Seconda parte
Non
esiste solo un pluralismo politico, del quale tutte le persone
democratiche sostengono la validità e la necessità; esiste anche un
pluralismo delle scelte e dei modelli di vita (così come un
pluralismo dei valori e degli orientamenti personali, ecc.), e non si
può ammettere e difendere l'esistenza del primo senza ammettere,
difendere e riconoscere la necessità e la piena legittimità del
secondo.
Il
pluralismo politico infatti, se si riduce a garantire soltanto
l'esistenza di più partiti in Parlamento è un guscio vuoto; quei
partiti differenti devono
anche far riferimento e rispecchiare differenti
modelli di vita, valori e orientamenti presenti nella società, dar
loro voce. E anche indipendentemente da ciò che fanno o possono fare
i partiti (giacché non possiamo immaginare che tutti svolgano
compiutamente e correttamente il loro ruolo né che soltanto da
questa compiutezza e correttezza di comportamento venga fatta
dipendere in via di principio la garanzia del pluralismo),
l'irriducibile pluralità
dei pensieri, delle opinioni, dei modelli di vita è un fatto, che la
democrazia (e con essa qualsiasi paradigma sociale e teorico che sia
volto alla liberazione e all'emancipazione da ogni forma di
oppressione) deve tenere in conto e rispettare in ogni àmbito e in
ogni momento, se vuole essere coerente con i propri assunti e le
proprie “fondamenta” ideali.
La
riduzione di ciò che è costitutivamente
plurale ad (arbitraria, fittizia, forzata) unità è, viceversa,
propria dei regimi e dei paradigmi teorico-sociali di marca
autoritaria; la svalutazione aprioristica e programmatica dei modelli
di vita non conformi al proprio (che di solito, ma non
necessariamente, è quello socialmente dominante), non intesa come
critica (si badi bene: la critica è sempre legittima, ovviamente,
essendo anch'essa una pratica di libertà) ma come “anatema” o
denigrazione che configuri un qualche “abuso di ruolo” o l'uso di
categorie che, con tipico atteggiamento moralista, istituiscano
gerarchie indebitamente presentate come “oggettive” (“il
modello di vita x è
moralmente superiore
al modello y per sua
stessa natura”), è quindi
caratteristica distintiva dell'autoritarismo (sul piano etico-morale
come sul piano politico).
Tenendo
conto di ciò, Valeria Ottonelli ci ricorda correttamente che, anche
se in astratto su una qualche questione (ad es. nel difendere o nel
condannare una particolare pratica sociale, o un comportamento o una
determinata scelta diffusa) possiamo aver ragione, ciò non toglie
che – se la detta questione rientra nel campo di ciò che è
opinabile e affidato quindi alla libera interpretazione e opzione
delle persone (non stiamo parlando qui di abusi, violenze,
discriminazioni, ecc.) – dobbiamo accettare non solo l'esistenza ma
anche la piena legittimità
di scelte diverse dalla nostra in quel campo; non potremo mai fare in
modo che tutta la società si uniformi alle nostre scelte e alle
nostre preferenze né dobbiamo pretendere che tutto ciò che ci
circonda nella società vibri in consonanza col nostro sentire,
dobbiamo imparare a convivere con ciò che è dissonante rispetto al
nostro modo di essere (che è fatto di svariati dettagli, quali un
certo modo di esprimersi, un certo modo di vestire, determinate
priorità di vita – ad es. preferire la lettura di un saggio a “due
salti” in discoteca, o viceversa; ecc.), in quanto semplicemente
altro e differente.
Ognuno di noi in qualche modo si riconosce, anche per i dettagli, in
una determinata “tribù” (solo qualche esempio: gli
“intellettuali [di sinistra?]”, gli “yuppies o rampanti [di destra?]”, i tifosi di calcio, gli integralisti di qualche credo,
gli “hackers” e gli “smanettoni”, i “rappers”, i
“bikers”, gli “squatters”, i “maniaci” del fitness...) e
prova disagio se si trova in compagnia di membri di un'altra “tribù”,
giacché non ne comprende i valori, le usanze e perfino le movenze.
E' un dato sociale e persino – per alcuni aspetti –
antropologico, prima che politico.
Scrive saggiamente la
studiosa:
«Vorrei
che ci mettessimo il cuore in pace. Nel mondo – non solo in Italia,
ma nel mondo tutto – ci sono diverse classi sociali, diversi gruppi
e diverse prospettive della realtà. Al loro interno coltivano segni
di riconoscimento, tic e forme di sotto-cultura che rendono i loro
membri facilmente identificabili come appartenenti al gruppo, ma
anche assolutamente indistinguibili fra di loro, se visti
dall'esterno. Membri di sotto-culture e tribù diverse tendono a
darsi sui nervi e a riconoscersi come stereotipi» [Ottonelli
2011, p. 47].
Anche
per questo motivo, non è detto che un uomo comprenda perfettamente o
approvi le motivazioni, i vissuti, i pensieri di qualunque altro
uomo, né è detto che una donna comprenda perfettamente o approvi le
motivazioni, i vissuti, i pensieri di qualunque altra donna. Le
“tribù” nelle quali siamo suddivisi sono molteplici, non
coincidono con la nostra semplice identità di genere, e non
necessariamente si trovano fra loro reciprocamente simpatiche.
[E,
sia detto per inciso, è sempre per questo che i discorsi che si
basano su contrapposizioni costruite per generalizzazioni, del tipo
“noi uomini pensiamo o
facciamo x /
mentre voi donne pensate
o fate y”, e
viceversa (“noi donne
/ voi uomini”),
sono di solito poco sensati, utili soltanto a ribadire gli stereotipi
nei quali una certa categoria di uomini o di donne si riconosce, e a
cercare l'assenso di una qualche platea “amica”, che ammicchi
all'uso di quegli stessi stereotipi; ma niente di più – perché
con quelle asserzioni s'intende “tutti gli uomini, per
natura e in qualsiasi caso” e “tutte le donne, per
natura e in qualsiasi caso”. Un qualche significato quelle
affermazioni potrebbero averlo se invece le si interpretasse così:
“Càpita che gli uomini (o le donne) facciano x”,
ovvero “Ci sono uomini (o ci sono
donne) che in qualche
caso verificato per esperienza (o anche in molteplici casi) fanno
o pensano o dicono
x” – il che equivale a dire
anche che “non tutti
gli uomini, in quanto uomini
(fanno, dicono, ecc.)” o “non
tutte le donne, in quanto donne
(ecc.)”, e “non in
ogni caso”.]
Fin
qui comunque la critica di Valeria Ottonelli al femminismo moralista,
anche se certamente può suscitare reazioni da parte di coloro che
vengono direttamente investite dalle sue osservazioni, o può creare
irritazione fra alcune/i intellettuali direttamente colpite/i da
certi rilievi energici (come l'accusa di essere
antidemocratiche/antidemocratici e di disprezzare sotterraneamente il
volgo, proprio come i loro bisavoli duecento anni fa), non tocca il
nervo “maggiormente scoperto” (in quanto “socialmente
trasversale”) della questione. Lo fa invece subito dopo, quando
affronta il nodo del confronto – caro appunto non solo al
femminismo moralista, ma a tutto l'universo moralista in genere –
che vede contrapposte, da un lato, le donne che si sacrificano
studiando duramente per raggiungere “l'eccellenza” e arrivare
quindi ai gradini più alti o comunque più prestigiosi delle
professioni e della scala sociale e, dall'altro, le donne che puntano
solo sulla loro avvenenza fisica e sulla loro disponibilità ad
accontentare richieste “particolari” di uomini ricchi e potenti,
per accumulare agi e ricchezze e vivere nel lusso (e secondo l'etica
comune del lavoro, sostanzialmente “senza far niente”, senza
avere “una vera occupazione”).
Poiché
sostanzialmente condividiamo tutti, quasi “in automatico”,
l'etica del lavoro (e del sacrificio), ci sembra che in questo caso
il moralismo veda giusto, e che non ci sia dunque nulla da eccepire
al suo discorso.
Ebbene,
anche in questo caso Valeria Ottonelli ci fa notare che invece la
contrapposizione ideale (quasi un “match perfetto”, in apparenza,
Bene vs. Male) fra la
donna “che si sacrifica” (non per portare il pane a casa,
attenzione, ma) per arrivare alle posizioni più ambite e prestigiose
e la donna che arriva a godere di lussi “senza far niente” solo
perché “amica particolare” di potenti, contiene qualche
insopportabile “nota stonata”.
Scrive
infatti:
«I
termini della questione [...]
riguardano [la distinzione] fra una concezione della giustizia
economica e sociale che impone di dare a ciascuno quello che gli
spetta per il suo lavoro e una concezione morale – che va forte in
certi ambienti conservatori – per cui nella vita bisogna “fare
sacrifici”, “farsi un mazzo così”, “raggiungere
l'eccellenza” ed “essere fra i più capaci e meritevoli”. Le
pene delle donne che non ricevono quello che è loro dovuto secondo
giustizia, ossia secondo la prima concezione, sono un problema serio
e grave, che riguarda tutti; le pene delle donne che fanno “tanti
sacrifici” e non vengono premiate dal plauso pubblico, invece, sono
un problema che non è di rilevanza pubblica. Può spiacere per loro,
se non si sentono valorizzate per i loro sforzi sovrumani per
raggiungere successo, prestigio, eccellenza (ma non basta,
aver raggiunto queste cose?); però non possono aspettarsi che la
loro morale del sacrificio e dell'eccellenza diventi l'unica o la
principale base delle relazioni economiche e istituzionali nella
nostra società, perché si tratta di una morale settaria che è
legittimo non condividere» [Ottonelli 2011, pp. 57-58].
In
effetti, se ci pensiamo, non sono tirate in causa da questo discorso
– da questo “match” – le donne lavoratrici in genere
(comprese quindi le operaie, le artigiane, le impiegate, le commesse,
ecc.), ma soltanto le donne votate alla competizione
per raggiungere i vertici delle professioni più prestigiose e
remunerative, che hanno certo compiuto sacrifici per raggiungere
quelle posizioni (studiare porta via tempo, sottratto ad altre
occupazioni, ma anche denaro), ma l'hanno fatto in base a un'etica
della professione e del sacrificio che hanno liberamente
abbracciato, e che però non
tutte le donne – e non tutti
gli uomini, d'altra parte – sono tenute ugualmente ad abbracciare.
In
questo senso, si tratta – per usare le parole di V. Ottonelli –
di «una morale settaria», una morale di pochi e per pochi (coloro
che si sentono vocati per quel tipo di sacrifici), che non tutte/i
sono tenute/i a condividere (e non sono tenute a condividerla neanche
le operaie, le contadine, le parrucchiere, ecc., donne anch'esse, e
certamente non “bad girls”).
E,
come la studiosa tiene giustamente a sottolineare, ciò che va
difeso, perché riguarda realmente tutte le donne (e tutti gli
uomini), è il fondamentale principio di giustizia sociale, «che
impone di dare a ciascuno quello che gli spetta per il suo lavoro»,
giacché si tratta di un principio universale; non ha altrettanta
rilevanza (e non è certo un principio parimenti “universale”) la
rivendicazione di chi vuole, oltre al prestigio e al successo
professionale (che già ha!), anche stare pubblicamente un gradino
sopra rispetto a tutti gli altri (e non accetta altri, provenienti da
altri ranghi e altre “competizioni”, sopra di sé).
Questa è forse la critica
più difficile da comprendere, e forse molti non la comprenderanno,
in effetti.
Però
forse non ci si chiede: ma il lusso della “cortigiana” cosa
toglie al prestigio della donna che si è affermata in difficili
professioni studiando, e ottenendo poi anche buone soddisfazioni
economiche? Perché queste diverse categorie di donne vengono messe
reciprocamente e forzatamente in competizione?
Non è forse la “competizione” stessa il problema, il porsi come
obiettivo ultimo delle nostre vite la scalata e la “competitività”,
fin oltre i limiti di ogni ragionevolezza? Non si dovrebbe forse
spostare in questa direzione il nostro sguardo critico?
Valeria Ottonelli spiega
così le ragioni recondite di questo discutibile “match”
simbolico:
«[...]
c'è effettivamente un rapporto di causa ed effetto fra il destino
delle giovani che si guadagnano da vivere – e anche molto di più –
perché belle e disponibili, e quello delle donne dedite alla
carriera da “intelligenti” […].
Se le prime riescono a spuntarla, le seconde non riescono a proporsi
come unico modello di vita» [Ottonelli 2011, p. 59].
Forse
si rischia ancora una volta di utilizzare le donne, o alcune
categorie “simboliche” di donne (e in fondo l'eterno dualismo
sessista “sante vs.
meretrici”, solo aggiornato ai tempi), per una battaglia che non
riguarda direttamente loro, le loro scelte, i loro vissuti, ma li
utilizza a proprio uso e consumo. Si tratta infatti di una lotta per
l'egemonia di un
particolare modello di vita, che vogliono farci passare per “normale”
e anzi “unico possibile”.
Ci
viene da tempo inculcato e ribadito instancabilmente, da parte di un
certo paradigma “produttivistico” ed “efficientistico” nella
sua versione retorico-moralista a vocazione pedagogica, che tutti,
uomini e donne, dobbiamo tendere al “vertice”, all'eccellenza, e
per questa scalata dobbiamo impegnare tutte le nostre energie,
sapendo che solo “i migliori” saranno prescelti; non solo, ma
dobbiamo anche convincerci che questa scalata verso “l'eccellenza”,
che comporta gratificazioni in termini (fra l'altro) di status
sociale, reputazione pubblica e (buona) remunerazione sia l'unico
autentico modello di
vita, che tutti dobbiamo assimilare e intimamente far nostro,
respingendo ai margini del comprensibile e del socialmente
ammissibile tutti gli altri, a seconda dei casi, come modelli
“inferiori” o intrinsecamente sbagliati o “cattivi” o
“immorali”.
Chi non s'impegna a
sufficienza nell'“universale scalata” o peggio la rifiuta deve
accettare di essere considerato “minore”, persona socialmente di
secondo rango.
Le regole non scritte di
questa “lotta per l'egemonia” (anzi, tendenzialmente per la
conquista del “monopolio”) fra modelli di vita differenti
prevedono non solo che ci possa e ci debba essere “un solo
vincitore”, ma che i modelli “perdenti” debbano essere spazzati
via, considerati dal senso comune e dalla “morale” come
inammissibili, indegni, “non veri”, “non decenti”,
impresentabili e insostenibili. E' una lotta, insomma, che non fa
prigionieri, e che il “match” artificioso criticato da V.
Ottonelli contribuisce a confermare e a legittimare acriticamente.
(E
attenzione, perché il modello per il quale si fa il “tifo”
cambia a seconda delle preferenze culturali e ideologiche dei
soggetti “proponenti”, ma non cambia la logica di fondo
di questa “lotta”, logica antidemocratica e anzi decisamente
autoritaria, che non a caso impera fra i tradizionalisti
integralisti: costoro, infatti, vorrebbero che il modello vincente e
“monopolista”, che a loro dire dovrebbe spazzar via e
“delegittimare” tutti gli altri, fosse quello delle “brave
donne di una volta”, tutte dedite alla casa, alla famiglia e alla
cura del marito-padre-padrone.)
Come
dicevo, Valeria Ottonelli nel suo testo ricorre a quattro casi
esemplari per disegnare i contorni del femminismo moralista; oltre a
quello già citato, sul quale ci si è qui soffermati più a lungo,
la studiosa analizza, come secondo fenomeno tipico, la tendenza
sempre più diffusa ad entrare nel “privato” dei politici per
misurare la congruenza e la qualità della loro attività pubblica;
poi passa a trattare la questione delle badanti (e il luogo comune,
da lei egregiamente “smantellato”, secondo il quale queste ultime
si occuperebbero del lavoro di cura che le donne italiane e
occidentali ormai trascurerebbero “per la carriera”) e infine si
occupa del “femminismo familista”.
Non
potendo in questo spazio ripercorrere dettagliatamente tutti i
passaggi dell'interessante discorso dell'autrice, tocchiamo
sinteticamente ancora alcuni punti.
Valeria
Ottonelli s'interroga criticamente sull'uso che oggi si fa del
vecchio slogan femminista secondo il quale “il personale è
politico” e quindi sui dubbi vantaggi politici che proverrebbero
dal confondere la sfera personale del politico con la sua attività
pubblica.
Come
la studiosa ricorda [Ottonelli 2011, pp. 62-63], quello che lo
slogan femminista “il personale è politico”, nella sua
formulazione originaria, tendeva a sostenere era che le disparità,
le ingiustizie e gli “squilibri” che si annidano nei rapporti
interpersonali non possono essere relegati alla sfera del “privato”,
quando – lungi dall'essere soltanto lo specchio e il risultato di
“libere contrattazioni” fra due soggetti (uomo e donna)
astrattamente liberi ed eguali – riproducono in realtà un modello
sociale abbastanza pervasivo, che riguarda soprattutto la “divisione
dei ruoli” fra i generi, e che non può più essere condiderato un
dato “naturale” e un presupposto della società, ma deve esso
stesso essere pubblicamente, politicamente,
rimesso in discussione.
“Il
personale è politico” non significa invece – anche se purtroppo
questo è il senso prevalente e distorto che a quello slogan oggi si
dà – che ogni atto compiuto fra le mura domestiche da un politico
o da una persona pubblica (o anche da una persona comune) sia di
rilevanza politica; non significa insomma “guardare dal buco della
serratura” la vita del potente di turno, e giudicarla, come se da
questo giudizio sull'intimità potessero discendere (chissà
perché) conseguenze politicamente rilevanti, o come se questo
giudizio fosse indispensabile e di prioritaria importanza per
valutare la condotta politica
del soggetto in questione.
Fatti
salvi i casi di comportamenti penalmente rilevanti (che dovrebbero
costringere il politico che se ne renda responsabile ad abbandonare
ogni incarico pubblico), non è affatto dimostrato – argomenta V.
Ottonelli – che la condotta privata “discutibile” o
“censurabile” del politico condizioni di per sé e in ogni caso
la sua attività pubblica. Se infatti non ci lasciamo influenzare
eccessivamente da ciò che è accaduto in Italia negli ultimi anni
col berlusconismo – caso molto particolare – e allarghiamo la
nostra analisi ad altri contesti, possiamo constatare che talora un
politico che nella sua vita privata sembra dare l'avallo ai peggiori
stereotipi sessisti, può sostenere comunque efficacemente nella sua
attività pubblica le battaglie e le rivendicazioni delle donne. Ad
esempio – sostiene la studiosa – è accaduto con Clinton. La
politica, anche in questo campo, impone di essere duttili e
pragmatici, e di badare a ciò che sul piano puramente
politico realmente conta:
«Se
vogliamo porre la questione da un punto di vista puramente pragmatico
e strumentale, e quello che ci interessa è avere legislazione e
risorse a nostro favore, per migliorare le nostre opportunità di
vivere la vita che vogliamo e di essere felici, allora ci dobbiamo
rendere conto che il fatto che un uomo nel privato metta in pratica
comportamenti e stili di vita associati a cliché maschilisti non
significa che non possa essere usato come alleato delle donne nella
sua vita pubblica di parlamentare e politico» [Ottonelli
2011, p. 70].
Si
tratta infatti di piani distinti, che solo un discorso impregnato di
moralismo può confondere. Il politico nella sua attività pubblica
svolge infatti un ruolo, ed è
questo che va analizzato e giudicato; il ruolo
va infatti sempre accuratamente distinto dalla persona
(complessivamente intesa come un universo morale).
Concentrandosi
poi sulle contraddizioni di quello che ella definisce “femminismo
familista”, Valeria Ottonelli si interroga sul senso di alcune
proposte di riforma improntate a quest'ottica, come il “congedo di
paternità”. Per alcuni versi, si tratta di un'innovazione
legislativa importante, ma se il miglioramento della condizione delle
donne e specialmente delle madri viene fatto dipendere unicamente
da misure come questa, in realtà – afferma la studiosa – non si
fa che ribadire lo stereotipo del familismo tradizionalista, in base
al quale la donna può essere madre solo
nel quadro di un rapporto di coppia (eterosessuale) stabile,
preferibilmente coniugale.
Inoltre,
misure legislative come quella citata partono da un presupposto
fondamentalmente errato – che scaturisce dal modo di ragionare
tipico del moralismo, femminista o non – ovvero dall'idea che ogni
questione sociale si possa risolvere attraverso una qualche forma di
coercizione esercitata dallo Stato e sancita da una qualche legge (ad
ogni problema corrisponderebbe insomma per forza di cose
una qualche soluzione ottimale in termini di sanzione e coercizione
legislativa: secondo questa concezione, basta solo applicarsi a
trovare questa soluzione, scrivere la legge appropriata, et voilà,
il problema è risolto!). E invece, come ci ricorda la studiosa, la
legge non può letteralmente “ogni cosa” (anzi – possiamo
aggiungere – ricorrere scriteriatamente a soluzioni legislative
anche laddove queste ultime sono palesemente ridondanti o inefficaci
[già a monte, indipendentemente dalla loro concreta applicazione]
rischia di svalutare il potere simbolico delle leggi):
«Bisogna
ricordarsi, anche in queste materie, che cosa può e che cosa non può
fare la legge. Dimenticarlo è un tipico prodotto dell'atteggiamento
moralista, che spesso è basato su una visione gravemente distorta
dei limiti della coercizione da parte dello stato, oppure su
aspettative eccessivamente ottimistiche, per non dire fantasiose, sul
suo potere di convincimento e di insegnamento morale. Non è affatto
sufficiente che la legge imponga ai padri di stare a casa perché gli
uomini si convertano a uno stile di vita familiare diverso da quello
che hanno visto praticare nelle loro famiglie di origine e nella loro
esperienza fino a questo momento» [Ottonelli 2011, p. 99].
E
per tornare alla questione della maternità, V. Ottonelli spiega che
se si vuole realmente sostenere la scelta e l'autodeterminazione
delle donne, di tutte le donne, e quindi la loro libertà nel
decidere tempi e condizioni di una loro maternità consapevole,
bisogna piuttosto guardare all'esempio di Paesi nei quali tale scelta
non viene subordinata all'esistenza di un rapporto di coppia stabile;
nei Paesi scandinavi, dove la natalità non subisce la stessa crisi
che in Italia, le donne – e non sarà un caso – sapendo di poter
contare su una rete di sostegni sociali e statali alla loro
maternità, fanno figli in giovane età, prima ancora di entrare nel
mercato del lavoro e di costituire una coppia stabile con un uomo:
cose che faranno eventualmente in séguito, senza problemi. Dunque le
donne scandinave non devono fare rinunce,
possono avere figli e lavoro
e matrimonio (o
convivenza stabile) ma nell'ordine che decidono loro, e senza dover
subire, come da noi, i sottili condizionamenti sociali e culturali, e
il “fiato sul collo”, del tradizionalismo e del moralismo
familisti [cfr. Ottonelli
2011, pp. 101-102].
Da
questo punto di vista, poi, secondo Valeria Ottonelli, il
riconoscimento delle convivenze, ad es. con i PACS, pur costituendo
una tappa di progresso civile, non fa che ribadire, in una maniera
più adatta ai tempi, il modello della famiglia, e quindi non
rappresenta in questo senso una vera forma di garanzia della “libera
scelta” delle donne (di pensarsi madri anche al di fuori del
rapporto con un partner) [cfr. Ottonelli 2011, pp. 103-104].
E
sempre a proposito delle contraddizioni del “femminismo familista”,
la studiosa evidenzia come, nel considerare il “fardello” che
grava sulle donne nelle nostre società, si parli genericamente di
“lavoro domestico”, senza quasi mai distinguere opportunamente il
lavoro di cura da quello domestico vero e proprio; se si opera questa
distinzione (che nessuno di solito fa), e se si parte dal dato che
«la quantità complessiva di lavoro dedicato alle faccende
domestiche in Italia è molto maggiore di quella degli altri paesi
europei», si arriva a concludere che «in Italia c'è
sicuramente una ripartizione iniqua o diseguale del lavoro domestico,
ma c'è anche un sacco di lavoro domestico inutile
o superfluo»
[cfr. Ottonelli 2011, pp. 110-111].
E'
anche questo un discorso che probabilmente incontra particolari
resistenze (anche culturali) nel nostro Paese (un altro “tabù”).
Non
tutti i lavori domestici sono una vera “necessità”; alcuni di
essi sono imposti semplicemente da certe convenzioni tramandate, da
un discutibile modello di vita, e talora sono legati al possesso (o
al desiderio di scimmiottare o simulare il possesso) di un certo
status sociale; e
quindi le donne (ma anche gli uomini), anziché accettarli come
inevitabili, farebbero bene a rimetterne in discussione il senso e
l'opportunità.
Come
scrive la studiosa:
«Intendo
semplicemente dire che si tratta di un lavoro che potrebbe anche non
essere svolto, senza gravi privazioni per nessuno, e che è svolto
per ragioni che hanno poco a che fare con la riproduzione o il
sostentamento della famiglia, ma hanno invece molto a che fare con la
perpetuazione di standard sociali e di indicatori di status ereditati
dall'estetica della famiglia borghese. […] Ci sono parecchi
lavori domestici che qui in Italia vengono considerati assolutamente
indispensabili e che in altri paesi sono dimenticati da tempo»
[Ottonelli 2011, p. 111].
Anche
il discorso sul “lavoro domestico” (e di conseguenza sul
“fardello” che le donne sopportano, in casa e fuori) rischia
perciò, a ben vedere, di scivolare in una fumosa retorica, che non
permette un'analisi del reale stato di cose (né permette di dar
conto della “specificità italiana”) e quindi di uscire dal campo
sterile delle proclamazioni astratte, quando non prende atto delle
caratteristiche peculiari che tale lavoro ha da noi. In sostanza, il
fardello del lavoro domestico è così pesante da noi perché mira a
mantenere in vita e a riprodurre, nel quadro di una retorica della
quale quasi nessuno sembra riuscire a fare a meno, un modello di
famiglia basata sul bien vivre
che richiede elevati costi (anche in termini di tempo da spendere, e
sacrifici) [in concreto, la studiosa fa qualche esempio di
“lavoro domestico inutile”: cfr. Ottonelli 2011, pp. 113-114].
Forse
– questo il suggerimento proveniente dall'analisi di Valeria
Ottonelli – dovremmo arrivare a comprendere che liberarci da certi
condizionamenti della retorica dominante, incrostata di moralismo,
significa anche liberare concretamente le vite delle donne e di noi
tutti.
E
senz'altro un'analisi come questa aiuta a capire i guasti che certe
retoriche moraliste producono, soprattutto sulla lunga distanza; il
metodo adottato da V. Ottonelli nel ribattere criticamente al
“femminismo moralista” potrebbe essere utilmente adottato anche
per “disintossicarci” dall'ubriacatura moralista che ha
influenzato in questi ultimi anni l'analisi di fenomeni politici e
sociali come quello della corruzione (ridotto ormai, attraverso la
“porta stretta” delle abituali categorie interpretative del
moralismo, ad una specie di alternativa secca: casta sì /
casta no, che avrebbe la pretesa di spiegare tutto ed esaurire
ogni discorso).
Testi
citati:
-
[Ottonelli 2011]:
V. Ottonelli, La
libertà delle donne. Contro il femminismo moralista,
Il Melangolo, Genova.
-
[Pazé
2011]:
V.
Pazé, In nome del
popolo. Il problema democratico,
Editori Laterza, Roma-Bari.
Nota a margine
Segue ora, in un post a parte, una “nota a margine”, che integra, da un altro punto di vista, le considerazioni fatte in questo post e nel precedente, anche se non è direttamente connessa alle tesi di V. Ottonelli che ho commentato qui. E per questo la definisco “a margine” – per questo, ma anche perché si tratta di questioni “laterali”, per così dire (non necessariamente e letteralmente “marginali”, però), rispetto al tema centrale del post.
La libertà di non vendersi (ovvero: né moralismo, né "mercatismo")
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