove strategie, insomma.
Dicevo, e ribadisco, che forse può essere utile tornare a interrogarci sul senso del lavoro. Torniamo alla radice delle cose, per capire dov'è che ci siamo smarriti.
Il lavoro produce valore, ed è il tempo che ciascuno dedica a questa produzione di valore socialmente riconosciuta, sottraendolo ad altre occupazioni. Ma il lavoro è anche, al tempo stesso, lo spazio di realizzazione e di emancipazione, liberazione, che a ciascuno si offre.
Se noi nel tempo che impieghiamo nel lavoro non siamo coinvolti come persone (e lo subiamo come una sorta di corvée alla quale ci adattiamo per "pagare le bollette"), quel tempo viene sprecato irreversibilmente, anche se da qualche parte verrà "contabilizzato". Va sprecato però anche nel caso in cui quel tempo che noi impieghiamo non produce valore per gli altri (perché ad es. il lavoro è "fatto male" o non è adeguato alle necessità di chi lo commissiona o ne ha bisogno).
Il lavoro è proprio il "luogo della vita" nel quale si devono conciliare esigenze contrastanti e spesso reciprocamente confliggenti.
Tuttavia è nella capacità di conciliare libertà e necessità che si profila lo "specifico" del lavoro, nel suo senso più importante ed evoluto.
[Non mi addentro ulteriormente in queste riflessioni, che andrebbero approfondite secondo me, poiché preferisco qui concentrarmi sulle questioni attualmente in ballo.]
Non per caso le concezioni classiche del lavoro davano a quest'ultimo una valenza morale, prima ancora che economica; è solo a partire dall'introduzione dell'idea moderna di "mercato" (con Adam Smith, ecc.) che il lavoro diventa una pura funzione dell'economia di mercato, e si trasforma perciò semplicemente in una voce contabile all'interno dell'immensa partita di costi-ricavi-guadagni / perdite-benefici (quantificabili in termini puramente numerici) che è lo "scambio economico".
I moderni perciò parlano con disinvoltura di "mercato del lavoro", perché vedono il lavoro solo in rapporto alla raffigurazione ideal-matematica della "curva della domanda e dell'offerta".
E' certo che se il lavoro assume solo questa dimensione economico-ideal-matematica, da un lato il "datore di lavoro" lo misura solo o prevalentemente in termini di costi (sui quali "bisogna" risparmiare, è il caso di dire... ad ogni costo), e dall'altro il lavoratore lo vede ormai sempre più in termini di puro reddito (non legandolo quasi più ad alcuna idea di funzione sociale o di soddisfazione "spirituale" o comunque personale). Sono due facce (e due storture) della stessa medaglia (ammaccata).
In che senso dev'essere impiegato il tempo prezioso e irripetibile delle persone, che il lavoro rappresenta? all'interno di quale prospettiva generale di "crescita" e miglioramento collettivo? Oggi nessuno vuole più rispondere sensatamente a questa domanda. Anche chi ha responsabilità di governo si limita a blaterare formule che in sostanza dicono soltanto: "Bisogna arrangiarsi". Bella risposta, complimenti! O meglio, bella "non-risposta". Il governo si sottrae al proprio mestiere di assumersi responsabilità, e le scarica sull'altrui presunto dovere di "arrangiarsi" (a fare cosa, poi, se nessuno, in questa generale incertezza, sa più dove sta andando, e naviga a vista - in modo arrogante a volte, ma sempre improvvisato?). E allora, qual è il suo ruolo? Perché dovremmo avere un governo, alla fine? Le non-risposte possiamo benissimo darcele da soli, mi sembra.
Tracciare linee politiche generali - compito del governo e del Parlamento, ma anche del dibattito politico in senso lato - significherebbe ad esempio indicare quali sono i settori prioritari da sviluppare, e quindi in quali direzioni è opportuno incentivare l'impiego del tempo delle persone: in tal modo si contribuirebbe perlomeno (e sarebbe solo una politica "minima"!) a dare risalto e rilevanza, nonché motivazione, ad alcune attività di lavoro. Oggi si tende a non fare più neppure questo "minimo" (che sarebbe comunque poco).
Non ci si può trincerare dietro affermazioni/slogan come: "Il mercato vuole così" - "La globalizzazione lo impone" - "Ce lo chiede l'Europa" - "Mi dispiace per quei giovani precari che protestano, sono umanamente solidale con loro, ma devono abituarsi alla flessibilità, non li possiamo più illudere dicendo che troveranno il posto fisso" (quest'ultima affermazione, che ho trascritto più o meno fedelmente, l'ha fatta di recente in Tv una parlamentare della maggioranza: ma è un esempio fra i tanti - e non m'importa fare nomi, preferisco analizzare e criticare le tesi, i ragionamenti).
Non che le singole affermazioni non contengano qualche verità; ma sono, dal punto di vista politico, delle non-risposte. Come se il nostro destino fosse ormai semplicemente quello di subire ciò che, in un imprecisato altrove, entità altrettanto imprecisate hanno deciso in modo ormai inappellabile e irreversibile.
La politica non è infatti, e non può essere, semplice e rassegnata registrazione dell'esistente (ammesso e non concesso, poi, che questa "registrazione" sia fedele al vero al cento per cento...).
E ad esempio, flessibilità in sé vuol dire tutto e niente. Con questa parola ci si vuol dire che non dovremo avere più alcuna stabilità? Che diventeremo atomi fluttuanti di un ingranaggio che nessuno di noi potrà capire e governare?
(E quanti casi di follia avremo, in questa ipotesi, giacché non capiremo più il senso dei nostri percorsi di vita!...).
Oppure che ci sarà un periodo di "prova" nel quale dovremo essere flessibili, per poterci poi conquistare una stabilità? (Sarebbe già un discorso differente).
E perché - in base a quale modello di economia e società (discutibile come qualsiasi modello) - la stabilità, in assoluto, vale meno della flessibilità?
E la flessibilità, come principio assoluto e senza aggettivi, è quindi un "destino"? una condanna? un castigo divino? un meccanismo darwiniano in base al quale solo i meritevoli sopravviveranno, e gli altri dovranno semplicemente crepare?
Spiegate, signore e signori, spiegate, non siate tragicamente reticenti.
E poi, la politica deve solo restare a guardare? è questa la sua "condanna"? Non ha più progetti, speranze di cambiamento da offrire? Beh, io credo che questo sia solo un bluff voluto da chi ha interesse a mantenere certi rapporti di forza, ma se così non fosse, la politica sarebbe solo uno degli ingredienti per la depressione collettiva, e non potrebbe più esserne la via d'uscita.
E sarebbe un fatto grave. Ossia: quando le istituzioni si sottraggono ai loro doveri (di fornire risposte vere, di indicare speranze, prospettive...), pongono le premesse per malesseri sociali che possono avere sviluppi dolorosi per tutti.
In realtà ho l'impressione che in Paesi come l'Italia le istituzioni "specializzate" abbiano per prime smarrito la rotta: non sappiamo più chi vogliamo essere e di conseguenza in quale direzione dobbiamo dirigerci, e viviamo ormai alla giornata; il lavoro risente di questa generale incertezza.
Mi sembra infatti che oggi, rispetto al nostro ruolo nella società che il lavoro contribuisce a disegnare, siamo tutti/e alquanto smarriti e "indefiniti", come un disegno appena abbozzato. Nessuno, o quasi, si prende più la briga (come avveniva invece, in maniera magari talvolta rozza e incompleta, nelle società pre-industriali, non ancora dominate dall'economia "razionale") di insegnare ai giovani che il lavoro ha innanzitutto un senso e una funzione primaria nell'esistenza, che è legata all'impiego dell'unica risorsa il cui consumo risulta irreversibile e non rimpiazzabile - il tempo - impiego dal quale discende tra l'altro, ma non esclusivamente, una remunerazione (o correlativamente un costo).
Forse questo (questo genere di indicazione, di insegnamento, intendo), nelle condizioni attuali, ci è diventato impossibile, anche perché siamo rinchiusi (come prigionieri) nell'illusione che la libertà, alla quale teniamo tanto, sia sganciata da qualsiasi forma, da qualsiasi processo: e dimentichiamo che la libertà non si realizza al di fuori della nostra attività nel concreto, e cioè del lavoro innanzitutto.
A meno che qualcuno non pensi seriamente che possiamo "liberarci" senza fatica, senza percorsi e processi, trasformandoci per incanto in bolle che fluttuano nell'aria, vivendo... della stessa aria.
E se quel senso è diventato introvabile, e se quindi non possiamo più insegnare ciò che noi stessi abbiamo dimenticato e smarrito, non è difficile spiegarsi l'apatia (o il rigetto, a volte anche un po' cinico) delle giovani generazioni davanti al "mondo del lavoro". E' solo uno dei sintomi della "malattia", che si può curare solo se ci si prende cura del "paziente" nel suo insieme.
Non ci sono risposte già pronte, questo è chiaro; ma almeno bisogna cominciare a capire qual è la domanda giusta da porsi, perché la soluzione dei problemi comincia proprio da questa indagine. E per me le domande giuste sono appunto: Qual è il senso del lavoro? La nostra esistenza deve conformarsi a un modello economico-sociale prestabilito (e da chi, poi?) oppure deve valere il principio esattamente contrario (ovvero: è il modello economico-sociale che deve conformarsi alle esigenze della nostra realizzazione individuale e collettiva)? E inoltre, in quale direzione la nostra società vuole camminare? per raggiungere quale obiettivo?
Io credo che se continueremo a evitare di rispondere a queste domande (e in Italia siamo abili a dribblare le domande importanti), il lavoro non potrà sottrarsi al rischio di perdere progressivamente il suo valore (sociale, personale, economico, ecc.).
Con conseguenze non rosee, certamente.
Io credo che il punto chiave delle tue interessanti riflessioni sia proprio questo:
RispondiElimina"Non per caso le concezioni classiche del lavoro davano a quest'ultimo una valenza morale, prima ancora che economica; è solo a partire dall'introduzione dell'idea moderna di "mercato" (con Adam Smith, ecc.) che il lavoro diventa una pura funzione dell'economia di mercato, e si trasforma perciò semplicemente in una voce contabile all'interno dell'immensa partita di costi-ricavi-guadagni / perdite-benefici (quantificabili in termini puramente numerici) che è lo "scambio economico"."
Guarda, ti aggiungo questa considerazione, un estratto da "Nadja" di A. Breton:
"E non mi si parli, dopo tutto questo, del lavoro, voglio dire del valore morale del lavoro. Sono costretto ad accettare l'idea del lavoro come necessità materiale, a questo riguardo sono quanto mai favorevole alla sua migliore e più giusta ripartizione. Che le sinistre costrizioni della vita me lo impongano, passi, ma che mi si chieda di crederci, di onorare il mio o quello degli altri, mai. Preferisco, ancora una volta, camminare nella notte, piuttosto che credermi uno che cammina in pieno giorno. A nulla serve essere vivi, nel tempo in cui si lavora. L'evento dal quale ciascuno ha il diritto di attendersi la rivelazione del senso della propria vita, questo evento che forse non ho mai trovato ma sulla traccia del quale io cerco me stesso, non è a prezzo del lavoro".
Passo certamente molto suggestivo, ed anche condivisibile, perché no, se il lavoro in effetti, come viene visto oggi, è solo un trascorrere otto ore spersonalizzanti ed alienanti a svolgere mansioni per le quali non siamo portati, preparati, predisposti.
Ma allora forse la cesura tra lavoro come occupazione morale, che si configuri cioè come estensione della nostra persona, è avvenuta nel momento esatto in cui gli individui hanno smesso di essere considerati "persone con una loro complessità" per venire equiparati a semplici coefficienti economici nel ciclo della produzione.
La verità è che nel momento in cui è passato il messaggio che il lavoro doveva servire a fare soldi, allora le persone si sono sforzate di svolgere - ovviamente secondo le loro possibilità - di svolgere l'occupazione più redditizia. Purtroppo so di molti giovani che al momento di scegliere la facoltà universitaria, più che domandarsi cosa vorrebbero fare, si chiedono invece quale sia la richiesta più alta sul mercato al momento, e sulla base di questa scelgono il proprio corso di studi.
Si cerca il lavoro che possa far guadagnare più soldi, anziché quello che piace di più. E poi per forza di cose nasce la disaffezione, l'apatia, l'alienazione.
Il nocciolo della questione, secondo me, è da ricercarsi nel modello di vita propugnato dal capitalismo e consumismo.
Bisognerebbe invece iniziare a pensare che sarebbe bello attivarsi per svolgere davvero quello che ci piace, guadagnando meno certo, ma imparando anche a fare a meno del superfluo.
Inoltre ho constatato quanto lo svolgere un lavoro che non piace conduca poi ad una sorta di insoddisfazione e vuoto perenni, i quali vengono compensati con l'acquisto di beni di consumo. Il corto-circuito mentale che si instaura è questo: uffa, ho lavorato tutto il giorno, mi meriterò pure di togliermi qualche sfizio con quello che faticosamente guadagno, no?
... continua...
... segue da commento precedente...
RispondiElimina(scusa, ma ho dovuto fare così altrimenti blogspot non mi prendeva il commento. Troppe parole.)
So che potrà sembrarti che io stia andando fuori tema, ma non è così, perché l'incapacità della gente di ribellarsi a questa situazione del precariato, del facciamo qualsiasi lavoro basta che mi paghino, nasce proprio da questa visione consumistica e capitalistica del mondo.
E ovviamente la risposta è proprio quella di smettere di considerare l'essere umano come semplice coefficiente economico.
Il problema è che entrambe le ideologie del ventesimo secolo, capitalismo e comunismo (che sono le due facce della medesima medaglia) non hanno fatto altro che propugnare questa visione materialista del mondo, questa riduzione dell'essere umano ad elemento della produzione ed è difficile, oggi, re-iniziare a ragionare in termini di complessità dell'esistenza.
E certamente l'assuefazione ai modelli proposti dai media non aiuta a ragionare.
Anche in questo caso, mi trovo d'accordo con le tue riflessioni. E' vero che, come dici: "Si cerca il lavoro che possa far guadagnare più soldi, anziché quello che piace di più. E poi per forza di cose nasce la disaffezione, l'apatia, l'alienazione."
RispondiEliminaE si fa un grande errore, perché con il "mercato" e la sua logica, un lavoro che fa guadagnare molto oggi, domani potrebbe invece lasciarti disoccupato; e scopri (magari troppo tardi) di avere speso anni della tua vita a inseguire un traguardo effimero, che non ti ha lasciato nulla in termini di realizzazione dei propri ideali - anche perché c'è chi rinuncia a seguire la "voce" del proprio talento, per inseguire le "opportunità di guadagno", scoprendo poi di aver perso non solo il "guadagno", ma anche tante opportunità per realizzare le proprie vere aspirazioni.
C'era un pensatore italiano di fine '800-inizio '900, Rensi, che si interrogava sulla necessità/possibilità di superare la "condanna alla schiavitù" che il lavoro alienante e non appagante impone a tanti. E siamo, dopo decenni, ancora qui a interrogarci... ma è un tema troppo importante, non dobbiamo arrenderci, secondo me.