Frontespizio

Le conclusioni provvisorie sono come i massi che ci consentono di attraversare un piccolo fiume: saltiamo dall'una all'altra, e possiamo farlo di volta in volta solo perché i "massi" precedenti ci hanno portato a quel punto.

«Che cosa rimane del pensiero critico, se rinuncia alla tentazione di aggrapparsi a schemi mentali, a retoriche e ad apparati argomentativi prefabbricati e di sicuro effetto scenico (manicheismo, messianismo, settarismo, complottismo, moralismo e simili...)? Non perde forse la sua capacità di attrarre l'attenzione dell'uditorio distratto facendogli sentire il suono delle unghie che graffiano la superficie delle cose?» può domandarsi qualcuno.
No, al pensiero critico non servono “scene madri” né “effetti speciali”; anzi, quanto più si dimostra capace di farne a meno, tanto più riesce a far comprendere la fondatezza e l'urgenza dei propri interrogativi. (In my humble opinion, of course!)

lunedì 2 aprile 2012

Il moralismo, scorciatoia per smarrirsi. Commentando un libro di Valeria Ottonelli sul "femminismo moralista" / 2



Seconda parte

Non esiste solo un pluralismo politico, del quale tutte le persone democratiche sostengono la validità e la necessità; esiste anche un pluralismo delle scelte e dei modelli di vita (così come un pluralismo dei valori e degli orientamenti personali, ecc.), e non si può ammettere e difendere l'esistenza del primo senza ammettere, difendere e riconoscere la necessità e la piena legittimità del secondo.

Il pluralismo politico infatti, se si riduce a garantire soltanto l'esistenza di più partiti in Parlamento è un guscio vuoto; quei partiti differenti devono anche far riferimento e rispecchiare differenti modelli di vita, valori e orientamenti presenti nella società, dar loro voce. E anche indipendentemente da ciò che fanno o possono fare i partiti (giacché non possiamo immaginare che tutti svolgano compiutamente e correttamente il loro ruolo né che soltanto da questa compiutezza e correttezza di comportamento venga fatta dipendere in via di principio la garanzia del pluralismo), l'irriducibile pluralità dei pensieri, delle opinioni, dei modelli di vita è un fatto, che la democrazia (e con essa qualsiasi paradigma sociale e teorico che sia volto alla liberazione e all'emancipazione da ogni forma di oppressione) deve tenere in conto e rispettare in ogni àmbito e in ogni momento, se vuole essere coerente con i propri assunti e le proprie “fondamenta” ideali.


La riduzione di ciò che è costitutivamente plurale ad (arbitraria, fittizia, forzata) unità è, viceversa, propria dei regimi e dei paradigmi teorico-sociali di marca autoritaria; la svalutazione aprioristica e programmatica dei modelli di vita non conformi al proprio (che di solito, ma non necessariamente, è quello socialmente dominante), non intesa come critica (si badi bene: la critica è sempre legittima, ovviamente, essendo anch'essa una pratica di libertà) ma come “anatema” o denigrazione che configuri un qualche “abuso di ruolo” o l'uso di categorie che, con tipico atteggiamento moralista, istituiscano gerarchie indebitamente presentate come “oggettive” (“il modello di vita x è moralmente superiore al modello y per sua stessa natura”), è quindi caratteristica distintiva dell'autoritarismo (sul piano etico-morale come sul piano politico).

Tenendo conto di ciò, Valeria Ottonelli ci ricorda correttamente che, anche se in astratto su una qualche questione (ad es. nel difendere o nel condannare una particolare pratica sociale, o un comportamento o una determinata scelta diffusa) possiamo aver ragione, ciò non toglie che – se la detta questione rientra nel campo di ciò che è opinabile e affidato quindi alla libera interpretazione e opzione delle persone (non stiamo parlando qui di abusi, violenze, discriminazioni, ecc.) – dobbiamo accettare non solo l'esistenza ma anche la piena legittimità di scelte diverse dalla nostra in quel campo; non potremo mai fare in modo che tutta la società si uniformi alle nostre scelte e alle nostre preferenze né dobbiamo pretendere che tutto ciò che ci circonda nella società vibri in consonanza col nostro sentire, dobbiamo imparare a convivere con ciò che è dissonante rispetto al nostro modo di essere (che è fatto di svariati dettagli, quali un certo modo di esprimersi, un certo modo di vestire, determinate priorità di vita – ad es. preferire la lettura di un saggio a “due salti” in discoteca, o viceversa; ecc.), in quanto semplicemente altro e differente. Ognuno di noi in qualche modo si riconosce, anche per i dettagli, in una determinata “tribù” (solo qualche esempio: gli “intellettuali [di sinistra?]”, gli “yuppies o rampanti [di destra?]”, i tifosi di calcio, gli integralisti di qualche credo, gli “hackers” e gli “smanettoni”, i “rappers”, i “bikers”, gli “squatters”, i “maniaci” del fitness...) e prova disagio se si trova in compagnia di membri di un'altra “tribù”, giacché non ne comprende i valori, le usanze e perfino le movenze. E' un dato sociale e persino – per alcuni aspetti – antropologico, prima che politico.
Scrive saggiamente la studiosa:

«Vorrei che ci mettessimo il cuore in pace. Nel mondo – non solo in Italia, ma nel mondo tutto – ci sono diverse classi sociali, diversi gruppi e diverse prospettive della realtà. Al loro interno coltivano segni di riconoscimento, tic e forme di sotto-cultura che rendono i loro membri facilmente identificabili come appartenenti al gruppo, ma anche assolutamente indistinguibili fra di loro, se visti dall'esterno. Membri di sotto-culture e tribù diverse tendono a darsi sui nervi e a riconoscersi come stereotipi» [Ottonelli 2011, p. 47].

Anche per questo motivo, non è detto che un uomo comprenda perfettamente o approvi le motivazioni, i vissuti, i pensieri di qualunque altro uomo, né è detto che una donna comprenda perfettamente o approvi le motivazioni, i vissuti, i pensieri di qualunque altra donna. Le “tribù” nelle quali siamo suddivisi sono molteplici, non coincidono con la nostra semplice identità di genere, e non necessariamente si trovano fra loro reciprocamente simpatiche.

[E, sia detto per inciso, è sempre per questo che i discorsi che si basano su contrapposizioni costruite per generalizzazioni, del tipo “noi uomini pensiamo o facciamo x / mentre voi donne pensate o fate y”, e viceversa (“noi donne / voi uomini”), sono di solito poco sensati, utili soltanto a ribadire gli stereotipi nei quali una certa categoria di uomini o di donne si riconosce, e a cercare l'assenso di una qualche platea “amica”, che ammicchi all'uso di quegli stessi stereotipi; ma niente di più – perché con quelle asserzioni s'intende “tutti gli uomini, per natura e in qualsiasi caso” e “tutte le donne, per natura e in qualsiasi caso”. Un qualche significato quelle affermazioni potrebbero averlo se invece le si interpretasse così: “Càpita che gli uomini (o le donne) facciano x”, ovvero “Ci sono uomini (o ci sono donne) che in qualche caso verificato per esperienza (o anche in molteplici casi) fanno o pensano o dicono x” – il che equivale a dire anche che “non tutti gli uomini, in quanto uomini (fanno, dicono, ecc.)” o “non tutte le donne, in quanto donne (ecc.)”, e “non in ogni caso”.]

Fin qui comunque la critica di Valeria Ottonelli al femminismo moralista, anche se certamente può suscitare reazioni da parte di coloro che vengono direttamente investite dalle sue osservazioni, o può creare irritazione fra alcune/i intellettuali direttamente colpite/i da certi rilievi energici (come l'accusa di essere antidemocratiche/antidemocratici e di disprezzare sotterraneamente il volgo, proprio come i loro bisavoli duecento anni fa), non tocca il nervo “maggiormente scoperto” (in quanto “socialmente trasversale”) della questione. Lo fa invece subito dopo, quando affronta il nodo del confronto – caro appunto non solo al femminismo moralista, ma a tutto l'universo moralista in genere – che vede contrapposte, da un lato, le donne che si sacrificano studiando duramente per raggiungere “l'eccellenza” e arrivare quindi ai gradini più alti o comunque più prestigiosi delle professioni e della scala sociale e, dall'altro, le donne che puntano solo sulla loro avvenenza fisica e sulla loro disponibilità ad accontentare richieste “particolari” di uomini ricchi e potenti, per accumulare agi e ricchezze e vivere nel lusso (e secondo l'etica comune del lavoro, sostanzialmente “senza far niente”, senza avere “una vera occupazione”).

Poiché sostanzialmente condividiamo tutti, quasi “in automatico”, l'etica del lavoro (e del sacrificio), ci sembra che in questo caso il moralismo veda giusto, e che non ci sia dunque nulla da eccepire al suo discorso.

Ebbene, anche in questo caso Valeria Ottonelli ci fa notare che invece la contrapposizione ideale (quasi un “match perfetto”, in apparenza, Bene vs. Male) fra la donna “che si sacrifica” (non per portare il pane a casa, attenzione, ma) per arrivare alle posizioni più ambite e prestigiose e la donna che arriva a godere di lussi “senza far niente” solo perché “amica particolare” di potenti, contiene qualche insopportabile “nota stonata”.

Scrive infatti:

«I termini della questione [...] riguardano [la distinzione] fra una concezione della giustizia economica e sociale che impone di dare a ciascuno quello che gli spetta per il suo lavoro e una concezione morale – che va forte in certi ambienti conservatori – per cui nella vita bisogna “fare sacrifici”, “farsi un mazzo così”, “raggiungere l'eccellenza” ed “essere fra i più capaci e meritevoli”. Le pene delle donne che non ricevono quello che è loro dovuto secondo giustizia, ossia secondo la prima concezione, sono un problema serio e grave, che riguarda tutti; le pene delle donne che fanno “tanti sacrifici” e non vengono premiate dal plauso pubblico, invece, sono un problema che non è di rilevanza pubblica. Può spiacere per loro, se non si sentono valorizzate per i loro sforzi sovrumani per raggiungere successo, prestigio, eccellenza (ma non basta, aver raggiunto queste cose?); però non possono aspettarsi che la loro morale del sacrificio e dell'eccellenza diventi l'unica o la principale base delle relazioni economiche e istituzionali nella nostra società, perché si tratta di una morale settaria che è legittimo non condividere» [Ottonelli 2011, pp. 57-58].

In effetti, se ci pensiamo, non sono tirate in causa da questo discorso – da questo “match” – le donne lavoratrici in genere (comprese quindi le operaie, le artigiane, le impiegate, le commesse, ecc.), ma soltanto le donne votate alla competizione per raggiungere i vertici delle professioni più prestigiose e remunerative, che hanno certo compiuto sacrifici per raggiungere quelle posizioni (studiare porta via tempo, sottratto ad altre occupazioni, ma anche denaro), ma l'hanno fatto in base a un'etica della professione e del sacrificio che hanno liberamente abbracciato, e che però non tutte le donne – e non tutti gli uomini, d'altra parte – sono tenute ugualmente ad abbracciare.
In questo senso, si tratta – per usare le parole di V. Ottonelli – di «una morale settaria», una morale di pochi e per pochi (coloro che si sentono vocati per quel tipo di sacrifici), che non tutte/i sono tenute/i a condividere (e non sono tenute a condividerla neanche le operaie, le contadine, le parrucchiere, ecc., donne anch'esse, e certamente non “bad girls”).

E, come la studiosa tiene giustamente a sottolineare, ciò che va difeso, perché riguarda realmente tutte le donne (e tutti gli uomini), è il fondamentale principio di giustizia sociale, «che impone di dare a ciascuno quello che gli spetta per il suo lavoro», giacché si tratta di un principio universale; non ha altrettanta rilevanza (e non è certo un principio parimenti “universale”) la rivendicazione di chi vuole, oltre al prestigio e al successo professionale (che già ha!), anche stare pubblicamente un gradino sopra rispetto a tutti gli altri (e non accetta altri, provenienti da altri ranghi e altre “competizioni”, sopra di sé).

Questa è forse la critica più difficile da comprendere, e forse molti non la comprenderanno, in effetti.

Però forse non ci si chiede: ma il lusso della “cortigiana” cosa toglie al prestigio della donna che si è affermata in difficili professioni studiando, e ottenendo poi anche buone soddisfazioni economiche? Perché queste diverse categorie di donne vengono messe reciprocamente e forzatamente in competizione? Non è forse la “competizione” stessa il problema, il porsi come obiettivo ultimo delle nostre vite la scalata e la “competitività”, fin oltre i limiti di ogni ragionevolezza? Non si dovrebbe forse spostare in questa direzione il nostro sguardo critico?

Valeria Ottonelli spiega così le ragioni recondite di questo discutibile “match” simbolico:

«[...] c'è effettivamente un rapporto di causa ed effetto fra il destino delle giovani che si guadagnano da vivere – e anche molto di più – perché belle e disponibili, e quello delle donne dedite alla carriera da “intelligenti” […]. Se le prime riescono a spuntarla, le seconde non riescono a proporsi come unico modello di vita» [Ottonelli 2011, p. 59].

Forse si rischia ancora una volta di utilizzare le donne, o alcune categorie “simboliche” di donne (e in fondo l'eterno dualismo sessista “sante vs. meretrici”, solo aggiornato ai tempi), per una battaglia che non riguarda direttamente loro, le loro scelte, i loro vissuti, ma li utilizza a proprio uso e consumo. Si tratta infatti di una lotta per l'egemonia di un particolare modello di vita, che vogliono farci passare per “normale” e anzi “unico possibile”.

Ci viene da tempo inculcato e ribadito instancabilmente, da parte di un certo paradigma “produttivistico” ed “efficientistico” nella sua versione retorico-moralista a vocazione pedagogica, che tutti, uomini e donne, dobbiamo tendere al “vertice”, all'eccellenza, e per questa scalata dobbiamo impegnare tutte le nostre energie, sapendo che solo “i migliori” saranno prescelti; non solo, ma dobbiamo anche convincerci che questa scalata verso “l'eccellenza”, che comporta gratificazioni in termini (fra l'altro) di status sociale, reputazione pubblica e (buona) remunerazione sia l'unico autentico modello di vita, che tutti dobbiamo assimilare e intimamente far nostro, respingendo ai margini del comprensibile e del socialmente ammissibile tutti gli altri, a seconda dei casi, come modelli “inferiori” o intrinsecamente sbagliati o “cattivi” o “immorali”.
Chi non s'impegna a sufficienza nell'“universale scalata” o peggio la rifiuta deve accettare di essere considerato “minore”, persona socialmente di secondo rango.

Le regole non scritte di questa “lotta per l'egemonia” (anzi, tendenzialmente per la conquista del “monopolio”) fra modelli di vita differenti prevedono non solo che ci possa e ci debba essere “un solo vincitore”, ma che i modelli “perdenti” debbano essere spazzati via, considerati dal senso comune e dalla “morale” come inammissibili, indegni, “non veri”, “non decenti”, impresentabili e insostenibili. E' una lotta, insomma, che non fa prigionieri, e che il “match” artificioso criticato da V. Ottonelli contribuisce a confermare e a legittimare acriticamente.

(E attenzione, perché il modello per il quale si fa il “tifo” cambia a seconda delle preferenze culturali e ideologiche dei soggetti “proponenti”, ma non cambia la logica di fondo di questa “lotta”, logica antidemocratica e anzi decisamente autoritaria, che non a caso impera fra i tradizionalisti integralisti: costoro, infatti, vorrebbero che il modello vincente e “monopolista”, che a loro dire dovrebbe spazzar via e “delegittimare” tutti gli altri, fosse quello delle “brave donne di una volta”, tutte dedite alla casa, alla famiglia e alla cura del marito-padre-padrone.)

Come dicevo, Valeria Ottonelli nel suo testo ricorre a quattro casi esemplari per disegnare i contorni del femminismo moralista; oltre a quello già citato, sul quale ci si è qui soffermati più a lungo, la studiosa analizza, come secondo fenomeno tipico, la tendenza sempre più diffusa ad entrare nel “privato” dei politici per misurare la congruenza e la qualità della loro attività pubblica; poi passa a trattare la questione delle badanti (e il luogo comune, da lei egregiamente “smantellato”, secondo il quale queste ultime si occuperebbero del lavoro di cura che le donne italiane e occidentali ormai trascurerebbero “per la carriera”) e infine si occupa del “femminismo familista”.

Non potendo in questo spazio ripercorrere dettagliatamente tutti i passaggi dell'interessante discorso dell'autrice, tocchiamo sinteticamente ancora alcuni punti.

Valeria Ottonelli s'interroga criticamente sull'uso che oggi si fa del vecchio slogan femminista secondo il quale “il personale è politico” e quindi sui dubbi vantaggi politici che proverrebbero dal confondere la sfera personale del politico con la sua attività pubblica.

Come la studiosa ricorda [Ottonelli 2011, pp. 62-63], quello che lo slogan femminista “il personale è politico”, nella sua formulazione originaria, tendeva a sostenere era che le disparità, le ingiustizie e gli “squilibri” che si annidano nei rapporti interpersonali non possono essere relegati alla sfera del “privato”, quando – lungi dall'essere soltanto lo specchio e il risultato di “libere contrattazioni” fra due soggetti (uomo e donna) astrattamente liberi ed eguali – riproducono in realtà un modello sociale abbastanza pervasivo, che riguarda soprattutto la “divisione dei ruoli” fra i generi, e che non può più essere condiderato un dato “naturale” e un presupposto della società, ma deve esso stesso essere pubblicamente, politicamente, rimesso in discussione.

Il personale è politico” non significa invece – anche se purtroppo questo è il senso prevalente e distorto che a quello slogan oggi si dà – che ogni atto compiuto fra le mura domestiche da un politico o da una persona pubblica (o anche da una persona comune) sia di rilevanza politica; non significa insomma “guardare dal buco della serratura” la vita del potente di turno, e giudicarla, come se da questo giudizio sull'intimità potessero discendere (chissà perché) conseguenze politicamente rilevanti, o come se questo giudizio fosse indispensabile e di prioritaria importanza per valutare la condotta politica del soggetto in questione.

Fatti salvi i casi di comportamenti penalmente rilevanti (che dovrebbero costringere il politico che se ne renda responsabile ad abbandonare ogni incarico pubblico), non è affatto dimostrato – argomenta V. Ottonelli – che la condotta privata “discutibile” o “censurabile” del politico condizioni di per sé e in ogni caso la sua attività pubblica. Se infatti non ci lasciamo influenzare eccessivamente da ciò che è accaduto in Italia negli ultimi anni col berlusconismo – caso molto particolare – e allarghiamo la nostra analisi ad altri contesti, possiamo constatare che talora un politico che nella sua vita privata sembra dare l'avallo ai peggiori stereotipi sessisti, può sostenere comunque efficacemente nella sua attività pubblica le battaglie e le rivendicazioni delle donne. Ad esempio – sostiene la studiosa – è accaduto con Clinton. La politica, anche in questo campo, impone di essere duttili e pragmatici, e di badare a ciò che sul piano puramente politico realmente conta:

«Se vogliamo porre la questione da un punto di vista puramente pragmatico e strumentale, e quello che ci interessa è avere legislazione e risorse a nostro favore, per migliorare le nostre opportunità di vivere la vita che vogliamo e di essere felici, allora ci dobbiamo rendere conto che il fatto che un uomo nel privato metta in pratica comportamenti e stili di vita associati a cliché maschilisti non significa che non possa essere usato come alleato delle donne nella sua vita pubblica di parlamentare e politico» [Ottonelli 2011, p. 70].

Si tratta infatti di piani distinti, che solo un discorso impregnato di moralismo può confondere. Il politico nella sua attività pubblica svolge infatti un ruolo, ed è questo che va analizzato e giudicato; il ruolo va infatti sempre accuratamente distinto dalla persona (complessivamente intesa come un universo morale).

Concentrandosi poi sulle contraddizioni di quello che ella definisce “femminismo familista”, Valeria Ottonelli si interroga sul senso di alcune proposte di riforma improntate a quest'ottica, come il “congedo di paternità”. Per alcuni versi, si tratta di un'innovazione legislativa importante, ma se il miglioramento della condizione delle donne e specialmente delle madri viene fatto dipendere unicamente da misure come questa, in realtà – afferma la studiosa – non si fa che ribadire lo stereotipo del familismo tradizionalista, in base al quale la donna può essere madre solo nel quadro di un rapporto di coppia (eterosessuale) stabile, preferibilmente coniugale.

Inoltre, misure legislative come quella citata partono da un presupposto fondamentalmente errato – che scaturisce dal modo di ragionare tipico del moralismo, femminista o non – ovvero dall'idea che ogni questione sociale si possa risolvere attraverso una qualche forma di coercizione esercitata dallo Stato e sancita da una qualche legge (ad ogni problema corrisponderebbe insomma per forza di cose una qualche soluzione ottimale in termini di sanzione e coercizione legislativa: secondo questa concezione, basta solo applicarsi a trovare questa soluzione, scrivere la legge appropriata, et voilà, il problema è risolto!). E invece, come ci ricorda la studiosa, la legge non può letteralmente “ogni cosa” (anzi – possiamo aggiungere – ricorrere scriteriatamente a soluzioni legislative anche laddove queste ultime sono palesemente ridondanti o inefficaci [già a monte, indipendentemente dalla loro concreta applicazione] rischia di svalutare il potere simbolico delle leggi):

«Bisogna ricordarsi, anche in queste materie, che cosa può e che cosa non può fare la legge. Dimenticarlo è un tipico prodotto dell'atteggiamento moralista, che spesso è basato su una visione gravemente distorta dei limiti della coercizione da parte dello stato, oppure su aspettative eccessivamente ottimistiche, per non dire fantasiose, sul suo potere di convincimento e di insegnamento morale. Non è affatto sufficiente che la legge imponga ai padri di stare a casa perché gli uomini si convertano a uno stile di vita familiare diverso da quello che hanno visto praticare nelle loro famiglie di origine e nella loro esperienza fino a questo momento» [Ottonelli 2011, p. 99].

E per tornare alla questione della maternità, V. Ottonelli spiega che se si vuole realmente sostenere la scelta e l'autodeterminazione delle donne, di tutte le donne, e quindi la loro libertà nel decidere tempi e condizioni di una loro maternità consapevole, bisogna piuttosto guardare all'esempio di Paesi nei quali tale scelta non viene subordinata all'esistenza di un rapporto di coppia stabile; nei Paesi scandinavi, dove la natalità non subisce la stessa crisi che in Italia, le donne – e non sarà un caso – sapendo di poter contare su una rete di sostegni sociali e statali alla loro maternità, fanno figli in giovane età, prima ancora di entrare nel mercato del lavoro e di costituire una coppia stabile con un uomo: cose che faranno eventualmente in séguito, senza problemi. Dunque le donne scandinave non devono fare rinunce, possono avere figli e lavoro e matrimonio (o convivenza stabile) ma nell'ordine che decidono loro, e senza dover subire, come da noi, i sottili condizionamenti sociali e culturali, e il “fiato sul collo”, del tradizionalismo e del moralismo familisti [cfr. Ottonelli 2011, pp. 101-102].

Da questo punto di vista, poi, secondo Valeria Ottonelli, il riconoscimento delle convivenze, ad es. con i PACS, pur costituendo una tappa di progresso civile, non fa che ribadire, in una maniera più adatta ai tempi, il modello della famiglia, e quindi non rappresenta in questo senso una vera forma di garanzia della “libera scelta” delle donne (di pensarsi madri anche al di fuori del rapporto con un partner) [cfr. Ottonelli 2011, pp. 103-104].

E sempre a proposito delle contraddizioni del “femminismo familista”, la studiosa evidenzia come, nel considerare il “fardello” che grava sulle donne nelle nostre società, si parli genericamente di “lavoro domestico”, senza quasi mai distinguere opportunamente il lavoro di cura da quello domestico vero e proprio; se si opera questa distinzione (che nessuno di solito fa), e se si parte dal dato che «la quantità complessiva di lavoro dedicato alle faccende domestiche in Italia è molto maggiore di quella degli altri paesi europei», si arriva a concludere che «in Italia c'è sicuramente una ripartizione iniqua o diseguale del lavoro domestico, ma c'è anche un sacco di lavoro domestico inutile o superfluo» [cfr. Ottonelli 2011, pp. 110-111].

E' anche questo un discorso che probabilmente incontra particolari resistenze (anche culturali) nel nostro Paese (un altro “tabù”).

Non tutti i lavori domestici sono una vera “necessità”; alcuni di essi sono imposti semplicemente da certe convenzioni tramandate, da un discutibile modello di vita, e talora sono legati al possesso (o al desiderio di scimmiottare o simulare il possesso) di un certo status sociale; e quindi le donne (ma anche gli uomini), anziché accettarli come inevitabili, farebbero bene a rimetterne in discussione il senso e l'opportunità.
Come scrive la studiosa:

«Intendo semplicemente dire che si tratta di un lavoro che potrebbe anche non essere svolto, senza gravi privazioni per nessuno, e che è svolto per ragioni che hanno poco a che fare con la riproduzione o il sostentamento della famiglia, ma hanno invece molto a che fare con la perpetuazione di standard sociali e di indicatori di status ereditati dall'estetica della famiglia borghese. […] Ci sono parecchi lavori domestici che qui in Italia vengono considerati assolutamente indispensabili e che in altri paesi sono dimenticati da tempo» [Ottonelli 2011, p. 111].

Anche il discorso sul “lavoro domestico” (e di conseguenza sul “fardello” che le donne sopportano, in casa e fuori) rischia perciò, a ben vedere, di scivolare in una fumosa retorica, che non permette un'analisi del reale stato di cose (né permette di dar conto della “specificità italiana”) e quindi di uscire dal campo sterile delle proclamazioni astratte, quando non prende atto delle caratteristiche peculiari che tale lavoro ha da noi. In sostanza, il fardello del lavoro domestico è così pesante da noi perché mira a mantenere in vita e a riprodurre, nel quadro di una retorica della quale quasi nessuno sembra riuscire a fare a meno, un modello di famiglia basata sul bien vivre che richiede elevati costi (anche in termini di tempo da spendere, e sacrifici) [in concreto, la studiosa fa qualche esempio di “lavoro domestico inutile”: cfr. Ottonelli 2011, pp. 113-114].

Forse – questo il suggerimento proveniente dall'analisi di Valeria Ottonelli – dovremmo arrivare a comprendere che liberarci da certi condizionamenti della retorica dominante, incrostata di moralismo, significa anche liberare concretamente le vite delle donne e di noi tutti.

E senz'altro un'analisi come questa aiuta a capire i guasti che certe retoriche moraliste producono, soprattutto sulla lunga distanza; il metodo adottato da V. Ottonelli nel ribattere criticamente al “femminismo moralista” potrebbe essere utilmente adottato anche per “disintossicarci” dall'ubriacatura moralista che ha influenzato in questi ultimi anni l'analisi di fenomeni politici e sociali come quello della corruzione (ridotto ormai, attraverso la “porta stretta” delle abituali categorie interpretative del moralismo, ad una specie di alternativa secca: casta sì / casta no, che avrebbe la pretesa di spiegare tutto ed esaurire ogni discorso).


Testi citati:

- [Ottonelli 2011]: V. Ottonelli, La libertà delle donne. Contro il femminismo moralista, Il Melangolo, Genova.

- [Pazé 2011]: V. Pazé, In nome del popolo. Il problema democratico, Editori Laterza, Roma-Bari.





Nota a margine
Segue ora, in un post a parte, una “nota a margine”, che integra, da un altro punto di vista, le considerazioni fatte in questo post e nel precedente, anche se non è direttamente connessa alle tesi di V. Ottonelli che ho commentato qui. E per questo la definisco “a margine” – per questo, ma anche perché si tratta di questioni “laterali”, per così dire (non necessariamente e letteralmente “marginali”, però), rispetto al tema centrale del post.


La libertà di non vendersi (ovvero: né moralismo, né "mercatismo")

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